Arte come gioco, gioco come arte

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37 Arte come gioco, gioco come arte interrogando lamberto pignotti, artista sinestetico

Claudio Cerritelli


Arte come gioco, gioco come arte interrogando lamberto pignotti, artista sinestetico

Sette questioni pensando all’arte totale di Lamberto Pignotti Claudio Cerritelli: So che ti piace la definizione “artista del gioco”, in quanto allontana dall’orizzonte del tuo sentire sinestetico quell’aria di paludata serietà del lavoro intellettuale e creativo, come sussiego e responsabilità rispetto alle cose che si fanno. Già nel 1979 curavi una mostra intitolata “stai al gioco?” ma suppongo che da sempre ami giocare sul filo dei sensi, magari uscendo dalla letteratura. Preferisci dunque divertirti attraverso la mescolanza dei linguaggi, ami giocare seriamente con gli aspetti più banali del comunicare, capovolgi il rapporto tra parole e immagini fino a perdere di vista la direzione da seguire. Insomma giochi e rigiochi senza salvaguardare alcuna regola fissa del gioco stesso. Che ne è oggi del tuo gioco in arte, inteso sia come piacere soggettivo sia come metafora del coinvolgimento collettivo? Lamberto Pignotti: Quando mi domandano che attività faccio me la prendo alla larga. Me ne guardo bene dal dire che sono un artista o un poeta o qualcos’altro. Mi trovo a disagio a essere sistemato, o a sistemarmi, in una casella. In fondo a me piace uscire dalla quotidianità, mi piace svagarmi, mi piace giocare e giocare più giochi: praticare più giochi, praticare “poli-games”, essere poligamo in quel vasto territorio che comprende le più svariate forme culturali e artistiche.

Proposte per bloccare le "h", collage, cm 32x24,8. 1965.

È vero, come asserisci, che amo giocare sul filo dei sensi, magari uscendo dalla letteratura. Magari sconfinando anche dalle arti visive. Ma è così che mi sono ritrovato a prendere consapevolezza delle sinestesie, della pluri-sensorialità che oggi artisti e scrittori sembrano aver scoperto. Tenendo presente la simultaneità dei sensi mi sono sempre più accorto che non si entra e non si esce da una particolare casella intellettuale o creativa, se si gioca a perseguire una linea di ricerca del nuovo. Potrei dire con Roland Barthes che io il linguaggio lo vedo. E le immagini le leggo, aggiungerei. Fino dalle elementari si dovrebbe insegnare a guardare Dante e a leggere Giotto, si dovrebbe insegnare a entrare in una poesia o in un quadro, non solo come lettori o spettatori, ma in tutti i sensi, da protagonisti, si dovrebbe insegnare a giocare con l’arte intesa, come dici, quale piacere soggettivo. È in tale contesto che da tempo si muove il mio più o meno riuscito, “gioco”. CC: Solitamente ti muovi contro i dogmi e sei avverso a ogni precettistica, in tal modo la tua ricerca logo-iconica e verbo-visiva ha sempre adottato un’ambiguità allusiva a molteplici possibilità d’interpretazione, la cosiddetta natura polisemica del linguaggio. Che cosa è rimasto oggi di questo viaggio tra visibile e invisibile, dell’impulso a destrutturare e ricomporre i frammenti del sistema comuni-


meta questioni

Claudio Cerritelli

cativo, dell’atto di riflettere sul perduto senso delle parole e sullo svuotamento delle immagini? LP: A prescindere dagli orari ferroviari e dagli elenchi telefonici la natura del linguaggio è polisemica. L’ambiguità del poeta e del pittore e financo obbligatoria. Tuttavia io sono per la comunicazione, ufficialmente almeno fino dai tempi del gruppo 70, il cui primo convegno del 1963 era intitolato “Arte e comunicazione”. Purtroppo la comunicazione in arte è stata fatta Intendere come comunicazione di un’arte facile, omologata, quel genere di arte che piace tanto ai mass media, per intendersi. L’arte che non vuole essere portavoce e propaganda dell’ordine ben costituito deve cercare di far vedere, di rendere visibile, ciò che esso tende a nascondere, e deve cercare di abradere e rendere invisibile ciò che esso ostenta. È un percorso tutt’altro che agevole, è un sentiero di guerra, ma a percorrerlo mi sono potuto accorgere gradatamente che il perduto senso delle parole e lo svuotamento delle immagini rientravano in uno stratagemma ben orchestrato, in una sorta di principio d’autorità, e che essi come la “Lettera rubata” di Poe stavano ancora sotto i miei occhi. I migliori artisti non creano, ma trovano, si va pacatamente dicendo da qualche parte. Già, la nebbia a Londra non l’aveva vista nessuno, prima che Whistler la dipingesse… CC: In un tuo agguerrito saggio sull’ideologia del linguaggio pubblicitario (Il supernulla 1974) dicevi

