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WOL welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno IX, Numero 2, Febbraio-Marzo 2013
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Foto di Marco Biondi In questo numero: “Il VI Rapporto su Enti locali e Terzo settore” di Francesco Montemurro - pag. 2 “Livelli essenziali di assistenza: un percorso accidentato per la tutela dei diritti” di Giacomo Costa – pag. 5 “L’impatto delle manovre” di Ketty Vaccaro – pag. 10 Le nostre rubriche: “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine – pag. 9 “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari – pag. 14
Associazione Nuovo Welfare
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Il VI Rapporto su Enti locali e Terzo settore I principali risultati Un grande sforzo degli attori locali coinvolti, però con poche idee in comune, pochissime risorse e forti differenziazioni territoriali per quanto riguarda la garanzia dell’accesso ai servizi. Questa è la rappresentazione del welfare locale che emerge dalla Sesta rilevazione nazionale sul rapporto fra Enti locali e Terzo settore promossa dall’Auser. Mentre Stato e Regioni riducono progressivamente le risorse destinate alla gestione associata dei servizi sociali (Piani di zona), prosegue nei Comuni la tendenza all’incremento degli affidamenti e delle esternalizzazioni, con forte coinvolgimento delle associazioni nell’erogazione dei servizi alla persona. Il rapporto tra Enti locali e Terzo settore è fortemente condizionato dall’azione delle nuove regole del Patto di Stabilità Interno. Negli ultimi anni le amministrazioni pubbliche locali incontrano maggiori difficoltà nell’esercizio delle loro funzioni più qualificate, con particolare riferimento all’attivazione di politiche di sviluppo e alla qualificazione dei servizi collettivi. La finanza locale vive un periodo molto difficile, segnato soprattutto dall’incertezza che sta caratterizzando i lavori di preparazione dei bilanci di previsione per il 2013, con particolare riferimento agli aspetti che riguardano i trasferimenti statali e le entrate tributarie, l’applicazione del Federalismo municipale e la riorganizzazione dei piccoli Comuni. I forti vincoli all’azione comunale hanno finito per determinare un significativo aumento della pressione fiscale locale, cui non ha corrisposto un adeguamento della spesa corrente e del livello di copertura dei servizi alla persona. Inoltre, sollecitate dal Patto di Stabilità, le amministrazioni comunali hanno ormai intrapreso la strada del progressivo dimagrimento degli organici pubblici. Per di più il quadro normativo sollecita ormai da alcuni anni i Comuni alla dismissione dei servizi in gestione diretta a favore dell’affidamento a soggetti terzi. Ridimensionamento degli organici comunali a vantaggio degli affidamenti, aumento dei carichi di lavoro per gli addetti e forte coinvolgimento delle associazioni nell’erogazione dei servizi socio-assistenziali (anziani, minori, adulti in difficoltà, ecc.). In base ai principali ri-
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sultati emersi dalla Sesta rilevazione nazionale, il nuovo welfare locale è sempre meno «comunale». Ormai si attesta al 43,6% (dati Ministero dell’interno) la percentuale di interventi sociali (considerando il numero delle prestazioni) gestiti direttamente dai Comuni, una quota che si riduce al 25,9% nel Nord–Ovest e si eleva invece fino al 53,8% nel Sud. I dati del dossier Auser descrivono invece il rilevante apporto che associazioni e imprese sociali forniscono alla gestione dei servizi sociali. Tuttavia, le amministrazioni pubbliche locali sono ancora inadempienti nella creazione di regole davvero efficienti e trasparenti per consentire al Terzo settore sia di erogare servizi di qualità alla cittadinanza, sia di svolgere un ruolo importante nella programmazione sociale e in termini di sussidiarietà orizzontale. Il rapporto tra Enti locali e Terzo settore è fortemente condizionato dall’azione delle nuove regole che disciplinano il pubblico impiego. Il quadro normativo sollecita ormai da alcuni anni i Comuni alla dismissione dei servizi in gestione diretta a favore dell’affidamento a soggetti terzi. In base alla rilevazione effettuata su bandi di concorso e capitolati d’appalto pubblicati dai Comuni nel periodo settembre 2012 – marzo 2013, sappiamo che in molti casi le prestazioni sociali vengono erogate attraverso contratti atipici, mentre il rapporto tra numero di operatori e numero di utenti è destinato ad aumentare, specie per quanto riguarda i servizi per l’infanzia e l’assistenza domiciliare per gli anziani (Sad). Un altro punto interrogativo, inoltre, riguarda la qualità della partecipazione delle organizzazioni di volontariato alla programmazione sociale. Da sottolineare che negli ultimi due anni è cresciuto, a fronte dei forti limiti imposti alle assunzioni pubbliche, il ricorso alle selezioni finalizzate alla ricerca di personale per lo svolgimento di prestazioni occasionali, da retribuire anche mediante buoni lavoro (voucher) nella forma del lavoro accessorio (legge 23 dicembre 2009, n. 191, che apporta modifiche all’articolo 70 del d.lgs. 276/2003). Attraverso questa forma contrattuale, spesso l’amministrazione comunale potenzia il ricorso al lavoro accessorio, forma d’intervento che in diversi casi può nascondere l’uso sostitutivo e non integrativo delle persone selezionate. Si
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welfare on line tratta ormai della modalità di reclutamento del personale prevalente, a giudicare dall’analisi svolta su un campione di bandi di concorso e selezioni pubbliche predisposte negli ultimi sei mesi dai Comuni più grandi, con popolazione superiore ai 10 mila abitanti. Gli interventi sociali realizzati da Auser soddisfano una domanda sociale in forte crescita, in genere non coperta dalle istituzioni pubbliche locali preposte; si tratta di una domanda variegata, al cui interno si intrecciano le necessità collegate alla povertà (soprattutto nelle grandi città del Nord, dove emerge la fragilità economica e relazionale delle donne vedove, sole e molto anziane), bisogni socio-sanitari collegati alle condizioni di non autosufficienza e di parziale non autosufficienza degli anziani, bisogni di compagnia, socialità e di «benessere», le necessità di spostamento nel territorio. In particolare, la richiesta di servizi di mobilità e collegati ai trasporti è ormai un fenomeno in forte crescita, connesso non solo alla necessità, da parte degli anziani, di raggiungere uffici pubblici e presidi ospedalieri e ambulatoriali, ma anche al desiderio, espresso da una quota rilevante di utenti ultrasettantacinquenni soli, di spostarsi nel territorio per svolgere attività sociali e in particolare relazionali, e sbrigare in modo autonomo pratiche d’ufficio. In definitiva, le attività convenzionate svolte da Auser rispondono a una «nuova» domanda sociale espressa dagli anziani, che si indirizza verso l’uso «attivo» del territorio; domanda che può essere soddisfatta sempre meno attraverso il ricorso alla istituzionalizzazione, ma al contrario richiede il potenziamento del sistema dei servizi reali e la creazione di nuove opportunità (integrazione sociale, promozione del benessere, invecchiamento) nelle comunità locali. Auser è partner di una rete estesa di soggetti sociali. Essi svolgono, anche sollecitati dagli enti territoriali, importanti funzioni pubbliche nelle attività di contrasto alla povertà, di promozione della salute e della qualità della vita degli anziani. Le organizzazioni di volontariato intervengono non solo nella gestione di servizi e interventi sociali «per conto» degli Enti locali, ma anche e soprattutto per promuovere e realizzare sul territorio spazi di auto-organizzazione (che in diversi casi si trasformano in veri e propri momenti di auto-governo), innescando politiche sociali più mirate all’evoluzione sociodemografica e ai nuovi bisogni delle popolazione anziane.
