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welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno VI, Numero 8, Dicembre
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Gli effetti del federalismo sulle politiche sociali
Roma, 24 novembre 2010 Lo scorso 24 novembre, presso la sede della Provincia di Roma, si è tenuto il convegno “Gli effetti del federalismo sulle politiche sociali” organizzato dall’Associazione Nuovo Welfare per conto della Scuola del Sociale della Provincia di Roma. In questo numero monografico di WOL riportiamo gli interventi dei relatori che vi hanno preso parte. “Apertura dei lavori” – Giulio MARCON – pag. 2 “Saluto delle istituzioni” – Claudio CECCHINI – pag. 2 “Il punto di vista regionale” – Anna Maria CANDELA – pag. 7 “Definizione dei LEP, modelli di finanziamento, costi e fabbisogni standard” – Andrea TARDIOLA - pag. 10 “Bisogni informativi nel sociale e monitoraggio dei servizi e degli interventi” – Margherita BRUNETTI – pag. 13 “Il punto di vista locale” – Franco PESARESI – pag. 17 “Federalismo: un’idea alla prova dei fatti” – Nereo ZAMARO – pag. 19 “Moderazione e conclusione dei lavori” – Emiliano MONTEVERDE DIBATTITO Stefano DANERI – pag. 23 Gianni PALUMBO – pag. 24 Raffaele TOMBA – pag. 24 Eugenio DE CRESCENZO – pag. 25
Associazione Nuovo Welfare
Apertura dei lavori
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Giulio Marcon
Presidente Comitato Scientifico Scuola del Sociale
Per prima cosa mi presento: sono Giulio Marcon, il Presidente del Comitato Scientifico della Scuola del Sociale, che ha organizzato questo evento. Vorrei aprire la nostra mattinata per spiegare brevemente i motivi di questo incontro. La Scuola del Sociale è una scuola di formazione professionale per gli operatori del sociale, sia del terzo settore sia della pubblica amministrazione, che lavorano sui temi del welfare, delle politiche sociali, e più in generale dell’intervento sociale. Organizziamo, infatti, anche incontri e approfondimenti sull’altra economia o il lavoro sociale in senso lato. Promuoviamo poi appuntamenti come questo con lo scopo di sviscerare alcuni argomenti di particolare interesse. In questo caso si tratta di un evento specificatamente legato al mondo della pubblica amministrazione, sia per chi vi lavora con incarichi politici, come consiglieri comunali e assessori, sia per chi, nel terzo settore, è impegnato quotidianamente nel rapporto con la P.A. per portare avanti le proprie attività e i propri progetti. Perché questo tema: federalismo e politiche sociali? Perché sono due argomenti di grande attualità e interesse per tutti noi. È in corso da tempo una discussione parlamentare e politica sulle implicazioni dell’introduzione di principi di carattere federalista nel nostro ordinamento, prima costituzionale, poi legislativo e infine amministrativo. Nel 2001 la riforma del Titolo V ha inserito nella Costituzione principi che vanno in quella direzione, e ancora prima, con altri provvedimenti, era stato avviato un processo volto a introdurre non solo un maggiore decentramento, ma anche una maggiore presenza di politiche, ordinamenti e norme ispirati al federalismo. Oggi c’è una discussione molto impegnativa sulla riforma federalista in atto, e noi l’abbiamo voluta associare a quello che succederà nelle politiche sociali, che è il tema di cui la Scuola del Sociale si occupa; è un argomento molto rilevante perché riguarda non solo l’efficacia e l’efficienza delle politiche sociali, ma anche la loro universalità, cioè la possibilità di trovare standard simili e politiche sociali che rispondano ai diritti dei cittadini non solo a Reggio Emilia o a Reggio Calabria, ma anche a Tor Bella Monaca o a Genzano. Quindi siamo qui per parlarne e per approfondire; è un dibattito senza documenti preparatori né materiale di supporto: l’abbiamo fatto appositamente per permettere un confronto aperto, anche tra punti di vista diversi, che ci consenta di capire cosa accadrà nei prossimi mesi. L’iniziativa è organizzata con la collaborazione tecnica dell’Associazione Nuovo Welfare, che ha curato la preparazione di questo evento. Prima di iniziare l’incontro devo aggiungere che l’Assessore Massimiliano Smeriglio non può essere presente oggi (si scusa e ci manda i suoi saluti) per un impegno improvviso legato alla sua attività istituzionale. È presente però l’Assessore alle Politiche Sociali, Claudio Cecchini, a cui cedo volentieri la parola.
Saluto delle istituzioni Claudio Cecchini
Assessore alle Politiche Sociali e per la Famiglia e ai Rapporti Istituzionali della Provincia di Roma
Farò solo una brevissima riflessione introduttiva perché credo che siamo tutti molto interessati ad ascoltare gli esperti presenti oggi. La numerosità di coloro che hanno aderito all’invito è la dimostrazione del successo dell’iniziativa, del fatto che chi l’ha pensata abbia avuto un’intuizione felice, e che esista una diffusa esigenza di approfondimento su un tema così importante. Credo che siamo tutti consapevoli, da una parte, degli elementi che ci possono guidare nella riflessione, e, dall’altra, della difficoltà derivante dal fatto che ragioniamo su un processo ancora in divenire. Nel nostro Paese non abbiamo ancora completato l’adozione di un panorama legislativo organico sul federalismo, che ci aiuti anche a capirne le ricadute, ad esempio, sulle politiche sociali. Perciò ragioniamo del processo di riforma e dei suoi possibili effetti sapendo che è pienamente in itinere. Dal mio punto di vita questo processo trova origine nel 2001, quando ne sono state create le premesse con la riforma del Titolo V della Costituzione; semplificando al massimo, potremmo di-
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re che abbiamo sostituito a un centralismo statale un neocentralismo regionale. Grazie al massiccio trasferimento di competenze e di titolarità previsto dalla riforma dell’art. 119, oggi le regioni hanno una fortissima centralità nel sistema territoriale nazionale. Correlata alla riforma delle competenze delle regioni è quella degli enti locali: comuni, province, ed eventualmente “città metropolitane”, per le aree in cui è prevista la loro istituzione. La legge 3/01 prevedeva già l’autonomia finanziaria e di bilancio, secondo cui le regioni avrebbero dovuto individuare il loro effettivo fabbisogno per il funzionamento dei servizi erogati e ogni ente avrebbe dovuto trarre le proprie entrate dalle riscossioni dirette. In seguito i provvedimenti attuativi non sono stati adottati, e quell’inizio di percorso riformatore ha conosciuto un rallentamento. Di fatto, è nel solco di quella riforma che si situa il processo in corso, il quale risulta incardinato su due binari privilegiati, frutto dell’impronta e delle decisioni maturate dall’attuale Governo: da una parte la riforma del federalismo fiscale e dall’altra la riforma della legge sulle autonomie locali. Quest’ultima, la cosiddetta Carta delle autonomie locali, tuttora in esame al Parlamento, dovrebbe aiutarci a capire meglio chi fa cosa; dovrebbe definire una nuova, diversa redistribuzione della titolarità delle funzioni, in modo che si chiarisca cosa spetta alle regioni, cosa ai comuni, cosa alle province, perché tuttora esistono delle sovrapposizioni di competenze, anche in tema di politiche sociali. Il binario del federalismo fiscale possiede almeno un punto di riferimento nella prima legge adottata l’anno scorso, il d.lgs. 42/09. I suoi effetti sono tuttavia legati a una serie di successivi decreti ancora in itinere, tant’è che esso stesso dichiara che ci vorranno almeno cinque anni per portare a regime il profondo processo di riforma del federalismo fiscale. Esiste poi un’altra legge molto importante che finalmente ha distinto per gli enti locali, sia comuni che province, le funzioni fondamentali dalle funzioni accessorie, e ha stabilito che nelle strutture del bilancio l’80% deve essere destinato alle funzioni fondamentali e al massimo il 20% a quelle non fondamentali. Noi siamo d’accordo sull’impianto del federalismo fiscale, perché oggi gli enti locali dispongono o di trasferimenti statali o di entrate proprie. Ad esempio, le province italiane si trovano a vivere una situazione assurda perché la loro principale fonte di finanziamento tramite riscossione diretta è l’imposta di trascrizione sulle automobili: ogni volta che c’è l’immatricolazione di una nuova auto o la compravendita di un’auto usata, il costo della tassa di immatricolazione o di passaggio di proprietà va alle province. Perciò, da una parte, si firma il Protocollo di Kyoto e si promuove il discorso della green economy e della tutela ambientale, mentre dall’altra si spera che la gente compri sempre più automobili, producendo inquinamento, perché dal mercato dell’auto discende la principale fonte di finanziamento delle province. Negli ultimi due anni c’è stato un crollo nelle entrate per effetto della crisi economica, che ha modificato i comportamenti d’acquisto e ridotto i consumi. Quindi è importante superare la dipendenza delle province da finanziamenti legati o all’andamento del mercato dell’auto o ai trasferimenti statali. Questi ultimi finora si sono basati sul criterio della spesa storica e, siccome nel sistema vigente si usa l’anno 2006, i trasferimenti attuali vengono conferiti in base a quanto è stato speso nel 2006. Fatti salvi, naturalmente, i tagli decisi dalla legge finanziaria. Sto semplificando, ma non ho tempo per entrare nel dettaglio e preferisco arrivare velocemente all’argomento delle politiche sociali che ci compete di più. In questo momento, con uno dei decreti applicativi del federalismo fiscale attualmente in discussione, il Parlamento sta affrontando il delicato e difficile compito di stabilire in maniera definitiva quale sia il costo standard delle prestazioni che le regioni, i comuni e le province devono erogare in base ai compiti affidati, superando così la remunerazione basata sulla serie storica di trasferimenti. Faccio un esempio a caso sulla gestione di un asilo nido, anche se non è una competenza delle province. Qual è il costo standard di corretto ed efficace funzionamento di un asilo nido nel rispetto della legge? Supponiamo che il decreto stabilisca che sia di dieci euro. L’ente competente dovrà allora disporre di dieci euro. Ovviamente questa possibilità dipende anche da una riforma del sistema delle entrate, perché sarà necessario garantire l’autonoma tra ciò che si spende per le funzioni affidate e ciò che si ricava dal sistema delle entrate previsto dalla riforma. Questo discorso è ancora in itinere; è in fase abbastanza avanzata ma non ha ancora avuto il via libera della Conferenza Stato Regioni, dove il lavoro del Governo e delle Commissioni parlamentari non è condiviso dalle rappresentanze delle autonomie locali. Mentre il binario del federalismo fiscale ha già un punto di riferimento legislativo in essere e nei decreti in corso di definizione, più arretrato è il binario della riforma della Carta delle autonomie
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locali, perché è ancora in esame al Parlamento. Inoltre, qualora ci fosse una interruzione anticipata della legislatura e l’insediamento di un nuovo Parlamento, si dovrebbe ricominciare da capo. Dopo il decreto legislativo madre 42/09, finora sono stati approvati due decreti attuativi, quello sulle proprietà demaniali e quello su Roma Capitale. Quest’ultimo si è limitato, per adesso, a cambiare la denominazione dell’ente Comune di Roma in “Roma Capitale”, quella del Consiglio comunale in “Assemblea capitolina”, e a ridurre il numero dei consiglieri al fine di risparmiare, anche se è stata presentata una richiesta unanime e bipartisan del Consiglio comunale per mantenere il numero attuale. Il d.lgs 42/09 prevede anche la riduzione dell’organico della Provincia di Roma, che è la più popolosa d’Italia: dalle prossime elezioni, la cui scadenza naturale è nel 2013, il numero di consiglieri dovrebbe scendere dagli attuali 45 a 36. Ma più importante è il secondo decreto legislativo su Roma Capitale, tuttora in discussione e che dovrebbe trovare la luce in primavera se gli eventi nazionali non causeranno una battuta d’arresto, perché è quello che dovrebbe stabilire in maniera chiara le nuove, ulteriori competenze speciali del Comune di Roma. Quest’ultimo possiede adesso competenze uguali a tutti i comuni d’Italia, mentre il decreto dovrebbe introdurre delle funzioni aggiuntive e un grado di autonomia maggiore per la Capitale, riconoscendo la peculiarità della città di Roma. Come possiamo immaginare ciò ha prodotto un’impasse, perché dare maggiore potere a un ente comporta la sottrazione di poteri a qualcun altro. In questo momento, ad esempio, si stanno verificando attriti in alcuni Ministeri che non condividono il decreto, e per saperlo basta leggere attentamente i giornali. Prendiamo il caso del Ministero per i Beni culturali, che coordina la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, il quale rifiuta l’idea che gli vengano sottratte le proprie prerogative in tema di vincoli, o controllo dei vincoli, sulle aree archeologiche o poste sotto tutela. Al contrario, il Comune di Roma, legittimamente, dal suo punto di vista considera questi passaggi come legacci, impedimenti e perdite di tempo, e vorrebbe invece avere il massimo dell’autonomia. Per questo, il cammino sulle competenze speciali per Roma Capitale è difficile, basti pensare alla variante di piano regolatore, agli strumenti