NsB 56 - Dicembre 2015 - Anno XIX

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In questo numero vi augurano buona lettura...

Editoriale L’attesa umile di Francesca Grosso

Riflettendo Pag. 3

Pag. 16

La Vulnerabilità e l’Infinito che ci portiamo dentro di Suor Chiara Pag. 17

L’angolo del Don Mostraci dopo questo esilio di Don Roberto Bianchini

L’esperienza di vivere di Fiorella Orofalo

Pag. 4

Parole Franche Si tratta di alzare lo sguardo per andare oltre di Veronica Novabi Porrello Pag. 5

Cappellania Vivere condividendo: un anno in CapUnisi di Francesca Grosso Pag. 6

Donna tra le donne di Mariella Di Pumpo

Pag. 18

Lamento sopra un Sinodo ordinario di Claudio Mullaliu

Pag. 19

#Instagram your life! di Cecilia Aprile

Pag. 20

Scorci d’arte

Everywhere is a portico di Alessia Ruggieri

Pag. 7

La teatralità della luce nella ‚Natività‛ di Luca Mansueto

Dalla parte dei poveri di Alice Pappelli

Pag. 8

Consigli di lettura

Esercizi spirituali 2015: risonanze di un’esperienza di Katia Capozzoli Pag. 9

Una storia d’amore e morte di Maria Francesca Tola

Pag. 21

Pag. 22

UniVersi Esperienze Un viaggio, una rinascita: Oxford di Caterina Milo

Il diavolo poeta... di Gianluca Amato

Pag. 23

Pag. 10

Ciak si gira Lacrime di grazia di Don Piercarlo Donatiello

Pag. 11

Intervista Una vita di Grazia di Rosaria Paciello

Pag. 12

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Lo street food in Sicilia. Parte prima: Pane e panelle di Roberta Pipitone Pag. 25

Passatempo Pag. 13

Fotografando di Kris Cipriani

Pag. 24

Tradizioni

Riflettendo Tra carità e verità: la correzione fraterna di Maria Grazia Virone

Amarcord: ricordi di un tempo lontano di Mickey Scarcella

Cruciverba di Filippo Bardelli

Pag. 26

Bacheca Pagg. 14-15

di Kris Cipriani

Pag. 27


L’ATTESA UMILE Il mistero del Natale ha una tenerezza talmente insita e disarmante, da poter rendere difficile il contenerla interamente. Lo aspettiamo sempre felici, gioiosi per quanto le contingenze della nostra vita ce lo permettano e, anche nei momenti più bui, c’è almeno un istante in cui quell’Amore puro e indifeso, venuto a farsi carico del nostro male per liberarci, ci scioglie. Ci prepariamo, rendendoci più attenti e disponibili all’altro, con un cuore caldo e impaziente di attingere stupore e gioia dalla Sua venuta, come un bambino da un regalo. Spesso, tuttavia, mi è accaduto di non riuscire a preservare questa preziosa attesa e sentirla, invece, progressivamente sfuggirmi dalle mani e allontanarsi dalla vera contemplazione. Mi sono chiesta, dunque, cosa sia l’attesa, come l’ho attraversata e l’attraverso in tutto il dono del mio tempo. Ho pensato a come Gesù, nonostante la mia attesa trepidante ma tiepida, tanto rivolta a cogliere la totalità della sua incarnazione eppure dimentica di farsi attraversare dalla concretezza del Suo Amore, non sia, invece, mai venuto meno alla sua promessa: quella di essere venuto per tutti, per i credenti, gli indifferenti, per quelli con un’attesa distante dal cuore e quelli, invece, con un’attesa custodita nell’umiltà. Attendere la tenerezza del Bambino Gesù con il cuore pieno di umiltà è ciò a cui mi richiama questo Natale e che vorrei condividere con voi. È la chiave per lasciarsi sorprendere da questo mistero senza precederlo; per farsi riscaldare dalla sua luce con abbandono, senza imporgli una direzione; che ci affida alla bellezza divina della vita che nasce senza forze, senza difese, ricordandoci che proprio nei nostri limiti e nelle nostre debolezze può incarnarsi quell’Amore che non viene da noi: innocente, delicato, disinteressato. Rifletto su quante volte e in quante attese e aspettative ho lasciato che il rancore e il dolore invadessero il mio cuore per una mancanza di considerazione o di inclusione. Di fronte a questo Natale mi chiedo quale spazio abbia dato a Gesù in tutto questo; quando ho guardato alla Sua costanza nel garantire salvezza anche di fronte alla più cruda indifferenza o ad un’attesa più ripiegata sul sé o sull’altro, come tante volte è stata la mia. Rifletto su quante volte mi sono illusa di dare il cento per cento con Lui nel cuore e di portare il suo calore nelle relazioni più difficili con i miei fratelli, mentre stavo solo facendo leva

sulle mie forze e su quello che io potevo donare, accrescendo la sensazione, nella folla, di emarginazione, nell’affiancamento, di solitudine. Chiediamo al Signore di poter riconoscere sempre la grazia del Suo arrivo, di quello che ci riveste di Misericordia ogni giorno, proprio nelle nostre piccolezze, nelle nostre mancanze di apertura autentica verso di Lui, prima di volerle, cercarle o pretenderle dalla vita. Preghiamolo perché ogni piccola ferita di disattenzione ricevuta o procurata, di mancanza di carità verso di noi e nostra verso i fratelli possa divenire, di fronte al Suo dono di sé, occasione di far sgorgare da noi un Amore finalmente gratuito, perché il nostro cuore diventi come quella grotta: bacino di accoglienza aperto, riscaldato solo dalla volontà di esserci, nonostante la paura del freddo, del buio, del dolore; nonostante quel tutto che noi rifiutiamo e da cui Dio, invece, plasma il prodigio che è in ognuno di noi.

Buon Natale! ■

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MOSTRACI DOPO QUESTO ESILIO La memoria opera spesso in maniera affatto selettiva e per flash: per far rivivere una storia non occorre ripercorrerla in ogni suo evento od aspetto, ma basta sovente che si apra a un’immagine, un suono o qualche altro elemento sensoriale e intorno ad esso si costruisca il ricordo. Affettivamente questo percorso è infinitamente più ricco che non quello della ricostruzione dettagliata ed esaustiva. Non serve ricordare tutto, ma quello che ci fa accedere alla realtà che la memoria riporta in vita. Il 16 agosto scorso si è celebrata la liturgia esequiale di Alessandro Porciatti, sacerdote ed amico. La sua cittadina natale, Poggibonsi, si è come fermata attonita ed assorta per salutarlo l’ultima volta. Abbiamo pregato intensamente, ognuno come poteva per raccomandare alla misericordia divina la sua anima benedetta, usando le parole senza tempo della liturgia cattolica, austere e poetiche ad un tempo. La salma giungeva dalla chiesa dello Spirito Santo dove era stato esposto il feretro e mentre la processione procedeva verso la collegiata, al suo interno si era iniziato a recitare il Santo Rosario. Ad un certo momento veniva intonata la Salve nell’immortale melodia gregoriana che le generazioni cristiane hanno storpiato in tutti i modi possibili, ma con la quale hanno presentato le loro più accorate preghiere al buon Dio attraverso l’intercessione della sua Madre celeste. Ed ecco che in quel medesimo istante, senza nessuna accortezza cerimoniale, il corpo mortale di Dando attraversava la soglia della sua chiesa ed era in essa accolto dal Padre

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celeste, dai suoi parenti ed amici e da noi suoi fratelli nel sacerdozio. Lo accompagnava per mano Maria, come a dirgli per l’ennesima volta: ‚non avere paura, tua madre è con te. Non entrerai da solo nell’oscurità della morte, ma io ti guiderò ai pascoli della vita eterna dove siederai con mio Figlio e con me per tutta l’eternità in attesa che l’amore di Gesù sia tutto in tutti‛. In quell’istante ho avuto in dono la consolazione della fede cattolica: i morti sono vivi in Cristo e la morte non ha più potere su di loro. Beati quelli che sono con Dio e poveretti piuttosto noi che restiamo qui senza vederli più, armati solo della speranza della fede. Nudi, senz’altro sostegno che non quello e pronti tuttavia a scommettere tutto, assolutamente tutto, sull’unica parola che può dare pace al cuore dell’uomo e senza la quale saremmo nati per nulla, vagheremmo verso il nulla per lo spazio della nostra esistenza terrena e ci scioglieremmo nel nulla al suo termine. La morte di Dando non è stata dunque per me solo una parola grande per il suo coraggio, la sua umanità e la sua voglia di vivere. Nemmeno mi ha edificato soltanto la dedizione con cui l’amico sacerdote più caro, Don Enrico, lo ha seguito lasciando a tutti una testimonianza di fraternità che onora il sacerdozio e lo riscatta da tante profanazioni che d’altra parte lo infangano. Ciò che più d’ogni altra cosa porto nel cuore è piuttosto quel momento dell’ingresso del feretro in chiesa in cui il dolore è stato improvvisamente spazzato via e attraverso la Madre di Dio ho avuto la conferma interiore che il Signore è il nostro pastore e confidando in Lui possiamo entrare anche nel regno della morte: la morte non ha più potere su di noi! ■

“*<+ e mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno”


SI TRATTA DI ALZARE LO SGUARDO PER ANDARE OLTRE Estratti dai pensieri di Papa Francesco

Lo stile di Dio che ci salva servendoci e annientandosi ci insegna che anche noi possiamo vincere con Lui, se scegliamo l’amore servizievole e umile che rimane vittorioso per l’eternità. Chi serve e dona, sembra un perdente agli occhi del mondo. In realtà, proprio perdendo la vita, la ritrova. Perché una vita che si spossessa di sé, perdendosi nell’amore, imita Cristo: vince la morte e dà vita al mondo. Chi serve, salva. Al contrario, chi non vive per servire, non serve per vivere. Il Vangelo ci ricorda questo: "Dio ha tanto amato il mondo" che per salvarci ci ha raggiunto là dove eravamo andati a finire, "nella morte‛. L’ha presa su di sé "con tutte le sue contraddizioni", e ora noi guardando a Lui e credendo in Lui veniamo salvati. (S. Messa nella Basilica di San Pietro, 3 novembre 2015)