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Tra i punti di criticità, la forte sollecitazione che gli enti territoriali esercitano nei confronti delle associazioni per la gestione di «pezzi» di servizi sociali. Nel 2012 e nei primi mesi del 2013, le convenzioni sottoscritte da Comuni e Auser si caratterizzano per la presenza di un numero elevato di servizi e interventi “integrativi” richiesti al volontariato. A tale complessità dell’intervento richiesto spesso non corrisponde però un’adeguata regolazione nonché l’attivazione di un processo di programmazione sociale condivisa.
Fonte: elaborazioni su dati Ministero dell’Interno (*) compresi accordi programma, enti autonomi, aziende speciali municipalizzate, società partecipate, co.co.co e patrocini.
L’indagine sul campo: l’affidamento dei servizi sociali comunali Relativamente al periodo settembre 2012 – febbraio 2013 sono state esaminate le procedure di gara (89) e le determinazione dirigenziali (103) pubblicate dai Comuni con popolazione superiore ai 10 mila abitanti (Gazzetta Ufficiale, Bollettino Ufficiale Regionale, siti web, quotidiani) per l’affidamento all’esterno di servizi sociali. Si tratta di selezioni pubbliche e «ristrette» (cioè con procedure negoziate e a licitazione privata) e di «affidamenti diretti», in base ai quali i Comuni hanno poi trasferito alle imprese sociali e alle associazioni di volontariato la gestione dei servizi alla persona (quali, ad esempio, l’assistenza domiciliare e l’educativa territoriale, l’asilo nido e la mensa, ecc.) e di altri servizi sociali, per una spesa totale prevista di 6,165 milioni di euro.
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welfare on line Gli stanziamenti di spesa risultano assai frammentati: la spesa media per bando (per un totale di 4,998 milioni relativamente alle 89 procedure di gara attivate) è pari a 56.157 euro circa, al netto dei ribassi ottenuti dai Comuni nella fase di aggiudicazione), con una forte variabilità territoriale. Particolarmente significativo è il numero degli affidamenti diretti, pari a 103 (per un importo medio di circa 11.330 euro ciascuno), di cui ben 55 sono rivolti alle associazioni di volontariato per la gestione di servizi sociali cosiddetti integrativi. Pur non potendo operare un confronto diretto e omogeneo tra le rilevazioni effettuate negli ultimi anni, sembra trovare conferma l’ipotesi formulata nel “V Rapporto sugli Enti locali e il Terzo settore”, secondo la quale il ricorso alle organizzazioni di volontariato da parte delle amministrazioni pubbliche locali sia diventata una pratica sempre più frequente. Questo, con buona probabilità, allo scopo di contenere la spesa sociale a fronte della progressiva riduzione delle risorse pubbliche, tenuto conto che le associazioni si avvalgono di norma di prestazioni volontarie e gratuite dei propri soci; mentre, come è noto, le cooperative sociali e le imprese profit utilizzano manodopera retribuita.
Fonte: Indagine campionaria Auser, 2013
Sulla base dell’analisi dei bandi, dei capitolati di appalto e di ulteriori dati rilevati presso i Comuni, la gestione della spesa sociale comunale affidata all’esterno viene impiegata principalmente a favore delle cooperative sociali, soprattutto nel Nord Italia (72,5% nel NordOvest e 71,8% nel Nord-Est). Le associazioni di volontariato risultano affidatarie dei servizi sociali principalmente al Sud (32,4%), al Centro (30,4%) e nelle Isole (27,3%).
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Fonte: Indagine campionaria Auser, 2013
Le cooperative sociali gestiscono in particolare servizi di assistenza domiciliare agli anziani, interventi assistenziali di base (gestione di centri con ospiti residenziali) e servizi all’infanzia, specie quelli a carattere educativo e ricreativo. Alle associazioni di volontariato, i Comuni affidano in particolare la gestione di servizi cosiddetti innovativi e integrativi, di supporto agli interventi «complessi».
