WOL - Welfare On Line, N. 1, Gennaio 2013

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welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno IX, Numero 1, Gennaio 2013

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Foto di Sonia Bruni Cari Lettori, intorno alla fine dell’anno appena passato, numerose sono state le iniziative di ricerca e i dibattiti sul tema dell’immigrazione. Abbiamo deciso di aprire questa nuova stagione di WOL dedicando un numero speciale a tale argomento, troppo spesso lasciato in secondo piano, che balza sotto i riflettori dei media solo nei casi di cronaca nera e di sbarchi clandestini. Al contrario, il nostro intento e il nostro impegno sono quelli di promuovere un’efficace informazione e sensibilizzazione sul tema, contribuendo a produrre una rappresentazione più equilibrata, meno stereotipata e distorta, delle migrazioni e delle condizioni di vita dei migranti nel nostro Paese. In questo numero: “Dossier Statistico Immigrazione 2012. Gli immigrati “non sono numeri”” – pag. 2 “Vi è concorrenza fra gli autoctoni e gli immigrati nel conquistare i posti di lavoro?” – pag. 5 “Dall’ammissione all’inclusione: verso un approccio integrato?” – pag. 7 “Dai flussi all’integrazione: politiche più efficaci per l’immigrazione” – pag. 10 Tutti gli articoli sono stati scritti da Alessandra Potalivo.

Associazione Nuovo Welfare


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Dossier Statistico Immigrazione 2012. Gli immigrati “non sono numeri”

La quotidiana comunicazione radio-televisiva e della carta stampata appare in genere carente nell’assu-mere e presentare una visione positiva dell’immigra-zione. Appena il 2% delle notizie giornaliere ne parla, con una netta prevalenza della cronaca nera, in cui marginalità, semplificazione, distorsione e ampio ricorso a stereotipi costituiscono la norma. Nello sforzo di quanti cercano di promuovere una corretta informazione al riguardo, il Dossier Statistico Immigrazione fornisce ormai dal 1991 un apporto imprescindibile. Esso infatti offre un quadro completo del fenomeno, ricco com’è di dati, analisi scientifica, correlazioni e stimoli per le politiche da affrontare. Tale impegno appare oggi quanto mai necessario, in uno scenario estremamente critico come quello attuale dell’Unione Europea, la più grande area di concentrazione di immigrazione insieme all’area continentale del Nord America. Tale criticità, causata e aggravata dalla stagnazione economica e dalla recessione, investe soprattutto l’Italia, dove continuano a permanere segnali problematici riguardanti economia sommersa e criminale, che sottraggono alle casse dello Stato più di un terzo della ricchezza del Paese. La crisi economica non ha fermato i flussi migratori (gli Organismi internazionali accreditano nel mondo 215 milioni tra migranti e rifugiati), che continuano comunque a dirigersi anche verso i mercati europei, semmai ne ha cambiato e ne cambia in parte la direzione, con un crescente protagonismo delle economie asiatiche. L’edizione 2012 del Rapporto Caritas-Migrantes apre con un monito: l’immigra-zione resta un fenomeno consistente in Italia e una questione di centrale importanza per le sorti economiche del nostro Paese, nonostante permanga l’opinione diffusa che sia invece una realtà da cui difendersi e un elemento che sottrae opportunità alla pur drammatica situazione occupazio-

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nale. È il caso, quindi, di ribadire con forza che gli immigrati piuttosto aiutano a sopperire alle carenze del “Sistema Italia”, essendo più giovani, quindi con un tasso di attività più elevato, più disponibili a svolgere ogni tipo di lavoro, pronti a spostarsi territorialmente e più intraprendenti a livello imprenditoriale (risulta tra l’altro positiva la bilancia costi/benefici dell’immigrazione per le casse statali). Non è un caso infatti che, mentre tra gli italiani gli operai sono il 40%, la quota sale all’83% tra gli immigrati comunitari e al 90% tra quelli non comunitari. I settori per i quali il contributo degli stranieri continua a risultare fondamentale sono l’edilizia, i trasporti (da notare la novità della crescita nei marittimi, tra i quali il personale migrante che opera a bordo incide per il 40%), e in generale i lavori a forte manovalanza (cooperative di pulizie, movimentazione merci e simili). Da un punto di vista meramente quantitativo, il Dossier stima che nel 2011 sia stata superata, se pur di poco, la quota di 5 milioni di immigrati regolari (di cui quasi il 50% comunitari), con un aumento esiguo rispetto allo scorso anno (circa 43mila). Nell’Unione Europea, al 1° Gennaio 2011, gli stranieri residenti erano 33,3 milioni (con un’incidenza del 6,6% sulla popolazione e un aumento annuale di circa 800.000 unità). L’Istat, d’altro canto, prevede che nel 2065 la popolazione complessiva (61,3 milioni) non sarà molto più numerosa di quella attuale, a causa di una dinamica naturale negativa pari a 11,5 milioni di unità (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e di una dinamica migratoria positiva pari a 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite). Inoltre, poiché l’età media sarà più elevata (49,7 anni), gli ultra65enni quasi raddoppieranno (un terzo della popolazione) e gli stranieri diventeranno quasi quattro volte più numerosi di adesso, questi ultimi assumeranno