Se si impara il perdono reciproco in famiglia, a chiedere scusa prima che sia troppo tardi, si rende più ‚solida‛ la famiglia stessa e ‚e meno crudele la società‛. Non si può vivere senza perdonarsi, o almeno non si può vivere bene, specialmente in famiglia. Ogni giorno ci facciamo dei torti l’uno con l’altro. Dobbiamo mettere in conto questi sbagli, dovuti alla nostra fragilità e al nostro egoismo. Quello che però ci viene chiesto è di guarire subito le ferite che ci facciamo, di ritessere immediatamente i fili che rompiamo nella famiglia. Se aspettiamo troppo, tutto diventa più difficile. Se impariamo a chiederci subito scusa e a donarci il reciproco perdono, guariscono le ferite, il matrimonio si irrobustisce, e la famiglia diventa una casa sempre più solida, che resiste alle scosse delle nostre piccole e grandi cattiverie. (Udienza generale, 4 novembre 2015)

Il cristiano include, non chiude le porte a nessuno, anche se questo provoca resistenze. Chi esclude, perché si crede migliore, genera conflitti e divisioni e ne renderà conto un giorno davanti al tribunale di Dio. Ci sono due strade nella vita: la strada dell’esclusione delle persone dalla nostra comunità e la strada dell’inclusione. La prima può essere piccola ma è la radice di tutte le guerre: tutte le calamità, tutte le guerre, incominciano con un’esclusione. E la strada che ci fa vedere Gesù e ci insegna Gesù è tutt’altra, è contraria all’altra: includere. Chiediamo la grazia di essere uomini e donne che includono sempre, nella misura della sana prudenza, ma sempre. Non chiudere le porte a nessuno, sempre col cuore aperto: ‘Mi piace, non mi piace’, ma il cuore è aperto. Che il Signore ci dia questa grazia. (S. Messa nella casa Santa Marta, 5 novembre 2015)

La mondanità spirituale ci allontana dalla coerenza di vita, ci fa incoerenti, uno fa ‚finta di essere così‛ ma vive ‚in un’altra maniera‛. E la mondanità è difficile conoscerla dall’inizio perché è come il tarlo che lentamente distrugge, degrada la stoffa e poi quella stoffa diventa inutilizzabile, e quell’uomo che si lascia portare avanti dalla mondanità perde l’identità cristiana. La mondanità ti porta alla doppia vita, quella che appare e quella che è vera, e ti allontana da Dio e distrugge la tua identità cristiana. Bisogna chiedere al Signore il sostegno contro le tentazioni mondane. Per questo Gesù è tanto forte quando chiede al Padre di salvare i discepoli dallo spirito mondano, che distrugge l’identità cristiana. (S. Messa nella casa Santa Marta, 17 novembre 2015)

“La famiglia è una grande palestra di allenamento al dono e al perdono reciproco senza il quale nessun amore può durare a lungo. Senza donarsi e senza perdonarsi l’amore non rimane, non dura” (Papa Francesco)

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VIVERE CONDIVIDENDO: UN ANNO IN CAPUNISI «Mi

indicherai il sentiero della vita, /

gioia piena nella tua presenza, /dolcezza senza fine /alla tua destra» (Salmo 16, 811): per lasciare entrare pienamente Cristo nelle nostre vite, la Cappella Universitaria riapre con le sue attività pensate per crescere nella fede e per trasmetterla a chiunque vorrà cercare con noi il sentiero della vita. La comunità è costituita da tanti gruppi che accolgono diverse inclinazioni per assicurare a ciascuno crescita umana e spirituale, nella sua unicità: il gruppo del servizio liturgico e quello del coro che curano e animano le celebrazioni; il gruppo del giornalino che dà voce alla nostra realtà; il gruppo catechesi, che offre importanti momenti di formazione; il gruppo luce nella notte per l’evangelizzazione di strada e la testimonianza dei giovani per i giovani (i prossimi appuntamenti: 23/01, 04/03, 21/05, 09/07); il gruppo lettura e il gruppo cineforum per gli appassionati di libri e cinematografia; il gruppo missionario, che raccoglie fondi per l’associazione Amici della Bolivia e del Mondo; il gruppo di volontariato, che si propone di donare gratuitamente del tempo agli anziani, ai bambini, ai detenuti, al sostegno di diverse associazioni nelle raccolte alimentari, alla cura dei locali di San Vigilio; il gruppo giovani coppie, per crescere nell’amore sponsale e portare sempre frutto (17/01, 14/02, 13/03, 10/04); il gruppo cresima, guidato da Suor Lilia, per preparare i giovani alla Confermazione; il gruppo cucina, per coordinare il backstage di tutti i nostri momenti di festa! La Cappella Universitaria ha un’offerta di attività davvero ricca, che si innesta sui profondi momenti di preghiera che viviamo insieme: la Messa feriale alle 10:30 e alle 19:00, l’Adorazione giornaliera dalle 11:00 alle 12:00 e dalle 19:30 alle 20:00, il Santo Rosario alle 18:30 e la Messa festiva, ogni domenica, alle 19:15. Inoltre, la Comunità organizza Adorazioni serali per non privare nemmeno i più impegnati di occasioni di incontro con l’Amore di Dio che si espone e ci attende fiducioso (le prossime date: 14/01, 18/02, 21/04, 09/06); la Lectio Divina tutti i mercoledì, per meditare e far crescere dentro di noi la Parola; alcuni percorsi formativi, con delle catechesi sulla Misericordia, a cui è dedicato quest’anno giubilare (gli appuntamenti: 14/12, 18/01, 15/02, 14/03, 11/04, 09/05). Sono pensate per noi, e per chiunque voglia entrare a far parte di questa grande famiglia, anche delle attività speciali di crescita, come il weekend monastico, per ascoltare la pa-

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ce e la voce di Dio (6-8 maggio), il ritiro di Quaresima per prepararsi a vivere al meglio i Misteri della nostra fede (20 febbraio), il pellegrinaggio alla scuola di un Santo, che quest’anno ripercorrerà le orme di Santa Rita (16-17 aprile), il Giubileo che vivremo insieme a Roma il 4 e il 5 giugno, e due importanti momenti di testimonianza nelle vie della nostra città: la Via Crucis degli universitari, l’11 marzo, e la processione del Corpus Domini, il 26 maggio. Tante altre sono le occasioni che creiamo per prenderci cura di noi stessi e del prossimo, come i mercatini per il sostegno dell’Am.Bo.Mo e gli incontri con l’équipe degli psicologi della Dott.ssa Marchionni, che quest’anno ci guiderà in un percorso sull’accoglienza del cambiamento (30/01, 6-13-27/02). Non mancano, oltre alle numerose feste, anche molte giornate d’amicizia, come il Weekend on-foot (18 e il 19 giugno), un’esperienza d’immersione nella natura che conclude l’anno, metafora del nostro camminare insieme, come nella vita. ■

“Ecco, com'è bello e com'è dolce che i fratelli vivano insieme! “ (Salmo 133)


EVERYWHERE IS A PORTICO Bologna,

una città inaspettatamente

affascinante, ‚la bella e la dolce‛, come definita da Pasolini, è stata la meta della nostra gita d’amicizia del 17 ottobre, una giornata davvero piacevole, piena di sorrisi, amicizia vera e voglia di trascorrere del tempo insieme. Prima tappa: il santuario della Madonna di San Luca, un santuario dedicato al culto cattolico mariano che si eleva sul Colle della Guardia, fin dalle sue origini, un’importante meta di pellegrinaggio nella storia della città. ‚È il faro. Da qualsiasi luogo arrivi, quando lo vedi all’orizzonte, sai di essere arrivato a casa‛. ‚Un'emozione ogni volta che ci passi di fianco, o ci arrivi da sotto. Vedi, senti e ringrazi‛. Questo è ciò che rappresenta San Luca per i bolognesi: un punto di riferimento con la sua icona della Vergine col Bambino, realizzata tra il XII e il XIII secolo secondo la classica iconografia orientale di tipo odighitria. Dopo aver celebrato la Santa Messa insieme e aver venerato la splendida icona, abbiamo raggiunto il centro della città passando per il lunghissimo porticato, il più lungo del mondo, costituito da 666 archi e 15 cappelle, costruito a partire dalla metà del 1600 per convogliare i pellegrini e metterli a riparo delle intemperie, durante il tragitto verso il santuario. Ci siamo quindi diretti al Centro Poggeschi, luogo di aggregazione e formazione giovanile gestito dai Padri gesuiti. Padre Narciso ci ha illustrato le attività del centro, presentandoci i vari gruppi, tra cui quello delle ‚Pietre vive‛, un pro-

getto che nasce da giovani cristiani desiderosi di annunciare la Buona Notizia dell’amore di Dio al gran numero di turisti che visitano i luoghi di culto di interesse storicoartistico. Lo scopo è rendere accessibile il messaggio spirituale che si cela nelle forme architettoniche e pittoriche ammirate dai visitanti, ridando ai grandi monumenti dell’arte cristiana il loro ruolo di accoglienza, di evangelizzazione, di invito alla preghiera. Anche noi abbiamo avuto il piacere di lasciarci guidare in una splendida visita della chiesa di Santo Stefano, le famose ‚sette chiese‛ e di San Domenico da un rappresentante del gruppo delle Pietre Vive. Non mi era mai capitato di partecipare ad una visita guidata di questo genere e ne sono rimasta impressionata: attraverso le parole e la testimonianza di vita della nostra guida, i luoghi di culto hanno preso vita, hanno parlato al mio cuore e alle mie emozioni. Ripenso spesso, per esempio, al famosissimo Crocifisso di Giunta Pisano, conservato nella Basilica di San Domenico, un’opera chiave della pittura duecentesca italiana. Arrivati di fronte all’opera non sono riuscita a trattenere una risata, ripensando alle folli interrogazioni di storia dell’arte del Liceo. Mai, però, mi ero soffermata ad osservare Gesù sofferente sulla croce, quel Dio che assume la nostra umanità per aprirci, con il suo sacrificio di Amore estremo, le porte della Vita eterna. Dopo una rilassante passeggiata per le vie del centro, sotto gli innumerevoli portici, siamo tornati a Siena con la gioia di aver scoperto una bellissima città e di aver trascorso una giornata indimenticabile con un bel gruppo di amici! ■

