WOL - Welfare On Line, N. 1, Gennaio 2014

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WOL welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno X, Numero 1, Gennaio 2014

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Foto di Marco Biondi In questo numero: “Una società sciapa e malcontenta. Estratto dal 47° Rapporto Censis” di Carla Colicelli - pag. 2 “Disagio sociale e ristrutturazioni aziendali. Un progetto UE per migliorare le relazioni industriali” di Francesco Montemurro - pag. 6 “In evidenza…” a cura dell’Associazione Nuovo Welfare - pag. 9 “Coppie, non solo famiglie” di Vanessa Compagno - pag. 10 Le nostre rubriche: “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine - pag. 6 “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari - pag. 12

Associazione Nuovo Welfare


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Una società sciapa e malcontenta. Estratto dal 47° Rapporto Censis

Al di là dei tre problemi che occupano la mente e i dibattiti sull’Italia nell’ultimo periodo (i rischi della situazione economica, l’insta-bilità politica e le debolezze della classe dirigente), il 47° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese richiama l’attenzione sul fatto che comunque milioni di singoli operanti nella vita quotidiana esistono e si comportano in maniera omogenea e tutto sommato coesa. Realismo vuole dunque che, al di là di tutti i baratri imminenti, una società italiana esiste e vive come portato storico. “La realtà è”, al di là di come a diverso modo ne diamo rappresentazione; e “vive nei processi”, non nella progettazione del nuovo che tanto è andata di moda negli ultimi anni. La nostra identità nazionale si è costruita nei processi socio-economici e socio-politici degli ultimi duecento anni, dove i singoli cittadini si sono immersi e sono cresciuti (i processi della ricostruzione, dell’emigrazione interna, dell’esplosione dei consumi, dell’industrializzazione di massa, della cetomedizzazione, ecc.). L’Italia di oggi, quindi, sarà bella o brutta, a seconda degli occhiali con cui la si guarda, ma resta una realtà solida perché non è figlia di idee e di progetti, ma della collettiva partecipazione ai processi storici che l’hanno attraversata. Dobbiamo perciò fare tesoro anzitutto di ciò che resta nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato, anche remoto (lo scheletro contadino, l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile, ecc.); far conto sulla capacità collettiva di cambiare e orientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo); e sviluppare di conseguenza la propensione a riposizionare interessi e comportamenti (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Ostacolo ad un simile atteggiamento è il fatto che siamo una società più “sciapa” che nel recente passato. L’affanno degli ultimissimi anni ci ha tolto la tensione a vivere “con vigore e fervore” i processi che hanno costituito il no-

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stro sviluppo nella seconda metà del ‘900. Senza “il fervore del sale”, dicevano gli alchimisti, “non si può produrre alcuna mutazione degli elementi”: si diventa sciapi, come collettività e forse anche come singoli. E così sembra avvenire in Italia, con la conseguenza di veder circolare troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo complessivo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. Ci si ritrae dall’impegno e si perde al tempo stesso il fervore con cui abitualmente abbiamo vissuto per decenni. Ma il modo in cui abbiamo gestito la sopravvivenza degli ultimi mesi fa ritenere che esista ancora un po’ di vecchia o nuova vitalità, nel radicamento sulla terra che innerva una crescente imprenditorialità nel mondo dell’agricoltura, dell’agroalimentare, dell’agriturismo, dell’enogastronomia e della green economy; nello spirito mercantile che si è spostato verso una connessione stretta con l’export manifatturiero, con nuove strategie di spendita dei nostri brand di alto e medio rango; nella vocazione al lavoro individuale e nel “fai da te” che anima con crescente intensità il comparto artigiano e delle imprese di media serie, sperimentandosi anche sui più moderni campi innovativi. E per andare oltre la sopravvivenza occorre allora fare conto su quattro dinamiche importanti: il consolidarsi di una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione, ecc.); l’emergere di una faticata soggettività degli stranieri che vivono in Italia, che si esplica sia in termini imprenditoriali (in alcune regioni la percentuale delle aziende gestite da stranieri supera il 10-12%), sia in termini di partecipazione sociale; la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, visto che al tradizionale localismo si va sostituendo una forte carica di immedesimazione fra vita locale e imprese locali.