Fonte: Indagine campionaria Auser, 2013
Occorre poi osservare che la breve durata degli incarichi (le convenzioni con durata non superiore a un anno sono pari al 32,6% delle 89 procedure di gara rilevate, una quota che supera il 37,5% nel Sud) costituisce elemento di forte incertezza nelle prestazioni di efficienza e di efficacia della spesa sociale. Inoltre, 8 gare (cioè quasi il 10% del campione) sono state indette sulla base del criterio di aggiudicazione al prezzo più basso determinato mediante massimo ribasso sull'elenco delle offerte. Questa formula è volta a premiare esclusivamente i ribassi proposti dalle imprese sociali rispetto alla base d’asta o prezzo base progettato dal Comune, ignorando, in definitiva, le componenti tecniche e qualitative delle offerte. Tale prassi è adottata ancora dai Comuni nonostante che la legge 328/2000 e le norme regionali di settore sollecitino, ormai da anni, le amministrazioni pubbliche ad abbandonarla. Dall’esame dei documenti collegati ai bandi (capitolato di appalto, disciplinare d’incarico), emergono alcune criticità. Gli Enti locali non hanno applicato gli indirizzi della riforma dell’assistenza (legge 328/2000 e Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 marzo 2001, «Ruolo dei soggetti del Terzo settore nella programmazione progetta-
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welfare on line zione e gestione dei servizi alla persona») per la diffusione delle forme di aggiudicazione cosiddette negoziate, volte cioè a sviluppare – attraverso le formule dell’«appalto concorso» e della «co-progettazione» - le capacità progettuali dei concorrenti del Terzo settore. In sostanza, i rapporti tra enti territoriali e imprese sociali, disciplinati dai bandi e dai capitolati di appalto, spesso si limitano all’affidamento della gestione di servizi sociali (anche nell’ambito della programmazione sociale realizzata a livello di Piano di zona), in assenza di procedure codificate che promuovano la partecipazione di tali strutture private alla fase di programmazione territoriale. Solo quattro gare pubbliche, infatti, prevedono l’aggiudicazione di servizi sociali sulla base dell’«appalto concorso» (che lascia libertà alle imprese sociali di proporre progetti di ampio respiro e innovativi); inoltre, solo 7 Comu-
ni/enti gestori hanno promosso selezioni pubbliche finalizzata all'individuazione di soggetti del Terzo settore disponibili alla co-progettazione per interventi innovativi e sperimentali nel settore dei servizi sociali (art. 5 della legge 328/2000). Francesco Montemurro *
Laurea in sociologia, master in Business Administration, coach professionista, Francesco Montemurro è presidente dell’Ires Lucia Morosini, collabora con Auser e ha scritto numerosi articoli per il Sole 24 ore e altri quotidiani e riviste specializzate in materia di welfare. Attualmente coordina un progetto UE per il miglioramento delle relazioni industriali nell’ambito dei processi di ristrutturazione aziendale, finalizzato in particolare a minimizzare i costi sociali per i lavoratori e le comunità locali.
Livelli essenziali di assistenza: un percorso accidentato per la tutela dei diritti Ormai più di dieci anni fa, la L. n. 328/2000 e poi la riforma costituzionale del 2001 (art. 117, c. 2 lett. m) hanno previsto la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, affinché fossero garantiti su tutto il territorio nazionale. Molto in breve, lo scopo era quello di assicurare un “livello essenziale” di godimento dei diritti sociali (e civili) in tutto il territorio nazionale, lasciando poi alle Regioni la facoltà di definire le modalità di organizzazione dei servizi e la possibilità di prevedere livelli ulteriori di assistenza. In tal modo si voleva tutelare la differenziazione e l’adeguatezza degli interventi nei diversi territori. Diversi sono stati i tentativi di elaborare concrete proposte di definizione (un lavoro interessante è stato condotto dall’IRS di Milano guidato da Emanuele Ranci Ortigosa), ma, nonostante la loro approvazione più di una decina di anni fa, lo Stato non ha ancora provveduto alla determinazione legislativa di questi livelli. Diventa così urgente e interessante capire il perché (cfr in particolare G. Costa [ed.], Diritti in costruzione. Per una definizione efficace dei
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livelli essenziali di assistenza sociale, Bruno Mondadori, Milano 2012). Varie ragioni sono ormai diventate un «classico», e talvolta uno stereotipo, per spiegare questa inerzia. Tra queste, la più invocata è sicuramente la penuria di risorse, con il timore di non essere economicamente in grado di erogare e garantire le prestazioni individuate attraverso i livelli. Così gli enti pubblici reagiscono alla crisi delle loro finanze, riducendo la disponibilità di risorse, contenendo la quantità di misure erogate e inasprendo le soglie di accesso, tagliando ciò che non è previsto da ineludibili obblighi di legge, scaricando la gestione dei problemi e la soluzione delle contraddizioni sulle parti più deboli (lo Stato e le Regioni sui Comuni; gli amministratori locali sugli operatori; l’insieme della società su persone e gruppi vulnerabili). Una seconda difficoltà fa riferimento al fatto che in ambito sociale – a differenza dall’ambito medico – le prestazioni sono difficilmente standardizzabili, in quanto legate a bisogni specifici dei destinatari e alla loro situazione personale. Un ulteriore problema è relativo all’arti-
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welfare on line colazione territoriale dei servizi e degli interventi: la logica costituzionale si fonda sull’idea che, una volta definiti i livelli essenziali, siano Regioni ed enti locali a realizzare le misure, i servizi e gli interventi necessari a darvi attuazione. Non è però agevole separare il momento definitorio dei livelli essenziali dalla loro messa in opera in territori tanto diversi. Sono tutte motivazioni non prive di fondamento, dietro cui si agitano forse anche ragioni di opportunità assai meno ufficiali e ufficializzabili. In primis, a livello sia dei decisori politici sia dei responsabili amministrativi e degli operatori sociali, fa comodo salva-guardare uno spazio di discrezionalità nel-l’erogazione delle prestazioni, che verrebbe meno se i livelli essenziali si concretizzassero. Inoltre, l’incremento della spesa a favore degli “ultimi” che essi quasi certamente comporterebbero potrebbe non essere conveniente in prospettiva elettorale. Infine, definire i diritti soggettivi ad accedere a determinati servizi e interventi porterebbe a rovesciare la logica dell’attuale sistema di finanziamento, in cui la programmazione degli interventi ha come punto di partenza la quantificazione delle risorse disponibili. Per avanzare nel percorso di riflessione sui livelli essenziali penso così che sia necessario guardare l’insieme delle caratteristiche culturali, strutturali e istituzionali del nostro sistema di welfare. In questo senso la determinazione dei livelli essenziali di assistenza sociale è una questione certamente tecnica, ma tutt’altro che scevra di risvolti politici e sociali: una riflessione che riguarda in radice la strutturazione complessiva del sistema di welfare. E poi è proprio attraverso la discussione delle misure tecniche che si possono attraversare i nodi cruciali per la comprensione della strada da percorrere in maniera non solo ideologica o a livello di buone intenzioni. 2. Caratteristiche del welfare italiano Siamo di fronte a caratteristiche culturali del sistema di welfare che la situazione di crisi non ha aiutato ad affrontare, rendendo ancora più cogente la questione dei livelli essenziali. Senza alcuna pretesa di esaustività ne elenchiamo alcune. a) L’eccessivo peso della previdenza. La quota del Prodotto interno lordo che il nostro Paese destina alla protezione sociale appare nel suo insieme di poco inferiore ai valori medi dell’area euro, mentre la ripartizione