Per approfondire: http://centropoggeschi.org

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DALLA PARTE DEI POVERI Nel mese di ottobre, la comunità di san Vigilio ha approfondito il tema della missione attraverso iniziative promosse e animate dall’associazione missionaria Am.Bo.Mo. (Amici della Bolivia e del Mondo) quali il rosario, l’adorazione e la via crucis missionarie. Al termine della celebrazione eucaristica di domenica 18, giornata missionaria mondiale, abbiamo ascoltato la testimonianza del dottor Luigi Verre, chirurgo nel reparto di Chirurgia 2 al Policlinico Le Scotte di Siena, che dal 2010 ad ora è stato quattro volte in Kenya. Il dr. Verre si definisce non un missionario ma un medico in terra di missione; ha svolto la sua attività al North Kinangop Catholic Hospital, a nord di Nairobi, nella diocesi di Nyeri. L’ospedale, nato 50 anni fa con il CUM (il Centro Unitario per la Cooperazione Missionaria fra le Chiese), dispone di 350 posti letto; in esso lavorano circa 350 dipendenti e serve una popolazione di circa 450.000 persone. Il dr. Verre ci ha raccontato come la maggior parte dei pazienti arrivino in ospedale in condizioni disperate. Una giornata di ospedalizzazione costa infatti circa 18 dollari (mentre lo stipendio medio di un operaio ammonta a circa 12/15 dollari), perciò quando un membro della famiglia va in ospedale i famigliari organizzano delle collette. La maggior parte della popolazione non vuole infatti fare l’assicurazione dello stato, che vale quanto una pecora. Dal momento che l’ospedale in questione è cattolico, vengono curati tutti

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indipendentemente dai soldi. Si tratta di una realtà autonoma, in cui ci sono animali, si compra solo il riso e si vendono latte e sabbia; la struttura non riceve soldi ma vive di donazioni. All’interno non c’è nulla di elettronico, tutto è meccanico, infatti l’energia elettrica non è costante. Il motivo più frequente per cui le persone arrivano in ospedale sono le ustioni (non essendoci né luce né gas, il focolare è la fonte più importante di illuminazione e riscaldamento). La società è fortemente maschilista e ancorata al senso della tribù; l’8-9% della popolazione è affetta da AIDS e il 78% delle donne sono infibulate. Latte e farina sono il principale nutrimento della popolazione e sono necessarie ore di cammino per raggiungere fonti di acqua e provviste di legna. Il momento più importante dal punto di vista sociale è la messa della domenica, durante la quale si indossa il vestito della festa. Alla fine della messa il sacerdote, che parla inglese, kikuyu e swaili, saluta la comunità. Il sorriso, sempre sulle labbra di tutti, il fare comunità inteso come stile di vita e non obiettivo, e la diversità con cui la sofferenza, la malattia e la morte vengono accolte e accettate: sono sicuramente questi gli aspetti che più colpiscono i circa 120 professionisti che ogni anno si recano dall’Italia nel North Kinangop Catholic Hospital. Dal canto nostro – ha concluso il dr. Verre – quest’esperienza ci interroga su chi sia davvero il povero, nella consapevolezza che non bisogna partire pensando di poter cambiare il mondo. Ciò che conta, ed è alla portata di tutti, è compiere piccoli passi possibili. ■

“La missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente *<+ la passione del missionario è il Vangelo” (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2015)


ESERCIZI SPIRITUALI 2015: RISONANZE DI UN’ESPERIENZA La partecipazione agli esercizi spirituali è un’occasione di incontro il cui racconto, spesso, si mostra insufficiente a delinearne l’aspetto; un racconto che, piuttosto, si fa eco avvincente di un’esperienza, di un intimo sentire, di uno stare insieme che, da abituale, diventa straordinario. In particolare in questa esperienza, attraversata in luoghi sconosciuti per alcuni, e quasi carinamente familiari per altri, l’arte si è fatta portavoce di quella ‘fine maestria’ che, attraverso l’uomo, entra nella storia e riflette infinita bellezza. Il taglio artisticoletterario, che ha guidato meditazioni e riflessioni personali, ha avuto ‘Frà Cristoforo’, ‘Gertrude’ e ‘Don Abbondio’ come compagni di viaggio privilegiati e, dunque, il romanzo de ‘I Promessi Sposi’ come referente principale. La lettura spirituale, insolita e insieme argutamente declinata all’analisi interiore dei personaggi, ha trasformato tratti dell’opera narrativa in specchio riflesso di caratteri e sfumature appassionatamente umane, punti di partenza per un panoramico, ma puntuale, riorientamento a ‘ quel Dio che atterra e suscita’. Riorientarsi rimane, infatti, lo scopo prevalente del mettersi in ascolto di un’offerta di vita autentica che, attraverso la Grazia, trova origine e compimento nella realtà, sostanza e desiderio nel cuore dell’uomo, fiducia e speranza in una vita futura. A piccoli passi, siamo stati accompagnati in un percorso manzoniano che ha toccato corde delicate di una dimensione spirituale le cui note si sono combinate, sensibilmente, fra il senso del perdono e la forza sanante della preghiera, grazie all’esempio di Frà Cristoforo; la

responsabilità personale per la propria vita e la sfida della libertà di scelta morale, nonché la custodia del cuore e la consolazione della fede, guardando alla «sventurata» monaca di Monza; il valore della coscienza e la trasparenza delle intenzioni, tra le paurose peripezie di Don Abbondio; la capacità di andare oltre per riuscire a volare alto, anche attraverso «i guai» - i quali, scrive Manzoni tra le righe conclusive del romanzo - «quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». Armonie interiori, dunque, che hanno risuonato nelle stanze, a volte buie, a volte illuminate, di chi, desiderando di trovare la felicità, continua a cercare l’infinito. Un tempo prezioso quello degli esercizi che, nella semplicità della condivisione e nella fatica del silenzio da conservare, affina la qualità e la verità di un rapido incrociarsi o di un doloroso scontrarsi; insegna a godere del calore di un abbraccio spontaneo così come della tenerezza di un simpatico divertirsi; rinforza l’efficacia di un sincero e fiducioso confronto; rende unica la dolcezza di un amabile ritrovarsi. Un momento dell’anno nel quale è bello scoprirsi, comunque gli stessi ma pur sempre diversi, desiderosi di desiderare, bisognosi di ricominciare, pronti a svoltare, impegnati a fugare dubbi e incapacità del cuore, nutriti da una memoria positiva di un ‘Incontro’ che si fa storia di vita. Questo, dunque, gli ‘esercizi’: un’esperienza del cuore che non può non trasformarsi in gratitudine per e tra coloro che l’hanno condivisa e con il proprio contributo, spirituale, culinario, di silenzio, di affetto, ne hanno fatto un anticipo di cielo tutto da custodire. ■

"*…+ i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; *...+ quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore" (Alessandro Manzoni, Promessi Sposi, cap. XXXVIII)

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UN VIAGGIO, UNA RINASCITA: OXFORD Ci sono viaggi che iniziano così, tra l’incredulità e la voglia di mettersi in gioco: il mio aveva come destinazione Oxford. Partii così, ormai un anno fa, per la città dei paesaggi harrypottiani, per la città dei college ‚goticheggianti‛, per la città che ha un solo grande significato per milioni di studenti di tutto il mondo, quello di Opportunità. Quando partii ero una studentessa dell’ultimo anno, ben inquadrata, con i suoi progetti e i suoi schemi che difficilmente avrebbe cambiato. Oxford era lì per stravolgermi dalle fondamenta: come quella palazzina che proprio nei giorni del mio arrivo fu rasa al suolo lungo la strada di casa mia. Io ero chiamata a rimettermi in discussione dalle fondamenta se volevo realmente crescere. Ed è così che quella studentessa era chiamata a rincominciare da zero, a ripartire con un percorso quasi da ‚matricola‛ con i suoi mille dubbi e perché. In quel mondo, ero ‚un pesce fuor d’acqua‛, i miei schemi, programmi non servivano, c’era già un sistema che li aveva scelti al posto mio. Tre tutors a cui far riferimento ogni settimana con articoli da consegnare e liste infinite di materiale da leggere. Tre professori lì pronti a dare giudizi al mio lavoro, ma con modalità totalmente differenti rispetto a quelle alle quali ero abituata: nessuno, infatti, mi avrebbe spiegato come raggiungere la vetta di quella montagna, avrei dovuto scalarla da sola, accettandone le cadute e accettando con umiltà che solo in quel momento loro mi avrebbero dato qualche piccolo aiuto per farmi meno male al prossimo ostacolo.