welfare on line In questa tensione a suscitare e sostenere iniziative e vitalità sia individuali che collettive occorre anche guardare ad alcuni grandi processi sociali da sfruttare. Tra tutti il più importante è il processo di radicale revisione del nostro welfare. È chiaro a tutti che l’impalcatura che ha caratterizzato il secolo scorso è oggi in profonda revisione e in tendenziale ridimensionamento. Si moltiplicano pertanto le strade alternative di copertura dei bisogni: il welfare privato, basato sulla crescita dell’impegno finanziario diretto dei singoli e delle famiglie attraverso il ricorso alla spesa “di tasca propria” e il ricorso alla copertura assicurativa; il welfare comunitario, dove i bisogni sociali sono coperti dall’impegno della comunità locale, che si attua attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio; l’inatteso ritorno di un welfare aziendale, che sembrava un reperto del passato e che tende a coprire bisogni specifici, nati e risolvibili all’interno delle singole imprese; e anche l’emergere di esperienze di welfare associativo, con il ritorno a logiche mutualistiche (anch’esse fino a poco tempo fa considerate superate) e la responsabilizzazione di associazioni di categoria (specialmente nel mondo del lavoro autonomo). Per quanto riguarda le donne, alla fine del secondo trimestre del 2013, le imprese con titolare donna iscritte erano 1.429.880, il 23,6% del totale, registrando un significativo saldo positivo (pari a quasi 5.000 unità in più in un anno). L’impresa al femminile è un fenomeno piuttosto recente (l’86% di esse è stato costituito dopo il 1990) concentrato nel 28,7% dei casi nel settore del commercio, nel 16,2% in quello dell’agricoltura, nel 9,2% nei servizi di alloggio e di ristorazione, nell’8% nelle attività manifatturiere. Anche le “imprese rosa” sono prevalentemente di piccole dimensioni, quasi il 69% ha meno di 1 addetto (mentre la media nazionale è del 67%) e prevalgono le imprese individuali, pari al 60% del totale, mentre la media nazionale è del 54%. L’incremento più significativo nell’ultimo anno analizzato si registra per le società di capitali: 9.027 unità in più, con una crescita dello stock del 4,2%. E cresce anche il numero delle cooperative con titolare donna: 923 imprese in più, con un aumento nel periodo del 3,1%. Accanto a ciò il peso crescente nell’ambito delle professioni. Gli incrementi più significativi sul dato dell’incidenza del numero delle donne iscritte agli Ordini e ai Collegi professionali sono relativi non solo

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alle professioni caratterizzate da una significativa femminilizzazione (prima tra tutte quella degli psicologi, nel cui ambito l’81% è rappresentato da donne). Più in generale, la presenza femminile nel campo del lavoro autonomo fa registrare tra il 2007 e il 2012 un saldo complessivamente positivo pari a +0,9%, una dinamica che lascia trapelare uno scenario ancora più ottimistico se si considera nello specifico la partecipazione delle donne come libere professioniste al mercato del lavoro, una partecipazione che tra il 2007e il 2012 ha subìto un incremento generale del 3,7%. Nell’ambito dell’immigrazione, è noto che la crisi economica ha colpito anche la parte più flessibile e meno strutturata del nostro mercato del lavoro, quella costituita dai lavoratori stranieri. Di fronte alle difficoltà di trovare un lavoro dipendente, costretti a lavorare per rimanere in Italia, gli stranieri si assumono però spesso il rischio di aprire nuove imprese. Nel 2012 sono 379.584 gli imprenditori nati all’estero che lavorano in Italia, con una crescita del 16,5% tra il2009 e il 2012 e del 4,4% nel solo ultimo anno: tutto questo mentre le imprese gestite dai nostri connazionali diminuiscono del 4,4% nei quattro anni considerati e dell’1,8% nel solo ultimo anno. Se l’imprenditoria straniera rappresenta l’11,7% del totale, in alcuni settori la quota di immigrati è decisamente superiore alla media: è il caso delle costruzioni, dove sono il 21,2% del totale, e del commercio al dettaglio, dove rappresentano il 20%. Quello degli esercizi commerciali è un caso esemplare: di fronte alla crisi che sta colpendo i negozi italiani, che dal 2009 sono diminuiti del 3,3%, gli stranieri hanno trovato la ricetta vincente e sono cresciuti del 21,3% nel comparto al dettaglio (dove gli esercizi commerciali a titolarità straniera sono 120.626) e del 9,1% nel settore dell’ingrosso (21.440 in tutto). Se poi si analizza la situazione a livello locale, in valore assoluto il dato è elevato a Roma con quasi 10.000 negozi nella provincia e oltre 7.000 nel capoluogo; ma sono molte le province in cui la presenza supera di gran lunga la media: è il caso, ad esempio, di Pisa, dove i negozi gestiti da immigrati rappresentano il 35,4% del totale, Catanzaro, dove sono il 34,5%, Caserta, dove la quota è del 32,7%, Prato e Pescara, dove supera il 30%. Scendendo ancora al dettaglio comunale, non mancano i territori dove i commercianti stranieri hanno superato gli italiani, o comunque si stanno avvicinando. È singolare come questo