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fra le diverse componenti della spesa sociale (previdenza, sanità, ammortizzatori sociali, assistenza e istruzione) risulta profondamente diversa rispetto agli altri Paesi. In particolare, la componente previdenziale rappresenta quasi il 60% del totale, a fronte di una media intorno al 45%, comprimendo inevitabilmente tutte le altre voci, in particolare quelle dedicate all’inclusione sociale dei più svantaggiati e alla famiglia. Probabilmente è dovuta a questo squilibrio anche la minore efficacia della spesa sociale italiana in termini di riduzione della povertà. Ad esempio, secondo i dati Eurostat, nel 2010 le persone a rischio di povertà rappresentavano il 24,5% della popolazione italiana, contro una media del 21,6% per l’area euro. b) Disparità tra Regioni. In un Paese già segnato da profonde differenze territoriali in termini di sviluppo, di dotazione di capitale sociale e di culture e tradizioni politicoamministrative (da quella asburgica a quella borbonica; da quella “bianca” a quella “rossa”; a riguardo cfr. A. Ciarini, Le politiche sociali nelle regioni italiane. Costanti storiche e trasformazioni recenti, Feltrinelli, Milano 2013), le trasformazioni in atto e i processi di regionalizzazione e di decentramento politicoamministrativo hanno favorito il consolidarsi di regimi di welfare regionale assai diversi tra loro: quello lombardo-veneto più orientato al mercato, quello tosco-emiliano incline a una programmazione dirigista mitigata da municipalismo e neocorporativismo, quello meridionale attento a occupazione pubblica e trasferimenti alle famiglie con venature assistenzialistiche e clientelari. In sintesi, l’attuale assetto del welfare ripropone il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno per quanto riguarda l’offerta di servizi sociali e assistenziali, con una sempre più profonda disuguaglianza di opportunità tra aree territoriali. c) Mancanza di progettualità. Neppure nelle ultime riforme è variata la peculiarità italiana di adottare politiche di contenimento della spesa, senza alcuna forma sostanziale di “ricalibratura” della spesa e dei servizi di welfare verso nuovi bisogni o nuove modalità di intervento. I tagli, spesso consistenti, non sono accompagnati da significativi e sensati investimenti sociali. Fondamentalmente, la logica resta quella di programmare gli interventi sulla base delle risorse disponibili, oltretutto tarate sulla base della spesa storica
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welfare on line piuttosto che sull’identificazione di priorità strategiche (F. Cerniglia, «Liveas e federalismo fiscale: le risorse», in G. Costa, Diritti in costruzione, cit., 56-77). Lo sviluppo normativo e istituzionale del welfare italiano è stato caratterizzato dalla mancanza di una visione unitaria e di lungo periodo del modello di protezione sociale che si intendeva costruire. Siamo quindi lontani dalla prospettiva del welfare inteso non come costo ma come investimento, posizione sempre più condivisa specie a livello europeo (M. Villa, «I livelli essenziali come soglia o come rapporto: presupposti ecologici e logiche di intervento», in G. Costa, Diritti in costruzione, cit., 107127). d) Clientelarismo e affini. Lungo il percorso di sviluppo del welfare italiano gli interventi normativi innegabilmente hanno spesso risposto a pressioni politiche e sociali contingenti e si sono orientati alla ricerca di un consenso di tipo clientelare. Anche a livello regionale trova nuovi spazi l’antico vizio clientelare, ormai sempre più frequentemente connotato in termini criminali, come dimostrano le numerose inchieste della magistratura sulla gestione della sanità, e non solo nel Mezzogiorno: in molte parti del Paese alcuni comparti del welfare sembrano essere diventati innanzitutto un’opportunità di fare affari. Elementi di forza Per far uscire il welfare italiano da queste contraddizioni, che ne minano le potenzialità di volano di autentico sviluppo, è indispensabile rimetterlo nell’orizzonte di quei principi che lo ispirano e ne esprimono la finalità profonda. a) Principi Costituzionali. Il primo è senz’altro il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 della Costituzione e specificati nella successiva Parte I: essi non riguardano solo la protezione da arbitrarie “invasioni” dell’autorità nella sfera della libertà personale, ma anche la possibilità per tutti di condurre effettivamente un’esistenza «libera e dignitosa» (art. 36 Cost.). Il secondo fondamento è l’uguaglianza, come disposto dall’art. 3 della Carta costituzionale. Senza proporre un egualitarismo assoluto che condurrebbe all’appiattimento della società, la Costituzione non si limita a prescrivere l’uguaglianza formale di fronte alla legge, ma propone l’obiettivo della realizzazione di una uguaglianza sostanziale: per raggiungerla, secondo
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la giurisprudenza della Corte costituzionale, sono giustificate, se non richieste, anche azioni volutamente “disuguali” per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica. Così, una corretta incorporazione della tutela dei diritti inviolabili permette al sistema del welfare di liberarsi dai due rischi opposti che oggi lo attanagliano. Il primo è l’equazione che, in mancanza della definizione dei contenuti precisi delle prestazioni sociali, finisce per trasformare in diritto ogni bisogno, con una soggettivizzazione esasperata, con la necessità di un aumento indefinito delle risorse a disposizione e soprattutto con una visione quanto meno paternalista della mano pubblica: con bisogni sempre crescenti servirebbe uno Stato senza limiti. Il secondo è quello che svuota di fatto i diritti della loro piena esigibilità, condizionandoli ai vincoli di bilancio e alla disponibilità di risorse, dunque rendendoli dipendenti non solo dalle condizioni soggettive dei loro titolari (reddito, composizione e numerosità della famiglia, presenza di fattori di svantaggio, ecc.), ma anche da decisioni politiche o burocratiche dell’ente erogatore. In