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Ero in un mondo dove il ‚cadere‛ non era visto come un fallimento, così come io l’avevo sempre pensato, ma era parte di quel processo necessario per arrivare con le proprie gambe sino alla cima. In questo percorso ad ostacoli, il Signore ha posto sulla mia strada dei degni compagni di viaggio che hanno saputo alleggerirmi il peso della difficoltà: i ragazzi della Cappella Universitaria e i compagni del college che hanno letto tra le corde del mio cuore, aiutandomi a riscoprire la grinta che da sempre è parte di me. Ognuno con il suo piccolo ma prezioso contributo mi ha aiutato a lasciarmi andare e a vivere quest’esperienza a pieno. Le attività che hanno lasciato di più il segno e che ricordo ancora oggi con un sorriso vanno da quelle sportive ai dibattiti sugli argomenti sociali e politici più disparati in facoltà come in cappella. Sono state l’occasione per confrontarsi con mondi diversi e aprire la mente a nuove prospettive. Un segno indelebile è stato certamente quello lasciato dal servizio svolto per i tanti senzatetto che affollano ogni giorno le strade di questa città: armati di bevande calde e pasti frugali, giravamo portando ristoro a padri, madri, ragazzi che ci accoglievano sempre con un sorriso. Loro hanno saputo donarmi il coraggio di vivere con più leggerezza le mie piccole sfide quotidiane. In fondo il Signore attraverso questa esperienza aveva deciso di temprarmi. In quell’occasione mi ha donato una forza che non credevo possibile. Mi ha insegnato a non vivere ingabbiata in schemi prefissati, ma a fidarmi di Lui e lasciargli prendere in mano la mia vita. Nelle difficoltà ho sperato in Te, nel Tuo amore e ancora una volta, Tu o Signore, non mi hai deluso. ■

“La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,11)


LACRIME DI GRAZIA «Dona, Padre Onnipotente, a questo tuo figlio la dignità del presbiterato<». A queste solenni parole della preghiera consacratoria pronunciata dal Vescovo, dai miei occhi iniziavano a scorrere lacrime abbondanti. Erano lacrime di gioia, per la grandezza del dono ricevuto; di liberazione, perché ormai tutto era compiuto e non si poteva più tornare indietro; lacrime di affidamento al Signore, per la consapevolezza della mia piccolezza di fronte alla grazia di Dio che quel giorno, per mezzo dello Spirito, mi inondava. Erano le stesse lacrime che, qualche istante prima, prostrato durante il canto delle litanie, avevo versato nel veder scorrere davanti ai miei occhi, in una successione infinita di flash, il «film» della mia vita, fatto di incontri, di volti, di luoghi, di emozioni< E quell’11 luglio, in Cattedrale, erano tutti lì (molti fisicamente, altri almeno idealmente) i «volti» della mia storia, tutti a gioire e ringraziare con me il Signore per il dono grande del presbiterato. C’era la mia famiglia e la «mia» gente, che vedeva germogliare un altro segno di speranza; c’era la comunità di San Vigilio, a testimonianza del segno indelebile lasciato dalla Cappella Universitaria nella mia vita, nelle mie relazioni e amicizie, nel mio cammino di fede e, last but not least, nel mio percorso di discernimento vocazionale. C’erano rappresentate le co-

munità formative dove ho imparato cosa significhi essere prete «secondo il cuore di Cristo» scoprendo e sperimentando l’amicizia e la fraternità nel ministero. C’era la mia Chiesa diocesana in festa, in segno del futuro che mi aspetta e di cui ancora non conosco tutti i dettagli. In quelle lacrime era condensato tutto questo e tanto altro: c’era la gratitudine al Signore per avermi accompagnato in questi 33 anni di vita alla scoperta del suo progetto su di me: ognuno di noi, infatti, è «frutto» della sua storia e porta impressi i segni della presenza di Dio. Ognuno di noi porta su di sé anche i segni (e i limiti) della propria umanità, tante volte fragile, imperfetta, causa di sofferenze o incomprensioni< ma comunque amata e prediletta da Dio! A distanza di qualche mese conservo ancora vivido in me il ricordo di quelle lacrime di grazia. Immagino (e spero) che sia sempre così: questi primi mesi di ministero presbiterale mi stanno facendo scoprire – più di quanto non me ne rendessi già conto – il grande bisogno che l’umanità ha di sentirsi annunciare la buona notizia del Vangelo, di sentire – attraverso la semplice testimonianza di ascolto e accoglienza – l’abbraccio del Padre misericordioso. È un ministero impegnativo, e forse proprio riandando continuamente a quell’effusione di grazia e di Spirito sarà possibile trovare la forza per restare, giorno per giorno, accanto ai fratelli, e poter dire giorno per giorno, con le parole della nostra cara suor Gabriella: «Che bello!». ■

“*<+ del segno indelebile lasciato dalla Cappella Universitaria nella mia vita, nelle mie relazioni e amicizie, nel mio cammino di fede e, last but not least, nel mio percorso di discernimento vocazionale”

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UNA VITA DI GRAZIA Come ormai è noto a tutti, con l’inizio di questo nuovo anno accademico sr. Elisa e sr. Onorina sono andate ad allietare altre comunità, l’una a Foggia e l’altra a Roma. La Provvidenza, però, non ci ha lasciati soli ma ci ha fatto il dono, accanto a sr. Lilia, di altre suore Figlie della Chiesa: Chiara, Derna e Grazia. Proprio con sr. Grazia ho avuto la possibilità di fare una chiacchierata e lei, con molta gioia e disponibilità, mi ha aperto il suo cuore e alla domanda: ‚Come è nata la tua vocazione?‛ Mi ha detto: «Parto dalla Parola che mi ha ferito il cuore e che mi ha portato qui ed è presa da Gv 21,15, quando il Signore dopo la sua Risurrezione prepara da mangiare per gli apostoli sulle rive del lago, dopo si rivolge a Pietro e gli chiede: Mi ami tu più di costoro? Questa è per me la Parola-madre, la Parola dalla quale mi sento continuamente generata nella mia vocazione religiosa ed è il sottofondo che mi piacerebbe condivideste con me nella mia esistenza alla presenza del Signore. La vocazione religiosa nella mia vita è stata una risposta alla chiamata insistente di Dio, ma io l’ho vissuta molto (e la vivo ancora così) come una risposta di fedeltà a ciò che io sono. Credo, infatti, che la realizzazione della mia dimensione di consacrata e di quella di donna siano pienamente integrate. Qual è stato il disagio ad un certo punto della mia vita? Il passaggio dalla sensazione che mi mancasse qualcosa (nonostante avessi ‘tutto’) alla scoperta che mancava Qualcuno che fosse il ‘Tutto’ di ogni cosa. Mi sono accorta, così, che quello che sapevo, che avevo sentito dire e avevo vissuto di Dio non mi bastava più, fino a STUPIRMI nello scoprire che il suo progetto di amore su di me era intessere una relazione d’amore con me. Ho lasciato il mio fidanzato,

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visto che ero confusa e non sapevo orientarmi, e ho iniziato un cammino di direzione spirituale accompagnata da un sacerdote. Un giorno, durante un colloquio, mi ha detto quella frase di Gesù a Pietro, di cui sopra e ha aggiunto: “hai mai pensato alla vita religiosa?” E io, scuotendo subito le mani: ‚no, no, non è possibile<ho 24 anni<quelle che il Signore chiama ad essere suore sentono una vocina intorno ai 10-12 anni<e io non l’ho sentita; e, poi, sono stata fidanzata< se una deve essere di Dio non può innamorarsi!‛ Non me ne ha parlato più, però, in me quella domanda è stata una chiave di lettura di tutta la mia inquietudine; è stato come se mi avesse dato la luce per comprendere quello che io stavo vivendo e cercando. Attraverso altre situazioni provvidenziali, ho conosciuto una giovane postulante delle EF (Ecclesiae Filiae) che mi ha accostato al Carisma delle EF fornendomi un opuscoletto della rivista ‘Ecclesia Mater’, edito per il 50° dell’Istituto. Non volevo, però, decidere ‘a tavolino’ leggendo qualche articolo e così ho chiesto di vivere un tempo di esperienza tra queste suore e conoscere il carisma incarnato nella quotidianità. Durante il tempo dell’esperienza, ho letto la lettera di Madre Maria Oliva a don Ciro Scotti (1932) e mi ha colpito l’espressione riguardante la nostra Opera che deve riunire in sé tutti i profumi delle altre, lo spirito di preghiera dei penitenti, lo spirito di povertà degli ordini mendicanti, lo spirito apostolico delle congregazioni moderne ma, soprattutto, lo spirito di amore, di obbedienza e di attaccamento alla Chiesa dei gesuiti. L’orizzonte esplicito della vita della Chiesa mi ha fatto vibrare interiormente, e mi sono sentita collocata al posto giusto. ■

“*<+ il nostro apostolato è nella spinta del Signore a lasciarlo per gli altri quando non vorremmo che starcene con lui” (Madre Maria Oliva Bonaldo, Fondatrice delle Suore Figlie della Chiesa)


TRA CARITÀ E VERITÀ: LA CORREZIONE FRATERNA Ciascuno

di noi ha un rapporto

esclusivo con Dio, un dialogo fondamentale da coltivare nella preghiera e nella contemplazione; ma questa relazione non esclude affatto la dimensione comunitaria delle fede, che è, anzi, un aspetto complementare. L’altro è importante per noi, ci è necessario, perché da soli non ci si fa santi. Le nostre relazioni sono il luogo ideale in cui Cristo si manifesta, come lui stesso ci ha detto: ‚Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro‛ (Mt 18,20). Un cristiano non può vivere isolato, ed ecco perché il male o il bene di un fratello non possono lasciarci indifferenti. Ma partiamo dalle parole stesse del Vangelo: ‚Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone *...+. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano‛ (Mt 18,15-17). Questo è ciò che comunemente definiamo ‘correzione fraterna’, e che, a mio avviso, è forse uno dei compiti più difficili richiesti dal Vangelo. Umanamente, credo sia molto più semplice elogiare un amico, affermare che va tutto bene (anche quando non ne siamo convinti), evitando così di sciupare i nostri rapporti; oppure, al contrario, viviamo in una smania di dover dire la verità ad ogni costo, senza accorgerci che quella schiettezza, se non è mediata dalla delicatezza che Dio ci insegna, può solo far male e ferire. Nessuno di noi è un angelo, nessuno è esente dal peccato e dagli sbagli; e Gesù, infatti, non ci chiede mai di ergerci a giudici e maestri, perché non lo siamo. Quando però ci