urbanistici e anche al bilanciamento dei poteri con le altre cinque province e la regione. L’altro aspetto importante del primo decreto legislativo su Roma Capitale, che secondo me avrà una ricaduta sulle politiche sociali, è la riduzione dei municipi dagli attuali 19 a 15. La nuova delimitazione territoriale dei 15 municipi, già decisi dal decreto, avverrà dopo l’adozione del secondo decreto legislativo in primavera, che darà poteri e funzioni nuove a Roma Capitale. A quel punto, entro sei mesi il Comune di Roma dovrà adottare la nuova Carta fondamentale comunale e, in quello Statuto, dovrà decidere la nuova perimetrazione della città, e quindi i nuovi territori dei 15 municipi. Noi sosteniamo, in particolare riguardo al tema delle politiche sociali, che quella potrà e dovrà essere un’occasione importante per conferire il massimo grado possibile di autonomia ai municipi. Non dico di spingerci fino a trasformarli in “comuni metropolitani”, come sostiene qualcuno, anche se su questo argomento non c’è accordo né con l’attuale governo capitolino né con molte forze politiche presenti in regione. Però io, vivendo più in provincia che in città, vedo comuni di 10.000, 8.000, 7.000 abitanti che sono nella pienezza delle loro capacità. Nonostante i numerosi problemi degli enti locali, i comuni hanno autonomia finanziaria, organizzativa, di funzionamento. Cosa che, invece, non accade per i municipi romani che risultano anche molto più popolosi, come nel caso di quello in cui risiedo, il sesto, che conta quasi 200.000 abitanti. Il sistema amministrativo viene governato ancora con il regolamento sul decentramento che risale alla prima giunta Rutelli, perché né durante il secondo mandato Rutelli né durante quello Veltroni o Alemanno sono stati adottati strumenti aggiuntivi per decentrare. Secondo me, è necessario un governo cittadino, un ente sovraordinato per la gestione della vasta area metropolitana, ma a Roma il vero ente di prossimità sono i municipi, che, al pari dei comuni in provincia, erogano i principali servizi quotidiani, anche nell’ambito delle politiche sociali. Tuttavia, oggi, il 90% delle risorse trasferite ai municipi è vincolato, l’utilizzo delle somme è già destinato. Invece essi dovrebbero ricevere un “fondo per le politiche sociali” e poi scegliere se sul loro territorio è più importante privilegiare gli anziani o i minori, le persone con disabilità o altri. Ancora, per fare un altro esempio, è la dimensione centrale a decidere se spostare il personale, e i municipi non hanno autonomia organizzativa neanche nella distribuzione dei dipendenti tra un ufficio e l’altro. Eppure, i Presidenti dei municipi sono stati chiamati addirittura minisindaci, visto che sono frutto di un’investitura popolare
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diretta, creando un’altissima aspettativa sia nei confronti di chi vota, sia nei confronti di chi si sente investito del proprio ruolo con suffragio popolare, in una delle poche espressioni rimaste di voto diretto con le preferenze. Ci lamentiamo tanto di avere un Parlamento di nominati, però chi è scelto direttamente dalla popolazione è costretto spesso a fare solo il “passacarte” o il “passasoldi” di un impianto deciso a livello centrale. Questa non è una vera espressione di autonomia. Dunque, in occasione della riforma dei municipi, oltre a definire il nuovo assetto territoriale bisognerebbe conferire loro il massimo grado possibile di autonomia per tutte le politiche, e in particolare per le politiche sociali, perché sono i municipi i veri enti di prossimità sul territorio cittadino, così come lo sono i 120 comuni nella provincia. L’ultima osservazione riguarda in maniera specifica il tema delle politiche sociali. Oggi esistono due grandi problemi, in qualche modo innervati nel processo di riforma del federalismo: uno è quello legislativo e l’altro è quello delle risorse economiche. Sul piano legislativo esiste una duplice carenza. Dieci anni fa, l’8 novembre del 2000, fu approvata la Legge Turco, la legge quadro nazionale per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, che tutti gli addetti ai lavori hanno salutato con grande favore. La legge 328 colmava un vuoto legislativo di 110 anni, perché lo Stato gestiva le politiche sociali ancora con la Legge Crispi del 1890; suscitò un enorme entusiasmo per la novità culturale e amministrativa, per il passaggio a un sistema di reti e servizi sul territorio, per i meccanismi della condivisione e della costruzione partecipata, per la creazione dei Piani di Zona, e per tutte le sue altre innovazioni. Ma è stata approvata nel novembre del 2000 in una visione centralizzata delle politiche sociali, mentre sei mesi dopo lo stesso Parlamento, sotto lo stesso Governo Prodi, con la riforma del Titolo V e l’esaltazione della dimensione regionale ha creato un assetto istituzionale in profonda contraddizione con l’impianto della legge nazionale. Per esempio, la legge 328 prevedeva l’elaborazione del Piano Nazionale degli interventi e servizi sociali, ma questo (approvato nella sua prima e unica edizione 2001-2003) non è mai stato attuato perché, sei mesi dopo, la riforma del Titolo V ha assegnato alle regioni la competenza esclusiva in materia di politiche sociale. La Legge Turco era una legge profondamente innovatrice, portatrice di grandi fermenti, ma ha trovato difficoltà di applicazione perché nata nell’alveo di un impianto istituzionale che poco dopo è stato smontato dalla riforma del Titolo V. La legge prevedeva una serie di decreti successivi che non sono mai stati adottati da nessuno dei Governi che si sono succeduti nei dieci anni successivi. Quindi è evidente che, ferma restando la sua fortissima validità, avrebbe bisogno di un restyling. Ma dal mio punto di vista c’è una carenza legislativa ancora più grave. La legge quadro, con l’esaltazione delle dimensioni regionali, necessita di leggi regionali forti, perché è con esse che si determinano i giochi, mentre il Lazio è una delle poche regioni che ancora non ha una propria legge regionale. Quella vigente è del 1996, la n. 38, antecedente alla legge quadro del 2000. In qualche modo essa conteneva degli elementi anticipatori di certi dinamismi, ma ormai è completamente superata sia dal fatto che quattro anni dopo è entrata in vigore una nuova legge quadro nazionale, sia perché c’è stato un cambiamento nel panorama generale. Questa situazione è in parte responsabilità della legislatura precedente, nonostante l’eccezionale lavoro fatto da Augusto Battaglia e da altri consiglieri regionali che hanno concepito una legge sul sociale frutto di un processo di concertazione durato più di un anno; sfortunatamente approdata in Consiglio troppo tardi, a due mesi dalla fine anticipata della legislatura, quando ancora nessuno prevedeva lo tsunami che sarebbe arrivato. La legge proposta era significativa anche per il metodo con cui era stata costruita: ti puoi chiudere in una stanza tra i cosiddetti esperti e poi depositare il disegno di legge, o invece spendere, come fecero loro, un anno e mezzo sul territorio, cercando di ascoltare tutti, di recepire le proposte di tutti, per poi partorire un disegno unificato e avere addirittura la soddisfazione di licenziarlo all’unanimità all’interno della Commissione consiliare competente. Il disegno di legge era stato portato in aula ed era in discussione, si era arrivati al secondo articolo, quando la fine anticipata della legislatura ha azzerato il lavoro. Adesso speriamo di poter ricominciare da capo; il Lazio necessita assolutamente di una legge il prima possibile, perché per il momento stiamo governando il sociale con una serie di delibere di giunta, che hanno il valore e l’efficacia di tutte le delibere, ma non costituiscono una legge organica. L’ultimo problema, drammatico, è quello economico. Quando si fa una riforma, si individuano nuove modalità con cui reperire le risorse economiche necessarie alle funzioni che vengono affi-
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date, ma bisogna ricordare che si tratta di un treno ancora in corsa. Perciò si fanno le riforme continuando a tenere in piedi l’impianto attuale. Oggi noi ragioniamo di federalismo e dei suoi effetti, di riforme legislative, di municipi, della legge regionale, ma il problema è che senza soldi il treno si ferma. Vi invito a recuperare il Corriere della Sera dello scorso 19 novembre: nelle pagine nazionali (esattamente a pag. 25) c’è una tabella. La fonte è il Ministero dell’Economia, perché in questo momento, in Italia, le politiche sociali non le fa il Ministero del Welfare, ma il Ministero dell’Economia, che sta governando tutte le politiche con l’ottica della quadratura dei conti. Se la logica della politica attuale è solo questa, allora i politici non servono più e si possono sostituire assessori e ministri con un buon amministratore di condomino, con il compito di far tornare i conti, se questo è l’unico obiettivo. La tabella presenta la descrizione analitica dei dieci fondi nazionali che alimentano il sistema delle regioni: c’è il Fondo nazionale per le politiche sociali, il Fondo per l’inclusione degli immigrati, il Fondo per la famiglia, il Fondo per la non autosufficienza, e così via. Si passa dal valore del 2008 di 2.520 milioni di euro, ai 349 milioni del 2011, con un taglio in due anni del 76%. In questo momento sul Fondo nazionale per l’inclusione degli immigrati c’è zero e sul Fondo nazionale per la non autosufficienza c’è zero. Ma allora di cosa stiamo parlando? Concludo con un altro elemento di sconforto: dieci giorni fa c’è stato un incontro tra l’Assessore regionale alle politiche sociali, Aldo Forte, e noi cinque assessori delle province laziali. Ci ha fatto vedere un’analoga tabella con i fondi regionali, presentata dal Ministero dell’Economia alle regioni. Con i trasferimenti del Fondo per le politiche sociali oggi le regioni alimentano l’80% del sistema territoriale, comprese le risorse assegnate ai distretti, ai comuni, alle province, e così via. Nel 2009 il Fondo contava per il Lazio 84 milioni di euro, che già la regione aveva dovuto integrare con fondi propri. Passerà a 77 milioni nel 2010, a 44 milioni il prossimo anno e a 12 milioni nel 2012. Dodici milioni dagli ottantaquattro dello scorso anno! Che senso ha parlare di leggi e di riforme, quando avremo appena 12 milioni di euro e già 84 erano giudicati insufficienti? Facciamo prima, regione e province, a chiudere tutto e ad andarci a incatenare sotto Palazzo Chigi! Ripeto, che senso ha parlare di leggi, di riforme, di progetti, di territorio? Senza soldi è solo poesia: finché il treno va avanti teniamo aperti i servizi e intanto analizziamo gli sprechi e valutiamo le rinunce. Ma quando si passa da 84 a 12 milioni di euro non è più un problema di eliminare gli sprechi o di fare delle rinunce. I numeri non sono una questione politica: i numeri sono numeri, e con dodici milioni di euro si fa solo poesia. Ciò vale anche per i seminari come questo, perché qui ragioniamo, ma fuori, con questi numeri, siamo costretti a chiudere i servizi che danno risposte essenziali ai bisogni delle persone. Speriamo in tempi migliori! Emiliano Monteverde
Presidente Associazione Nuovo Welfare
Grazie all’Assessore Cecchini, che ci ha fornito un indispensabile quadro generale e territoriale sull’argomento che stiamo trattando. Vorrei riprendere subito il lavoro di tipo seminariale e formativo affrontando punto per punto gli argomenti previsti dal programma, ma prima vorrei riagganciarmi velocemente a quello che ha detto l’assessore: è vero che in un incontro come questo si rischia di fare della poesia mentre nel frattempo succede la vita reale; però è anche vero che mentre si lavora sulla vita reale c’è il rischio di ritrovarsi un bel giorno in un’altra realtà senza rendersene conto! Quindi è necessario, anche se problematico, che i due aspetti procedano parallelamente. Prima di lasciare la parola ai relatori, vorrei presentare rapidamente due aspetti, e fare una proposta. Per prima cosa, vorrei sottolineare che oggi siamo qui per fare il punto sulla situazione e dar vita a un momento di conoscenza e confronto tra i punti di vista delle regioni, degli enti locali, degli studiosi. L’idea è quella di scambiarsi informazioni e iniziare un approfondimento. Il secondo aspetto è che il tema del federalismo, in particolare in questo decreto, tocca in maniera molto forte le politiche sociali. Ma finora mi è parso che il mondo del sociale, in tutte le sue articolazioni, non sia stato mai coinvolto nella discussione. Il ragionamento sul federalismo è rima-
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sto tutto appannaggio degli addetti ai lavori, degli esperti di federalismo; mentre io credo che, data l’importanza dell’argomento, sia ora che il sociale irrompa nel dibattito. Per questo vi proporrei di dar seguito a questo seminario, che può rappresentare un primo incontro di un percorso più ampio, fatto di altri appuntamenti per aggiornarci. Nuovo Welfare si occupa della realizzazione di studi e ricerca, le proposte spettano ad altri: alle organizzazioni, alle associazioni. Vorremmo però svolgere la funzione di aggiornarvi continuamente e di favorire lo scambio di riferimenti e informazioni. Il nostro compito non è di intervenire nel dibattito politico, ma di creare una rete di conoscenza. Questa proposta mi sembra importante proprio per fare irrompere il più possibile il sociale nel dibattito sul federalismo.