un carattere sempre più organico nel tessuto sociale, per la loro funzionalità ai bisogni di assistenza degli anziani e alle esigenze del sistema produttivo. “Anche l’Istat” afferma alla presentazione del Dossier Andrea Riccardi, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant’Egidio e attuale Ministro Pro Tempore per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, “è d’accordo nell’affermare che si è definitivamente aperta la stagione della stabilizzazione”. E, dopo aver richiamato l’at-tenzione sulle parole di Benedetto XVI proferite in occasione dell’Angelus della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (15 Gennaio 2012, “Non sono numeri! Sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace”, da cui il titolo del XXII Rapporto Caritas-Migrantes), contestualmente ribadisce la centralità della dignità umana. Bisogna quindi uscire da una logica emergenziale (“andare oltre il paradigma di Lampedusa”, sempre nelle parole di Riccardi, riferite alle più di 60.000 persone sbarcate sulle coste italiane nel 2011 a seguito della cosiddetta “Primavera araba” e alle circa 2.000 inghiottite dal Mediterraneo) e favorire una vera integrazione, dando ormai per acquisito il carattere strutturale dell’immigrazione in Italia. In questo senso, il Dossier fornisce le consuete indicazioni per una politica organica che tenga conto di ben precise esigenze: l’Emersione (nonostante sia da valutare positivamente l’ultima regolarizzazione ottenuta con decreto del 16 luglio 2012, che ha permesso a molti cittadini non comunitari di essere impiegati nel settore dell’assistenza familiare, gli esiti dei diversi provvedimenti non hanno mai raggiunto i numeri sperati); la Qualificazione (rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori altamente qualificati, che in Italia rendono difficoltosi i riconoscimenti dei titoli per mancata omogeneità dei percorsi formativi. Processo in parte avviato nel 2009 con una direttiva che permette l’ingresso e il soggiorno per più di tre mesi a cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati); la Semplificazione (eliminare norme e lentezze burocratiche che ritardano la richiesta di certificati, documenti e permessi, in modo da prolungare anche la validità di questi ultimi, al fine di non scoraggiare gli stranieri a esercitare il proprio diritto di soggiorno, come nei propositi dello stesso Governo Monti); la Stabilizzazione (la legge 28 giugno 2012 porta ad un peri-

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odo non inferiore a 1 anno il tempo a disposizione per la ricerca di un nuovo posto di lavoro, modificando di fatto il Testo Unico sull’Immi-grazione che prevedeva invece 6 mesi. Ciò rimedia ad una rigidità normativa che ha comportato la perdita del diritto al soggiorno di molti cittadini non comunitari e ha impedito all’Italia di continuare ad avvalersi dell’apporto di persone già integrate. Tale percorso di stabilizzazione attende di essere portato avanti a beneficio dei figli nati in Italia da genitori stranieri); la Non discriminazione (i trattamenti discriminatori rimangono numerosi: sottoinquadramento professionale, retribuzioni inferiori e redditi dimezzati, mancato accesso alle prestazioni assistenziali, ritardi scolastici, impossibilità di essere proprietari o dirigere testate giornalistiche, esclusione dal servizio civile, perdurante avversione nei confronti dei rom). A tutto ciò fanno da sfondo le condizioni di inserimento sociale, culturale, occupazionale degli immigrati nei singoli territori (grandi aree, regioni, province e comuni), i problemi concreti e le risorse effettive di un determinato contesto locale in cui essi si trovano a vivere. In altre parole, quella territorialità alla quale si fa riferimento per comprendere il fenomeno dell’immigra-zione alla luce dell’integrazione, per conoscere e promuovere la coesione sociale come vero bene comune, idea da cui ogni politico dovrebbe muovere il proprio operare. In questo senso, gli annuali rapporti CNEL sugli Indici di Integrazione degli immigrati in Italia (l’ultimo è del 2009) si propongono di misurare sia il grado di attrattività che province, regioni e grandi aree nazionali esercitano sulla popolazione straniera, sia il livello complessivo di inserimento sociale e occupazionale degli immigrati in questi contesti territoriali, per giungere a creare un indice finale che individui il potenziale di integrazione di ogni realtà esaminata (sia essa locale o nazionale). Da questi studi emerge che la Toscana, con un indice pari a 66,0 e l’Umbria (65,7), rispettivamente in 2ª e in 3ª posizione dopo il Friuli Venezia Giulia (primo con 70,6), proiettano l’intero Centro Italia, che ha un potenziale medio pari a 65,9, in vetta alla classifica delle aree nazionali che offrono agli stranieri le migliori condizioni generali di inserimento socio-occupazionale. Quest’ultimo è determinato sia dal grado di accesso ad alcuni beni e servizi di welfare e dal raggiungimento di determinati status giuridici – accessibilità al mercato immobiliare, istruzio-