accorgiamo di qualcosa che non va nella vita di un nostro fratello, l’ammonimento è necessario, perché se ci ascolterà, lo avremo guadagnato. La nostra esistenza non può essere la stessa se perdiamo un fratello, ecco perché Gesù ci chiede di provarle tutte; ma dal Signore viene sempre un amore che porta alla mitezza. C’è differenza, dunque, fra la critica fatta per guadagnare un fratello, o un animo superbo; fra la correzione fatta da chi ti vuol bene, e quella fatta da chi si inorgoglisce e ne prova piacere. La vera correzione fraterna, ha detto il nostro Papa Francesco, è dolorosa perché è fatta ‚con amore, in verità e con umiltà‛. Non si può correggere una persona senza amore e senza carità, perché sarebbe come eseguire un intervento chirurgico senza anestesia, in cui l’ammalato morirebbe di dolore. Non si può correggere senza umiltà, perché dobbiamo sempre aver presente ‚la trave‛ nel nostro occhio; ma non si può neppure tralasciare la Verità, perché Gesù stesso ci chiede di sorvegliarci tra noi, di farci forza e correggerci, se ci capita di perdere la strada. Al di là di ogni nostro sforzo, le persone rimangono libere, e quando Gesù dice alla fine ‚sia per te come il pagano o il pubblicano‛, non intende pagani e pubblicani come gente da escludere, ma come coloro da amare. Noi dobbiamo cercare di guadagnare un fratello in ogni modo, ma se non accetta, a noi spetta soltanto il compito di amarlo per come è, esattamente come fa Dio con noi: più di una parola, più di una correzione, ciò che cambia il cuore degli uomini è il sentirsi accolti, il sentirsi amati gratuitamente, come Gesù ha amato noi fino a morire mentre eravamo ancora peccatori (Rm 5,8). «Con alcune persone bisogna parlare di Cristo, e con altre bisogna semplicemente essere Cristo» (don Fabio Rosini).

“Sorvegliamo le nostre relazioni, il nostro stare insieme come famiglie, come amici, come comunità, perché sono questi i luoghi privilegiati della presenza di Dio”

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TESTIMONIANZE DI VITA

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ACCOGLIERSI IN FRATERNITÁ

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L’ESPERIENZA DI VIVERE In questi tempi, caratterizzati da un notevole indebolimento dei legami sociali e da un’accentuata mercificazione e svalutazione del lavoro, si fa largo uso di modelli di risparmio delle risorse economiche. Ciò avviene nell’ambito delle politiche pubbliche (basti pensare al tema della cosiddetta spending review) ma anche in quello della gestione del bilancio familiare. Si tratta di modelli che indirizzano le scelte di consumo unicamente verso beni la cui fruizione risponda ad esigenze materiali e sia immediatamente appagante. Un discorso apparentemente sensato, ma con un ‚vizio di fondo‛: ridurre l’uomo a freddo soggetto calcolatore ignorando la sua profonda natura di cercatore di senso. Secondo il Dr. T. Galovich, professore di Psicologia alla Cornell University di Ithaca NY, la piena fioritura della persona umana risulta favorita più dalla possibilità di vivere esperienze significative che dall’acquisto di beni materiali. Basti valutare il fattore temporale: un oggetto può suscitare entusiasmo in un primo momento per poi trasformarsi subito in qualcosa di ordinario. Al contrario, un’esperienza importante, seppure limitata nel tempo, assume un carattere esclusivo e ci arricchisce divenendo parte di noi. Di fatto sono le esperienze fatte a formare la nostra identità e a dare tridimensionalità alla vita. Esse ci permettono di sviluppare la nostra personalità attraverso l’incontro con gli altri. L’arricchimento non monetizzabile deriva anche dalla possibilità di raccontare le esperienze vissute. Si tratti di uno spettacolo, di un’attività all’aperto, dell’apprendimento di una nuova abilità, di un viaggio. Ciò innesca anche un meccanismo virtuoso: trasformare un’esperienza stressante o non del tutto immune da intoppi in un racconto costruttivo o quantomeno divertente. Condividere un’esperienza ci mette in relazione con il nostro prossimo, ben più di un’attività di consumo. Il confronto con gli altri non potrà mai essere misurato in termini di valore economico come può avvenire per un computer o un diamante. Parliamo infatti di un ‚bene relazionale‛ come tale non contemplato nella dimensione utilitaristica che pervade ogni aspetto dell’esistenza umana. Si tratta di una visione talmente dominante e pervasiva da imporre come naturale e fuori discussione l’apertura h 24 di negozi e supermercati, ovviamente festività comprese. Meglio non frapporre ostacoli all’esercizio del diritto fondamentale al consumo, se questa è l’attività e il ruolo sociale in cui maggiormente ci si identifica. Ormai la stessa ricchezza semantica, insita nel concetto di cittadinanza democratica, pare appiattirsi nella sola ottica del cittadino consumatore, unico titolare della sovranità. La previsione di incentivi positivi a vivere esperienze formative dovrebbe essere invece un punto qualificante del nostro sistema politico-economico. Politiche pubbliche che davvero mettano al centro la persona umana nella sua dimensione integrale devono dunque fornire maggiori spazi ricreativi e prevedere i mezzi economici per costruirli e fruirne. Quindi al di là di quante monete avete in tasca e prima di comprare l’ultima versione dell’iPhone valutate le opportunità che offre la città in cui vivete. In mancanza, zaino in spalla e partite! Sicuramente al ritorno avrete molto da raccontare! ■

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“*<+ sono le esperienze fatte a formare la nostra identità e a dare tridimensionalità alla vita”


LA VULNERABILITÀ E L’INFINITO CHE CI PORTIAMO DENTRO Può sembrare incredibile ciò che sto per dire, eppure la vulnerabilità, termine in genere poco usato, racchiude un significato che ha sapore d’Infinito. In latino, vulnerabilis, deriva da vulnerare che significa ferire e sottolinea una realtà costitutiva della natura umana. Tutti, infatti, possono essere potenzialmente feriti e in genere non c’è nessuno, a qualsiasi categoria sociale appartenga, che non ne faccia esperienza. Anche il mito di Achille ci suggerisce che non esiste la completa invulnerabilità, dato che Teti, quando cerca di immergere il figlio nel fiume Stige, lo sorregge tenendolo stretto dalla parte del tallone, che rimarrà comunque il suo punto debole! La vulnerabilità è una realtà costitutiva dell’essere umano, non solo a livello fisico ma anche a livello esistenziale. Nel cammino lento e graduale della vita, dove i punti cruciali di maggiore cambiamento e trasformazione sono collocati paradossalmente nei momenti di crisi e debolezza, la persona raggiunge, in essa, l’obiettivo più alto che la vita umana possa offrire: la verità di diventare se stessi. Intorno alla vulnerabilità aleggia una paura profonda e, nella società in cui viviamo, si tende continuamente ad esorcizzarla come se fosse un ostacolo alla felicità e alla realizzazione personale. Tuttavia essa, che lo vogliamo o no, ci appartiene e aspetta di essere guardata dietro le nostre robuste difese, perché sola ci può indicare cos’è l’Amore. In prossimità del Natale è interessante riflettere sul versetto di Gv 1,14 : «E il Verbo si fece carne» perché, come scrive un grande testimone dei nostri tempi, Jean Vanier: «La carne è prossima al sangue ed è simile a lui. A differenza delle ossa la carne è tenera e quindi decisamente

vulnerabile *<+. Se il verbo si fece carne, allora vuol dire che si è fatto vulnerabile». Il Cristo è disarmato sin dalla soglia della vita e ci mostra la via della libertà e della pienezza proprio in questa vulnerabilità. Il fulcro dell’apertura verso l’Infinito, dunque, è racchiuso proprio dentro questa parola tanto temuta. Non possiamo bypassare l’estrema nudità di Gesù, nella sua storia terrena: nasce piccolo e indifeso, dipendente da tutti, fino all’estrema nudità della croce, coperto di piaghe, in un gesto estremo di abbandono, nel quale gli occhi del credente leggono l’inaudita impotenza dell’amore che apre le braccia all’Infinito. Anche la paura più grande che attanaglia e aliena la persona – la morte – divenuta un tabù e una realtà da ignorare e scongiurare nella società contemporanea, è riecheggiata dalla vulnerabilità. Il cristianesimo, invece, invita proprio a toccare lo strato più profondo della propria vulnerabilità, perché da esso, scoprendo le ferite da quelle sovrastrutture di difese consolidate, si può fare esperienza dell’amore (a-mors: senza morte). La distorsione più profonda, è quella di provare vergogna nel manifestare il bisogno di essere amati e di essere accolti così come si è. Ciò che rende sacro l’incontro tra le persone è proprio la nudità dell’amore che richiama abbandono e non resistenza, essere veri e non efficienti. Dentro questa ferita si scopre che l’umanità non si gioca tra intelligenti e buoni a nulla, tra capaci e incapaci, bensì tra esseri umani che nella relazione si trasformano e diventano capaci a loro volta di trasformare, perché disarmati e disarmanti! Dal Natale impariamo, dunque, la grande forza racchiusa nella debolezza e lasciamoci condurre da essa per abbracciare la propria e altrui umanità, rimanendo aperti all’Infinito che ci portiamo dentro. ■

“L’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio” (Stendhal)

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DONNA TRA LE DONNE Mia madre sfaccendava tutto il giorno; agli occhi del mondo era mio padre a guadagnare il pane. Ben presto rancori femministici s'insediarono nel mio spirito iperscrutante; ma vivendo sul pianeta Donna, chiaramente schierata a favore del genere femminile, d'un tratto mi sono interrogata a proposito del movente che, nel corso dei secoli, ha portato all'apparente dominanza maschile: il maschio ci ha sottomesse grazie alla fisiologica superiore forza muscolare? Tutto qui? Osservando le donne nel quotidiano e rispetto alle altre, sono giunta all'amara consapevolezza che il maschio umilia, tradisce, profana l'essere femminile con la correità di un'altra donna (vuoi compagna di trasgressione, vuoi genitrice). Mi è capitato di evidenziare a una signora il comportamento scorretto di suo figlio. Ha replicato: «Mio figlio è un uomo; sua moglie ha il dovere di subire tacendo». Riconosciamo che, al di là dell'impronta genetica, da secoli i figli vengono plasmati dalle donne per quanto esistano culture nelle quali, in virtù di tale consapevolezza, il figlio maschio viene separato dalla madre onde evitare che qualche ‚sconsiderata‛ gl'insegni RISPETTO: potrebbe trasmettersi in forma epidemica. Mi preme rimarcare che noi donne educhiamo tanto i maschi quanto le femmine. Quando mi veniva intimato di rimanere in silenzio di fronte a certi argomenti considerati sconvenienti per una donna, non era mio padre a farlo, ma mia madre. Sembra che, in un qualche dove islamico, frequentatrici professioniste dell'hamman si piazzino anoni-