Il punto di vista regionale Anna Maria Candela
Dirigente Servizio Programmazione sociale e Integrazione socio-sanitaria Regione Puglia
Grazie all’Associazione Nuovo Welfare per questo invito. Mi dispiace di non poter rimanere ma è stato convocato per questa mattina il Coordinamento delle Regioni e sono riuscita soltanto a spostare l’orario dell’incontro. Finalmente anche il Coordinamento delle politiche sociali comincia a mettere all’ordine del giorno il tema del federalismo, visto che di fatto le regioni hanno avuto un ruolo marginale nella prima discussione dei decreti. Soltanto il 17 novembre scorso la Conferenza dei Presidenti ha espresso parere negativo sul decreto legislativo “in materia di autonomia di entrata delle regioni nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario”. Per tutto il resto la situazione è incerta. Riguardo alla domanda su quali siano gli effetti della riforma in senso federalista dello Stato rispetto alle politiche sociali, io vorrei rispondere innanzitutto con una provocazione: quello che è successo in questi dieci anni per quanto riguarda le politiche sociali in qualche modo ha anticipato la riforma federalista dello Stato. Come diceva prima l’Assessore Cecchini, l’intervento sull’art. 117 della Costituzione, esattamente un anno dopo la legge 328, ha impresso ventuno direzioni diverse ai sistemi di welfare. Infatti non parliamo più di un sistema di welfare nazionale ma di ventuno sistemi di welfare regionali e di diversi sistemi di welfare provinciali. Inoltre, se una parte importante dei principi della legge 328 è stata tradotta dalla carta nella realtà, ciò è avvenuto proprio grazie alle regioni. È vero che la Regione Lazio è una di quelle che non ha ancora recepito la legge 328, ma la gran parte delle regioni lo ha fatto, dandosi sulle politiche sociali una normativa aggiornata, e in molti casi moderna e apprezzabile. In particolare, la maggior parte delle regioni si è dotata di strumenti di programmazione integrata in materia di politiche sociali. Alcuni effetti in questi anni ci sono stati: ad esempio il definitivo superamento della logica del progetto e della separazione degli interventi (minori per minori, disabili per disabili, anziani per anziani), oppure la spinta all’integrazione sociosanitaria e alla definizione di standard strutturali e organizzativi per i servizi, cose tutt’altro che scontate. Se parliamo ad esempio di asilo nido, tuttora in alcune regioni quartieri diversi di una stessa città ne hanno un’idea differente. Questo è strettamente connesso con ciò che si sta farneticando, oserei dire, sul costo standard. Se ci sono ancora oggi alcune regioni che non hanno stabilito quanti metri quadrati o quanti educatori servono per quindici bambini tra 0 e 36 mesi, come si può fare una divisione tra totale di spesa e numero di utenti? Quali fattori stiamo dividendo? Quando si parla di costo standard ho la certezza che si parli di N cose diverse, non solo rispetto alle variabili ma anche ai concetti. In tutta onestà, questa è la prima delle questioni inaccettabili per le regioni, e che spiega in buona parte il parere negativo espresso la settimana scorsa su questo decreto. Per inciso, se le regioni rifiutano una proposta è perché questa è inaccettabile per gli enti locali e le cittadinanze sociali di tutti i territori. Secondo le regioni, non si può definire il costo standard a partire da quanti soldi si hanno e da un parametro demografico più o meno aggiustato. D’altra parte, poter stabilire qual è il costo più rispondente a uno standard di servizio sarebbe utilissimo in termini di efficienza ed efficacia, se però avessimo un unico standard di servizio a livello nazionale. Invece questo oggi non esiste, in molti casi neppure all’interno delle singole regioni. In questa direzione, la Regione Puglia ha lavorato molto negli ultimi anni e da gennaio 2007 si è dotata di uno standard per tutte le strutture e tutti i servizi. Secondo alcuni siamo stati ridondan-
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ti, ma almeno abbiamo delle certezze: “comunità educativa per minori” oggi significa una cosa sola in tutta la Puglia, “asilo nido” significa un’altra cosa, “centro ludico” una cosa ancora diversa. E, grazie a una serie di investimenti che abbiamo potuto fare negli ultimi anni, l’amministrazione regionale ha anche accompagnato tutte le strutture preesistenti ad adeguarsi ai nuovi standard, dal momento che questo processo ha un costo. Però sono pochissime, soprattutto nel Mezzogiorno, le regioni che hanno fatto questo percorso; è più scontato trovare questa situazione nelle regioni del Centro-Nord. Quindi, il primo problema è dato dalla diversità degli standard a cui fare riferimento per un calcolo quanto più corretto possibile del costo standard, che però - ripeto - non deve essere un tetto di spesa diviso per un numero di abitanti o di utenti. Poi c’è il problema del fabbisogno standard. Anche in questo caso, per la sua definizione qualcuno continua a partire dal criterio della spesa, però in proposito vorrei dire che perfino al di sopra della legge 42/09 c’è la Costituzione. Sembra che la vicenda del federalismo nasca con la legge 42 del maggio del 2009, ma l’art. 117 della Costituzione parla di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) e li collega ai diritti esigibili. Per declinare i fabbisogni standard in relazione ai LEP bisogna considerare sicuramente gli standard (cosa si intende per servizio, la qualità del servizio, e così via), ma anche cosa significa rendere esigibile un diritto. E non stiamo parlando di 10.000 diritti, perché l’attuale discussione sulla questione delle risorse ci dice che in questo momento stiamo davvero lavorando con poco, e che in futuro ci sarà sempre meno: la prospettiva è di entrare nella fase 2012-2016 senza più alcuna certezza sui fondi. Oggi l’unico dato certo è che non ci saranno più i fondi trasferiti dallo Stato, e ancora non sappiamo bene come saranno coperti i fabbisogni finanziari per i servizi sociali delle regioni, ma soprattutto dei comuni, perché le regioni in questo ambito rappresentano solo un tramite. Supponiamo che ci siano solo 10 servizi che devono essere garantiti a tutti i cittadini. Mutuerò l’esempio degli asili nido: ci vogliamo dire coraggiosamente che in uno Stato federale, in tutte le regioni, almeno 12 bambini ogni 100 devono poter accedere all’asilo nido? Il 12% è l’obiettivo di servizio per gli asili nido restituito dall’Intesa Stato Regioni, che dal 2007 in avanti ha fissato gli interventi per la famiglia e l’infanzia. Sto facendo un ragionamento al minimo, schiacciandomi verso il basso, non in base all’essenziale delle prestazioni ma al loro minimo, perché a questo costringe l’impostazione attuale. Ebbene, quello che più preoccupa è che in questo momento non si discute nemmeno della necessità che uno Stato federale garantisca alla Calabria come alla Lombardia che 12 bambini su 100 accedano all’asilo nido; si sta discutendo invece del fatto che si hanno 100 milioni, e di quale criterio usare per ripartirli tra le regioni. Non c’è nulla che riguardi il fabbisogno inteso nel senso più stretto del termine. L’assistenza domiciliare integrata al 3,5% è un altro obiettivo di servizio, cardine del Fondo per la non autosufficienza e della premialità per le regioni a obiettivo convergenza sulle risorse del Fondo aree sottoutilizzate. Significa che 3,5 anziani ogni 100 devono poter ricevere prestazioni di assistenza domiciliare integrata. Come si può raggiungere questo obiettivo se il Fondo per la non autosufficienza è a zero per il 2011 e per gli anni a venire? Di nuovo, quello che preoccupa di più è che non si stia discutendo affatto su che cosa significhi garantire l’assistenza domiciliare integrata, che è la stampella principale di tutti i piani di rientro che stiamo somministrando alle regioni. E non è un problema di contrapposizione tra regioni e governo nazionale, ma il contrario, perché su questo tema è assordante il silenzio di tutti. Ad esempio, non riusciamo a porre di nuovo al centro dell’attenzione il tema dei Livelli Essenziali delle Prestazioni. Ne parliamo da dieci anni: all’inizio molti di noi hanno presentato proposte, mentre il Coordinamento delle Regioni ha elaborato diversi documenti negli anni successivi. Quando si stava elaborando la legge di riforma in senso federalista dello Stato ci siamo fermati, ma è come se dopo il maggio del 2009 nessuno più avesse avuto il coraggio di riprendere l’argomento. Ne parlavo l’altro giorno durante il focus week sulla lotta alla povertà che si è tenuto in Puglia. La rete Cilap - Eapn è stata in Puglia per fare il punto della situazione, e una delle richieste fatte alle regioni era quella di definire il reddito minimo di inserimento. Non di inserimento rispetto ai percorsi lavorativi, badate bene, perché ormai esiste anche la povertà da lavoro: non da mancanza di lavoro ma da presenza di lavoro. Perciò il reddito minimo di inserimento non è più soltanto lo strumento che deve accompagnare nel percorso di inserimento al lavoro, ma, in una logica più europea, dovrebbe essere lo stru-
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mento di contrasto alla povertà, dovrebbe permettere di superare la soglia di povertà e garantire il principio di vita dignitosa. Ma è inutile proporre alle regioni un argomento del genere, se non viene proposto nella discussione sui LEP. Dovrebbe diventare un argomento a livello nazionale, e per altro su questo l’Europa ha già richiamato l’Italia più volte, inascoltata. Altrimenti l’unica cosa che riusciremo a fare a livello regionale, con il Fondo Sociale Europeo, l’assegno di cura o la prima dote per i nuovi nati, è di dare risposte molto mirate. Sicuramente potremo rispondere a situazioni di fragilità economica, ma saranno situazioni circoscritte e in cui il fattore scatenante è evidente, come la giovane coppia con il bambino appena nato. Se la generalizzazione a livello nazionale di alcuni livelli di prestazione non viene posta oggi come obiettivo, sono pressoché certa che non sarà più possibile. Se questo è lo scenario che abbiamo davanti e quindi anche la frontiera che dovremo superare, quello che è scritto nel decreto è preoccupante. Intanto, ancora una volta, quasi come una cantilena, l’art. 9 fa riferimento a una legge statale per determinare i LEP. Ma questa legge non deve determinarli, bensì, in maniera più sottile, deve stabilire “la disciplina delle procedure per la determinazione dei livelli essenziali”. La formulazione attuale dell’art. 9, che peraltro si chiama “norme transitorie” ed è solo un articoletto, dice che in futuro verrà emanata una legge per stabilire i livelli essenziali. Forse ci arriveremo nel 2100. Allora, oltre a chiederci se a qualcuno interessa definire il fabbisogno standard, dobbiamo chiederci se a qualcuno interessa che ci sia un governo degli interventi sociali in Italia. In un altro punto, al comma 5 dell’art. 5, quello sull’addizionale regionale IRPEF, tra le tante possibilità che si danno alle regioni, si dice anche che, al fine di favorire l’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, le amministrazioni regionali “possono disporre con propria legge detrazioni dall’addizionale stessa in luogo dell’erogazione di sussidi, voucher, buoni servizio e altre misure di sostegno sociale previste dalla legislazione regionale”. Sono dieci anni che le regioni stanno investendo per impedire la monetizzazione dei servizi, perché rifiutano di risarcire gli utenti del fatto che non si riescono a organizzare i servizi: il comune, la regione, la provincia devono erogare un servizio oppure metterti nelle condizioni di accedervi, e non risarcire le persone con 100 € così non si lamentano. E poi magari quei 100 € tuo padre li utilizzerà per l’abbonamento a Sky. Non è così che si rompe la catena della povertà e la situazione del bisogno. Sono dieci anni che continuiamo a dirci che l’area dei diritti soggettivi va del tutto rivista o che l’indennità di accompagnamento non serve alle persone non autosufficienti. Senza entrare nella squallida discussione sui veri e falsi invalidi, dobbiamo chiederci però cosa faranno le famiglie con quei soldi. È uno strumento di sostegno al reddito o è uno strumento di sostegno all’acquisto di servizi di assistenza familiare? Sono dieci anni che le regioni insieme all’ANCI continuano a chiedere di poter gestire quei soldi in maniera autonoma, perché se si tratta di diritti soggettivi vogliono renderli esigibili, attraverso però la risposta mirata a un bisogno. Adesso non solo non si affronta la questione, perché non c’è traccia di una discussione relativa alla quota INPS dei diritti soggettivi. Ma, inoltre, il decreto dice: se anche avete fatto politiche innovative per la prima infanzia o per la non autosufficienza, non vi preoccupate, potete cancellare tutto e ridurre l’addizionale IRPEF. La proposta va pure bene, ma scritta così indica che è irrilevante governare le politiche sul territorio. Se fosse una misura, ad esempio, per le famiglie numerose, andrebbe contestualizzata molto meglio. In quel caso sarebbe un discorso diverso, ma scritta così è pericolosissima, perché esorta a non impegnarsi, e dice che non c’è bisogno di gestire gli interventi sul territorio, di governare le politiche, di preoccuparsi di qual è l’impatto di 100 € spesi in questo quartiere o in quel comune. Questi sono alcuni dei pericoli che si intravedono nello schema di decreto legislativo. Quello che preoccupa di più è che in questo momento tutte le regioni sono impegnate a discutere dei costi standard o di quali saranno le cinque regioni del benchmark, mentre sul sociale tutto tace. Scusate la veemenza con cui ho posto alcune di queste questioni, però, e ve lo dico facendo autocritica, oggi è la prima volta che le regioni si incontreranno per discutere di questo argomento. Stiamo andando a fare una riunione per capire come possiamo cominciare a porre scomodamente alcune questioni. Certo, se lo facessero le regioni da sole sarebbe del tutto inutile, quindi è veramente importante che ci sia non tanto una levata di scudi, ma la capacità di alzare il prezzo da parte di tutte le parti istituzionali e sociali. Grazie.