in forma di augurio: “Forse si può giocare il sistema che ci sta giocando”. Non credi che quell’analisi sia ancora valida e che l’immenso vuoto, il vuoto spinto, cioè senza contenuto, sia ancora la metafora più lucida per leggere le regole dominanti delle odierne strategie che vertono sulla pubblicizzazione sia del consumismo sia dell’austerità? LP: Purtroppo ma senza presunzione quell’analisi non solo è ancora valida, però nel frattempo il sistema trainato dal supernulla pubblicitario e dal vuoto spinto consumistico si è dilatato a dismisura e articolato capillarmente, rendendo sempre più ardua la sua interpretazione globale. Fatte sparire le ideologie che bene o male potevano offrire delle coordinate, dei punti di riferimento, il sistema si presenta ancor più come un grande labirinto senza fili di Arianna, come un grande enigma privo persino di responsi oracolari, come un grande rebus senza chiave. È a tale visione enigmistica del mondo che sibillinamente si contrappongono tra gioco, suspense e thrilling certi miei “Iper-rebus” privi di codice. Escludendo ogni globale interpretazione delle regole dominanti, e ponendosi nella prospettiva artistica, anche se essa può apparire settoriale, velleitaria, utopistica, certamente si può ancora oggi giocare il sistema che ci sta giocando. Sta però all’artista saper cambiare continuamente non solo il gioco ma anche le regole del gioco. Peraltro se è vero che le odierne strategie del sistema spingono sia al consumismo, sia all’austerità,

Visibile e invisibile, 1982. Intervento su pagina di rivista, cm 28x20.

Da dove cominciare?, 1998. Intervento su pagina di rivista, cm 27x20.


meta

questioni

Balla - Ricostruzione dell'universo futurista, collage su cartone, cm 50x70, 2012.

Marinetti - Zang, toumb, zang, toum. Collage su cartone, cm 70x50, 2012.

è anche vero che mentre la botte è più vuota, la moglie non è neppure brilla… CC: L’immagine della donna mercificata e della donna sublimata ha abitato e ancora abita molti tuoi interventi su pagine di riviste, si tratta di discorsi amorosi con colori da rotocalco, scritture vaganti nel territorio della seduzione, figure immerse in un clima di dissacrante e ben guarnito, appetitoso erotismo. Come vivi quest’inguaribile gioco pornoiconico condotto a piacere tra i fantasmi dell’inconscio senza fondo? LP: La donna mercificata, la donna sublimata… È innegabile l’inguaribile gioco erotico che tu rilevi nei miei lavori visivi e verbali, ma è un gioco particolare alimentato anche criticamente, come testimonia un mio libro “MaRchio & femmina, la donna inventata dalla pubblicità”, del 1978, dall’avversione che ho dell’immagine femminile costruita dai media del consumismo. In alcune mie poesie visive, in particolare nelle serie di “De-composizione” e di “Visibile-invisibile” , cerco con specifici interventi e abrasioni, di de-costruire quella deturpata costruzione, quella sfigurata figura. Mi sono accorto via via che cancellando dei particolari, occultando dei dettagli, un volto o un corpo di donna poteva acquisire un maggiore fascino, un accresciuto erotismo, una più intrigante bellezza, quella bellezza di cui è dotata qualche Afrodite greca a cui il tempo ha tolto un tratto anatomico. È la mancanza di un braccio o addirittura di un volto che può invogliare l’immaginazione dell’osservatore a completare e ri-creare una sua ideale fotomodella, una sua fantastica Venere.