welfare on line avvenga soprattutto al Sud, in aree considerate depresse e prive di altre opportunità imprenditoriali, dove evidentemente gli immigrati sono riusciti comunque a trovare spazi di attività: a Castel Volturno il 73,8% dei negozianti è immigrato, a Lametia Terme il 45,6%, a Caserta il 42,6%. Quanto alla nazionalità dei proprietari degli oltre 120.000 negozi attivi, oltre 40.000 sono gestiti da marocchini e più di 12.000 da cinesi e senegalesi. Tuttavia, la vera novità non è rappresentata dall’impresa straniera di sussistenza, ma dalle aziende che invece in questi anni sono cresciute. Si tratta degli 85.000 stranieri che lavorano in proprio e hanno dipendenti (italiani e/o stranieri): unità produttive che negli ultimi quattro anni, mentre quelle di italiani diminuivano del 3,6%, sono aumentate del 14,3%. Si tratta soprattutto di artigiani, sono più giovani degli italiani e provengono soprattutto da Cina, Albania e Romania. Infine i giovani. A questo proposito il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro. Secondo un’indagine condotta a settembre del 2013, ben un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa andrà peggiorando; e sono timori che interessano trasversalmente la popolazione italiana ma soprattutto i giovanissimi, che più che temere una riduzione della retribuzione hanno paura di ritrovarsi senza lavoro. Tra i 35-44enni il 13,7% è convinto che la propria posizione lavorativa sia a rischio e il 17,3% prevede una riduzione del reddito. E ciò corrisponde in pieno ai dati strutturali. Anche nel 2013 è proseguita l’emorragia di posti di lavoro tra i giovani, con una perdita netta nel primo semestre di 476.000 occupati (-8,1%), che si sommano al milione e mezzo circa bruciati dall’inizio della crisi, e anche nella fascia d’età successiva, tra i 35 e i 44 anni, il numero degli occupati è diminuito di quasi 200.000 unità, registrando una contrazione del 2,7%. Le difficoltà che attraversa il mercato del lavoro e i profondi cambiamenti che si registrano stanno ridando nuova centralità al valore delle competenze professionali. Ma su questo il nostro sistema formativo non sembra garantire adeguata risposta. Da un’indagine condotta sulle imprese guidate dai Cavalieri del lavoro emerge, nel confronto tra giovani italiani e stranieri, una preparazione tecnica non sempre all’altezza delle aspettative del mercato: soltanto il 12,2% degli imprenditori ritiene i nostri com-

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petitivi, a fronte del 65,5% che invece preferisce i giovani di altri Paesi; rispetto alla preparazione teorica, invece, la situazione si presenta speculare, e i giovani italiani sono sensibilmente più competitivi dei colleghi stranieri (lo dichiara il 47,5% degli intervistati). Ottimi studenti, che tuttavia quando entrano in azienda appaiono disorientati, in buona parte a causa dello scollamento esistente tra mercato del lavoro, da una parte, e istituzioni scolastiche e universitarie, dall’altra. Ciò si riverbera nel rapporto poco idilliaco dei giovani italiani con l’artigianato. Secondo una recente indagine Censis-Confartigianato sugli studenti degli ultimi due anni di scuola superiore o professionale, chiamati ad esprimere il proprio parere sull’ipotesi di svolgere nel futuro un mestiere artigiano, a malapena un terzo mostra una piena apertura verso tale eventualità: l’11,9% è già indirizzato sulla strada di futuro artigiano, mentre il 19,4% si dichiara possibilista, considerandolo un lavoro come un altro. Un altro terzo (31,4%) condiziona la propria disponibilità alla mancanza di alternative occupazionali e si dichiara disponibile a svolgere un mestiere artigiano solo se non troverà nessun altro lavoro. Il 37,3% esprime un rifiuto categorico e incondizionato, dichiarando la propria indisponibilità a svolgere tale tipo di lavoro anche nel caso in cui non trovasse un altro impiego. A queste notazioni decisamente negative si contrappone la spinta propulsiva costituita dai giovani che lasciano il Paese. Secondo un’indagine dell’ottobre del 2013, circa 1.130.000 famiglie italiane (il 4,4% del totale) hanno avuto nel corso del 2013 uno o più componenti residenti all’estero per più di tre mesi. A questa quota si aggiunge un altro 1,4% di famiglie in cui uno o più membri stanno progettando la partenza o sono in procinto di trasferirsi. Quasi la metà dei giovani che si trovano all’estero (il 44,8%) vive ormai stabilmente in un altro Paese. Mentre il 13,4% considera temporanea la propria presenza fuori dall’Italia, legata ad un periodo di formazione o di lavoro. Per un ulteriore 41,8% dei giovani connazionali all’estero il futuro appare ancora tutto da decidere: il 24,7% si trova oltre confine, ma non ha progetti molto precisi sul da farsi, se restare o ritornare; e la stessa incertezza di fondo contraddistingue quanti, pur trovandosi all’estero per un periodo di tempo limitato, si stanno però attivando per restarci (17,1%). Il fatto che una quota così consistente di italiani intenda stabilirsi all’estero è legata in gran parte alle opportuni-