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Definizione dei LEP, modelli di finanziamento, costi e fabbisogni standard Andrea Tardiola
Dirigente Presidenza del Consiglio dei Ministri
Buongiorno e grazie per l’occasione. Faccio due premesse di metodo. La prima è che quanto adesso dirò non impegna in alcun modo l’amministrazione per la quale lavoro, perché sono stato invitato a parlare come esperto, mentre nei tavoli istituzionali ciascuno correttamente rappresenta l’amministrazione nella quale è incardinato. E questo mi lascia anche la libertà di formulare alcune valutazioni problematiche, critiche. La seconda questione è che avrei voluto organizzare un intervento strutturato e consequenziale, e devo ammettere di non esserci riuscito. Rispetto al mandato di ragionare sugli impatti del federalismo sulle politiche sociali credo che il punto vero sia quello di misurarsi con aspetti e questioni ancora aperte, perché ci sono rapporti di forza a confronto su posizioni diverse. Quindi, quello che proverò a fare è mettere in elenco una serie di considerazioni su possibili scenari, senza essere certo di quali saranno quelli che effettivamente percorreremo. Mi si chiedeva della tempistica dei decreti, e questo è un altro dei punti aperti. Anche qualora incappassimo in una crisi di governo, e quindi in un’ordinaria amministrazione dell’attività del governo nazionale, il calendario dovrebbe lo stesso permettere la conclusione dei decreti, perché il principio seguito dal sistema delle fonti è quello per il quale gli atti normativi che hanno già avuto una preliminare deliberazione in Consiglio dei Ministri proseguano il loro iter. Però è solo una previsione, e non possiamo sapere con certezza come usciremo da questa crisi di governo. Il fatto che io lavori nell’amministrazione nazionale mi porta a ragionare su quale sia l’impatto del federalismo in termini di dinamiche redistributive tra territori. Tuttavia, il punto che a me preme sottolineare è che dovremmo chiederci quali saranno le conseguenze del federalismo sulla cittadinanza sociale, che è innanzitutto una cittadinanza nazionale; vale la pena ricordarlo, e non solo perché stiamo per celebrare i centocinquant’anni dell’unità d’Italia. Perciò è utile riflettere su questi decreti anche tenendo conto di quale sia oggi, e di come sia mutata, la visione che presiede la filiera di attuazione della Costituzione. Noi siamo giovani federalisti, lo siamo appena da dieci anni, e questo è un periodo abbastanza breve per una trasformazione così strutturale in un Paese tanto complesso come il nostro; eppure già si è verificato un mutamento, secondo me piuttosto netto, della retorica che accompagna la visione federalista. Probabilmente dieci anni fa eravamo già tutti osservatori, o protagonisti, sia della stagione della riforma costituzionale che di quella immediatamente precedente dell’approvazione della legge quadro sui servizi sociali. Il tema cardine di quegli anni, e intorno al quale successivamente ci si è confrontati e si è sviluppata elaborazione scientifica, documentazione e attività amministrativa, era quello dei diritti e dei Livelli Essenziali. Ci dicevamo che il federalismo serviva a determinare un sistema di governo che premiava l’autonomia dei territori, li responsabilizzava, chiudendo il circuito tra funzioni di gestione e di spesa, ma anche di acquisizione delle risorse, e che tutto questo avrebbe dovuto promuovere processi di convergenza nei livelli di garanzia dei diritti in un Paese che invece ha dei differenziali drammatici. Forse dovremmo farci un esame di coscienza e ammettere che ce la siamo raccontata un po’ troppo facile. In quegli anni abbiamo lavorato e anche discusso sul tema dell’esigibilità dei diritti e su come confezionare degli istituti, non visioni o filosofie, ma contenuti legislativi che impegnassero le amministrazioni, il comportamento degli operatori, il sistema di allocazione delle risorse. Volevamo che fossero istituti di unità, perché legati a un’idea di cittadinanza e di garanzia dei doveri. Ci raccontavamo che il gioco era, come dicono gli inglesi, del tipo win-win. Un gioco che faceva contenti tutti, che liberava al massimo le energie dei territori più forti e generava processi di convergenza nei territori che invece erano rimasti indietro (che però erano indietro da cent’anni, e quindi probabilmente c’erano per ragioni molto profonde). Quello che mi preoccupa, e che mi sembra anche aiuti a individuare le posizioni vere in campo, è che oggi invece questa retorica è cambiata. Nel titolo del mio intervento si richiamano i Livelli Essenziali, ma ormai essi sono un “convitato di pietra”, non ne parla più nessuno. La discussione si è spostata sul piano della costruzione di un sistema contabile che supporti il funzionamento delle autonomie. Non è un fatto secondario per-
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ché non possiamo parlare solo di diritti senza tener conto della compatibilità economica. Però la retorica plasma il comportamento dei decisori politici, dei tecnici, dei burocrati, delle controparti sociali, ed è un fattore determinante. Mi sembra che oggi gli istituti, nei decreti di cui stiamo discutendo, si modellino in base a questa nuova visione. E mi sembra che dentro questa visione emerga con più chiarezza la differenza di posizioni tra territori, che probabilmente esisteva già dieci anni fa, però oggi viene affermata in maniera più netta, e in tutti i campi politici. L’appartenenza territoriale è diventata più forte dell’appartenenza di cultura politica. E il punto ribadito, pericolosissimo dal punto di vista della cittadinanza italiana, è che “la ricchezza di un territorio appartiene a quel territorio”: un euro di ricchezza del Veneto o della Lombardia appartiene al cittadino veneto o lombardo, e non entra nel gioco di una dinamica redistributiva che invece costruisce la ricchezza nazionale. L’ho detto in maniera molto banale, però secondo me questo è il cuore del problema, tanto che l’emersione delle posizioni vere, più franche, ha generato una rottura nel tavolo delle regioni, cresciuta nel corso del tempo. Naturalmente ci sono motivazioni drammatiche. Noi abbiamo qualche limitazione oggi nel ragionamento perché siamo quasi tutti romani, e io stesso ogni tanto mi dico che riflettendo sui temi del federalismo da romano ho un’ottica abbastanza distorta. Però trovo preoccupanti, pur se dotati di una componente di ragionevolezza, quei territori che, di fronte a un utilizzo di risorse infruttuoso e inefficiente da parte di altri territori, reclamano le proprie risorse per utilizzarle in maniera più efficace, dal momento che anche i territori del Nord sono a domanda tendenzialmente illimitata e risorse limitate. Vorrei poi affrontare un altro punto riguardo ai significati in evoluzione: il fatto che sia così cambiata la visione dietro questo processo, mi porta a non essere completamente d’accordo con quello che sosteneva prima Anna Maria Candela su un aspetto specifico di una delle previsioni del decreto, quello delle detrazioni sulle aliquote regionali. La Candela, e io condivido questa visione con lei, sostiene la cultura della responsabilità pubblica nei confronti della garanzia del diritto, ma andando in giro per il Paese si scopre che questa visione non è così scontata, e appartiene soltanto a una parte della Nazione. Per esempio, un pezzo di mondo dell’associazionismo pensa che il governo della risposta al bisogno venga fatto meglio dall’associazionismo stesso, e che è preferibile che le istituzioni gli lascino la libertà di organizzarlo, magari promuovendo un sistema tipo quello delle detrazioni. Il ragionamento è il seguente: lasciate che sia io a entrare in rapporto con il bisogno, lo conosco meglio di voi, della burocrazia incapace di intercettare le esigenze vere e di formulare una risposta. Da funzionario dello Stato penso che, almeno fino a quando non cambieremo la Costituzione, le istituzioni debbano avere il mandato a garantire dei diritti e debbano farlo promuovendo tutte le forme di partecipazione dei cittadini in forma associata, ma anche in forma singola, tramite l’ISEE. Però questa differenza culturale e di impostazione è presente, e non dobbiamo nasconderla. Oggi non dobbiamo fare l’illustrazione dei decreti ma cogliere alcuni aspetti degli istituti in essi contenuti per provare a prefigurare qualche scenario. Effettivamente negli anni siamo passati dal ragionamento sugli strumenti necessari per definire soglie di garanzia dei diritti all’analisi di come gestire le risorse limitate di cui disponiamo. L’osservazione che dovremmo fare, drammatica ma realistica, è che saremo più poveri nei prossimi anni. Lo dobbiamo dare per scontato: nei prossimi cinque, dieci anni saremo un Paese più povero e le istituzioni nazionali saranno istituzioni più povere. Il problema sarà allora come costruire un sistema di governo e di orientamento delle risorse che sia più democratico e trasparente, tenendo conto del pesantissimo vincolo economico. Questo è uno dei lati più rilevanti della discussione sul federalismo, perché il federalismo è forma di Stato: parliamo di modelli di democrazia e non di meri regimi contabili, come diceva prima l’Assessore Cecchini. Non stiamo parlando di meccanismi di ragioneria, ma di come i cittadini e le loro forme organizzate partecipano all’autodeterminazione dei propri destini a livello territoriale, questo è il federalismo, e di come da questo punto di vista partecipano anche alla determinazione dell’orientamento nazionale. Riguardo alle risorse economiche è molto interessante notare come non abbiamo un unico federalismo. Leggendo i decreti vedrete che abbiamo più di un modello di federalismo. Già durante la discussione di oggi ci siamo resi conto che stanno succedendo cose diverse a seconda di quello di cui parliamo: per esempio quello che avviene nella sanità è diverso da quello che avviene nelle politiche per le persone o per le famiglie, e c’è differenza tra le politiche erogate dai comuni e
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dalle province. E la differenza è emblematica proprio in relazione a quello che stavo dicendo sui livelli di partecipazione e quindi sul modello di democrazia che presiede le forme di governo. Scusatemi, dico anche qui cose scontate. Le politiche sociali non sono un sistema di welfare vero, come lo sono la salute, le pensioni, la scuola, perché abbiamo una legge quadro da soli dieci anni e non un sistema nazionale di servizi alla persona da trent’anni, come avviene per la sanità, o un sistema pensionistico da altrettanto, o un sistema scolastico da ancora prima. E questo si vede negli effetti con cui il legislatore si approccia alla costruzione del federalismo. La differenza fondamentale è che in sanità il fabbisogno non è stabilito dal nuovo sistema dei decreti sul federalismo; i decreti si limitano a riconoscere che il fabbisogno è quello già stabilito dal tavolo negoziale tra Stato e Regioni nei Patti per la salute. Analizzando il modo in cui il federalismo impatta sulla sanità, ci si rende conto che è l’evoluzione di un processo che va avanti da molti anni. Ha fatto un salto in avanti fondamentale con il Patto per la salute del Ministro Turco, che ha incardinato con forza alcuni elementi, come la pluriennalità delle risorse, la base fortemente negoziale, il tentativo di fare trasparenza sia nell’utilizzo delle risorse che nei livelli di qualità con cui si garantiscono i diritti. Il punto vero però è che in questo caso la decisione viene fatta con diversi livelli di partecipazione, complessi e articolati perché complesso e articolato è il Servizio Sanitario Nazionale. Il modello è dal basso verso l’alto, e il processo del federalismo riconosce e fa suo questo modello. È impressionante invece il confronto con quello che succede nel sistema delle politiche sociali e delle autonomie, dove la versione è sostanzialmente opposta: il processo è dall’alto verso il basso, e soprattutto - forse uso una parola troppo forte - ipocrita, perché maschera con un profilo tecnico decisioni di natura squisitamente politica. Nei decreti è scritto che il fabbisogno per le prestazioni delle amministrazioni comunali e provinciali sarà definito da un soggetto che si chiama SOSE. Prima che ci occupassimo dei decreti sul federalismo probabilmente nessuno ne aveva sentito parlare, a meno che non avesse un’impresa per la quale pagare le imposte, perché la SOSE è la società che finora, e lo farà anche in futuro, si è occupata degli studi di settore per il fisco e il sistema delle imprese. La SOSE è una società con molte competenze e una struttura di forti capacità tecniche, però con un background culturale e quindi un approccio ai temi di un certo tipo. Peraltro, aspetto non secondario, è partecipata all’80% dal Ministero dell’Economia e al 12% dalla Banca d’Italia. Questo mi sembra un dato abbastanza significativo, visto che parliamo delle decisioni sui livelli di garanzia dei diritti a livello di governo territoriale, mentre il soggetto tecnico che svolge le funzioni di elaborazione dei dati al fine di determinare i fabbisogni appartiene a un diverso livello di governo (sebbene nei decreti ci sia scritto che la SOSE lavorerà con l’IFEL, l’istituto dell’ANCI che si occupa di bilanci e finanza). Questo mi sembra il punto rilevante che marca la differenza fondamentale con il settore della sanità: definire i fabbisogni significa definire i livelli di copertura e costruire a livello nazionale quello che è stato fatto in Puglia, cioè la classificazione di tipologie di prestazioni, e quindi significa plasmare il modo in cui lavoreranno le amministrazioni locali. Nella proposta che abbiamo davanti questo compito spetta a un soggetto tecnico, che deve assumere delle decisioni che hanno invece una caratteristica assolutamente politica, nel senso delle policy. Decidere se il livello di garanzia per le prestazioni degli asili nido, per esempio, sia di 12 bambini su 100 in età eligibile, o di 20, o di 33 come dice Lisbona, non è una decisione che può prendere un soggetto tecnico; è una decisione di natura squisitamente politica, perché comporta la definizione di una griglia di priorità e una riflessione su come sarà la comunità territoriale, e quindi il Paese, tra vent’anni, sapendo che alcuni soggetti, nel nostro esempio i bambini tra 0 e 3 anni, saranno più tutelati di altri. La scelta delle priorità è una scelta drammatica in politica, ma in realtà va fatta. Il federalismo dovrebbe aiutare la decisione, ma sembra che il meccanismo previsto dentro il decreto non la aiuti. Poiché la premessa è che saremo un Paese più povero, dovremo scegliere dove mettere le risorse nei prossimi anni, ossia dovremo fare scelte drammatiche e sapere che dovremo rinunciare ad alcuni beni, siano essi relazionali, materiali o immateriali. A cosa dare la priorità? Dovremo fare queste scelte, e questa sì è una valutazione tecnica, con un’idea di fondo, ossia che per fare delle politiche buone, sane, non ha senso dare spiccioli a tutti, bisogna scegliere che qualcuno sia penalizzato affinché qualcun altro invece venga finanziato in maniera adeguata. Le politiche vengono sviluppate, realizzate e poi valutate solamente quando hanno una taglia minima. Sempre per fare un esempio banale, non ha senso dimezzare il Fondo Unico per lo Spettacolo e passare
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dal 12% dei posti in asili nido al 13%. Un Paese serio è un Paese in cui si decide. Mutuando il titolo di un film, decido che questo “è un Paese per bambini”, investo sui bambini e faccio scelte di diversa natura su altre politiche, ad esempio intervenendo sugli “scaloni-scalini” del sistema pensionistico in modo da finanziare gli interventi che ho scelto. Non voglio esasperare il rapporto tra il dare ai giovani e il togliere ai grandi, è solo un esempio per evidenziare questo aspetto della discussione. Concludo ripetendo quello che mi sembra il punto fondamentale: i principi della legge 328 sono tuttora vivi, anche se il Titolo V ne ha messo in discussione alcuni strumenti e istituti specifici. Con il principio che stabiliva un sistema di welfare profondamente partecipato a tutti i livelli di governo siamo costretti a misurarci ancora oggi leggendo questi decreti. Infatti l’impalcatura e gli istituti che disegnano i meccanismi con cui verrà governato il sociale non riconoscono più quel principio. Poiché qui, oggi, la platea è composta da operatori del territorio e del mondo dell’associazionismo, mi sembrava che l’aspetto su cui richiamare l’attenzione fosse questo: non farci catturare dalla retorica che sempre c’è per qualsiasi riforma, e che oggi è quella dei conti, dei numeri e degli standard. Anche questi sono aspetti importanti, ma dobbiamo ricordare che qualsiasi cosa faccia un’organizzazione complessa, dietro c’è sempre una teoria dell’azione, come mi ha insegnato anni fa il mio amico Zamaro. Il problema è che dietro il federalismo c’è una teoria come quella che vi ho descritto. Io personalmente non la condivido, però occorre che le organizzazioni si mobilitino per metterla in discussione. Emiliano Monteverde
Presidente Associazione Nuovo Welfare
A ogni nuovo intervento si moltiplicano i punti da considerare. È un problema, ma anche la dimostrazione della complessità del tema. Prima di dare la parola ai successivi relatori, vorrei sottolineare solo un aspetto: siamo quasi a dicembre e gli assessori alle politiche sociali si riuniscono oggi per la prima volta per discuterne. D’altra parte, siamo di fronte alla possibilità che entro marzo il decreto sia definito, anche se la verifica è prevista entro il 2014. Questo è un problema molto grave e tutti, ognuno per la sua parte e la sua funzione, dovremo accelerare nei prossimi giorni per dar voce alle criticità espresse finora, per portare contenuti, idee, ragionamenti, e non lasciare che vi sia solo una copertura burocratica per una scelta concreta di modello di governance delle politiche sociali. In base alla logica per cui c’è una teoria dietro gli atti, allora è necessario che tutto il mondo interessato a questi temi, da quello associativo a quello sindacale, entri nel dibattito in maniera decisa ed esprima la propria teoria.