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mamente nella sala calda e passino in rassegna le giovani ragazze spoglie; indi raccolgono informazioni su coloro che possono rappresentare la moglie perfetta per i loro mandanti. Apparentemente sono gli uomini a uccidere le donne in ogni luogo del mondo, ma chi arma la loro mano subliminalmente? In colpevolezza, l'uomo e la donna sono divisi da un confine nebuloso lungo il quale c'è un cane che si morde la coda. Nei luoghi di lavoro nonché di potere, grande o piccolo che sia, la donna è spesso più fortemente gerarchizzante dell'uomo; perennemente in competizione, esercita balìa, opera a propria discrezione servendosi di intimidazioni nei riguardi del gentil sesso, di dolcezza ingannevole relativamente al maschio: è codesta la cosiddetta emancipazione femminile. D'altronde storia docet: Erodiade, per realizzare la decapitazione di Giovanni Battista, fece leva su Erode Antipa attraverso un'altra donna, Salomè. D'altro canto il serpente si servì di Eva per indurre Adamo ad assaporare la mela del peccato. Dicunt. Mi chiedo se l'incapacità di discernere del maschio sia, in fin dei conti, legata alla costola della quale Dio lo avrebbe privato. La donna è antagonista di se stessa; è giunto il momento, per lei, di interrogarsi sulle proprie responsabilità relative al comportamento maschile e< femminile. Legata al nostro ventre è la possibilità di procreare. Alla donna la facoltà di rendere migliore questo luogo inquieto e potenzialmente meraviglioso, d'inanellare momenti di benevolenza con ogni essere dell'universo, affinché il rispetto possa prevalere sulla prevaricazione, la comprensione sul conflitto, la luce sulle tenebre. Pare che dietro ogni grande uomo ci sia una grande donna. ■

“Donna se' tanto grande e tanto vali / che qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disianza vuol volar sanz'ali” (Par, XXXIII, vv. 13-15)


LAMENTO SOPRA UN SINODO ORDINARIO Il Sinodo ordinario sulla Famiglia di quest’anno si è aperto e si è chiuso nel caos mediatico mondiale ed ha lasciato ad alcuni molti punti di domanda. In un certo senso, si potrebbe dire che è stato profondamente diverso dal precedente sotto molti aspetti: il combattimento dottrinale e pastorale, le difficoltà spirituali, i linguaggi diversi per parlare però agli stessi cuori. In fin dei conti, un Sinodo è sempre espressione di differenti modi di sentire e vivere la Chiesa, perché differenti sono i cuori di chi la abita e differenti le sofferenze del popolo di Dio in cammino e, dunque, dei suoi pastori. Ma vogliamo ora, esattamente come l’anno passato, ostinarci in modo assai poco saggio nel cercare di tirare le somme e capire, quindi, chi esca vittorioso e chi perdente da questo Sinodo. Chi vince? Vince la famiglia, finalmente. Che ha visti riaffermarsi, punto su punto, ogni aspetto e forza che la Grazia sacramentale, e quella Divina più in generale, le concedono. Vince la famiglia, quella vera, quella santa, che, sebbene non abbia visti specifici passi avanti nella pastorale contemporanea, quantomeno non si è vista privata di alcunché (cosa assai rara e per cui ringraziare Iddio, di questi tempi). Vince la ragionevolezza della Verità dottrinale, della fede infallibile che sa affidarsi senza mancar colpo. Chi perde? Perde la stampa dei tabloid, quella della carta “usa e getta”, che vuole la Chiesa attaccata solo ai temi ‚scomodi‛ (o presunti tali) e non per il bene della comunità dei battezzati ma per mere esigenze di tiratura. Perde la Chiesa degli applausi, di quelli convinti che la fedeltà al Vangelo voglia dire una liturgia piena di stravaganti attrazioni e, al contempo, una vita povera di Cristo. Perde la Chiesa a buon mercato, quella che vende la misericordia in scatole come si venderebbe un prodotto al supermercato. Perde, insomma, la Chiesa che non è Chiesa, la Chiesa di chi non è Chiesa. Di chi si ostina a non voler fare comunità, a non voler essere comunità. Ma tirare delle somme conclusive è assai più complicato di così, e lo è perché presume non voler toglier nulla alle parti in causa ed alla storia travagliata cominciata l’anno passato. Tutte quello che c’è stato intorno (ed ‚in più‛, oserei aggiungere), è stato un coronamento, a tratti patetico (ma quale vicenda che tocchi gli uomini non lo è?), di un evento assai importante: la lettera dei tredici cardinali, le tesi ai limiti dell’eresia di Kaspar, il piccolo Sinodo tedesco in Vaticano, il ‚coming out‛ di monsignor Charamsa. Eventi questi che, sebbene abbiano dato scandalo (e davvero per i suoi piccoli la Chiesa deve crucciarsi), non pregiudicano né tolgono valore ai risultati di questo Sinodo; perché? Perché quando si arriva a conclusioni simili significa soltanto che una delle due parti è caduta, sfracellata* (potremmo dire, usando un gergo biblico ma assai più crudo) sulla roccia di Verità che è Cristo e sulla Sua Parola che non è destinata a passare. Il bello ed il brutto di questo Sinodo, così come di questo pontificato e di questo momento della vita della Chiesa, passeranno; perché tutto è destinato a passare, anche queste parole. Dio, allora, sarà roccia di Verità su cui stare saldi, proprio per non sfracellarsi. ■

*Ps.. 136, 8

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#INSTAGRAM YOUR LIFE! Una sorta di prigione delle parole da otto anni a questa parte spopola sul web e il tasto cancelletto di una modernissima tastiera touch, è oggi il più cliccato sui social quali Twitter, Instagram, Facebook. Due barre verticali e orizzontali, perpendicolari tra di loro a formare il simbolo del cancelletto, una parola a seguire e sei connesso col mondo intero. ll primo hashtag della storia fa capolino su Twitter il 23 agosto 2007 quando Chris Messina, avvocato di San Francisco, ne lancia l’uso in un tweet. Ma è a San Diego, nell’ottobre 2007, che l’imprenditore Nate Ritter si trova per primo ad utilizzare un hashtag #sandiegofire durante uno spaventoso incendio che colpì la contea. È l’inizio della vita del cancelletto. Hashtag, una trovata geniale per raggiungere virtualmente l'intero universo. La parola stessa deriva dall’inglese hash, cancelletto e tag, etichetta. Si tratta di far seguire un nome a questo simbolo, rendendo così disponibile contenuti affini, pubblicati sui vari social, con la stessa ‘etichettatura’. E se inizialmente hanno preso il sopravvento su Twitter, negli ultimi anni stanno comparendo anche su Facebook e Instagram. Con la stessa simbologia affiancata alle immagini, in un semplice click puoi accedere alla straordinaria enciclopedia fotografica virtuale di tutto il mondo: Instagram. E così accomunati da una stessa parola in gabbia riesci a visionare immagini dal contenuto affine, puoi conoscere l'autore della foto e la sua breve biografia, curiosare nella sua galleria e creare un dialogo

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con gli altri utenti, apprezzandone con un like o un commento gli scatti. Gli hashtag rappresentano dunque oggi nuovi modi di esprimere la quotidianità nella sua espressione più artistica. Paul Klee diceva che l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è: l’anima, i sentimenti profondi delle persone, il senso delle cose e della vita. Così, tramite fotogrammi, passi in rassegna la tua vita rivelando chi in fondo sei. E ti fingi ogni giorno fotografo professionista, talora anche turista nella tua città, immortalando dettagli ogni giorno diversi, perchè il sole non è mai lo stesso, le nubi non seguono sempre la stessa corsa, i tramonti si divertono a giocare con i colori dell’arcobaleno. Ma soprattutto perchè non sei ogni giorno lo stesso e in ogni scatto c’è la tua interiorità intrisa di gioia, pace interiore, tristezza, nostalgia e ricordi. Paesaggi, tramonti, monumenti, città e luoghi visitati, piatti culinari coreograficamente allestiti e gli immancabili selfie popolano quotidianamente la tua galleria. Su questo strapotere delle immagini affidato ad instagram qualcuno ha parlato di ‚eccessiva esaltazione di un'immagine perfetta di sé‛, di una ‚falsa perfezione‛ da inseguire, di una ‚bellezza artificiale‛ che talora lascia semplicemente un senso di vuoto. In realtà come ogni cosa che circola sul web è l’uso scorretto che se ne fa a renderla pericolosa, e talvolta un ego troppo fragile e in cerca di approvazione. Ma un instagrammer la vera bellezza la tocca con mano ogni giorno perché riesce a immortalare in uno scatto anche ciò che semplicemente percepisce con il cuore. ■

“Ciò che rende la fotografia una strana invenzione è che le sue materie prime principali sono la luce e il tempo” (John Bergere)