CC: Come mai la Poesia Visiva (di cui sei riconosciuto maestro d’invenzione) non è entrata stabilmente nella coscienza storiografica degli ultimi 50 anni? Nel gioco delle tendenze, questa forma d’arte non sembra entrata durevolmente nei musei, entra ed esce dalla sfera dei riconoscimenti storici a seconda delle circostanze critiche e degli interessi dei curatori. In tal senso, sembra pagare le premesse irriverenti nei confronti della cultura di massa oppure è solo la mancanza di una critica manageriale a determinare la provvisorietà marginale che ancor oggi patisce? LP: Siccome sono un edonista e poco amante della povertà che ho sperimentato da figlio d’arte, di quando l’arte era veramente povera, posso rispondere che oggi mi sarebbe piaciuto entrare durevolmente nei grandi musei e godere di vasti e lucrosi riconoscimenti. Ciò comporta dei prezzi onerosi da pagare al sistema qui evocato, che io, e la poesia visiva in generale, non abbiamo voluto accettare. Sulla sporadica presenza e sulla cronica mancanza di una critica manageriale è il caso di sorvolare per carità di patria. Forse sarebbe andata meglio una richiesta d’asilo artistico in qualche altro paese del mondo. D’altronde la marginalità che tu evochi non è il peggiore degli svantaggi per la poesia visiva, visto che le etichette artistiche a essa coeve negli anni 60 e 70, sono tutte scadute, e la corrente verbovisiva è ancora in corsa nelle sue varie accezioni, varianti e riscoperte, per via del suo potenziale intermediale e sinestetico.


meta questioni ultimi cinquant’anni? Insomma, che effetto ti fa essere un “classico”, un artista da museificare, un modello di riferimento per gli studiosi, dopotutto un’icona interdisciplinare per le nuove generazioni di poeti visivi, artisti sinestetici, esploratori dei sensi e controsensi? LP: Un classico? Se è lecito arrossire in questa singolare intervista che non mi esibisce in posa sotto i fuochi delle telecamere, arrossisco. Ma diciamocela tutta: a chi non farebbe piacere essere un classico, essere famoso, essere celebre? Essendo costituzionalmente pigro - per rispondere con garbata ironia alla tua garbatamente ironica domanda - la mia aspirazione è quella di sottrarmi ai disturbi connessi a cotante qualifiche, accontentandomi magari di essere famoso alla macchia, celebre in incognito, classico fuori stanza… Un po’ di pazienza, però: torno subito per continuare il gioco.

CC: Poesia sperimentale, poesia pubblica, poesiaperformance, poesia da mangiare, poesia-spettacolo, poesia totale, poesia a più dimensioni, queste sono alcune varianti alle definizioni convenzionali di poesia visiva, concreta, tecnologica, scrittura visuale, eccetera. Come ti sembra oggi, a distanza di tempo, questo balletto terminologico che ha accompagnato la metamorfosi iconografica di questa complessa ricerca, così difficile da codificare, così proiettata oltre le regole del gusto? LP: Il balletto terminologico a cui ti riferisci deriva appunto dalle articolazioni e dalle varianti ora richiamate. La poesia visiva può essere intesa in una accezione che la rappresenta assai convenzionalmente come un collage ristretto di parole e immagini, ma già dagli anni 60 io parlavo di “collage largo” disponibile a un impiego e a una interazione di linguaggi attinti alle più svariate sfere sensoriali. Non per nulla all’accezione prima evocata e ristretta vanno aggiunte le manifestazioni di poesia spettacolare, di performance sonore e gustative - come quelle delle mie “Ostie” firmate e dei “Chewing poems” - di libri oggetto, di installazioni verbovisive, di cine-poesie, e così via. È per questo d’altronde che preferisco parlare di scrittura verbovisiva e sinestetica, fin dal titolo dei miei libri. CC: Con quanta dose di ironia continui a procedere nei territori della poesia visiva modificando gli strumenti verbali e gli indici iconici della tua arte totale, diventata indubbiamente un “classico” della sperimentazione verbo-visiva degli

Copertina del libro "Ricostruzione dell'universo futurista", Vallecchi, Firenze 2013.

CC: Per finire, una domanda banale ma attuale: che ne pensi dell’Expo? A questa si può giocosamente rispondere: boh! LP: Expo e di tutto un po’… In genere sono portato a contestare, in quanto macrosegni del sistema, le grandi esposizioni, i grandi musei, le grandi opere, i grandi premi, i grandi avvenimenti, le grandi adunate, i grandi appuntamenti, le grandi grandezzate..., ma dissento con risoluta e ragionevole rabbia contro quanti vi si oppongono con cieca e insensata violenza, agendo in realtà come vaccini e anticorpi atti a salvaguardare la salute del sistema.

Copertina del libro "Giochi d'arte, giochi di carte", Frullini Edizioni, 2014.


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