Bisogni informativi nel sociale e monitoraggio dei servizi e degli interventi Margherita Brunetti
Esperta di Politiche sociali
Parlerò dei tentativi fatti in questi ultimi anni per rispondere ai bisogni informativi nel sociale e per determinare le azioni di monitoraggio degli interventi e dei servizi, nell’ottica della costruzione del Sistema Informativo dei Servizi Sociali (SISS). La legge 328 ne prevedeva la costituzione, che tuttavia ancora non si è compiuta nella sua interezza. Partirei nel mio intervento da quali sono i bisogni informativi e da come bisognerebbe costruire questo sistema informativo sociale, per tornare dopo ai tentativi di cui vi accennavo prima. L’art. 21 della legge 328 focalizza l’attenzione sull’istituzione del SISS. È stato già ricordato dall’Assessore Cecchini come questa legge sia stata depotenziata dalle successive modifiche al Titolo V della Costituzione, resta però viva l’esigenza di arrivare alla costruzione di un sistema informativo che sia tale. La finalità di un sistema informativo è di rendere disponibili informazioni individuali, nel rispetto della normativa sulla privacy perché si tratta di dati sensibili, allo scopo di:
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individuare i bisogni, ossia il lato della domanda misurare il sistema dei servizi, delle prestazioni e degli interventi, ossia il lato dell’offerta disporre di strumenti utili alla programmazione, alla gestione e alla valutazione degli interventi Gli obiettivi di un sistema informativo sono: • acquisire e integrare le informazioni che provengono da più fonti; nel settore sociale, come sa molto bene chi opera nei servizi, c’è una forte contiguità con altri settori, sia a livello orizzontale che a livello verticale. A livello orizzontale possiamo ricordare la sanità, la formazione, l’istruzione, le politiche occupazionali e dell’inserimento lavorativo • archiviare le informazioni, attraverso la costruzione di data set • elaborare e diffondere le informazioni, prevedendo degli aggiornamenti periodici prestabiliti Fatta questa premessa, e ribadendo il fatto che finora si può parlare di tentativi compiuti a livello centrale per dare un contributo alla costruzione del SISS, vi descriverò alcuni moduli, o “mattoni”, che possono alimentarlo. L’indagine sulla spesa sociale dei comuni è stata uno di questi primi tentativi, e la possiamo quindi collocare tra i moduli del sistema informativo. Essa cerca di rispondere all’esigenza di ricostruire il quadro della spesa per i servizi sociali in Italia. Ovviamente le unità di rilevazione sono i comuni, che tradizionalmente erogano i servizi sul territorio, e le forme associative in cui di volta in volta i comuni stessi si organizzano a livello locale. Da questo punto di vista ci sono delle differenze enormi sul territorio italiano, ad esempio in alcune zone sono molto sviluppati i consorzi, in altre forme associative di diverso tipo. Attraverso l’indagine si vogliono rappresentare i servizi territoriali, rilevando le risorse che vengono destinate a queste attività e anche gli utenti che ne traggono beneficio. La griglia di acquisizione dei dati è stata predisposta facendo riferimento ai seguenti elementi: • gli schemi classificatori internazionali (ESSPROS) • le indicazioni fornite dalla legge 328 • le esigenze informative dei soggetti istituzionali coinvolti nella rilevazione. In questo caso il ruolo delle regioni è stato particolarmente importante Le informazioni vengono raccolte attraverso un questionario compilato direttamente dai referenti individuati dagli enti che gestiscono i servizi sociali, ossia i comuni o le associazioni di comuni. È utile qualche indicazione sul tipo di informazioni raccolte per capire a quali bisogni informativi si vuole dare risposta. Il questionario è articolato in 7 aree di utenza. Sei aree sono quelle tradizionali: famiglia e minori; dipendenza; disabili; anziani; immigrati e nomadi; povertà, disagio adulti e senza dimora. La settima area è la multiutenza, che raccoglie i servizi rivolti a più tipologie di beneficiari, le attività generali svolte dai comuni e i costi sostenuti per le esenzioni e le agevolazioni offerte agli utenti. All’interno di ciascuna di queste aree il questionario è suddiviso in tre macro-tipologie: • interventi e servizi di supporto • trasferimenti in denaro • spese in strutture Aggiungo qualche elemento ulteriore per capire che tipo di dati vengono rilevati con questa indagine. Ad esempio, per quanto riguarda gli interventi e i servizi di supporto vengono rilevati i servizi alla persona, il servizio sociale professionale, l’assistenza domiciliare, i trasferimenti in denaro, i pagamenti di rette, i contributi economici dati direttamente alle famiglie per affido o alloggio. La prima indagine risale al 2003. Nella fase preliminare è stata condotta una rilevazione pilota campionaria, che poi è stata sviluppata su tutto il territorio nazionale. Si tratta quindi di un’indagine censuaria che rileva i dati appena descritti su tutti i comuni italiani. Un altro elemento interessante, e anche di complessità, di questa indagine, è il fatto che al tavolo sono presenti diversi attori: l’Istat, quale ente gestore e responsabile dell’indagine dal punto di vista scientifico; il Ministero dell’Economia e delle Finanze; il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; e infine un gruppo di regioni, tramite degli accordi presi con il CISIS e successivamente con l’Istat. Per fortuna il gruppo di regioni è aumentato nel tempo: all’inizio era molto più ristretto mentre lentamente sta diventando sempre più folto, anche se ancora mancano diverse regio• • •
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ni. In quelle che non hanno ancora aderito all’indagine i dati vengono raccolti direttamente presso i comuni, anche con l’intervento del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che offre un contributo in termini di sollecito della risposta e di successivi controlli di qualità sul questionario. Invece, per quanto riguarda il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il lavoro più grosso viene svolto dal gruppo della CONSIP che ha sviluppato un questionario elettronico che regioni o comuni compilano direttamente tramite un’applicazione online. Attualmente, sono state realizzate e concluse cinque edizioni dell’indagine, dal 2003 al 2007. Nell’ultima riunione, svoltasi proprio ieri, l’Istat ha previsto che per l’inizio del prossimo anno si avranno i dati del 2008. E in seguito, forse in primavera, verranno pubblicati i dati del 2009. In questo modo riusciremo a recuperare un po’ di tempestività, poiché effettivamente gli ultimi dati, relativi al 2007, sono stati pubblicati a settembre del 2010 con uno scarto di ben tre anni. Il secondo modulo di cui vorrei parlare riguarda invece il Sistema Informativo sulla Non Autosufficienza (SINA). Con la costituzione del Fondo per la non autosufficienza - purtroppo adesso azzerato - è stato previsto anche uno stanziamento per la costruzione di un sistema informativo relativo a questo particolare settore dei servizi sociali. Il progetto è stato organizzato attraverso un protocollo d’intesa tra Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e la Regione Liguria siglato alla fine del 2008. Il Ministero è l’ente che coordina il progetto nel suo complesso, la Regione Liguria coordina i lavori a livello territoriale attraverso la formalizzazione di intese specifiche con ciascuna regione. È stato istituito un Tavolo di coordinamento, a cui partecipano, oltre a Ministero e Regioni, anche l’ANCI, l’INPS e l’Istat. Poiché il SINA ha delle contiguità molto strette con il settore sanitario, è stato previsto un raccordo diretto con il Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS). Al progetto partecipano quasi tutte le regioni, mancano solo la Lombardia e la Provincia Autonoma di Trento, che ancora non hanno aderito. Anche in questo caso le adesioni sono avvenute in tempi successivi. Vi descriverò le attività che sono state svolte e quindi le informazioni che verranno restituite: • ricognizione delle basi dati e dei sistemi informativi già esistenti nelle regioni partecipanti • definizione dei fabbisogni informativi, degli indicatori, della periodicità e del livello di aggregazione con cui le informazioni verranno raccolte e trasmesse • indagine pilota su un insieme ragionato di comuni, per rilevare gli specifici servizi per la non autosufficienza • definizione delle caratteristiche tecniche dei dati e realizzazione di tecnologie volte alla comunicazione fra i sistemi informativi regionali e il sistema informativo centrale, fornendo così un’infrastruttura a quelle regioni che non hanno già un proprio sistema informativo sulla non autosufficienza Il gruppo di lavoro ha ragionato su una nozione di non autosufficienza condivisa, secondo la quale “sono considerate persone non autosufficienti, ai fini della raccolta dati per il SINA, coloro che subiscono una perdita permanente, totale o parziale, delle abilità fisiche, psichiche, sensoriali, cognitive e relazionali, a seguito di patologie congenite o acquisite o di disabilità con conseguente incapacità di compiere gli atti essenziali della vita quotidiana”. Partendo da questa definizione condivisa, l’obiettivo era di arrivare all’individuazione di un set minimo informativo composto da variabili rilevate a livello regionale da restituire a livello centrale. Il set minimo informativo è composto dalle seguenti variabili: • l’ente rilevatore e la data dell’ultimo aggiornamento, che alimentano l’intero sistema informativo • il profilo personale della persona non autosufficiente che accede ai servizi (genere, anno di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, titolo di studio) • se la persona ha avuto la certificazione di invalidità o di altro genere • una valutazione generale della persona (area della mobilità, area delle attività della vita quotidiana, disturbi dell’area cognitiva, necessità di cure sanitarie, area reddituale e così via) • le prestazioni a cui è ammessa a livello territoriale L’indagine pilota ha analizzato prestazioni e servizi erogati alle persone non autosufficienti in un campione ragionato di comuni, scelti in base all’elevata presenza di anziani e persone con disabilità sul territorio. Tuttavia, le scarse risorse messe a disposizione per il progetto non hanno permesso di condurre né un’indagine sull’intero territorio nazionale, né su un campione rappresen-
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tativo. L’infrastruttura della raccolta dati è incardinata all’interno dell’INPS e il flusso informativo è bidirezionale. Le regioni inviano i dati all’INPS attraverso il set di variabili che abbiamo visto e allo stesso tempo possono accedere ad alcuni dati messi a disposizione dall’INPS, quali: trattamenti economici, accertamenti della disabilità, condizioni economiche dei beneficiari. Gli obiettivi di questo meccanismo sono innanzitutto di ricondurre a unità il complesso degli interventi attuati in capo a una stessa persona, a prescindere dalla filiera amministrativa che li governa; e soprattutto di integrare le informazioni esistenti che provengono da diversi archivi. Questo, come abbiamo visto all’inizio, è lo spirito di un sistema informativo. Alla fine del 2009 è stato avviato un altro progetto con una struttura assolutamente analoga al SINA. È il Sistema Informativo di cura e protezione dei Bambini e delle loro famiglie (SINBA). In questo caso il coordinamento regionale non è stato affidato alla Liguria ma alla Campania, mentre per il resto la strutturazione è la stessa. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali coordina il progetto nel suo complesso, la Regione Campania coordina i lavori a livello territoriale e formalizza le intese con le singole regioni; c’è un Tavolo di coordinamento che vede la presenza, oltre che del Ministero e delle Regioni, anche del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, dell’ANCI e dell’Istat. Le regioni che finora hanno aderito sono 13. È previsto anche il coinvolgimento del Tribunale dei minori, del privato sociale, di alcune Università ed enti di ricerca, e degli ambiti territoriali. Anche per questo progetto si procede attraverso la definizione della tipologia degli interventi che vengono realizzati a livello territoriale, la ricognizione delle basi dati e dei sistemi informativi già esistenti a livello locale e regionale, l’organizzazione di un’indagine pilota su un insieme ragionato di comuni, la definizione concordata di un set minimo di informazioni individuali da raccogliere a livello regionale e poi restituire a livello nazionale per la creazione del sistema informativo. Il SINBA è a uno stadio più arretrato rispetto al SINA: sono state definite le varie fasi del progetto ma ancora non sono state del tutto sviluppate e portate avanti. Per il SINA invece sono già state svolte le indagini pilota e stabilite le informazioni del set minimo da raccogliere; ora si stanno conducendo delle sperimentazioni per collaudare l’infrastruttura messa a disposizione dell’INPS. Quindi le regioni stanno cominciando a immettere i dati, anche se l’attività vera e propria del sistema informativo non è ancora a regime. L’ultimo modulo è quello relativo al lavoro sociale. Questo progetto è stato voluto dal Ministero della Solidarietà sociale, nella precedente legislatura, e adesso è gestito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. L’obiettivo era di creare un quadro di riferimento nazionale sulle professioni sociali, sia nella prospettiva dei LEP di cui tanto abbiamo parlato prima, sia in quella dello sviluppo del SISS. Il lavoro e le professioni del sociale presentano una serie di complessità quali: l’ampiezza del settore e la sua scarsa istituzionalizzazione; la molteplicità degli attori; la contiguità con altri settori, l’evanescenza dei ruoli professionali. Il Ministero ha avviato un lavoro di ricerca con i seguenti obiettivi operativi: • delineare dimensioni, forme e organizzazione del lavoro nei servizi sociali in Italia, affidato a un gruppo del CNR • definire il quadro legislativo e contrattuale, nazionale e regionale, delle professioni sociali, affidato a un gruppo del FORMEZ • effettuare l’analisi di alcune professioni, in un’ottica classificatoria dei loro contenuti sostanziali, con la collaborazione della Fondazione IRSO In seguito sono stati svolti degli approfondimenti sul campo da parte del CNR e del FORMEZ. Contemporaneamente, e proseguendo anche nella seconda annualità, è stato coinvolto anche il livello regionale, attraverso la Regione Veneto. Alle regioni è stato chiesto di costruire un quadro aggiornato del lavoro e delle professionalità nel settore dei servizi sociali. Infine, la Regione Marche si è occupata di definire un set minimo informativo per individuare un sistema di indicatori di base che potesse essere comune a tutte le regioni. Le attività avviate nella prima annualità sono ormai concluse e hanno prodotto dei rapporti di ricerca; invece l’attività coordinata dalla Regione Veneto e il progetto affidato alla Regione Marche sono stati appena conclusi e i risultati non sono ancora stati resi pubblici. I dati finora pubblicati sono disponibili sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Grazie.
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Emiliano Monteverde
Presidente Associazione Nuovo Welfare
Mi sembra molto importante approfondire questi temi, perché, soprattutto nell’ottica del federalismo e della costruzione di politiche sociali basate sui Livelli Essenziali, è necessario istituire e mettere a regime un sistema informativo degli interventi e dei risultati, affinché le politiche si basino sulla realtà dei fatti. Invece la cultura del dato è ancora poco sviluppata nel nostro Paese.