LA TEATRALITÀ DELLA LUCE NELLA “NATIVITÀ” La “natività” di Matthias Stom

L’Adorazione dei pastori (1642 ca.) di Matthias Stom, di recente riportato alla grafia originaria dopo che per decenni era invalsa la dicitura "Stomer" sulla base di una errata lettura di firme e iscrizioni. Il dipinto fu commissionato dallo spagnolo Giovanni Torresiglia, Arcivescovo di Monreale dal 1644 al 1648, il quale «per amore dei Cappuccini poi spogliossi della più bella e preziosa gioia, il quadro della Natività, volendo che se ne adornasse l’altare maggiore della nostra chiesa» (Padre Bernardo da Cammarata, 1710 ca.). L’opera, infatti, rimase sull’altare della Chiesa dei Cappuccini di Monreale fino al maggio 1871 quando, in seguito alle soppressioni delle corporazioni religiose, la proprietà del dipinto passò al Municipio di Monreale. Matthias Stom nacque intorno al 1600 ad Amersfoort, in Olanda, e ricevette i primi rudimenti della pittura ad Anversa, capitale fiamminga dell’arte europea, la cui avanguardia era capeggiata da Rubens e ad Utrecht fu allievo di Gerard von Honthorst (Gherardo delle Notti). Si trasferì a Roma verso il 1630, avvicinandosi alla pittura del francese Simon Vouet e, successivamente, spostandosi a Napoli, riprese nuovamente il caravaggismo attraverso lo studio della pittura a lume artificiale. Nel 1640 giunse in Sicilia, legandosi alle famiglie aristocratiche come i conti di Mazzarino, gli Afflitto di Belmonte e i principi Alliata di Villafranca per i quali dipinse La lapidazione di Santo Stefano e il Tributo della moneta, 1640 ca. Al centro del dipinto vi è la Madonna che solleva il lembo del lenzuolo del Bambino da cui si irradia una luce che illumina i pastori posti intorno alla Sacra Famiglia. Stom sperimenta una soluzione luministica per lui inedita: qui infatti non compare nella scena un lume artificiale di cui si studiano gli effetti, la luce è emanata direttamente dal corpo del Bambino, rivelato ai pastori dal panno sollevato da Maria. Il pittore rende gli effetti della luce soprannaturale come se sprigionasse dalle frequentatissime candele e lucerne presenti nei suoi dipinti. Pur trattando la luce dorata miracolosa come se provenisse da una fonte artificiale, di cui si rendono i contrasti ombrosi e i chiarori sui volti degli astanti, Stom si adegua a un’ambientazione luministica i cui prototipi sono nella Notte del pittore Correggio (1529-30 ca.; Dresda), nell’Adorazione di Rubens (1608; Fermo), ma principalmente nelle Adorazioni dei pastori di Gerard von Honthorst, 1629-30 ca., colpite dall’attentato mafioso del maggio 1993 agli Uffizi, sino alla distruzione della pala Guicciardini. Indipendentemente dalla iconografia religiosa o profana, quasi tutto infatti in Stom è teatro, come del resto in tanta parte del Seicento. Gli effetti di luce di sotto in su, pur immaginati come prodotti da una fonte sovrannaturale, sono risolti con la stessa naturalezza che si ritrova nelle scene profane a lume di candela; intensificati ne risultano la cordialità dei volti e il clima sentimentale della scena evangelica. La luce è diffusa e leviga le superfici, spiana la stesura del colore. Questa qualità luministica, memore dei contrasti luministici presenti nel pastore in primo piano, piove leggera sui volti, li rischiara diffusamente, quasi li condensa e li plasma, o ne accentua la propensione al riso. ■

Matthias Stom, Adorazione dei pastori (1642 ca.). Monreale, Municipio

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UNA STORIA D’AMORE E MORTE “Un libro che lascia il lettore uguale a com’era prima di leggerlo è un libro fallito‛: viene spontanea una simile citazione dopo aver letto ‚Diceria dell’untore‛, un libro di Gesualdo Bufalino. Il romanzo, iniziato nel 1950, fu ripreso venti anni dopo e pubblicato solo nel 1981. Ottenne un enorme successo, vincendo il Premio Campiello. Siamo nell’estate del ’46 a Palermo, la guerra è finita da poco, ma l’aria tutt’intorno sembra ancora spenta, grave, dolorosa. Solo il paesaggio mediterraneo della Conca d'Oro è un’esplosione di sole e colori. Il protagonista è un giovane reduce di guerra, ammalato di tubercolosi e ricoverato alla Rocca, un sanatorio della Conca d'Oro popolato da uomini, donne, bambini, tutti malati cronici, tutti accomunati da un identico destino: l'attesa della morte. Alla Rocca si stringono amicizie, ci si innamora, si tentano delle fughe. La paura (o forse la speranza) di morire viene esorcizzata da questi curiosi personaggi che si intrattengono a vicenda con discorsi, monologhi interminabili e dispute filosofiche. Il mistero della morte e la malattia senza sopravvivenza sono le angosce che i personaggi si portano dentro. Durante uno degli spettacoli di arte varia organizzati per animare ‚l’attesa della morte‛ il protagonista incontra Marta, una giovanissima ballerina diafana «dalla vita sottile e dalle ali roventi». Tra i due giovani nasce ben presto un amore struggente, senza futuro, ostacolato dalla gelosia del primario e dalla sorveglianza ferrea delle monache. L’idillio amoroso dei due amanti si conclude con una fu-

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ga in macchina nei paesi del palermitano: un viaggio disperato che per la donna è un congedo definitivo e per il giovane, che ha avvertito i segni della guarigione, un rinnovato confronto con la vita. Marta è una donna perduta, consumata dalla malattia; ricorda le donne delle opere liriche divorate dalla passione e da una malattia fatale. È una bellezza decadente, un personaggio indimenticabile: vive con il protagonista un'intensa giornata d’amore, dandogli un motivo di vita ma alla fine morendogli accanto. Tutta l'atmosfera del romanzo è onirica e fittizia: il sanatorio sembra un luogo surreale, fuori dalla realtà, più che altro un palcoscenico dove malati e medici sono attori e i loro dialoghi sono parti di un copione già scritto. Una serie di materiali inediti arricchisce l’opera, costituendo una piccola appendice alla fine del libro, che mostra l’intenso e interminabile lavoro di costruzione necessario per la stesura dell’opera: qui troviamo le poesie dedicate ai personaggi e che l’autore aveva in un primo momento inserito alla fine di ogni capitolo; le epigrafi dedicate ai compagni morti. Persino la descrizione della partita a scacchi tra l’autore ed il primario con lo schema che spiega le mosse. Si tratta di un vero e proprio libricino, con utili spiegazioni, per comprendere meglio lo stile dell’opera e conferirle veridicità. Ciò che più colpisce di questo romanzo sono la sua inusuale, elegante forma barocca e il suo lessico aulico, che lo rendono un’opera classica, senza tempo. Il libro, così ricco di affioramenti intimi dell’autore, rafforza l’attaccamento alla vita e la riverenza verso l’amore, unica àncora nel dolore. Buona Lettura! ■

“E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita”


IL DIAVOLO POETA... ... o del trionfo dell’Immacolata Concezione di Maria Ariano Irpino, oggi in provincia di Avellino, ma che a quel tempo si chiamava Ariano di Puglia. In quel periodo, si discuteva molto, tra i teologi, dell’Immacolata Concezione di Maria. Due predicatori domenicani, padre Cassetti e padre Pignatura, partecipando agli esorcismi di un ragazzino undicenne analfabeta di Ariano, imposero al demonio – nel nome di Gesù – di dimostrare che la Vergine Maria era Immacolata. I due sacerdoti comandarono al maligno di farlo in un modo eclatante: mediante un sonetto, un componimento poetico in quattordici versi endecasillabi a rima obbligata, distinti in due quartine e due terzine. Fu allora che, obtorto collo, lo spirito del male compose un testo poeticamente geniale e teologicamente perfetto sul mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, segno della fedeltà di Dio che non si arrende di fronte al peccato dell’uomo. Vorrei concludere queste brevi note con i versi di quella bellissima preghiera:

I primi 39 versi del trentatreesimo canto del Paradiso di Dante sono impegnati in una stupenda laudatio a Maria, un’invocazione che l’autore enuncia per bocca di San Bernardo, ma che nei fatti trae spunto da una personale folgorazione: un’intuizione mistica che, sostenuta dalla grazia divina e guidata dalla mediazione della Madonna, consente al poeta di proseguire il suo viaggio nell’Empireo per misurarsi con la visione di Dio, «Amor che move il sole e l’altre stelle». La ricercata dolcezza, le implicazioni filosofiche e teologiche di quelle straordinarie terzine non smettono mai di stupire: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, *...+ tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. *...+ In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontade». Secoli prima della promulgazione del dogma, avvenuta l’8 dicembre del 1854 per opera di Papa Pio IX, Dante sembra introdurre con garbo uno dei misteri più discussi e affascinanti della storia della fede: l’Immacolata Concezione di Maria. Nel primo istante del suo concepimento, per grazia e privilegio divino, e in vista del sacrificio di Gesù, Maria è stata preservata immune da ogni macchia della colpa originale. Alla luce di questo mistero, le espressioni di lode nate dal cuore e dalla mente del poeta acquistano per noi un valore rilevante. Eppure, trentun anni prima che tale dottrina fosse proclamata da Pio IX, in forme diverse, ma non meno ispirate di quelle dantesche, il mistero era stato chiarito da un commentatore fuori dall’ordinario: il diavolo in persona. Il fatto avvenne nel 1823 in una cittadina del Sud Italia,

Vera Madre son io d’un Dio ch’è Figlio e son figlia di Lui benché sua Madre Ab aeterno nacqu’Egli, ed è mio Figlio, nel tempo nacqui e pur gli son Madre. Egli è mio Creator ed è mio Figlio, son io sua creatura e gli son Madre. Fu prodigio divin l’esser mio Figlio, un Dio eterno e me aver per Madre. L’esser quasi è comun tra Madre e Figlio, perché l’esser dal Figlio ebbe la Madre e l’esser dalla Madre ebbe anche il Figlio. Or, se l’esser dal Figlio ebbe la Madre, o s’ha da dir che fu macchiato il Figlio, o senza macchia s’ha da dir la Madre. ■

“Maria è stata preservata immune da ogni macchia della colpa originale” Giovan Battista Tiepolo: Immacolata Concezione di Maria (1767-69). Madrid, Museo del Prado