ne liceale, soggiorno stabile, naturalizzazione – sia dal grado e dalla qualità della partecipazione degli immigrati al mercato occupazionale locale – incidenza del-l’impiego di manodopera immigrata sulla totalità dei lavoratori, dipendenti e in proprio, reddito, saldo occupazionale annuo, tenuta dell’occupazione femminile. Dunque, “Lo sviluppo non può prescindere dall’integrazione […] l’arretratezza italiana si deve ad un difetto di integrazione; integrazione significa le nostre scuole, le nostre periferie”, continua il Ministro Riccardi nel suo intervento. E prosegue ringraziando quanti in Italia hanno contribuito a favorirla, nonostante un clima di diffuso disprezzo, e di fatto hanno concorso a cambiare una certa mentalità della politica pubblica italiana che ha ancora difficoltà a concepire l’immigrazione come un vero e proprio “bisogno reciproco” e a uscire da posizioni difensive, anche se molto ancora si può e si deve fare (a tal proposito egli sottolinea l’importanza di aver affiancato al concetto di integrazione quello di cooperazione nell’istituzione del Ministero, poiché l’impegno necessariamente riguarda anche i Paesi di provenienza e il diritto a non emigrare). È passato un anno da quando il Presidente Napolitano invocava l’estensione della cittadinanza per i figli degli immigrati, e a 2013 appena iniziato, proclamato Anno Europeo della Cittadinanza, l’augurio non può che rinnovarsi. Ciò che il dibattito politico dovrebbe recepire, pur nell’ambito di una materia piuttosto complessa come quella della cittadinanza, è che i minori di origine straniera sono di fatto i cittadini del futuro, aperti ad una mentalità interculturale e a loro agio in un mondo globale, e che le mancate modifiche normative non li valorizzano ancora abbastanza. Questo anche a causa di una società che tende a relegare gli stessi genitori ancora in un ruolo marginale, costringendoli di fatto ad “essere stranieri, pur se non immigrati”. Per superare la crisi, dunque, non bastano le rimesse e il lavoro dei migranti, sebbene la mi-

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grazione sia in qualche modo ad essa correlata, tanto che la Banca Mondiale ritiene, a ragione, che ne rappresenti una risposta strategica. Motivo per cui rimuovendo le restrizioni alla mobilità umana si rimuovono gli effetti perversi della crisi. Ma ci vuole anche l’impegno della società civile. Le grandi crisi umanitarie che generano milioni di profughi e rifugiati, sono destinate ad aumentare. Oggi coinvolgono l’Occi-dente e hanno un carattere marcatamente politico (Afghanistan e Iraq, Libia, Siria e Tunisia) o di disastro naturale (tsunami asiatico, terremoto di Haiti). Ma, secondo alcuni studi, entro il 2050 potrebbero esserci 1 miliardo di persone costrette a migrare a causa di conflitti e brutali violazioni dei diritti fondamentali, di ulteriori disastri naturali, o per far posto a grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo, o per gli effetti del cambiamento climatico. È bene ricordare sempre, come fa il Dossier, che al fine di mantenere una visione forte e lungimirante nell’azione politica parlare di migranti significa in primo luogo parlare di persone. Significa evocare la presenza costante di uomini e donne dietro i numeri impiegati dalle statistiche per descrivere realtà sociali e culturali in movimento (Non sono numeri! appunto). Quindi flussi di sentimenti contrastanti, situazioni psicologiche molto diverse, esigenze pratiche, valori, diritti dovrebbero entrare a tutto campo nelle varie iniziative politico-legislative italiane. E soprattutto le storie, ciascun numero ne rappresenta una, come quelle delle 5 milioni di persone che si sono oramai stabilite pacificamente nel nostro Paese. Alessandra Potalivo∗ Laureanda in sociologia presso “La Sapienza” di Roma, si occupa di politiche del lavoro e immigrazione, prestando particolare attenzione al tema delle badanti, alla loro presenza nel mercato del lavoro e alle ripercussioni di tale fenomeno sui sistemi di welfare.

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Vi è concorrenza fra gli autoctoni e gli immigrati nel conquistare i posti di lavoro? Il mercato del lavoro italiano e la “mancata assimilazione”

L’indagine sul “Ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano”, condotta dal CNEL in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e presentata il 19 novembre scorso, cerca di fornire alcune risposte in merito a quanto la presenza straniera sia competitiva e contribuisca alla crescita del nostro Paese. Nello specifico, lo studio si occupa di analizzare gli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro da un duplice punto di vista: quello dell’assimilazione economica degli immigrati e quello degli effetti che la loro presenza comporta nel nostro mercato del lavoro. Lo sfondo è la recessione economica odierna, una crisi devastante che pone al mondo del lavoro sfide decisive in merito alla sua ristrutturazione, e in cui il tema centrale è la transizione: aumenta l’occupazione con gli immigrati, ma aumenta anche la disoccupazione sia per loro che per gli italiani. E allora, qualora vi fosse una condizione di concorrenza, quali sarebbero le risposte alle tensioni che si verrebbero a creare? La ricerca ci rassicura in questo senso, confermandoci che l’integrazione, sebbene abbia tempi molto lunghi, non ne soffre poi molto. Il modello adottato è quello di ricerche già compiute in Inghilterra, Germania, USA, che contrappongono il ruolo sostitutivo degli immigrati al lavoro autoctono (riduzione di opportunità occupazionali e compressione dei salari medi dei nativi) a quello complementare (immigrati e nativi vanno ad occupare posti di lavoro di tipo diverso), mettendo in evidenza il verificarsi di una forte o debole assimilazione. Si è osservato che, con il prolungarsi dell’esperienza di lavoro e l’anzianità migratoria, la performance occupazionale subisce un miglioramento dal punto di vista dell’occupazione (i tassi tendono ad aumentare), ma non migliora la valorizzazione degli immigrati in termini di capitale umano e performance economica, essendo colpiti dal fenomeno della sovraqualificazione (possesso di titolo di studio superiore a quello richiesto). Ne scaturisce una parziale assimilazione economica degli immigrati, dovuta a una segmentazione del mercato del lavoro italiano, a fenomeni di discrimina-