un modo sottile ma estremamente potente, questo rimette il cittadino, titolare di diritti, nelle condizioni del suddito che può solo sperare di ricevere aleatori quanto arbitrari benefici. b) Un ricco tessuto sociale. Nell’ottica della piena attuazione dei principi costituzionali sopra ricordati trova posto anche la riqualifica zione dei rapporti tra gli attori del welfare, a partire da quello che lega l’amministrazione pubblica e il terzo settore: una grande ricchezza potenziale, che nella pratica non è esente da rischi di collusione e dipendenza. Così l’enfasi costituzionale sulla partecipazione costituirà la logica che anima i percorsi di attuazione della sussidiarietà: il peso della legge statale si ridimensiona, mentre si moltiplicano i circuiti di protezione e i canali di attivazione dei diritti, talora tra loro combinati. È questa la chiave per reinserire il welfare nel circuito della creazione di capitale sociale e di valore, a condizione che si rispettino i ruoli di ciascuno e le relazioni che legano gli attori coinvolti. Cosa che, appunto, è la vera sussidiarietà. Così famiglie, associazioni, fondazioni e cooperative non sono solo una risorsa da “sfruttare” per ridurre i costi di gestione, ma realtà attraverso le quali dare forma a modalità sostenibili del vivere insieme. Se quindi “pubblico” non può più essere sinonimo di statale,
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welfare on line regionale, amministrativo, resta però fondamentale il ruolo di regia di chi governa sulla base della legge e della Costituzione. In un welfare totalmente privatizzato, infatti, il rischio che vengano a mancare le risposte ai bisogni scomodi e impopolari – quelli di stranieri e rom ad esempio – è troppo alto, con l’abbandono istituzionalizzato della tensione all’uguaglianza sostanziale. 3. Prospettive e interrogativi Su questo sfondo alcuni punti e interrogativi vanno ulteriormente precisati. a) Una constatazione. Che si proceda o meno alla definizione dei livelli essenziali, bisogna tenere conto che il cammino dei diritti avanza. Da una parte la definizione dei livelli essenziali non si configura come una scelta pienamente discrezionale, non potendo questa oltrepassare il limite inferiore della soglia del costituzionalmente dovuto. Pertanto la garanzia delle posizioni individuali e sociali fondate sulla Costituzione non risulta affidata unicamente alla legge statale, il cui peso relativo si ridimensiona, mentre si moltiplicano i circuiti di protezione dei diritti, talora tra loro combinati, e i canali di attivazione degli stessi. Ad esempio estendere agli stranieri servizi o provvidenze che il legislatore aveva destinato ai soli cittadini. Lo stesso stimolo viene dall’Unione Europea, che potrebbe giungere a esigere ciò che finora si è limitata a raccomandare, e cioè che gli Stati membri si dotino di schemi di minimo vitale con cui assicurare un’esistenza dignitosa a tutti. Si tratta di prospettive in movimento che vanno approfondite (cfr F. Pizzolato, «La Corte costituzionale e le tutele sovranazionali di fronte alla mancata attuazione dei Liveas, in G. Costa, Diritti in costruzione, cit., 35-55). b) Una tensione. Non può essere sottovalutata la tensione tra l’esigenza di determinare i livelli e quella di adattabilità all’intervento sociale. Non è solo una tensione tra discipline (giurisprudenza e scienze sociali principalmente, con in mezzo l’economia). Da qualsiasi parte la si affronti la riflessione sui livelli essenziali deve tenere conto del fatto che, oltre a sancire diritti, essi devono prestare attenzione alla crescita del sistema dei servizi, alla definizione di protocolli di intervento condivisi e all’efficacia organizzativa sul territorio. Ci sembra oggi evidente che essi vadano definiti legislativamente, ma con necessari agganci ai processi programmatori, e quindi con modalità partecipative. Senza trascurare poi l’importanza
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che la definizione dei livelli essenziali in chiave partecipativa potrebbe avere per una riqualificazione delle pratiche democratiche del nostro Paese, in reazione al discredito e all’impasse in cui è caduto quel sistema politico che ha finora gestito l’organizzazione e il funzionamento del sistema di welfare. Si tratta di un’interessante palestra che richiede impegno di elaborazione: come trovare criteri in grado di mettere a confronto percorsi che avvengono in situazioni diverse, senza pretendere di offrire a tutti i costi chiavi di lettura omogenee, e senza neppure rinunciare alla tutela dei diritti? In che modo collegare effettivamente i livelli stabiliti con le variazione nell’allocazione di risorse e poi, a valle, con un impatto dimostrabile sul terreno? Come suscitare delle aree di dialogo politico “qualificato”, ove far convergere le riflessione sull’impatto delle diverse politiche pubbliche, sull’azione dei diversi attori sociali e sull’interazione tra tutte le iniziative, con una attenzione alla disomogeneità dei percorsi? c) Un rischio. I livelli essenziali di assistenza sociale sono nati per la necessità di combinare i limiti della finanza pubblica e compensare gli squilibri territoriali. È ancora attuale questa prospettiva? C’è chi ha suggerito di rovesciarla: piuttosto che spingere la differenzazione, perseguire una omogeneità che non c’è. Quindi non tanto garantire il minimo per espandersi nel massimo, ma stabilire un minimo che è nei fatti il massimo che tutti sono in grado di garantire. Ecco quindi il rischio: pensare di garantire i diritti “oltre” i livelli essenziali rischia di diventare una utopia. Essi rischiano di diventare il livello massimo di garanzia che si possa prestare, soprattutto in un momento come il nostro, in cui le risorse sono scarse. E che date le esigenze di pareggio dei bilanci, il legislatore statale impedisca a quello regionale di applicare standard migliorativi che costano. Come si può vedere, il lavoro sui livelli essenziali è ancora grande e i nodi da sciogliere prima che essi possano effettivamente essere messi in pratica sono considerevoli. Occorre continuare a confrontarsi in maniera seria, per potere disegnare insieme la strada sui cui procedere. La consapevolezza di base però che non ci può lasciare è che se il welfare è stato a lungo considerato un’area di costo, come qualcosa che viene dopo la produzione; esso, al contrario, deve diventare quel che già è: una parte significativa e integrante del processo
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welfare on line produttivo, e uno strumento generatore di ricchezza, proprio perché interessa tutti gli ambiti della vita sociale. Dunque, approfittare della situazione delicata per trasformare il welfare, ripensandolo anche come potenziale fattore di rinnovamento complessivo. Con la certezza che
investire in diritti gioverà anche allo sviluppo integrale del Paese. Giacomo Costa *
Gesuita e sociologo, direttore del mensile “Aggiornamenti sociali” e presidente della Fondazione Culturale San Fedele a Milano.