Il punto di vista locale Franco Pesaresi
Direttore Asur 4 di Senigallia; Presidente Anoss
Mi sono posto questa domanda: come saranno le politiche sociali, i servizi sociali al tempo del federalismo? Per sviluppare il ragionamento, mi sono posto altre semplici domande a cui ho cercato di rispondere, e che possono orientare la discussione. Le risposte che mi sono dato sono basate su norme già approvate o su testi ancora in itinere ma già presentati, quindi non rappresentano una valutazione soggettiva. La prima domanda riguarda un argomento che credo importantissimo, ossia: cresceranno le risorse destinate ai comuni? No. La riforma del federalismo fiscale, come viene ripreso più volte, prevede l’invarianza finanziaria, sia per i comuni che per gli altri soggetti. Significa che le risorse complessivamente saranno le stesse, non solo per i servizi sociali, ma per tutte le funzioni, mentre si modificheranno le fonti del loro finanziamento, ossia arriveranno in un modo diverso da oggi. Entriamo subito nel cuore del problema: il welfare comunale avrà un finanziamento specifico? No. Con il federalismo fiscale non ci sarà alcun finanziamento specifico per i servizi sociali e socio-educativi comunali, come invece avviene oggi. Adesso molte risorse sono finalizzate. Dopo arriveranno solo risorse indistinte. Anche le regioni dovranno rinunciare ai finanziamenti che oggi ricevono e poi trasferiscono ai comuni. Su questo punto c’è una notizia parzialmente positiva, perché le norme in itinere prevedono dal 2013 che ciascuna regione a statuto ordinario determinerà una compartecipazione dei comuni alla addizionale IRPEF aggiuntiva, in misura tale da assicurare loro un importo corrispondente ai trasferimenti regionali soppressi, come i fondi statali o quelli che derivano da risorse proprie. Ciò serve a garantire che il flusso attuale dei trasferimenti si mantenga, ma sarà un flusso non finalizzato. Quindi non ci sarà più alcun finanziamento statale, regionale o anche comunale specifico per le politiche sociali ovvero per i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEPS o LIVEAS, come preferite). In questo scenario si apre una serie di problemi rilevanti, io ne pongo uno, che riguarda le regioni. Gli operatori dei comuni potrebbero pensare che non li riguardi, invece è un problema importante: il soggetto che oggi ha la potestà legislativa esclusiva per quello che riguarda le politiche sociali, ossia la regione, perde lo strumento relativo all’implementazione delle politiche che decide di fare, ossia le risorse. Le regioni italiane mantengono la potestà legislativa esclusiva, ma non hanno più risorse da dedicare alle politiche sociali. Se il problema non viene risolto le politiche sociali saranno sempre più disarticolate e disomogenee. Come verrà finanziato questo welfare comunale? In questo caso, per evitare confusioni, considero le politiche sociali come equivalenti ai Livelli Essenziali. Ebbene, i LEPS saranno finanziati integralmente, ma sempre in modo indistinto, insieme a tutto il resto delle “funzioni fondamentali” dei comuni. È stata già stabilita una nuova classificazione delle spese comunali che distingue tra spese fondamentali e altre che fondamentali non sono. Le spese fondamentali, tra cui i Livelli Essenziali, sono da finanziare integralmente in base al fabbisogno standard. Attualmente la legge 42/09 individua le seguenti spese o funzioni fondamentali: • funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo (nella misura del 70% delle spese) • funzioni di polizia locale • funzioni di istruzione pubblica, compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza e refezione, nonché l’edilizia scolastica
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funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente funzioni del settore sociale Come sono finanziate queste funzioni fondamentali? Con risorse e tributi propri, compartecipazioni alle imposte come l’IRPEF, compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, e con il fondo perequativo. Queste risorse, come dicevo, non hanno alcun vincolo di destinazione, per cui molte delle questioni relative al finanziamento delle politiche sociali verranno gestite a livello locale. Ci saranno anche delle nuove imposte comunali, già delineate nelle bozze dei decreti legislativi, con nomi terrificanti a cui dovremo abituarci, come l’Imup (Imposta municipale propria) o l’Imposta municipale secondaria. Un’altra questione è la seguente: abbiamo visto che le risorse complessive rimarranno le stesse; se lo Stato oggi spende 100 € per i comuni, continuerà a farlo anche in epoca di federalismo. Tuttavia, dobbiamo chiederci: cambieranno le risorse destinate ai singoli comuni? Si. Per i singoli comuni la situazione cambierà, perché se è vero che il complesso sarà lo stesso ci sarà una diversa distribuzione delle risorse, poiché cambieranno i criteri di attribuzione. Perciò ci saranno comuni che avranno più risorse e comuni che ne avranno meno. Il modo in cui cambierà la situazione dipenderà da ciò di cui hanno parlato i relatori che mi hanno preceduto, ossia dal metodo di calcolo, che è affidato al fabbisogno standard e al fondo perequativo. Saranno questi i due elementi che determineranno, rispetto ad adesso, chi prenderà un po’ di più e chi un po’ di meno. Il fabbisogno standard è l’elemento più importante di questo sistema di calcolo. Si è fatto un gran parlare di superamento della spesa storica attraverso il costo standard, proposto dalla legge 42 sul federalismo, che ne definisce i criteri. In realtà nelle norme che fanno riferimento alle regioni il costo standard è un filo conduttore e viene sempre mantenuto, mentre per i comuni non è previsto. Il costo standard di cui si è tanto parlato non c’è, non viene utilizzato come parametro di riferimento per la definizione del fabbisogno standard per finanziare le funzioni fondamentali e i Livelli Essenziali delle prestazioni a esse riferibili. Poiché dal fabbisogno standard dipendono le risorse, diventa importante sapere come calcolarlo. Su questo punto cercherò di essere molto sintetico, anche se il discorso in realtà è piuttosto complesso. La legge 42/09, come ripeto sempre, cita il fabbisogno standard tredici volte senza mai riuscire neanche una volta a spiegare che cos’è e cosa c’è dentro. Quindi il dibattito viene costantemente rinviato, anche se esiste una letteratura economica su di esso. Dalla lettura della legge 42 sul federalismo emergono due metodologie principali per calcolare il fabbisogno standard: la prima è quella dei costi standard, che dovrebbe essere il criterio di riferimento, e l’altra è quella della spesa standardizzata, che viene autorizzata per il fondo perequativo. Teoricamente il costo standard si configura come il criterio più adatto, perché dovrebbe considerare il costo di produzione ideale dei servizi, e quindi sarebbe più vicino alla determinazione delle reali necessità delle politiche sociali e dei comuni. E invece, dopo un lungo ragionamento contenuto anche nella relazione sul federalismo fiscale presentata al Parlamento dal Ministero dell’Economia, il Governo ha deciso che tutte le discussioni fatte e i criteri proposti erano inadeguati, e ha deciso che il sistema migliore, come diceva anche Tardiola, fosse quello di dare tutto in mano alla società degli studi di settore, la SOSE. Quali criteri utilizzerà la SOSE per calcolare il fabbisogno standard? Una settimana fa è stato approvato il decreto, non ancora pubblicato, per il calcolo del fabbisogno standard dei comuni. Il d.lgs 18/11/2010 contiene una elencazione dei criteri, non completamente chiari, da cui però emergono alcuni spunti interessanti. Tra i criteri che verranno usati dalla SOSE c’è “l’individuazione dei modelli organizzativi e dei livelli quantitativi delle prestazioni in relazione alla funzione fondamentale e ai relativi servizi”. Questo è un concetto importante, perché lascia capire che c’è la possibilità di calcolare il costo dei servizi non solo sulla base del costo della funzione. Il dibattito attuale è incentrato sul modo di calcolare il fabbisogno standard per i comuni. Secondo alcuni è impossibile, perché manca la base dati, secondo altri non si può calcolare il costo dei singoli servizi perché occorrerebbe troppo tempo e non ci sono dati sufficienti. Una delle soluzioni individuate è analoga a quella che sta venendo fuori per la sanità: calcolare il fabbisogno standard per singola funzione, ossia in sostanza il costo standard, cioè il costo pro capite, per ogni funzione. L’IFEL, organismo tecnico che studia la finanza locale per conto dell’ANCI, pone la questione in maniera molto netta. Non c’è alternativa al calcolo generico per funzione: la funzione della sicurezza, la funzione delle politiche sociali, e così via. La determinazione del decreto • • •
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tutto sommato apre invece uno spiraglio, perché considera il modello organizzativo e anche il livello quantitativo. Ossia, banalizzando, i livelli quantitativi di prestazione valutano quanti asili nido e quanti educatori servono ogni N bambini. Quindi questa metodologia apre la possibilità di entrare dentro i singoli servizi per calcolarne il costo, e per questo ho scelto di segnalarla. Un altro criterio previsto dal decreto è “l’analisi dei costi finalizzata alla individuazione di quelli più significativi”. Infine, possiamo ricordare anche “l’individuazione di un modello di stima dei fabbisogni standard e la definizione di un sistema di indicatori”. Voglio sottolineare un altro elemento contenuto nel decreto, perché in linea con quanto dicevo poco fa. Secondo il decreto il fabbisogno standard può essere determinato con riferimento a ciascuna funzione fondamentale in modo generico, ma c’è anche la possibilità di calcolarlo per un singolo servizio o per aggregati di servizi. Nei servizi sociali ci sono tre, quattro prestazioni che assorbono la gran parte della spesa: possiamo ricordare l’assistenza residenziale, gli asili nido e l’assistenza domiciliare. A differenza, ad esempio, dell’anagrafe, che è un settore maturo e ha un “costo standard”, i servizi sociali sono un settore immaturo, con un livello di sviluppo e di spesa straordinariamente basso rispetto agli altri Paesi europei e alle necessità reali. Se non si conoscono le esigenze vere non ci sono punti di riferimento, e la possibilità di contrattare una crescita del settore è irrilevante. Se dovesse passare l’ipotesi del calcolo per funzione, essa restituirebbe una fotografia inconsistente dei servizi sociali, e non ci sarebbe neanche la possibilità di crescere all’interno della spesa comunale. Il decreto che è stato approvato non chiude il cammino su questo argomento ma lascia aperta una possibilità. È compito della SOSE ma anche di soggetti del mondo del sociale, della politica, delle organizzazioni sindacali, cogliere queste occasioni per far crescere il settore. Il percorso per il calcolo del fabbisogno standard avrà tempi graduali: la SOSE dovrà svolgerlo in tre anni, quindi ogni anno svilupperà un terzo del lavoro fino ad arrivare al 2014, quando entrerà pienamente in vigore. Possiamo dire che si definisce un percorso? Da osservatore, cercando di essere più asettico possibile, credo di sì. Alla fine di queste normative si definisce sempre un percorso, però occorre fare attenzione. Innanzitutto perché, nonostante la metodologia indicata abbia al suo interno dei contenuti che si possono apprezzare, tutto sommato la procedura è ancora generica, e non permette di predeterminarne gli esiti. E poi c’è un altro aspetto politico importante, quasi “sotterraneo”, perché il sistema di determinazione del fabbisogno standard che elaborerà la SOSE è contenuto nella nota metodologica, che per sua natura in genere viene ignorata. L’entità delle risorse che prenderanno i comuni, non solo per le politiche sociali ma per tutte le loro politiche, è determinato dalla nota metodologica, che prevede un passaggio in Conferenza unificata, ma viene approvata dal Governo, senza un dibattito più ampio. Ebbene, a me sembra che un argomento con un impatto straordinariamente importante sul futuro e sui finanziamenti degli enti locali come questo avrebbe dovuto avere un percorso diverso. In conclusione, c’è la definizione di un sistema di calcolo del fabbisogno standard? No. Sono stati forniti degli elementi, ma secondo me sono ancora insufficienti per definire il metodo di calcolo. Inoltre non si fa più cenno al costo standard per il calcolo del fabbisogno standard. Però, come dicevo prima, c’è un importante accenno alla valutazione degli aspetti strutturali dei servizi che è significativo per i possibili sviluppi, in termini di obiettivi di servizio, garanzie di qualità minima, promozione dell’efficienza.
Federalismo: un’idea alla prova dei fatti Nereo Zamaro Ricercatore
Farò due premesse e una constatazione liberatoria, dopo gli interventi che ho sentito finora. La prima premessa è che voglio esplicitare il mio punto di vista riguardo alle politiche sociali. Ritengo che buone politiche sociali influenzino positivamente il livello di benessere di tutta la collettività, quindi non solo il benessere di coloro che sono target espliciti di interventi sociali, sociosanitari o di istruzione, ma anche il benessere delle famiglie nelle quali queste persone vivono e delle loro comunità. In definitiva buone politiche sociali migliorano il livello di benessere e di qualità della vita di tutta la società, nel nostro caso della società italiana.