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zione, sottoinquadramento, segregazione in posti non qualificati, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi, in cui con gli anni di permanenza questi fenomeni tendono a ridursi. L’effetto principale che ciò produce, il “rovescio della medaglia”, è la mancata concorrenza che gli immigrati svolgono nei confronti dei lavoratori italiani. Dalla ricerca, che ha dovuto analizzare dati sofisticati fatti di confronti tra diversi territori e di molte osservazioni nel corso del tempo (i dati utilizzati sono quelli dell’Istat basati sulla disaggregazione dei mercati locali; come precisa il Prof. Dell’Arringa, ordinario di Economia all’Università Cattolica di Milano: in Italia non ce ne sono molti e poche ricerche sono state fatte sulla base di questi), risulta che l’ipotesi della concorrenza non abbia molta consistenza. La quota di immigrati residenti e attivi nel territorio non ha effetti significativi sull’occupazione dei lavoratori locali. Ad esempio, non c’è un effetto in termini di perdita di lavoro da parte di un lavoratore italiano (il cosiddetto job displacement), mentre è presente, ma non in maniera rilevante in termini quantitativi, un effetto di probabilità di ingresso per i disoccupati, che si riduce quando è massiccia la presenza degli immigrati nel locale mercato del lavoro. Si è poi approfondito il ruolo degli immigrati nell’influenzare il salario, definendo negativo anche l’eventuale “spiazzamento retributivo” di un lavoratore dipendente italiano che risiede in un territorio ad alta densità di immigrazione. Questo dato conferma anche come il mercato del lavoro europeo sia più strutturato rispetto agli USA, dove il campo di tali studi è molto sviluppato. Come ultimo punto, la ricerca tenta di tracciare una presenza di medio periodo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano sulla base dell’evoluzione della domanda per professioni (stimate a livello internazionale dal CEDEFOP, agenzia della CE). Ciò che si evince è come tale presenza sia destinata ad aumentare, anche se più lentamente rispetto agli ultimi dieci anni (per effetto della crisi economica), anche in conseguenza del progressivo invecchiamento della nostra popolazione in età lavorativa. Ciò


probabilmente attenuerà i fenomeni di segregazione, grazie alle coorti di immigrati di seconda generazione (caratterizzati dal possesso di studi conseguiti in Italia e quindi non sovraqualificati). Fenomeni che permarranno comunque in larga misura, così come la “modesta” concorrenza esercitata nei confronti dei lavoratori italiani. Nonostante i risultati della ricerca dimostrino il contrario, e l’unico effetto riscontrato sia la difficoltà per gli italiani che hanno perso il lavoro di ritrovarlo laddove la presenza degli immigrati sia consistente, la percezione di competizione tra gli stessi lavoratori è comunque ancora molto forte, e occorrerà uno sforzo maggiore di collaborazione delle forze sociali e del Governo per cambiare le opinioni consolidate, e di conseguenza le politiche attuate. In sostanza l’effetto concorrenza è minimo, ed è ciò che succede anche in altri Paesi. Complessivamente, in larga scala, gli immigrati alzano il tasso di occupazione, prendendo posti che gli italiani potrebbero, ma non vogliono occupare. È semmai preoccupante che sia in crescita il numero degli immigrati che hanno perso il lavoro (370.000 disoccupati stranieri, ben distribuiti su tutto il territorio nazionale, non era mai accaduto prima), presentandoci una dinamica sempre diversa rispetto al sommerso. Nessuna preoccupazione, quindi, per il posto di lavoro degli italiani: il paradigma del pericolo non esiste. Sussistono poi altre questioni relative al mondo del lavoro e dell’immigrazione che sono state sviscerate durante gli interventi al dibattito di presentazione della ricerca, in cui emergono con forza i temi del rinnovamento dell’apparato produttivo, della riqualificazione dei lavoratori italiani e stranieri, della crescita. Siamo in presenza di un continuo squilibrio domanda/offerta; ad un aumento dell’offerta, non corrisponde un aumento della domanda; se le tendenze continuano così, chi andrà in pensione farà fatica ad essere sostituito da italiani in posti qualificati; avremo uno shock di sostituzione e difficoltà per i lavoratori natii: sono questi solo alcuni esempi dei temi trattati. Secondo gli intervenuti, un Paese che abbia veramente volontà di crescere dovrà necessa-

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riamente dare importanza al lavoro e ad una concorrenza leale, ad una competitività positiva che crei ricchezza e dia valore sociale al lavoro, escludendo il pensiero che ci siano posti che gli italiani non vogliono occupare (“anche gli italiani possono fare i badanti e aiutare gli anziani”) e garantendo una mobilità sociale più giusta, anche a livello contrattuale. Il mercato del lavoro è libera circolazione. La maggior parte degli immigrati è composta da comunitari (quindi forza lavoro libera, più mobile e flessibile operativamente) e il mercato del lavoro internazionale aumenterà negli anni. “Bisogna fare di più” è la frase più ricorrente tra gli interventi. Non c’è dubbio che alcuni processi di integrazione si siano avviati. Ad esempio, ci sono molti immigrati imprenditori, i settori di presenza delle donne sono oramai i più svariati, oltre a quello dell’assistenza familiare, l’intergenerazionalità fa passi avanti. Ma il sommerso rimane di proporzioni enormi (¼ dell’economia) e l’apparato istituzionale, che ancora si regge su “norme ipocrite”, non fa altro che produrre irregolarità e “flussi finti”, perché si regolarizza chi è già in Italia. I decreti flussi servono a “fare manutenzione”, “mantengono lo status quo”, la quantità di persone che fanno domanda rispetto ai posti che diventano effettivi è esigua. Un punto, questo, sul quale la voce è del tutto comune e che sembra non riuscire mai a trovare un’equa via di uscita, in un mercato sempre sottoposto a continue spinte evolutive: le sanatorie, invece di adeguare i numeri delle entrate alla domanda, si basano su numeri disparati e senza criterio. È opinione condivisa che i flussi vadano quindi gestiti in funzione della domanda e che le politiche attuate da altri Paesi siano più efficienti (spesso all’estero troviamo detrazioni familiari per eliminare il sommerso), stando però attenti a facilitare gli ingressi per favorire l’entrata regolare e fare in modo che gli stranieri diano un vero contributo all’economia italiana. In fondo, come afferma Liliana Ocmin (segretario confederale CISL), “gli immigrati non hanno bisogno di risposte diverse”. Alessandra Potalivo