Cineforum a cura di
Matteo Domenico Recine Pietà Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, Pietà si innesta in un percorso autoriale non facile, ma estremamente rigoroso e puntuale. I temi portanti affrontati da Kim Ki-Duk in questo film (l’identità e la colpa) non si discostano eccessivamente da quanto già narrato in opere quali La samaritana o Time, ma sono sviluppati in chiave contemporanea: seppure presente in modo non centrale, la crisi economica di questi tempi ha in Pietà un importante ruolo da attrice non protagonista. Non un film sulla crisi tout court, quindi, ma un film che conduce lo spettatore anche all’interno di alcuni effetti non macroscopici ma soggettivi e personali della crisi stessa. Non solo, Pietà è un film sugli effetti stranianti e implacabili delle megalopoli moderne verso gli individui, sempre più isolati e perciò privi di speranza, senza alcuna forza sociale ma solo individuale. Un film, infine, sulla necessità di espiazione, per colpe che a volte non sono neppure proprie. Brevemente la trama: Kang-do, strozzino alle dipendenze di un boss di Seul, recupera i soldi prestati a terzi in maniera brutale, infortunando chi non può restituire quanto concordato per riscuoterne almeno l’assicurazione (precedentemente stipulata proprio come garanzia). Tale azione ha un duplice effetto, perché punisce con una menomazione a vita il colpevole della mancata restituzione. Kang-do interpreta il proprio ruolo come una missione, con dedizione profonda e uno stile di vita parco, rigoroso, privo di passioni umane. In realtà una debolezza esiste, l’assenza della madre. Quando una donna sconosciuta, Jang Mi-sun, sostiene di essere la madre che l’ha abbandonato da bambino, Kang-do reagisce con una progressiva umanizzazione, fino a diventare fragile, emotivo, vulnerabile. Ma, nonostante un progressivo senso di pietà si faccia strada nel cuore della donna, che in realtà è la madre di una delle tante vittime di Kang-do, la vendetta viene portata avanti con determinazione. Come accade agli autori più geniali e universali, valori e analisi di sapore globale sono affrontati tramite una trattazione stilizzata, fatta quasi più di maschere che persone, affinché il riconoscimento possa avvenire anche al di fuori di una ben precisa cultura. Anche per questo, Pietà è un film pieno di simbolismi ed eccessi allegorici. È, soprattutto, uno splendido film, ma con qualche attenuazione stilistica rispetto al passato. Più “sporco”, Pietà è soprattutto molto parlato, in qualche momento anche in modo ingenuo (ma potrebbe trattarsi di un problema di traduzione e non di sceneggiatura), eppure felicemente riuscito. Jo Min-Su è ispiratissima, nella sua parte. Un film di Kim Ki-Duk. Con Lee Jung-Jin, Jo Min-Su. Titolo originale Pietà. Drammatico, durata 104 min. - Corea del sud 2012. - Good Films uscita venerdì 14 settembre 2012. - VM 14.
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L’impatto delle manovre Il 2012 è stato un anno cruciale per il welfare italiano, un anno in cui la crisi complessiva ha avuto significative ripercussioni sul comparto ed in cui i diversi provvedimenti, presentati come strumenti fondamentali per far fronte alle debolezze complessive del Paese, hanno prodotto importanti cambiamenti nel nostro sistema di protezione sociale. La riforma previdenziale, innanzi tutto, ma anche gli interventi sulla sanità e sull’assistenza hanno determinato una trasformazione la cui caratteristica principale è stata il significativo restringimento del welfare pubblico più o meno evidente nei vari comparti, fatto di meno spesa e meno servizi. Un restringimento imposto dall’obiettivo del ripristino della sostenibilità del bilancio pubblico che ha avuto come effetto netto un trasferimento del costo del welfare verso i bilanci familiari e le prime gravi conseguenze di mancata tutela per alcune categorie più deboli. Oggi, sempre di più, l’aumento della spesa delle famiglie per la sanità ed il ruolo crescente delle forme di autotutela familiare in risposta ai bisogni socio assistenziali diventano le uniche strategie per far fronte al ritrarsi della dimensione pubblica. Mentre nella previdenza alla riduzione della copertura pubblica corrisponde una enorme difficoltà a far decollare la previdenza complementare legata alla risorse dei lavoratori alla prese, tra l’altro, con le forme crescenti di precarietà. Se questa riduzione della dimensione pubblica sembra il tratto distintivo del cambiamento in corso è altrettanto vero che le dinamiche del welfare italiano sono storicamente molto più complesse, perché si intrecciano con i caratteri di una rete di tutela che, a differenza di altri Paesi europei, non è più da tempo a monopolio statuale. La dimensione della autotutela è stata sempre significativa, specialmente su salute ed assistenza, ma più in generale le forme di solidarietà diffusa e soprattutto le reti familiari, attraversate da intensi flussi orizzontali di trasferimenti monetari e di forme diversificate di aiuto, sono da sempre fondamentali per la coesione sociale, una vera e propria intelaiatura della società che nel divenire recente della crisi è stata fondamentale. Il valore delle reti familiari è noto, ma forse meno noto è il grado progressivo di pressione
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che nella crisi è stato esercitato su bilanci e patrimoni familiari; non solo perché nei singoli nuclei familiari si è avuto un sostegno ai consumi tramite ricorso ai risparmi, ma perché si è registrato uno spostamento di risorse lungo la rete familiare allargata per far fronte, ad esempio, alla perdita del lavoro, alla difficoltà a pagare una badante o una baby sitter, in sostanza per finanziare la tutela da bisogni sociali. Certo gli effetti della crisi si sommano alle carenze strutturali del welfare nostrano e l’esempio più evidente di queste crescenti difficoltà si riscontra nel campo della risposta sanitaria e socio-assistenziale. Cresce il ruolo della spesa privata Il dato di una spesa sanitaria privata significativa è una costante nel nostro Paese. Secondo l’Istat gli esborsi sostenuti direttamente dalle famiglie per acquistare beni e servizi sanitari ammontano in Italia a circa 27 miliardi di euro (per il 2011), pari all’1,76% del Pil. E secondo i dati dell’Ocse si trattava, nel 2010, del 17,8% della spesa sanitaria complessiva; tale dato pone il nostro Paese al di sotto della media Ocse (pari al 20,1%), ma risulta piuttosto alto nel confronto con gli altri grandi Paesi europei (Francia, Regno Unito e Germania) (fig. 1).