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La seconda premessa è che buone politiche sociali non sono quelle abbandonate a loro stesse. È quanto avviene quando, dopo aver fatto la legge, il politico ritiene di aver compiuto il proprio dovere, oppure quando, dopo aver istruito il progetto quadro a livello regionale, provinciale o comunale, il burocrate, il dirigente dei servizi sociali o di una Asl, ritiene di aver concluso e di poterne ignorare in una certa misura l’implementazione. Solo in una certa misura perché le responsabilità amministrative rimangono. Ma il punto è, come sa bene chi lavora nel sociale, che una delle cose più facili per chi si occupa di servizi sociali sul campo è quella di limitarsi a mettere firme dove servono. Quindi buone politiche sociali sono quelle che producono miglioramenti effettivi, e oserei dire, se non corressi il rischio di esagerare, misurabili, nella qualità della vita dei destinatari delle politiche. Arrivato a questo punto faccio la constatazione: se cerchiamo di capire il rapporto tra i disegni federalisti in circolazione, anche con una veste normativa ben definita, e i dati che potrebbero consentirci di formulare una valutazione robusta sugli effetti di questi disegni sulle politiche, e in particolare sulle politiche sociali, la soddisfazione che abbiamo è che non esistono dati che possono aiutarci a capire l’esito di questo rapporto! Lo dico sorridendo, ma in quanto ricercatore mi rendo conto che i provvedimenti sul federalismo, e in particolare sul federalismo applicato alle politiche sociali, ossia ai cittadini che più hanno bisogno di sostegno, finora sono stati presi alla cieca. Ovviamente l’Istat non entra in questo argomento perché produce altro. Quindi il mio è un sorriso amaro. Non abbiamo informazioni sufficienti, i provvedimenti sono presi alla cieca, e dunque non possiamo prevedere come andrà a finire. Vorrei fare una precisazione che oggi non è emersa, ossia che parlando di politiche o interventi sociali, tecnicamente definiti politiche di protezione sociale, bisogna sempre distinguere nettamente tra politiche legate ai trasferimenti monetari e politiche di offerta dei servizi reali. Nel primo caso c’è la massa di denaro che fluisce dalle casse centrali dello Stato per pagare, ad esempio, prestazioni pensionistiche di tutti i tipi (e in questo caso stiamo parlando di 300 miliardi di euro all’anno) o interventi assistenziali di varia natura come la social card oppure, e vi prego di ricordarlo, la Cassa Integrazione Guadagni (CIG), che sta crescendo vigorosamente e di solito dimentichiamo. Teniamo anche ben chiaro in mente che a fronte di queste voci di spesa non esiste mai una copertura fiscale completa, ossia gli italiani non pagano tasse per 100 e ottengono pensioni, CIG e altre cose per 100, perché la spesa supera sempre le entrate finanziarie. Per altro, dobbiamo connettere la spesa sociale generale al periodo che stiamo vivendo, un periodo di vacche magre. In particolare vorrei farvi riflettere sulla crisi economico-finanziaria, che da due anni sta continuando a dare segni piuttosto gravi. È bene ricordarsi che ci troviamo di fronte alla crisi economica più severa che si sia registrata nell’ultimo secolo. Anche la crisi del 1929 è rientrata in tempi più brevi. Abbiamo studiato sui libri di storia economica di come la crisi del ‘29 sia stata la più paurosa mai registrata. Ma, guardando i tempi di rientro dalla crisi del 2008, tutte le curve di declino economico, di declino dell’occupazione, e così via, sono ancora sotto lo zero, e sono già passati due anni. La crisi del ‘29 fu certo drammatica, ma non produsse effetti pesanti così a lungo come quelli che stiamo sperimentando oggi. Ovviamente tali effetti sono attenuati per varie ragioni, tra cui il fatto che esiste un sistema di protezione sociale solido che nel ‘29 non c’era. Però il problema esiste e bisogna in qualche modo affrontarlo. Prima ho fornito il dato della spesa per le pensioni, non parlo di quello per la cassa integrazione perché uscirà tra qualche giorno. Ebbene, mentre da una parte parliamo di 300 miliardi di euro, per il territorio delle politiche sociali parliamo, in aggregato, di 6,5-6,7 miliardi di euro all’anno. È una frazione marginale. Lo dico perché ho sempre pensato, forse da massimalista o per eccesso di generosità, che le politiche sociali non dovessero essere considerate parte delle politiche economiche. È ovvio che serve il denaro per realizzare le politiche, ma quello che mi preoccupa è la mentalità del ragioniere, che, seppur ragioniere dello Stato, tende a segnare in rosso e in blu se si è speso troppo o addirittura anche di più! Andando a sindacare poi gli effetti di questo troppo o “troppo troppo” dal punto di vista formale, amministrativo, senza considerare cosa succede per strada, dove la gente sta male davvero. Questo è forse un mio pregiudizio, però oggi mi sono accorto che accanto a esso c’è un’altra questione preoccupante. Non abbiamo solo un problema di ragioneria o di amministrazione applicata alle politiche, ma anche, e adesso userò toni forti, di ignoranza su come funzionano le organizzazioni, e in particolare su come l’implementazione reale delle politiche tenda in questo Paese,
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in tutte le sue regioni, a distorcere i programmi di partenza. E su questo punto non riesco mai a trovare dei riferimenti e dei ragionamenti chiari. Inoltre, siccome le buone politiche sono quelle che producono reali effetti positivi sull’utilizzatore finale, se non seguiamo la politica fino alla fine non riusciremo mai a capire se quello che vi abbiamo investito, denaro, risorse umane, competenze, produca i risultati attesi. Sto arrivando al costo e al fabbisogno standard, ma prima voglio fare un’altra precisazione. Un passaggio tecnico molto importante, che non è stato esplicitato oggi, è che quando si parla di federalismo si parla in definitiva di politiche redistributive. Però queste sono di diversi tipi. Uno dei ragionamenti classici, di stampo economico, è il seguente: pago le tasse e mi aspetto, a loro compensazione, una serie di servizi. Ora, c’è uno studio scomodo, ma molto importante, condotto da funzionari della Banca d’Italia, sui residui fiscali. Lo studio è stato svolto tra il 2004 e il 2007, quindi prima della crisi, quando la situazione economica era stabile e l’economia funzionava, anche se con difficoltà, e anche questo è un punto delicato. Leggendo i residui fiscali e le annualità del saldo tra servizi ottenuti e tasse pagate, scopriamo che, delle 21 regioni (considerando le due Province Autonome di Trento e di Bolzano), molte hanno un saldo negativo, ossia i cittadini di quelle regioni pagano più tasse di quanti servizi ottengano. Ovviamente non parliamo di servizi reali ma di denaro per potenziare i servizi reali. Se il livello italiano è pari a 1, in media il Piemonte riceve 2,3 volte in meno di quello che dà; la Lombardia 10 volte in meno (i lombardi sembrano strani, ma nel giudizio bisogna tener conto anche di queste cose); il Veneto quasi 5 volte in meno; l’Emilia Romagna quasi 5,5 volte in meno di quello che dà; la Toscana è a -2,4; le Marche a -0,79 quindi quasi in parità; il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione a statuto speciale in cui i cittadini versano più tasse di quanti servizi potenziali ottengano; il Lazio ottiene 5,37 volte in meno di quello che dà. Tutte le altre regioni versano 1 e prendono molto di più. Il Molise si attesta su +7,95 cioè prende otto volte in più di quello che dà; la Basilicata è a +8,59; la Calabria ottiene quasi 9 volte in più di quello che dà; +8 la Valle d’Aosta; +7 la Sicilia e +6 la Sardegna. Dopo la crisi economica, da quando le imprese italiane pagano meno IVA, e ci sono meno lavoratori che pagano le tasse, il livello di criticità dei dati sui residui fiscali è cresciuto, in particolare per tutte le piccole regioni, per tutte le regioni del Sud e per gran parte di quelle del Centro Italia. Questo è un punto molto delicato quando si applica il sistema del federalismo. Dal punto di vista dei trasferimenti individuali, ossia del meccanismo della redistribuzione per cui “tanto pago tanto vorrei ottenere”, c’è questa implicazione allarmante: quasi tre quarti del Paese nei momenti critici va fuori dagli equilibri dei libri. Un secondo meccanismo di redistribuzione riguarda le politiche di sviluppo. È noto che in Italia esistono regioni più sviluppate e regioni che lo sono meno, pertanto vengono realizzate politiche redistributive consapevoli, volte a riequilibrare le due aree e far convergere lo sviluppo economico e sociale. Però in questi meccanismi non vengono mai, mai implicate le politiche sociali, né quell’infrastruttura economicamente rilevante di imprese, spesso anche del terzo settore, che forniscono servizi alla persona, sistematicamente neglette nelle politiche di riequilibrio dello sviluppo. L’Italia è una penisola lunghissima, e c’è un porticciolo ogni 15 km, un campo da golf ogni 30 km, un aeroporto ogni 60 km, e tante altre strutture in abbondanza, ma se andiamo a vedere quanti tipi di servizi reali vengono offerti alle persone in difficoltà, che siano poche o che siano tante, scopriamo che questa materia è fuori. Come se in Italia esistesse ancora un’economia tradizionale in cui i servizi alla persona non vengono considerati alla stregua delle altre attività, siano esse di produzione o di servizi “ludici”. Infine, il terzo criterio che deve essere tenuto distinto quando si parla di federalismo riguarda gli effetti impliciti di redistribuzione. Sono impliciti sia perché non esplicitati, sia perché difficili da individuare, e riguardano i meccanismi conformisti attraverso i quali la pubblica amministrazione continua a spendere sempre lo stesso importo, incrementandolo solo un pochino di anno in anno (per esempio rispetto al tasso d’inflazione) in modo da garantire la crescita organizzativa. Su questo punto si è sempre ragionato pochissimo e si continua a ragionare pochissimo. Napoleone diceva: “Facciamo le politiche e poi l’intendenza seguirà”. Questo è il modello tradizionale delle politiche nazionali: l’importante è fare le politiche, poi la macchina amministrativa gestirà tutto e vedremo cosa succede. È vero che la macchina organizzativa gestisce tutto, ma non si può prevedere come andrà a finire. In questo caso la risposta più comune è di non preoccuparsi, perché invece di usare la spesa storica d’ora in avanti verrà utilizzato il costo standard. Ma è ora di
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cambiare abito. Se è sbagliato considerare le politiche sociali all’interno del framework delle politiche economiche, come ho detto prima, è ancora più sbagliato ragionare di politiche sociali indossando i panni dell’aziendalista. Il costo standard viene analizzato, e oggi l’ho sentito due volte, da persone che hanno applicato una cultura e dei criteri di stampo aziendalistico all’analisi dei comportamenti delle amministrazioni pubbliche, che sono organizzazioni complesse. Capisco il confronto con l’anagrafe (che ha fatto prima Pesaresi), ma esso non è tanto un servizio maturo quanto un servizio burocratico stabile, tipico; è un caso che si può razionalizzare quasi al 100%. Per tutto il resto non si può fare. Lasciamo perdere i servizi sociali, proviamo soltanto a immaginare che qualcuno ci chieda di creare un’organizzazione per produrre sviluppo. Secondo l’aziendalista basta conoscere la funzione di produzione. Non è così facile. La funzione di produzione presuppone, oltre che una teoria generale, la conoscenza certa sia degli obiettivi sia dei mezzi necessari per raggiungerli. È un caso che non si può applicare all’amministrazione pubblica né alla politica, ma alla Fiat che produce la Tipo, sempre uguale, e che sull’uguaglianza di mezzi e obiettivi fonda la fabbrica, che sia qui o in Polonia. Bisogna cominciare a ragionare meglio su queste cose. Oggi ho sentito per ben due volte che l’unica scappatoia è quella del costo standard, o del fabbisogno standard. L’ultimo intervento molto lucidamente criticava la richiesta di calcolare il costo standard per funzione, intendendo non la funzione di produzione ma la funzione burocratico-amministrativa. Anche il professor Muraro, parlando in particolare degli ospedali, sostiene che non si possa calcolare il costo standard perché non siamo in grado di fare una diagnosi organizzativa corretta di quanto costino le prestazioni. Questo vale a maggior ragione per i comuni: quando il Comune di Bologna studiò i propri carichi di lavoro, rilevò che aveva 864 processi di servizio quotidiani, che funzionavano per tutto l’anno. Non è l’aziendina dell’idraulico che va per case e cambia il tubo. Sarà difficile pure quello, ma qui parliamo di organizzazioni complesse. Bisogna fare attenzione ad applicare il costo standard alla funzione amministrativa, per esempio alle politiche sociali: è un errore per il quale si verrebbe bocciati all’università. Il costo standard si può applicare in generale dicendo: di quante province abbiamo bisogno in Italia? Una ogni 100.000 abitanti, e quindi si fa una provincia di 100.000 abitanti. Di quanti ospedali abbiamo bisogno? Uno ogni N abitanti, e si costruiscono gli ospedali. Ma non ha niente a che vedere con la funzione di produzione. Meno che mai con la funzione amministrativa, perché se si vuole che il costo standard abbia un significato economico (tipo 1 litro di latte costa 1 euro e 80) c’è bisogno di una contabilità analitica e di ricostruire non la funzione amministrativa, ma la funzione di produzione effettivamente impiegata per produrre quel risultato. E gli stessi economisti da una quarantina d’anni hanno capito che non è possibile. Quindi il problema è degli aziendalisti e di quelli che li seguono quando scrivono le norme. Mi rendo conto purtroppo che non è un quadro molto affascinante, però mi sembra evidente che coloro che disegnano le norme e coloro che ragionano scientificamente su questi argomenti fanno parte di due comunità di riferimento diverse. I primi devono raggiungere in qualche modo dei risultati, indipendentemente dai numeri, dalle misurazioni e dal senso reale che queste possono avere. Secondo me prima Tardiola parlava correttamente di retorica, anche se si potrebbero usare termini ancora più forti. Sono retoriche nel senso che sono discorsi infondati, anche se convincenti. D’altra parte, c’è anche un ulteriore aspetto da considerare. Farò un ultimo riferimento quantitativo agli asili nido. Abbiamo sentito la questione sollevata dalla dottoressa Candela, che io condivido. In Italia nascono più o meno 420.000 bambini ogni anno. Significa che ci sono 2 milioni e mezzo di bambini tra 0 e 3 anni. Ma quanti bambini vanno all’asilo nido in Italia? 180.000. Ossia il 7,5% dei bambini sotto i 3 anni. L’obiettivo di servizio per gli asili nido è al 12%. Stiamo parlando quasi del doppio, altroché fabbisogno standard. La questione degli asili nido è poi un problema delicato anche per un’altra ragione, sulla quale è bene riflettere. Ci sono dei vincoli che potremmo definire “naturali” alle politiche redistributive. Secondo gli ultimi dati disponibili, prodotti dal sistema informativo di cui parlava prima Margherita Brunetti, in Italia i comuni spendono in media 107 euro l’anno per famiglie e minori. In Calabria, dove quei minori sono sempre cittadini italiani, i comuni spendono 21 euro. In Trentino Alto Adige vengono spesi 223 euro. Tra il bambino calabrese, la famiglia calabrese in difficoltà e il bambino trentino, la famiglia trentina in difficoltà c’è un divario enorme. I soldi conteranno poco, però mi sembra un indicatore abbastanza chiaro della situazione. Bisogna però fare attenzione al ragionamento che sottende la proposta
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di aumentare la spesa sociale al Sud, perché quei soldi verrebbero da chi paga le tasse: poiché per un divario economico strutturale del Paese il volume maggiore di tasse pagate è al Nord, per migliorare con il vecchio modello i servizi al Sud l’aumento delle tasse ricadrebbe sui cittadini del Nord. Posto che ci sia una relazione di questo tipo, perché la black box della pubblica amministrazione è sempre lì intoccata. Alla fine il problema rimane, soprattutto se vogliamo fare dei servizi che aiutino il Paese a essere sempre più equilibrato. Il federalismo, e quindi l’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini e alle loro esigenze, in fondo è una chiave di lettura importante, che tuttavia non può essere rovinata ideologicamente. Non può essere trattata solo dal punto di vista ideologico, perché è la scommessa della nostra prossima generazione e non possiamo giocarla alla cieca. Questo seminario è utile anche perché ci consente ancora una volta di ragionare sull’argomento specifico senza divagare più di tanto. Grazie a tutti.
DIBATTITO
Stefano Daneri La CGIL ha seguito, e continua a seguire, con attenzione questo processo faticoso e lungo. Quando la legge 42 prese corpo abbiamo nutrito molte speranze, pensando innanzitutto che fosse impossibile che un settore sottofinanziato venisse ulteriormente sottofinanziato. Inoltre si stabiliva che la legge dello Stato avrebbe dovuto definire i Livelli Essenziali, e avevamo intravisto la possibilità di strutturare le politiche sociali come la sanità. CGIL, CISL e UIL non si sono mai dimenticate neanche un giorno di richiamare l’attenzione sui Livelli Essenziali; addirittura molto spesso sono state prese da eccesso di zelo ripetendolo troppe volte. Però avevamo intravisto anche dei pericoli nella legge 42 laddove si diceva che, in mancanza della definizione dei livelli, sarebbero stati applicati quelli già presenti. Nel sociale non c’erano, quindi intuivamo che si sarebbe potuto intraprendere un percorso molto tortuoso e indefinito, come poi è avvenuto. Allora, bisogna chiedersi se non si sia rinunciato a strutturare il settore delle politiche sociali, prendendo una strada molto lunga, che prevede almeno 5 anni, passati i quali si vedranno i primi risultati. Perché, se non si vuole rinunciare, è necessario che altri si uniscano al nostro coro sui Livelli Essenziali. Sembra che le regioni abbiano ripreso la questione negli ultimi documenti, e che stia per rientrare nell’agenda e nell’attenzione di tutti quanti. Quindi il lavoro di rete di cui parlava prima Emiliano Monteverde è utile per rilanciare l’argomento e per evidenziare che, se anche in un periodo di crisi è difficile che un Governo si impegni nei confronti di diritti esigibili che costano, tuttavia si può fare un percorso di transizione, durante il quale lavorare alla definizione dei costi standard sulla base dei Livelli Essenziali, e non è un compito impossibile. In questo modo si riprenderebbe quel percorso sano che avevamo intravisto e che, nella CGIL, aveva alimentato delle speranze. Si può partire dai costi immediatamente calcolabili, e poi ampliare la riflessione per arrivare ad avere un settore strutturato e un fabbisogno standard che finanzi quei diritti che nel frattempo devono essere definiti. Altrimenti non riusciremo mai a definirli. Anche se qualche volta ce lo siamo nascosti e qualche volta lo abbiamo evitato, ci sono due visioni opposte sulle politiche sociali. Secondo alcuni bisogna mantenere i valori riformatori essenziali della legge 328, che, anche se rivista, deve rimanere il punto guida. Secondo altri, invece, bisogna seguire l’esempio dell’Inghilterra e la sua teoria della big society. La valutazione attuale sul futuro delle politiche sociali è molto rilevante, perché può portare o all’una o all’altra di queste idee di stato sociale. Se non faremo il percorso che prima delineavo, secondo me rischieremo che la teoria della big society, ancora abbastanza indefinita, abbia nei prossimi cinque anni uno spazio politico rilevante. Mentre, finora, le regioni hanno lavorato avendo come riferimento la legge 328. Però devo anche aggiungere che se le regioni, invece di mettersi d’accordo ogni anno con il Governo solo sulla sanità lasciando indefinito il sociale, avessero mostrato più di attenzione per i fondi nazionali che finanziavano le politiche sociali, oggi saremmo in una situazione completamente diversa.