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Dall’ammissione all’inclusione: verso un approccio integrato?

Un percorso di approfondimento comparativo a partire da alcune recenti esperienze europee Il percorso di conoscenza in cui si inseriscono le ultime ricerche del CNEL, che man mano apre a una nuova visione sull’immigrazione di cui da tempo si avverte l’esigenza, prosegue affrontando uno dei più importanti processi di trasformazione delle politiche migratorie degli ultimi decenni in Europa: l’integrazione. Questa parola, che completa nel dibattito attuale quelle già sorpassate di accoglienza e di assimilazione, arriva ormai a sostituirle, avvicinandosi maggiormente a quella di inclusione, fino a ricomprenderle tutte. D’altronde lo esigono i cambiamenti economico-sociali, le stesse difficoltà dell’UE, i gravi fenomeni di terrorismo, i continui conflitti sociali e i nuovi scenari geo-politici, che hanno mostrato il fallimento dell’approccio alle politiche di integrazione di alcuni Paesi europei. Un percorso che è laico, complesso, in cui non ci sono ricette univoche, ma per cui si deve andare avanti e capire, tra mille difficoltà, la strada migliore da intraprendere. Nello specifico dello studio del CNEL, in tutti i sette casi nazionali presi in analisi (Francia, Germania, Regno Unito, Italia - i cinque a maggiore popolazione complessiva e presenza immigrata - insieme a Paesi Bassi e Svezia, che seguono sviluppi politici rilevanti e peculiari), sono state seguite le tracce di un processo di policy transfer che ha portato alla diffusione di idee e strumenti nuovi nella selezione degli immigrati, operata al momento dell’ingresso o in fasi successive, con l’obiettivo di accrescere le loro chances di integrazione. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata in particolar modo sulla dimensione linguistica e civica, in una parola culturale. Un tema già presente nei dibattiti pubblici sull’argomento alla fine degli anni ’90, che acquista un peso crescente anche sul piano normativo agli inizi degli anni 2000. Ossia la convinzione che l’inserimento lavorativo, in un mercato del lavoro profondamente mutato e caratterizzato da diffusa precarietà e segmentazione, non sia più sufficiente a garantire livelli soddisfacenti di integrazione e coesione sociale, essendo necessario un livello minimo di comunanza culturale e di padronanza della lingua del Paese di desti-

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nazione, quale requisito essenziale ai fini dell’integrabilità. Tale concezione non è certo nuova, ma appartiene nella sua gradualità e astrattezza all’intera storia della costruzione delle moderne nazioni, alle vaste campagne di assimilazione culturale delle minoranze, da sempre operate dagli Stati, fino ad arrivare agli anni ’70 e ’80 in cui si registra un riconoscimento, in diversi Paesi, della tutela e promozione della diversità culturale degli immigrati. Nella ricerca effettuata, sono particolarmente interessanti le varietà di declinazioni specifiche che questo processo assume nei vari Paesi scelti come casi di studio, la dinamica di diffusione del nuovo approccio, nonché le forme di adattamento nei vari contesti nazionali. Da questo punto di vista, è importante sottolineare come i cosiddetti “test di integrazione” (che implicano la conoscenza della lingua) siano uno strumento di policy introdotto dai Paesi Bassi e rivolto soprattutto alla disciplina dell’immigrazione famigliare nelle sue due forme principali: del ricongiungimento e della wedding migration ossia dell’immigrazione conseguente al matrimonio di giovani di seconda generazione (con coetanei del Paese di origine e tuttora residenti all’estero). Nel caso olandese, l’immigrazione famigliare era percepita come un problema, in quanto proveniente da Paesi a maggioranza musulmana, in un contesto politico segnato da un forte allarme sociale (che tocca il suo apice con l’eventosimbolo dell’omicidio del regista Theo Van Gogh nel 2004, per il quale fu condannato un giovane discendente di immigrati marocchini). Un altro Paese con la tendenza ad imporre standard civico-linguistici sempre più elevati è la Germania, ma con un ruolo e un’assunzione di responsabilità maggiori da parte dello Stato rispetto all’Olanda. Dagli anni 2000, tale corrente neo-assimilazionista, così definita da alcuni autori di quegli anni, si diffonde poi nel Regno Unito e in Francia, dove assume il carattere peculiare e controverso del Contrat d’accueil et d’intégra-tion (che eserciterà certamente suggestioni sul legislatore italiano del 2009).