Fonte: elaborazione Censis su dati Ocse
Al di là del suo valore assoluto, è interessante osservare la funzione della spesa sanitaria out of pocket, e dunque il fatto che corrisponda in moltissimi casi ad una integrazione autonoma di quei beni e servizi sanitari che la copertura pubblica non riesce a garantire. Si tratta di un modello che implica un tasso non irrilevante di iniquità, dal momento che riguarda integrazioni alla copertura pubblica che soltanto le famiglie
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welfare on line dotate di migliori risorse economiche possono sostenere. A maggior ragione in tempi di crisi economica, e di contrazione dei consumi delle famiglie, anche le possibilità che queste ultime hanno di supplire alle carenze del sistema pubblico di offerta tendono a ridursi, e di fatto quelle più vulnerabili rischiano di rimanere prive di protezione per alcuni specifici bisogni. I dati dell’indagine realizzata nel 2012 da Censis e Unipol mostrano che ad aver sostenuto nel corso dell’ultimo anno almeno una spesa out of pocket è stato l’84,6% delle famiglie italiane, che hanno mediamente affrontato un esborso di 1.156 €. Si è trattato soprattutto di spese per farmaci, mentre spese per prestazioni ambulatoriali sono state dichiarate nel 60,3% dei casi (fig. 2).
supplenza familiare alle carenze nella risposta pubblica diventa una strada obbligata; un esempio per tutti: i dati del Ministero della Salute indicano che il numero medio di ore erogate a ciascun caso preso in carico dall’Assistenza Domiciliare Integrata nel corso del 2008 è stato pari a circa 22, e dunque diventa inevitabile che le famiglie assumano un ruolo chiave nell’assistenza ai casi più gravi di cronicità. Quelle prese in considerazione in recenti ricerche del Censis (l’ictus, il tumore e l’Alzheimer) sono patologie molto differenti tra loro, ma che risultano accomunate da un carico assistenziale che rimane in gran parte appannaggio esclusivo delle famiglie. I dati mettono in luce come l’impatto economico che le famiglie devono sostenere, quando si imbattono in questo genere di patologie, sia assolutamente rilevante, ed in alcuni casi i costi (come per la malattia di Alzheimer) possono essere quasi insostenibili (tab. 1).
Fonte: indagini Censis, 2007, 2008, 2010 e 2011 Fonte: indagine Censis Unipol 2012
Ma i costi a carico delle famiglie rappresentano un fattore dal peso spesso insostenibile quando si tratta di malattie gravi e/o croniche. In questi casi non solo le spese mediche out of pocket rappresentano una fattispecie significativa dei costi familiari, ma soprattutto emerge come il modello assistenziale socio-sanitario sia capace di coprire solo una parte dei bisogni, lasciando scoperti proprio i soggetti che esprimono le necessità più complesse a lungo termine. Domiciliarità e servizi territoriali caratterizzati da una forte integrazione socio-sanitaria sono presenti in modo ancora troppo frammentario e discontinuo sul territorio nazionale e rimangono nel complesso carenti, anzi è questo il campo in cui le differenze tra le ripartizioni ma anche tra i singoli territori, Asl e comuni appaiono più marcate. Così in moltissimi casi la
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L’importanza delle reti di solidarietà familiare Anche al di là delle situazioni determinate dalla presenza di patologie che richiedono assistenza a lungo termine e risposte alla disabilità, la tradizionale e peculiare forza della famiglia in Italia, soggetto centrale dello scambio di risorse e forme molteplici di sostegno tra i suoi diversi componenti, assume, in questa fase ormai avanzata di crisi economica, una ulteriore rilevanza. Complessivamente il 59,4% delle famiglie intervistate dal Censis nel 2012 ha dichiarato di aver dato o ricevuto nell’ultimo anno almeno una forma di aiuto ad altre famiglie (le quote più alte del campione fanno riferimento al tenere i bambini, il 17,3%, e a fare compagnia a persone sole o malate, il 15,9%) partecipando alla rete informale di supporto familiare. Le famiglie giocano però un ruolo soprattutto come agenti della redistribuzione interna di ri-
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welfare on line sorse, a supporto dei propri componenti più vulnerabili: l’impegno maggiore è quello connesso ai figli che stentano a rendersi completamente autonomi e, in subordine, a quello per l’assistenza ai più deboli (tab. 2).
Paesi europei. La spesa pro-capite italiana per il 2009 è infatti superiore alla media europea ed è la terza tra quelle considerate, dopo quella francese e quella tedesca, ma considerando solo le funzioni redistributive emerge tutto lo squilibrio del sistema italiano, laddove la spesa procapite si ferma a 1.019 euro, contro gli oltre 2.000 di Francia e Germania ed i 1.700 circa della media Ue a 27, mentre la spesa pensionistica italiana si conferma più elevata rispetto agli altri Paesi europei (fig. 3).
Fonte: indagine Censis, 2012
Si tratta di una autogestione e autoregolazione familiare che in molti casi risulta efficace, ma che mostra evidentemente delle criticità, dal momento che una quota rilevante delle risorse che le famiglie dedicano al welfare familiare proviene con ogni probabilità da redditi pensionistici: da un lato infatti i redditi dei pensionati saranno sensibilmente più contenuti in futuro, e dall’altro va considerata la forte differenziazione tra le famiglie, per cui le più vulnerabili hanno accesso a prestazioni pensionistiche di livello basso, che non consentono strategie redistributive autonome. Manca di fatto una logica redistributiva forte nel sistema italiano, a fronte di un sovradimensionamento del welfare assicurativo. Confrontando la spesa per la protezione sociale nei principali Paesi europei per macro-funzioni (spesa sanitaria, spesa per le pensioni legate all’età e spesa per tutte le funzioni di contrasto all’esclusione sociale1), pur tenendo conto delle molte specificità e della varietà delle misure di protezione esistenti in ciascun Paese, si osserva come l’assetto del welfare pubblico italiano risenta di una sproporzione rispetto agli altri 1
Nella spesa per il welfare assicurativo sono confluite le funzioni vecchiaia e superstiti, in quello sanitario esclusivamente la funzione malattia, in quello redistributivo è confluita le spesa per le funzioni: famiglia e maternità, disabilità, disoccupazione, casa, ed esclusione sociale.