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AMARCORD: RICORDI DI UN TEMPO LONTANO Tra le varie opere di Federico Fellini, si può annoverare uno dei film che può essere inserito tra i capolavori della cinematografia italiana: Amarcord. Scritto da Fellini e Tonino Guerra, il film esce nelle sale nel 1973 e colleziona vari riconoscimenti tra i quali l’Oscar a miglior film straniero nel 1974; il David di Donatello al miglior film e regia, sempre nel 1974; il Nastro d’Argento al miglior film nello stesso anno e, infine, nel 1996 viene riconosciuto come miglior film di tutti i tempi dalla BBC. Proprio quest’anno il film è stato restaurato e riproiettato alla 72° Mostra del cinema di Venezia. La storia è ambientata in un paesino immaginario dalla Romagna, Borgo, tra il 1930 e il 1935 dove un ragazzo di nome Titta trascorre la sua vita influenzato dalle vicende familiari e non. In un Paese come l’Italia, all’apice dello ’splendore‘ dell’epoca fascista, il protagonista incontra diversi personaggi che, quasi in maniera stereotipata, caratterizzano la vita di ogni piccola realtà di paese: la Gradisca, l’avvenente parrucchiera di Borgo; Volpina, la giovane ninfomane; Giudizio, il matto del paese; il gradasso in moto e tanti altri personaggi che ruotano attorno a Titta, scandendo i vari avvenimenti, colorati con le loro caratteristiche bislacche. Tutto ciò segna lo scorrere delle stagioni ed accompagna la crescita del ragazzo. Un personaggio importante oltre a Titta è quello del padre che emerge nel film in maniera ambivalente: appare

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come un pater familias duro e possessivo all’interno del focolare domestico, ma la stessa asprezza la dimostra nelle relazioni pubbliche. Infatti è la figura antifascista per eccellenza e cerca di opporsi in tutti i modi all’egemonia del regime: in una scena del film, si accontenta di ingurgitare l’olio di ricino pur di non cedere informazioni a coloro che considera i suoi nemici. Fellini traccia uno spaccato di una società che, ormai lontana da quella che vive quotidianamente, riemerge come in un ricordo agrodolce dei tempi che furono: forse una società molto più schietta, rispettosa dei valori familiari. Il regista non esalta solo il tempo passato, ma muove un’aspra critica a ciò che il fascismo ha rappresentato durante quel periodo: ne esce fuori un ritratto goffo, concentrato soprattutto sull’affermazione e lo sfoggio di una potenza e di una forza mai realmente espresse, se non addirittura esistite. Molti critici, all’uscita del film, si divisero tra chi appoggiava la scelta cinematografica del regista e chi invece l’ha duramente criticata: in ogni caso il tempo ha dato ragione a Fellini poiché questo rimane uno dei film più apprezzati dal pubblico ed in generale dagli addetti ai lavori. Personalmente ritengo che Fellini sia riuscito a trarre dal niente un capolavoro. Raccontare il quotidiano di un tempo ormai passato e farne rivivere la semplicità e allo stesso tempo la durezza, con goliardia e genuinità, lo pone direttamente nel gotha della cinematografia mondiale. ■

Giudizio: «Camerati, hanno detto pane e lavoro; ma non è meglio pane e un bicchiere di vino?»


LO STREET FOOD IN SICILIA. PARTE PRIMA: PANE E PANELLE Se per le vie della Toscana siamo soliti incontrare venditori di hamburger, in Sicilia, a dominare lo street food sono le panelle. Furono gli Arabi, dominatori della Sicilia a cavallo tra il IX° e l’XI° secolo, già esperti gastronomi, ad iniziare a macinare i semi dei ceci per ricavarne una farina che, mescolata all’acqua e cotta sul fuoco, dava una sorta di impasto crudo e dal sapore non particolarmente gradevole. Ma una sfoglia sottile di questo impasto, cotta e di piccole dimensioni, diede agli annali un prodotto dal sapore unico. Le panelle hanno contribuito a raccontare epoche di rara bellezza, aspetti della vita sociale irrinunciabili e grandi piaceri della vita. Cibo da strada dalle antichissime origini, che porta nel suo sapore le tradizioni di una città che conserva la sua memoria soprattutto a tavola. La panella è un cibo tipico di Palermo e dintorni. Rappresenta un tipico spuntino consumato soprattutto nelle ‘friggitorie’, alcune delle quali dalle tradizioni secolari, o acquistato nelle ’friggitorie ambulanti‘ delle motoape che girano per le vie del centro storico ma, in particolar modo nelle prossimità delle scuole. Maestri ‘panellari’ hanno sfamato ed appassionato clienti illustri: la Casa Reale, Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Giovanni Guttuso, uomini politici ed esponenti del goth internazionale. Qualsiasi barriera sociale si abbatte e, davanti ad una moffoletta fragrante, si diventa tutti uguali. Ingredienti per 50 panelle: 1.5 l d’acqua; 500 g di farina di ceci; 10 g di prezzemolo tritato; 10 g di sale; pepe q.b. Procedimento: Per prima cosa occorre versare l’acqua fredda in una pentola e aggiungere la farina di ceci ed il sale, mescolando con una frusta, evitando di far formare dei grumi. Una volta ottenuta una soluzione omogenea porre sul fuoco a fiamma media mescolando continuamente. Continuare a mescolare finché non si sarà raggiunta la temperatura di ebollizione; dopo che il composto avrà inziato a bollire aggiungere il prezzemolo tritato ed il pepe. Stendere l’impasto su una superficie di marmo o su uno stampo unto (come quello da plumcake). Ricoprire con la pellicola ed aspettare che l’impasto si solidifichi. In genere è consigliata la previa preparazione, anche a distanza di 24 ore dalla consumazione. A questo punto, si può tagliare il composto a fettine sottili. Friggere le panelle in olio ben caldo fino a quando non saranno dorate e croccanti. Successivamente, si suole condirle ulteriormente con sale e pepe, abbinandole ai classici panini siciliani con il sesamo; in base alle preferenze si può completare il panino spalmando sulle panelle del ketchup e della maionese. Il momento di massimo consumo di panelle, insieme alle arancine è il 13 dicembre, giorno in cui si festeggia Santa Lucia e, per devozione, non si consumano farinacei. E’ una storia che continua ancora oggi, quella delle panellerie e continuerà nel tempo, finché ci sarà anche un solo cliente che saprà apprezzare la bontà delle panelle e, chiudendo gli occhi, riconoscere nel loro profumo quello di una Sicilia che vive grazie alle sue uniche e immortali tradizioni. ■

“Tutto è più facile da dire in una cucina, tutto è sfumato da questa intenzione di condivisione, e l’appetito fa scorrere nuova linfa nelle cose” (Serge Joncour)

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ORIZZONTALI 1 Si celebra l’8 dicembre, 10 Repubblica centroamericana, 16 Lo studio del Divino, 17 Rappresentanze Sindacali Unitarie, 19 Quella senese è una razza suina, 20 Il discusso trattato transatlantico, 21 Genova, 22 La via romana che conduce a Firenze, 23 In fondo al tesoro, 24 Articolo romanesco, 25 Colora l’occhio, 28 Di solito è con lui, 30 Quello delle Amazzoni attraversa l’America meridionale, 32 Croazia in madrelingua, 36 Due romano, 37 Vanno tenuti sempre aperti, 39 Storica band di Manchester, 40 Appropriato, 42 Integratore alimentare al fosforo, 43 Il muscolo principale, 44 Si clicca per registrare, 46 Personale scolastico non docente, 47 Appellativo per il nostro Roberto, 48 Povero, 50 Cosa latina, 52 Negazione, 53 Como, 54 Estremamente cara, 56 E’ abile in cucina, 58 Il suo canale collega Atlantico e Pacifico, 59 Tifosi organizzati, 63 In mezzo a loro, 64 Quelli pop sono di mais, 65 Articolo maschile, 66 Strumento per rilevare la posizione di oggetti, 67 Quello fascista era un saluto, 70 Codice a barre, 72 Il Jobs di Renzi, 73 Si richiede insieme alla password, 74 Gruppo tedesco di articoli sportivi, 76 Il soprannome di Ronaldinho, 78 In mezzo al codice, 79 Prefisso di uguaglianza, 81 Concludono le canzoni, 82 A favore, 84 La bigotta che presta aiuto a Lucia Mondella, 85 Separò le acque.

VERTICALI 1 Colorazione giallastra della pelle, 2 La struttura di un componimento, 3 Il “me” francese, 4 La grande catena montuosa dell’Europa, 5 In fondo al sacco, 6 La giornata odierna, 7 Il leggendario Nils del calcio, 8 Iniziali del comico Albanese, 9 La lingua parlata da Gesù, 10 Il primo romanzo di Francesco Falconi, 11 La splendida parete rocciosa di Realmonte, 12 Affermazione, 13 La scritta sulla croce di Cristo, 14 Centro Traumatologico Ortopedico, 15 Gli estremi delle ossa, 18 Sassari, 26 Il Mino della canzone, 27 Nella mitologia greca è la sorella di Zeus, 29 E’ famoso quello dell’oca, 31 Tramonto, 33 Provincia del Medio Campidano, 34 Onda anomala, 35 Il principio delle religioni indiane, 36 Quello burocratico richiede sempre tempo, 38 Capanna inglese, 41 Il numero perfetto, 45 La dimora di Berlusconi, 47 La prima fu Eva, 49 Si contrappone al dolce, 51 La moneta in circolazione, 53 Il Fabio di Sky, 55 Quello di denti è doloroso, 57 Repubblica centroafricana, 58 Il principe dei fiumi italiani, 60 A Todi sono dispari, 61 Nella bolletta elettrica pagheremo il suo canone, 62 Passione, 64 Codice in breve, 68 Principale inglese, 69 Una delle caravelle, 71 Nanogrammo, 72 Quella giovanile colpisce la pelle, 75 E’ famosa la Ryan, 77 L’oltretomba, 78 La prima nota, 80 Open Source, 82 Ai margini del piombo, 83 L’associazione segreta di Harry Potter.

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Le soluzioni sono disponibili all’indirizzo: http://www.capunisi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=137


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