Ai margini di questa parziale convergenza di legislazioni rimangono invece Spagna e Svezia, dove si dà ancora poca enfasi alla dimensione culturale delle politiche di ammissione, ad eccezione di qualche accenno nelle Comunità Autonome spagnole in cui prevale la lingua catalana. Un policy trend dunque che, nato come risposta ai problemi dell’integrazione caratteristici del primo gruppo di Paesi, si è esteso come un’ondata dall’Europa del Nord a quella mediterranei, ossia da Paesi ad immigrazione matura ad altri dove il fenomeno si è manifestato tardivamente e in forme diverse. Un policy trend che ricalca la storia migratoria europea d’altronde: dopo una fase fordista (anni ’40-’60) e una rights-based (anni’70 detta così per la composizione dei flussi e per la corrispondente evoluzione dell’agenda politica europea; una fase molto importante nell’Europa del Nord, in cui c’è reclutamento, ma non ancora integrazione), gli anni ‘80 vedono protagonista la fase post-fordista, che per Italia e Spagna significa migrazione interna più che internazionale, migrazione tra Nord e Sud Europa. Solo più tardi, a fine anni ’90 e inizio 2000, si passerà al controllo dei flussi e all’integrazione. Evolve quindi di pari passo il concetto di integrazione come principio normativo: si passa da una fase di indebolimento e convergenza dei modelli nazionali tradizionali ad una di maggior pragmatismo, anche se di lieve accettazione della dimensione culturale, fino ad arrivare ad una correlazione più stretta tra ammissione e integrazione. Tuttavia, il manifestarsi di un rapido diffondersi di modelli regolativi peculiari e non così facilmente replicabili provoca alcune dissonanze, così come è emerso in un ampio sondaggio multinazionale prodotto da un pool di fondazioni europee e nord-americane pubblicato nel 2011, il Transatlantic Trends Immigration, riportato nella ricerca svolta dal CNEL. Tale sondaggio evidenzia come i requisiti individuali che dovrebbero essere determinanti ai fini dell’acquisizione della cittadinanza varino profondamente da un Paese all’altro: ad esempio, la conoscenza della lingua è decisiva per una quota importante di tedeschi, mentre lo è solo per piccole frange di italiani e spagnoli; al contrario, il rispetto delle leggi è un criterio ritenuto essenziale dalla maggioranza dei due Paesi mediterranei, che pur non essendo noti per attaccamento al principio di legalità, conoscono

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tuttavia un elevato tasso di immigrazione irregolare. Tali dati mettono in luce come l’affinità culturale in sé non sia ancora granché percepita in termini di attributo decisivo, così come anche l’anzianità di residenza. I sette Paesi oggetto di indagine si differenziano per le forme e le raffigurazioni differenti che il nesso tra immigrazione e integrazione ha assunto nel corso degli anni. Al di là di una certa convergenza su una combinazione di misure pre-ingresso (condizioni di integrazione da soddisfare nel momento in cui si effettua la richiesta del visto) e postingresso (specifici livelli di integrazione da raggiungere una volta arrivati nel Paese di destinazione, tramite corso di lingua o simili), permangono delle differenze sostanziali. Per quanto riguarda le policies pre-ingresso, ad esempio, spicca l’assenza di misure da parte di Svezia, Italia e Spagna; mentre riguardo alle misure post-ingresso si distinguono, rispetto agli altri, i Paesi mediterranei, con l’Italia in testa, che richiedono una qualche prova di integrazione ai fini del primo rinnovo del permesso di soggiorno (permane comunque per il nostro Paese la contraddizione tra la durata dell’Accordo di integrazione, di due anni, e quella meno certa del permesso di soggiorno, legato al contratto di lavoro). La Gran Bretagna, invece, richiede il soddisfacimento di specifici requisiti a tutti gli immigrati che intendano entrare per motivi di lavoro nell’ambito della selezione prevista sulla base del Points-based system, ossia la dimostrazione della conoscenza della lingua. L’obiettivo è quello di selezionare lavoratori qualificati in base alla domanda del mercato del lavoro, e il livello di padronanza della lingua varia a seconda del profilo per il quale si richiede il visto. In generale, in quasi tutti i Paesi considerati, le misure pre-ingresso si rivolgono agli immigrati per ragioni famigliari, mentre le misure postingresso si rivolgono ai cittadini non-comunitari neo-arrivati, ma con diversi criteri. Ad esempio, Olanda e Germania le estendono anche agli old-comers (immigrati di vecchia data), in caso di scarsa conoscenza della lingua (Olanda) e per evitare la dipendenza dall’assistenza sociale (Germania). In Gran Bretagna le misure post-ingresso sono rivolte a tutti i migranti non di madre lingua, ad esclusione dei lavoratori qualificati e altamente qualificati. In Italia e in Spagna ne sono destinatari i soli cittadini neo-arrivati non originari della UE, con la peculiarità della Spagna, in cui la conoscenza della