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Gianni Palumbo Sono Gianni Palumbo, portavoce del Forum del Terzo Settore del Lazio. Complimenti alla Scuola del Sociale e all’Associazione Nuovo Welfare perché questa è stata una mattinata interessante e utile. Vorrei dire soltanto due cose, in maniera molto schematica. La prima è che siamo all’interno di una logica culturale: di cultura economica ma anche sociale, ossia diffusa nella società, che si basa sul principio per cui “tanto pago di tasse e altrettanto devo avere”. Questa logica contrasta con quella che ha accompagnato la nascita degli Stati Nazionali, in base alla quale allo Stato venivano attribuite delle risorse perché le utilizzasse secondo il bene comune e secondo le scelte politiche fatte. La recente visione del “tanto pago tanto voglio” è minoritaria dal punto di vista economico, però è diventata un approccio culturale generale che investe anche il terzo settore in maniera netta, e provoca dei problemi. Provoca problemi perché non ci sono indicatori che dicano qual è il valore sociale, e non soltanto economico, del lavoro che apporta il terzo settore. Non se ne parla, anche se da oltre cinquant’anni si discute di indicatori che non siano solo economici come il PIL, ma anche di benessere sociale e umano. Quindi questo provoca grandi difficoltà. La seconda è che il federalismo in sé stesso è una cosa più che accettabile. Voglio dire, io non ci avrei pensato, però se ci hanno pensato altri che ne avevano necessità, lo si può considerare in una visione comune e anche comunitaria. Il federalismo c’è, e dobbiamo considerarlo. L’aspetto positivo è che, grazie anche alla modifica del Titolo V della Costituzione, esso ha fornito alle regioni, quindi a enti più vicini sul territorio, la possibilità di organizzare e pensare le politiche sociali. Per lo meno quella parte di politiche sociali che riguardano i 7 miliardi di euro di cui parlava prima Zamaro, che sono ben poca cosa per la verità. Tuttavia, insieme a questo, vedo anche un grande pericolo che oggi non è emerso per niente nel dibattito, ed è costituito dall’intervento privato. Se i servizi sono necessari e lo Stato non li fornisce, perché i soldi sono pochi, perché la pubblica amministrazione non ha gli strumenti, e così via, allora deve intervenire il privato. Il privato sociale è di due tipi: quello che ha finalità profit e ha molte più risorse, e quello che ha finalità no-profit. C’è una grandissima differenza, e se interviene il privato sociale profit riducendo gli spazi del no-profit, allora chi ne ha più bisogno sarà il primo a venire tagliato fuori dai servizi. In termini molto generali, se l’obiettivo delle aziende di privato sociale profit è il profitto, questo viene ricercato a qualunque condizione. Questa è la realtà. Bisogna fare attenzione perché, se anche alla fine la quantità totale di denaro non cambierà, il fatto che i trasferimenti siano indistinti è un elemento di rischio, se non è accompagnato da altri fattori. Nella indistinzione, poiché sono i ragionieri a governare i comuni, e l’Assessore al bilancio è l’uomo che decide (così come decide Tremonti a livello nazionale), succederà quello che temiamo, ossia che gli ultimi vengano esclusi. A loro penserà la chiesa o qualcun altro, ma non il comune che è l’ente di riferimento in questo tipo di Stato. Io voglio sollevare il problema e chiedere attenzione, e che ci sia una presa di coscienza rispetto a questo rischio, perché pur all’interno del federalismo si possa intervenire per creare modalità politiche, culturali e poi amministrative e operative che salvaguardino i diritti degli ultimi.
Raffaele Tomba Sono Raffaele Tomba della Regione Emilia Romagna. Vorrei fare due considerazioni. La prima riguarda le conclusioni a cui siamo arrivati oggi, ossia che le regioni del Nord, che spendono di più nel sociale e hanno voluto il federalismo, dovranno accettare di meno. Evidentemente non abbiamo capito. Secondo me tutte le carte non sono sul tavolo, perché è impossibile arrivare a una conclusione del genere. Perciò quello che è stato definito finora e che conosciamo della normativa approvata non può essere il risultato finale, inaccettabile per le regioni che hanno voluto il federalismo. La seconda considerazione è che oggi abbiamo messo in rilievo la marginalità della spesa media sociale in Italia: stiamo parlando di poco o niente, anche se le funzioni per i cittadini sono molto rilevanti. Invece io credo che siamo troppo timidi nell’affrontare il problema della spesa assistenziale dell’INPS, che vale 700 euro pro capite per ogni cittadino italiano, quindi il triplo o addirittura il quadruplo di quanto spendono i comuni, e che ha anche dei margini di non costituzionalità, poiché l’art. 117 della Costituzione dice che l’INPS si deve occupare di previdenza e che
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sull’assistenza devono legiferare le regioni. Quindi le amministrazioni regionali, invece di continuare a discutere con il Governo di come redistribuire il poco e niente che spendono oggi, dovrebbero mettere in campo la massa di finanziamenti che vengono spesi attraverso l’INPS per l’assistenza. Vi voglio ricordare che la legge 328 ha delegato il Governo a rivedere la spesa dell’INPS per quanto riguarda l’assegno di accompagnamento, e questo non è mai stato fatto. Secondo me tale questione deve diventare più centrale nel dibattito con lo Stato. Eugenio De Crescenzo Sono Eugenio De Crescenzo dell’Associazione Generale Cooperative Italiane. Noi raccogliamo un migliaio di cooperative sparse per il Paese, che vivono e agiscono in maniere completamente diverse. A me sembra, dai dati che voi citate, che ci sia un aspetto politico che non si vuole affrontare. La proposta politica parte da dati effettivi e strutturali nella storia del Paese, quali la differenza di reddito e produttività, di impegno e di ritorno, poi i dati vengono brutalizzati, la discussione politica si arena perché il Paese è spaccato, e allora si passa a una conduzione di tipo tecnico, che si chiami SOSE o altro. Per esempio, nel Lazio, l’amministrazione regionale ha “abdicato” sotto la Giunta Storace e ha affidato il piano socioeconomico al CENSIS, facendogli stabilire come dobbiamo vivere, senza darci il diritto di parlare. Così la questione rimane bloccata. Vorrei fare due esempi che riguardano la cooperazione, uno positivo e uno negativo. Noi abbiamo un protocollo con il Ministero del Lavoro per il contrasto alla cooperazione spuria, ossia le cooperative false. La banca dati dell’INPS e quella dell’INAIL non colloquiano fra di loro. Perciò anche se presso tutti gli Uffici provinciali del lavoro sono stati costituiti dei comitati per contrastare la cooperazione spuria, gli organismi nazionali che raccolgono dati sul lavoro non comunicano e i dirigenti devono usare molta fantasia e molta buona volontà per creare un minimo di condivisione tra l’ente preposto, le organizzazioni sindacali, che sono nel patto, e le centrali per la cooperazione. Questa condivisione è invece necessaria per condurre un’azione di contrasto comune. L’esempio positivo riguarda il fatto che, fin dalla legge sulla cooperazione, abbiamo creato il meccanismo dei fondi mutualistici per cui il 3% degli utili di tutte le cooperative vengono accantonati in un fondo che promuove la cooperazione. Se questo principio fosse applicato alle imprese, ossia se le imprese si autoregolamentassero, avremmo già risolto il problema del famoso Fondo per lo sviluppo, di cui non riusciamo a capire bene cosa accadrà. Mi sembra che ci sia una grande confusione nel Paese oggi.
Conclusione dei lavori Emiliano Monteverde
Presidente Associazione Nuovo Welfare
Dirò solo due cose per cercare di rispondere. Non voglio fornire conclusioni a nome di una qualche organizzazione, ma proporre il mio punto di vista, e ovviamente ognuno è libero di formulare la propria interpretazione sull’argomento di oggi. Velocemente vorrei rispondere a Stefano Daneri in modo affermativo, ossia sono certo che noi tutti, non solo la mia Associazione ma tutti i presenti, vogliamo far entrare il mondo del sociale nel dibattito. Promuovere questa iniziativa per noi ha significato proprio questo: ci siamo guardati intorno e non abbiamo trovato sufficienti momenti di riflessione e di coordinamento, perciò ne abbiamo creato uno. Anche la proposta di mettere in rete documenti e informazioni serve a rendere più protagonista il mondo del sociale nel dibattito. Riguardo agli altri temi, è evidente che nel momento in cui si discute di un cambiamento così grande, che è un cambiamento della governance perché anche se non modifica i saldi comunque incide sulle funzioni, nel dibattito entrino problemi come la sussidiarietà, il riordino degli emolumenti, l’INPS nella sua funzione sociale. Si tratta di tutti quei punti rimasti aperti dopo la legge 328. A ben vedere, tutti gli argomenti che abbiamo affrontato oggi, dai sistemi informativi ai Livelli Essenziali, sono esattamente i punti che dovevano essere definiti dopo l’approvazione della legge quadro. Siamo tutti d’accordo sul fatto che i principi della 328 e la cultura che si è creata con essa fossero, e ancora siano, giusti. Però oggi alcuni cominciano a discutere perché nel frattempo sono passati dieci anni e la legge ancora non è correttamente applicata, e forse se venisse
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applicata già bisognerebbe cambiarne delle parti. In più i temi lasciati insoluti allora sono aperti ancora oggi, e mentre discutiamo del federalismo e dei costi standard inevitabilmente ci tornano addosso i problemi che non abbiamo risolto. Perché i problemi irrisolti non trovano una soluzione se ce ne dimentichiamo, prima o poi si riaffacciano. Così, nel momento in cui definiamo i costi standard, torna il ragionamento intorno alla sussidiarietà. In questi anni c’è stato un grande uso della parola sussidiarietà, ma è rarissimo trovare qualcuno che sappia definire che cos’è e che cosa si intende per sussidiarietà. La mia previsione è che nei prossimi mesi l’espressione big society sostituirà la parola sussidiarietà, perché sono dieci anni che la usiamo, pur senza aver mai aperto una reale discussione sull’argomento, e ormai ce ne siamo stancati. Invece big society è decisamente più esotica. Ma l’attuale interpretazione italiana della big society, e in particolare del Ministro Sacconi, è completamente difforme dalla teorizzazione che ne stanno facendo gli inglesi. Non si tratta di condividere o meno la teoria, ma, in maniera più preoccupante, di un provincialismo che ci porta a distorcerla. Inoltre, anche in questo caso, come è avvenuto per la sussidiarietà, ho l’impressione che la discussione in corso non intenda approfondire l’argomento. Allora forse sarebbe utile fare chiarezza non solo sul tema del federalismo ma anche su quello della big society, diffondendo l’informazione, i dibattiti ora in corso tra gli studiosi inglesi, le teorie che stanno elaborando, e anche le differenze strutturali tra l’Inghilterra e il nostro Paese. Bisogna ricordare che il modello anglosassone si basa su una società e un terzo settore completamente diversi dai nostri. In questo modo potremo forse evitare quello che accade fin troppo spesso in Italia, ossia discutere di un argomento teorizzato in un altro Paese “reinventandolo”. Infine, penso anch’io che i dati non siano sufficienti e che le carte non siano tutte sul tavolo, forse perché qualcosa è rimasto nascosto, forse perché c’è molta confusione tra chi sta lavorando sul federalismo, e non c’è una strategia organica. Allora diventa ancora più importante il lavoro che tutti dovremo fare nei prossimi mesi, ognuno per le sue competenze: il Forum del Terzo Settore, i Sindacati, le singole associazioni, le Centrali cooperative. Il contributo della nostra Associazione sarà di fornire informazioni e integrare dati e idee. Però, se le carte di oggi già presentano molti problemi e non sono tutte sul tavolo, dobbiamo ricordare che nel prossimo futuro, nei prossimi due, tre mesi, verranno prodotte ulteriori carte, e forse ulteriori problemi. Questo è il momento in cui il sociale deve partecipare. Come sottolineava Zamaro il ragionamento dei costi standard applicato al sociale ha molti limiti, ma questo è l’approccio attuale. Possiamo non condividerlo, ma dobbiamo tenerne conto. Se non lo condividiamo dobbiamo cercare il più possibile di integrarlo con i nostri elementi di socialità; oppure, se vogliamo, possiamo rifiutarlo in toto schierandoci chiaramente contro di esso. Qualunque sia la posizione scelta, e sono tutte legittime, ripeto che questo è il momento in cui il sociale deve dare il suo contributo al dibattito. Perché, anche se sono previsti tre o cinque anni perché il modello vada a regime, credo che i giochi si chiuderanno nei prossimi mesi.
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Hanno collaborato a questo numero Margherita Brunetti,
Anna Maria Candela,
Claudio Cecchini, Stefano Daneri, Eugenio De Crescenzo, Giulio Marcon,
Emiliano Monteverde,
Gianni Palumbo, Franco Pesaresi, Andrea Tardiola,
Raffaele Tomba, Nereo Zamaro, Daniela Bucci, Silvia Spatari Redattore
Zaira Bassetti
Impaginazione Zaira Bassetti Redazione
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