39 cartolina da venezia: viva arte viva ...e già l’italiano zoppica, senza poesia
Massimo Mazzone
cartolina da venezia: viva arte viva ...e già l’italiano zoppica, senza poesia
Video tratto da "iyEye of Benin - Comparing views on rituals" a cura di Paolo Rosso con Stephan Köhler e Georges Adéagbo, Serra dei Giardini. Foto N. Braga
Le Grandi Esposizioni Universali, le Mostre Internazionali come Venezia coi suoi Padiglioni Nazionali, il Circo, con la donna cannone e quella barbuta, Buffalo Bill e i pellerossa a cavallo, i Grandi Musei Nazionali, sono il frutto della mentalità Ottocentesca eurocentrica razzista e colonialista e da quasi due secoli partecipano a volte in sinergia altre volte in competizione tra loro, alla costruzione dell’estetica dello Stato Nazione, questo avviene in un’epoca dove l’arte potrebbe anche non avere più solo un passaporto. Quella stessa mentalità eurocentrica razzista e colonialista, oramai desueta, renderebbe oggi tali istituzioni estremamente inattuali, tuttavia gli enormi investimenti Pubblici e le sponsorizzazioni private tuttaltro che disinteressate, le alimentano e le hanno fatte arrivare fino a noi. La Biennale di Venezia, è forse l’unica istituzione che ha saputo rinnovarsi profondamente nel corso dei decenni e mantenere un carattere <culturale> che prevale in genere sul carattere retorico che l’ha generata. Tuttavia, capita che delle occasioni, finiscano per dimostrare chiaramente chi è che comanda davvero. Nella più piatta e allo stesso tempo confusionaria Biennale Arte degli ultimi decenni, in un trionfo di <valorizzazione> di vecchie cose e nuove starlet, in una atmosfera paranoica <Arsenico e vecchi Morlotti direbbe il grande Echaurren>, in un panorama desolante a metà tra mercatino del modernariato e fili colorati, in una atmosfera da luna park in dismissione tra neon, sculture giganti di cartapesta e polistirolo, tipo capannoni del Carnevale di Viareg-
gio fuori stagione, con scenografie d’altri tempi, incontriamo l’estetizzazione dell’esotico mescolato a troppi film a più non posso che a prescindere dal tema esposto si presentano in veste porno glamour, HD, schermi retroilluminati come panini in una insegna pubblicitaria. Quello che maggiormente colpisce, è che la mostra del 2017 potrebbe essere benissimo del 1987, del 1997, del 2007 o di qualsiasi altro anno. Il tempo storico, evidentemente per la curatrice NON ESISTE. Poco o niente ci racconta del nostro tempo, forse metà delle opere esposte sono di autori morti o ottugenari, il resto giovanotti di belle speranze accarezzati dal mercato. Solo alcuni Padiglioni nazionali del Latinoamerica, ci hanno mostrato invece una certa vitalità. Come nel caso del Brasile, menzione speciale, e dell’Uruguay con Mario Sagradini, Uruguay che sta esponendo da anni artisti ed opere di grande rigore formale e contenuti coraggiosi, o quello del Cile o ancora l’ottimo Padiglione Messico con Carlos Amorales sempre interessante. Delude il Padiglione Spagna, dove Colomer, pur esponendo lavori di eccezionale importanza, ci propone non le opere vere ma video e foto delle stesse, raggelando la visione dello spettatore. Stesso gelo nel Padiglione del Belgio come in quello dei Paesi Nordici. Discreto ed elegante il Padiglione Svizzero, interessante anche la Russia, mentre il Venezuela, mostra una proposta incerta come il futuro del Paese in un momento storico decisivo. Non dimentichiamo che si parla sempre di Arte di Stato, quindi in ogni caso, l’atmosfera ministeriale si respira pesantemente, come si respira fortemente l’ingombrante aura del mercato con una curatrice che se ne frega della ricerca e vive seguendo la legge secondo la quale sono il prezzo e la collocazione delle opere, che ne determinano il valore e la qualità e non il contrario. Arte di Stato al padiglione Germania, uomini e mezzi va bene, ma in definitiva per dire cosa? Forse solo Eliasson con il suo <circo retorico> come mai prima nel suo percorso, ci fa capire con le sue lampade che siamo nel 2017, in una realtà complessa di interferenze tra differenti attori sociali, epoca di migrazioni, agenzie, ONG Stato e privati, onnipresenti volontari, volontari della schiavitù volontaria. Ovvio si guarda sempre con simpatia a un vecchio lavoro di Kiki Smith, Bas Jan Ader, a Antoni Miralda o a Maria Lai, ma c’era veramente necessità di questo, nel 2017? Occasione persa dal mio punto di vista ma certamente utile ai mercati per voltare pagina dopo mostre impegnate (anche ipocritamente) a trattare temi politico-sociali. Ernesto Neto è stato molto criticato per l’esposi-
meta esposizioni
Massimo Mazzone
Mario Sagradini, La ley del embudo, legno, 2017. Foto Gianni Franchellucci
zione ottocentesca degli indigeni amazzonici come belve ammaestrate, forse una scelta azzardata, ma bisogna conoscere l’animo meticcio del Brasile per comprenderne in fondo tutte le ragioni, comunque si è avuta un tipo di partecipazione per quanto discutibile, diversa qualitativamente dalla pantomima del nigeriano Atiku, veramente patetica, con centinaia di fatine rosa argento con il cavallo bianco e le barchette a svolgere un rito del quale sanno nulla, come far fare l’Ikebana agli Inuit, in una via di Buenos Aires, e questo nonostante l’impegno delle performer tutte rigorosamente ovviamente volontarie. L’esotismo si vende, questo il risultato, lo sfruttamento del negro dello schiavo, del subalterno, l’esposizione pura e semplice di meccanismi di potere. Bello Achille Mauri alla Serra, che essendo una serra era più serra del Padiglione Danimarca, bello anche Marcos Avila Forero, all’Arsenale, ma ovvio, il contenitore può cambiare il segno alle opere. Un’ultima nota, triste, sul Padiglione italiano. Impressionante. Buio e impressionante, nero come il fascismo di ritorno che opprime il nostro Paese. Impressionante, sentire la gente uscire felice nel proclamarsi orgogliosi di essere italiani, bella roba. Giovani artisti entusiasti del loro decretato fallimento futuro visto che ogni attenzione sarà da oggi dedicata ai pochi eletti. In un Paese laico come il nostro, certo si sentiva la nostalgia di tanta
cristologia. Impressionante spiegamento di uomini e mezzi, per azzerare le generazioni future, perfino l’ottimo Andreatta Calò, ispirato a Per Barklay, ricordava le illusioni di David Copperfield più che un’opera d’arte, ci si aspettava almeno di veder apparire o sparire Nessie o un jumbo. Per fortuna a Venezia c’è tanto altro da vedere.
Olafur Eliasson, Padiglione centrale ai Giardini. Foto N. Braga