lingua rappresenta una condizione per accedere alla regolarizzazione, e pertanto riguarda anche i cittadini non UE presenti in condizioni irregolari. Infine, le misure post-ingresso sono in Svezia di tipo volontario e aperte a tutti gli stranieri, anche se il target principale di riferimento sono i richiedenti asilo, per i quali i corsi hanno carattere obbligatorio. Le verifiche del pre-ingresso prevedono di solito un test di lingua per tutti i Paesi, affrontato direttamente presso le sedi diplomatiche del luogo di destinazione, e nel caso di non superamento comportano la negazione del visto (a parte il caso della Francia che lo concede comunque e invita il migrante a seguire un corso di lingua e di cultura di due mesi, rilasciando alla fine un certificato). Anche le verifiche post-ingresso richiedono il superamento di un test finale, ma quest’ultimo è obbligatorio solo in Olanda (se non si supera in 3 anni e mezzo c’è una sanzione pari a € 500) e in Italia, dove il superamento del test di lingua e cultura civica è parte integrante degli obblighi previsti dall’Accordo di Integrazione (anche qui entro un massimo di 3 anni, pena il non rinnovo del permesso di soggiorno e l’espulsione dal Paese). Nei Paesi oggetto di indagine, la situazione è molto diversificata anche in merito all’organizzazione dei corsi (se pubblici o privati) e a chi ne sostiene i costi (se il migrante o lo Stato). I Paesi in cui in entrambi i casi prevale l’attore statale sono quattro: Francia, Svezia, Italia e Spagna. Mentre la Germania si situa in una posizione intermedia (lo Stato è responsabile per i corsi post-ingresso, mentre il Goethe Institut è l’ente di riferimento all’estero, ma i costi vengono sostenuti parzialmente dal migrante). Olanda e Gran Bretagna infine hanno scelto decisamente la strada del mercato, affidando ad istituti e agenzie certificatrici private la gestione dei corsi, e nel caso della Gran Bretagna anche dei test, i cui costi devono essere interamente sostenuti dai migranti. È sulla base di questi elementi (misure di pre e post ingresso e responsabilità o meno dello Stato) che la ricerca giunge ad ipotizzare una tipologia delle policy di integrazione civica, ossia quattro ideal-tipi. Integrazionismo statalista: richiesta di assimilazione scarsa o limitata ad un solo tipo di misura, pre o post ingresso, e

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interamente a carico dello Stato. Fanno parte di questa tipologia Italia e Svezia. Assimilazionismo statalista: forte richiesta di assimilazione con misure sia pre che post ingresso e coinvolgimento rilevante dello Stato. Afferiscono a questa tipologia la Francia e la Germania. Assimilazionismo liberista: che combina alte richieste in termini di integrazione ad un totale disimpegno dello Stato nell’organizzazione dei corsi e nel sostenere i costi. Fanno parte di questa tipologia Gran Bretagna e Olanda. Integrazionismo liberista: caratteristico della Spagna, dove vige un modello più soft, in cui ad una bassa richiesta di assimilazione si accompagna una scarsa responsabilità statale. Il panorama italiano è costretto dagli anni ’90 a un approccio che contempla il fenomeno migratorio in termini di controllo dei flussi vs emergenza umanitaria, mentre già gli altri Paesi si trovavano su altre posizioni. Allo stato attuale, la situazione non è di molto cambiata, anche se proprio in questi anni è maturata la cooperazione, forse l’unico vero punto di forza delle politiche italiane, e si è cominciata ad accettare l’idea che l’immigrazione non rappresenta un evento isolato ma continuativo nel tempo. Ora che siamo ad un cambio di fase, in cui i flussi si rovesciano e un numero consistente di migranti che aveva scelto l’Italia torna nel proprio Paese d’origine o ne sceglie altri che offrono migliori condizioni di vita (sebbene sia l’Europa in generale che avverte questa inversione di tendenza), le caratteristiche che rendono l’immigrato integrabile si innestano su un discorso che ha grossa valenza simbolica. Costruire gli ingressi sulla domanda è fondamen-


tale, ma anche i meccanismi formativi devono farne parte inscindibile; i test di lingua ed educazione civica, che si addicono forse maggiormente ad un orientamento liberale, significano anche cultura.

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E se non questa, cosa fa di un immigrato un buon cittadino?

Alessandra Potalivo

Dai flussi all’integrazione: politiche più efficaci per l’immigrazione

Nuove linee per una governance ordinaria delle politiche di integrazione Assistiamo in questi anni di crisi a grandi trasformazioni che implicano cambiamenti di rotta strutturali nel nostro Paese e il tipo di sviluppo da dare deve essere chiaro, al fine di garantire una maggiore stabilità in campo politico, economico e sociale. Sono molte le novità che in periodi recenti hanno caratterizzato il fenomeno dell’immigrazione: presenza di stranieri sempre più massiccia e stabile, 1 milione di minori dei quali 756.000 iscritti nelle scuole, incremento della disoccupazione e una rilevante crescita delle persone straniere in cerca di lavoro. Tali novità spingono a spostare sempre più l’attenzione di Enti e Istituzioni da una politica tutta dedita all’emergenza e alla regolazione dei flussi d’ingresso, come si è svolta soprattutto nell’ultimo decennio, a quella più complessa e rilevante dell’accoglienza e dell’integrazione. Un processo che deve spaziare, che si trova ad un punto decisivo, per affrontare quei passi in più con i quali già molti Paesi europei, avendo una storia più rilevante di accoglienza alle spalle, hanno da diversi anni fatto i conti. Se ne è parlato molto alla tavola rotonda organizzata dal CNEL “Un nuovo impulso per le politiche pubbliche”, nell’ambito del Convegno di studi promosso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali “Un nuovo orizzonte per l’immigrazione. Come la ricerca può contribuire all’elaborazione di politiche pubbliche più efficaci”. Le risposte formulate, all’unisono, sono state: gli immigrati devono essere maggiormente selezionati dal punto di vista del profilo culturale, bisogna favorirli nella mobilità sociale e interna al lavoro, offrire una maggiore qualità nell’accesso scolastico, abitativo, linguistico, lavorativo. Per poter costruire una vera integrazione bisogna innanzitutto andare oltre le sanatorie, ri-

