37 invertire il ritmo riflessioni sull'arte di ernesto neto
Silvia Ferrari Lilienau
invertire il ritmo riflessioni sull'arte di ernesto neto
Ernesto Neto, Aru Kuxipa, Sacred Secret. Vienna, TBA21, 2015.
La mostra dell’artista brasiliano Ernesto Neto alla Thyssen-Bornemisza di Vienna, Aru Kuxipa, Sacred Secret, può offrirsi come spunto – anche – per riflessioni sulla percezione del tempo nell’arte contemporanea. Ernesto Neto ripropone le installazioni olfattive per cui è ormai conosciuto, dunque in due sale si esperiscono profumi di spezie, prima associati a morbidezze organiche che scendono dall’alto, poi a una tenda sotto cui si può sostare seduti. Nell’ultimo ambiente ci si può persino stendere in amache, e sono consultabili libri sul popolo amazzonico degli Huni Kuin, famoso per la sensibilità artistica e la pratica dello sciamanismo. Agli Huni Kuin qui si ispira, infatti, l’artista, mentre in contemporanea installa al Belvedere O tempo lento do corpo che é pele, costruendo in materiale rosa gommoso una sorta di isolotto con protuberanze, che – di nuovo – emana i profumi di cumino, pepe, curcuma e chiodi di garofano. Se i sensi sono incalzati dalle spezie, sia nella sede espositiva dell’Augarten sia nella ben più solenne residenza del Principe Eugenio di Savoia è però l’intuizione del tempo a essere modificata. Non tanto il tempo della contemplazione, che l’arte contemporanea prevede sempre meno: il prevalere ultimo delle installazioni su lavori singoli ha reso infatti la fruizione dell’opera più dinamica, quand’anche non comporti esplicita interattività. È, piuttosto, il rallentamento utile al corpo per rispondere a una richiesta di coinvolgimento plurisensoriale. Diventa allora opportuno fermarsi e tacere, non per tutti meditare è consequenziale, ma lo è sospendere altre distrazioni. Noi apparteniamo, in Occidente almeno, a contesti sociali prevalentemente ipercinetici. La qualità del pensiero non sembra essersi adattata all’accelera-
zione, ma senza dubbio ci muoviamo rapidi in un mosaico di frammentazioni, con il supporto ormai irrinunciabile della tecnologia da banco. L’arte di Ernesto Neto trattiene, dunque impone una decelerazione: placa temporaneamente. Sembra quasi la risposta al ritmo nevrotico delle umane cose, e infatti a Vienna si allea con l’atemporalità dei guaritori dell’Amazzonia. Riandando a un altro intervento recente alla TBA21 di Vienna, Leben di Carsten Höller, di nuovo la manipolazione del tempo sembra imporsi come fuoco delle azioni messe in scena: tra le altre, trascorrere una notte in un letto su piattaforma sopraelevata circolare (Aufzugbett), con la possibilità di contemplare l’esterno attraverso i vetri, o immergersi in una vasca d’acqua con una concentrazione di sali pari a quella del Mar Morto (High Psycho Tank), rimanendo dunque a galleggiare in silenzio in uno spazio ristretto, capace di contenere non più di due corpi per volta. Perché sempre più spesso capita che i visitatori di una mostra siano richiesti di azioni, di cui le opere sono strumentali, e senza le quali si svuoterebbero di senso? Non come in uno happening, diretti dall’artista ideatore, ma lasciati soli in un ambiente che li provoca. In un quotidiano velocissimo, per qualche minuto si finge che non sia così. Fuori dall’opera, si riprende il passo di prima, l’opera che ha rallentato il tempo non determinerà un cambiamento di rotta nelle consuetudini private e sociali. Ma intanto, contraddicendo la norma, l’operazione artistica avrà battuto sul tasto dolente: l’arte riflette sulla lentezza, perché l’accelerazione centrifuga tende a inibire la presa di coscienza esperienziale. Interviene cioè a imporre sospensioni che tendiamo a non concederci più, e però lenitive dello spirito – o del pensiero, se si preferisce – , non del corpo: sulle amache di Ernesto Neto non sono infatti le stanche membra a riposarsi, sono le eventuali tensioni emotive a dover cedere. L’esperienza artistica è filtrata dal corpo ma obbliga a oltrepassarne i limiti, imponendo di relazionarsi almeno al carattere dello spazio che si occupa. Soprattutto, a prendersi il tempo necessario per farlo. L’arte diventa qui compensatoria, e nell’esserlo rileva una lacuna, una mancanza di autonomia da parte degli spettatori, dei quali non si contesta il gusto, ma l’incapacità di personalizzare la scansione del tempo. Non a caso proprio il giorno del solstizio d’estate di quest’anno la Triennale di Milano ha riproposto la performance Morning Piece di Yoko Ono, che si tenne per la prima volta a Tokyo nel 1964, e che consisteva nell’attendere il sorgere del nuovo giorno. In tutto ciò colpisce la volontà che gli artisti hanno più volte dimostrato, di contraddire il tempo socioeconomico loro contemporaneo: nell’era della co-
meta osservatorio
Silvia Ferrari Lilienau
Carsten Höller, Leben. Vienna, TBA21, 2014-2015.
municazione globale rivedendone il montaggio alla moviola, così come all’inizio del Novecento inneggiando invece alla velocità futurista contro la diffusa quiete di un’Italia ancora rurale. Nei casi più recenti, l’arte si riconosce il diritto di spostare le lancette avanti o indietro, per suggerire un’ipotesi di equilibrio che alla vita reale manca. Non interviene più, cioè, per interposta opera, ma agisce direttamente sull’orientamento spazio-temporale dello spettatore, trasformando in esperienza estetica l’alterazione del suo orologio mentale.
Utile forse, a tal proposito, ricordare che alla Biennale di Venezia del 2011 il Leone d’Oro per il miglior artista venne assegnato a Christian Marclay per il film di ventiquattro ore The Clock, giocato sul sincronismo tra tempo reale e tempo fittizio nelle sequenze cinematografiche assemblate: nonostante in quel caso la somministrazione del tempo fosse quasi ansiogena, paradossalmente, se uno spettatore avesse resistito, sarebbe stato assorbito da una creazione artistica – e dunque sottratto al suo tempo abituale – per un giorno intero.
Christian Marclay, The Clock. Venezia, Biennale, 2011. (foto by Alex Watkins-flickr.com)