39 viva arte viva ovvero la comparsata dell’arte
Matteo Binci
viva arte viva ovvero la comparsata dell’arte Damien Hirst, Skull of a Unicorn, Oro e argento, 2017.
Per comparsata si intende un’apparizione improvvisa e di breve durata, talvolta motivata dal desiderio di farsi notare. E così, come se dovesse apparire in una comparsata, viene esposta e messa in scena l’arte nei nove Trans-padiglioni curati da Christine Macel. Ma sia chiaro, ben venga comunque la com-
parsata perché al di fuori del tempo di oggi in Laguna, tempo grigio e funesto che minaccia un grande film su un’unica grande star: Damien Hirst a Venezia. E del film spaventano soprattuto i titoli di coda con i denari e i ruoli non scritti, ma più lunghi dell’intera visione. E ben venga anche il coraggio per tutti i 103 artisti presenti per la prima volta in Biennale, nonché quello delle nomine e dell’operato dei membri della Giuria Internazionale. Analizzando la mostra, uno dei primi intenti era quello di mostrare come “più che mai, il ruolo, la voce e la responsabilità dell’artista appaiono dunque cruciali nell’insieme dei dibattiti contemporanei. È grazie alle individualità che si disegna il mondo di domani, un mondo dai contorni incerti, di cui gli artisti meglio degli altri intuiscono la direzione.” Ma se ci vogliamo affidare all’intuito dell’artista e alla sua voce, se vogliamo esaltarne il ruolo sottolineandone le responsabilità, dobbiamo anche avere il coraggio di abbandonarci alle sue forze, posizionandoci nel suo spazio che è lo spazio della vita. E allora viene da chiedersi se questo luogo è indovinabile in un libro sigillato al di sotto di una teca di vetro, in una tenda riempita di indigeni a seconda delle esigenze delle riprese (Ernesto Neto) o infine se questo luogo può ridursi da spazio del vivere in comune a spazio e basta (Maria Lai). Perché altrimenti è davvero difficile cogliere questo primo intento in una Biennale che finisce per essere di troppi colori e di poche domande. Infatti, partendo dalle (in)adeguate possibilità che si volevano consegnare alle energie delle singole opere, si finisce presto in una confusione generazionale e in un sormontarsi di pratiche artistiche e contesti differenti nel quale i lavori si silenziano a vicenda. Si presti però attenzione: perché è qui che è in gioco un secondo proposito di questa Biennale, ovvero quello di instaurare un dialogo e un rapporto tra l’artista, la sua pratica e l’osservatore. Un rapporto che deve essere all’altezza del presente e delle sue complessità se la Biennale vuole porsi come un avamposto sull’arte e sul mondo. E quanti dei 120 artisti invitati dalla curatrice lo sono? Bisogna sicuramente guardare all’operare di Shimabuku che in Oldest and Newest Tools of Human Beings sottolinea, in una silenziosa vibrazione, dei comuni denominatori tra pietre preistoriche e IPhone odierni, mentre in Sharpening a Macbook Air fa emergere, in una tagliente ironia, le possibilità inaspettate di un Mac, creando sorrisi preoccupati. Anche la volontà del sistema espositivo di essere fluido e privo di demarcazioni tra le specifiche sezioni, non agevola le opere e si rischia così di poter godere appieno solo dei video nei black box. A questo proposito la videoartista Guan Xiao nel suo video a tre canali David pone
meta esposizioni
Matteo Binci
Nevin Aladag, Traces, Videoinstallazione HD a tre canali, 6,05’’.
interrogativi sui modi di vedere le cose, in una cultura iper-materializzata e amnesica, mentre Nevin Aladag con Traces si interroga su come l’immagine e il suono possano sopraggiungere simultaneamente per raccontare una storia in un contesto dove gli strumenti sono liberati dalla presenza dell’uomo e le più disparate situazioni urbane diventano i suonatori di un’orchestra solitaria. Per quanto riguarda i padiglioni nazionali, Xavier Veilhan nel Padiglione Francia si ispira al Merzbau di Kurt Schwitters per creare uno studio di registrazione dentro il quale per 7 mesi sono invitati a suonare e registrare musicisti da tutto il mondo per portare in vita questo studio/scultura. Anne Imhof al Padiglione Germania si aggira in uno spazio dove i confini di vetro svelano ogni cosa, con possibilità di trasparenza e controllo. Una performance dove i corpi sono schiacciati e resi disponibili ad interfe-
renze e relazioni con oggetti e altri corpi. Mentre il Padiglione Grecia con il suo Laboratorio dei dilemmi si rivolge alle angosce e alla confusione degli individui invitati al dilemma tra il salvare lo straniero e mantenere la sicurezza del nativo. Sintetizzando, se si vuole cogliere una Viva Arte Viva, non basta moltiplicare e sparpagliare opere, anche se con il buon intento di celebrare l’esistenza stessa dell’arte e degli artisti, ma è necessario anche modificare radicalmente strutture e apparati. E questo sì che avrebbe potuto essere un “atto di resistenza, di liberazione e di generosità” nei confronti dell’arte e degli artisti. Perché, se come è stato scritto, “L’arte è l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici” non può sicuramente diventare una serra con piantine disordinate, illuminate e abbeverate a comando.
Xavier Veilhan, Padiglione Francia, 57. Esposizione internazionale d’Arte, Venezia 2017.