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Fonte: elaborazione Censis su dati Eurostat
Le paure e le iniquità generate dalla previdenza Proprio la questione della previdenza ha avuto un ruolo centrale nel recente processo di revisione del welfare, con un risultato in termini di percezione collettiva che non può che far riflettere. Prevale infatti tra gli italiani una valutazione negativa della situazione del sistema previdenziale italiano. Un tempo pilastro del welfare e della sicurezza dei cittadini, è oggi guardato con diffidenza, nella convinzione che non riesca più a rispondere alla sua mission primaria: la rassicurazione dei cittadini rispetto al grande rischio legato al trascorrere dell’età e alla connessa uscita dal mondo del lavoro. Non è un caso che, secondo i dati di Eurobarometro, l’81% degli italiani intervistati esprima un giudizio negativo sulla previdenza, e che di questi il 33% esprima un giudizio molto negativo, a fronte delle quote molto più ridotte di insoddisfatti rilevate in altri Paesi (33% dei tedeschi, 39% degli abitanti del Regno Unito, a fronte di una media dei 27 Paesi della Ue pari al 55%). Richiesti di esprimere una valutazione rispetto a cinque anni fa, il 74% degli italiani dichiara
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welfare on line che la previdenza è peggiorata (fig. 4), ma anche le aspettative per il futuro sono tutt’altro che rosee.
Fonte: Commissione Europea – Eurobarometro, 2012
Infatti, per il 50% degli italiani le aspettative per il futuro della previdenza sono di un ulteriore peggioramento, mentre molto diverse sono le aspettative in Finlandia (il 14% parla di peggioramento), in Svezia (il 20%) e soprattutto in Francia, dove il 23% parla di un peggioramento, ma ben il 28% attende un miglioramento. L’Italia è sotto al valore medio europeo (40%), mentre solo spagnoli e greci sono portatori di aspettative meno positive degli italiani. Quel che emerge da queste opinioni è una torsione evidente del ruolo sociale della previdenza, un suo progressivo diventare agli occhi degli italiani un problema più che una risorsa, un sistema minato dall’interno da contraddizioni, che costa tanto in generale e copre poco in particolare, con bassi redditi pensionistici attuali e futuri. Condannati a pensioni basse: questa è l’idea che ormai il sistema previdenziale veicola agli italiani, e più ancora ai giovani, quando guardano al loro futuro. Non a caso tra gli eventi che probabilmente li coinvolgeranno nel corso della loro vita, quasi il 68% reputa molto o abbastanza probabile l’impossibilità di ricevere
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una pensione adeguata nel futuro, quota che decolla letteralmente tra i giovani a oltre il 93% e rimane alta trasversalmente al corpo sociale. Le iniquità contribuiscono poi a screditare un sistema che negli ultimi anni ha visto un compattamento gestionale di sapore antico, tutto centrato sull’Inps; tra queste iniquità c’è quella visibile e nota, ma non per questo meno socialmente deleteria, della coesistenza di pensioni molto basse per tanti e pensioni dai valori svettanti per pochi. Tra i pensionati con pensioni di vecchiaia il 35% ha un reddito pensionistico inferiore a 1.000 euro mensili e assorbe circa il 14,9% del totale dei redditi pensionistici; laddove il 6,4% che ha almeno 3.000 euro mensili di reddito pensionistico (categoria in cui sono ricomprese anche le pensioni molto elevate) assorbe oltre il 18,7% del totale dell’ammontare delle pensioni erogate. A poco servirà l’ossessivo richiamo alla rinnovata sostenibilità della previdenza se socialmente continua ad essere percepita come un sistema iniquo rispetto alle pensioni attuali e inefficace rispetto a quelle future. Ketty Vaccaro *
Sociologa, è responsabile del settore Welfare e salute della Fondazione CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali). Esperta di politiche sociali e di valutazione, si occupa soprattutto di sanità e salute, analisi della domanda e dei costi economici e sociali delle patologie, politiche socio-assistenziali, condizione femminile, minori e famiglia, invecchiamento e problematiche degli anziani, povertà, integrazione sociale ed immigrazione. È presidente del Centro studi dell’Associazione di Iniziativa Parlamentare e Legislativa per la salute e la prevenzione e vicepresidente dell’IBDO (Italian Barometer Diabetes Observatory) Foundation. È autrice di numerosi articoli e pubblicazioni.
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LiBrInMenTe Bartleby lo scrivano di
Silvia Spatari
Con Bartleby, dato alle stampe due anni dopo il furibondo duello tra Achab e il suo demone bianco, Melville si conferma gran maestro di psicosi e fine conoscitore dei vicoli ciechi che si annidano nei labirinti intellettivi. A narrare le curiose vicende di Bartleby è un avvocato di Wall Street che, oberato dal rapido aumento della mole di lavoro, decide di assumere un nuovo copista. All’annuncio risponde un giovanotto pallido e composto, dignitoso nel vestire, rispettoso nel parlare. Il nostro avvocato di copisti ne aveva già due, fidati ma alquanto bizzarri; viene perciò subito attratto da quest’uomo mite e laborioso, che lavora senza sosta, “dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé”. Ma un bel giorno ogni speranza che Bartleby possa riportare un po’ di disciplina in ufficio naufraga di fronte a una banale richiesta: l’avvocato chiede al suo copista di controllare un documento, invece di copiarlo. Quella minuscola variazione fa tutta la differenza. Da quel momento qualcosa sembra rompersi nella mente di Bartleby, che inizia ad assumere atteggiamenti ancora più eccentrici dei suoi colleghi e si ripiega in un’alienazione granitica e a dir poco inquietante. Questo racconto lungo rappresenta una delle punte più alte della letteratura moderna: in poche pagine riassume tutte le più segrete angosce della contemporaneità, e riesce a farlo con impeccabile ironia e una straordinaria fluidità narrativa. Mentre procediamo verso il tragico epilogo della storia l’ilarità si tinge di sgomento; pian piano iniziamo a diffidare del tessuto del reale e ricordiamo ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che “la felicità corteggia la luce […]; ma l’infelicità si nasconde e si isola, ecco perché crediamo che non ci sia infelicità”. Herman Melville 2012, Dalai Editore € 5,90
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Hanno collaborato a questo numero Giacomo Costa Francesco Montemurro Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Ketty Vaccaro Foto Marco Biondi Redattore Zaira Bassetti Impaginazione Zaira Bassetti Redazione Piazza del Ges첫, 47 - Roma Potete inviarci le vostre osservazioni, le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it
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