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velatisi inefficaci a contrastare il lavoro irregolare e a favorire un incontro domanda/offerta realmente producente. In presenza di soluzioni per ridurre il più possibile gli spazi di illegalità in questo Paese, ci si chiede: perché continuare a contrastare così fortemente il discorso dell’emersione? Che interesse abbiamo ancora al mantenimento di una quota consistente di lavoro nero? E a rimandare indietro persone che rappresentano un valore in sé? La stessa finanza pubblica ne soffre, poiché è noto che il contributo dato dalla popolazione migrata è maggiore di quanto non sia l’usufrutto dei servizi offerti, anche se si tratta di benefici temporanei essendo limitati alla prima generazione, motivo per il quale si continua a “subire” la politica dei flussi, di cui si dovrà invece cominciare a diffidare. Allo stesso modo, si subisce ciò che accade all’interno del mercato del lavoro, invece di regolarlo. Fin dall’inizio ci si è aspettato che gli immigrati si adattassero a condizioni lavorative peggiori rispetto alle nostre (da qui una certa “porosità” del mercato del lavoro italiano: in Italia si entra in qualche modo, poi ci si regolarizza). Un elemento che nei prossimi anni condurrà ad un vero e proprio paradosso, cioè un conflitto tra il concetto d’integrazione e la pretesa di relegare gli immigrati in un mercato del lavoro segregato. Due sfide perciò diventano pressanti nel mondo del lavoro: la valorizzazione delle diversità etnico-culturali e il riavvicinamento di domanda e offerta (ma vale anche per gli italiani), trami-


te l’aggiustamento dei livelli salariali e un miglioramento delle condizioni generali (ad esempio una maggiore qualità nella cura alla persona), implicando per gli immigrati maggior accesso e opportunità (i disoccupati sono ormai 350.000 e sono sempre di più gli immigrati che usufruiscono di politiche di sostegno del reddito come la cassa integrazione). Un altro tema su cui si avverte fortemente una “non volontà politica” è certamente quello della cittadinanza: gli adeguamenti da tempo disattesi evidenziano a tutto campo i limiti dei nostri processi di inclusione e di espansione della democrazia. Se la cittadinanza sanitaria è diversa da regione a regione, se le politiche abitative in difesa dei poveri sono assenti, se il welfare familistico, che si basa per la maggior parte sull’immigrazione, e il welfare transazionale non funzionano (ad esempio la portabilità dei diritti pensionistici), non si può certo più accettare una condizione di staticità parlamentare, laddove al crescere e allo stabilizzarsi della presenza straniera cresce naturalmente l’esigenza di inclusione. Si sarebbe certamente potuto fare di più (anche se alcune iniziative recenti sono da rivendicare, come l’eliminazione dell’imposta sulle rimesse: gli immigrati mediamente mandano 1.618 euro l’anno procapite e, eliminando la tassa, si sono ridotti alcuni limiti allo sviluppo di queste popolazioni e delle loro famiglie), soprattutto in tema di comunicazione, che rimane ancora vincolata a molti stereotipi. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, i processi di conoscenza sono stati e sono decisivi: la ricerca ha mostrato sempre un grande impegno, anche se con mille difficoltà, non necessariamente economiche. Spesso, infatti, si lamenta il fatto che le riflessioni intorno all’immigrazione siano negli anni sempre uguali a loro stesse e dominate dalla retorica. Di contro si avverte la necessità di continuare ad approfondire il fenomeno, e si suggerisce di ripartire

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dai temi finora trascurati, come l’associazionismo degli immigrati, la rappresentanza, il voto, i diritti, le pensioni, la scuola, la discriminazione: temi di grandissima attualità. La ricerca in Italia è stata spesso accusata di basarsi troppo sui dati quantitativi, un difetto dovuto alla carenza degli stessi (pensiamo a quanto 20 anni fa fosse difficile reperirli). Oggi ce ne sono molti di più, e anche dal punto di vista qualitativo, considerando che è possibile scaricare e comunicare facilmente ricerche a livello internazionale; ma c’è ancora bisogno di maggiore circolarità delle fonti e di un lavoro più assiduo e collaborativo delle istituzioni in questa direzione. Il lavoro in rete è andato un po’ scemando, anche a causa della scarsità delle risorse, ma rimane importantissimo, soprattutto a livello locale. Chi opera sul territorio porta una competenza fondamentale, sa per primo quello che funziona o non funziona, e la programmazione locale non può dipendere costantemente da Fondi Europei. La palla torna alla politica: una conoscenza sistematizzata deve arrivare alle istituzioni, dando un’immagine concreta del fenomeno e un contributo reale alle politiche; deve essere collegata a un intervento oltre che fornire una spiegazione, e deve essere orientata alle pratiche, poiché conduce ad esperienze innovative. Per questo essa è intimamente connessa a una politica che abbia orizzonti, che crei un progetto e un percorso, non che necessiti solo di un buon consiglio. In altre parole, la politica e la ricerca sono andate di pari passo, e se non si è saputo attuare quelle riforme che la ricerca pure individuava la prima ne ha evidentemente sempre recepito in ritardo gli esiti. Alessandra Potalivo


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Hanno collaborato a questo numero Alessandra Potalivo Foto

Sonia Bruni Redattore

Zaira Bassetti

Impaginazione Zaira Bassetti Redazione

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ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it

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