welfare on line tà occupazionali che contraddistinguono altri Paesi rispetto all’Italia. A fronte di un 20,4% che si trova all’estero per ragioni formative, i più per seguire master e dottorati (13,3%), la maggioranza (72%) ha un’occupazione, mentre il 5,3% ne sta cercando attivamente una. Tra gli occupati, i più (57,1%) lavorano per aziende od organismi stranieri o internazionali, mentre vi è un 5,7% occupato presso un’impresa o struttura italiana con sedi all’estero. Significativa è anche la quota di lavoratori autonomi (il 9,2% del totale) che hanno un’impresa o svolgono un’attività liberoprofessionale: segno di come quella che in Italia sta diventando una vera e propria “impresa nell’impresa” – l’avviare un’attività in proprio – all’estero rappresenti forse un obiettivo di più accessibile portata. Chi se ne è andato lo ha fatto per darsi migliori chance di carriera e di crescita professionale: è questo il fattore considerato da ben due intervistati su tre (il 67,9%) determinante nella scelta di trasferirsi. E se la metà (51,4%) indica invece la possibilità concreta di trovare un’occupazione, il 54,3% è stato invece spinto dalla convinzione che solo all’estero si possa sviluppare un progetto di vita e migliorare la qualità del proprio vivere quotidiano. Ma importante per molti è stato anche il desiderio di fare un’esperienza di tipo internazionale, indicato al quarto posto dal 43,2% degli intervistati. Circa un quarto (il 26,5%) dichiara che è stata determinante la voglia di lasciare un Paese in cui non si trovava più bene; per una quota simile ha pesato in modo decisivo il fatto che si fosse presentata una concreta opportunità di lavoro o di formazione da parte di aziende o università. Per alcuni hanno pesato molto le ragioni affettive: il 15,2% si è trasferito per seguire una persona cara e il12% per vivere al meglio e in piena libertà la propria dimensione di vita sentimentale, senza essere vittima di pregiudizi o atteggiamenti discriminatori, come nel caso di omo-

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sessuali o madri single. Quello che al confronto con l’estero appare a loro il difetto più intollerabile dell’Italia è l’assenza di meritocrazia a tutti i livelli, denunciata dal 54,9% degli intervistati. Un aspetto che per molti deve avere inciso fortemente sulla stessa scelta di andarsene, vista l’ampia condivisione che emerge su tale punto, prima di altre questioni che pure affliggono l’Italia quali il clientelismo e la bassa qualità delle classi dirigenti (indicati dal 44,1%), la scarsa qualità dei servizi (28,7%), la scarsa attenzione per i giovani (28,2%), lo sperpero di denaro pubblico (27,4%). Colpisce anche trovare al terzo posto (lo indica il 34,2%) l’imbarbarimento culturale della gente. Carla Colicelli* * Vice Direttore generale della Fondazione Censis. È laureata in Filosofia presso l’Università La Sapienza di Roma, e si è specializzata a Francoforte su Meno presso il DIIPF (Deutsches Institut fuer Internationale Paedagogische Forschung). Dal 1980 lavora al Censis, e dal 1993 ne è Vice Direttore Generale. Si occupa in modo particolare di sociale, welfare, salute, previdenza, famiglia, emigrazione. Ha insegnato Sociologia dei servizi sociali presso l’Università di Roma 3 e Sociologia della Salute all’Università La Sapienza, e collabora in qualità di docente nell’ambito di numerosi altri Master delle Università romane. È Segretario generale del Forum per la Ricerca Biomedica (progetto ventennale del Censis su sanità e ricerca biomedica), esperto della Rete Interistituzionale per la Misurazione dell’Attività Amministrativa del Cnel e del Sistema di Valutazione dei Servizi sanitari del Ministero della Salute, nonché membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Nazionale per la medicina della Povertà e delle Migrazioni, della Fondazione Cesare Serono, della Fondazione Glaxo Smith-Kline, della Fondazione don Gnocchi, dell’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici e del Consiglio direttivo di Alzheimer Uniti. Oltre a numerosi articoli, relazioni a convegni e testi collettanei, ha pubblicato: Salute come processo sociale (2011, FrancoAngeli) e Salute e benessere (1998, FrancoAngeli). Collabora con Il Sole 24 ore, il Messaggero, L’avvenire. Dirige la collana FrancoAngeli del Forum per la Ricerca Biomedica.


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Cineforum a cura di

Matteo Domenico Recine Muffa Film d’esordio per il giovane regista turco Ali Aydin, Muffa (in originale Küf) ha vinto il Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima (Luigi de Laurentiis) alla 69ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nel 2012. Il contesto storico del film è quello degli anni Novanta, durante la feroce repressione del pensiero dissidente rispetto al governo al potere. Questo schema di repressione, apprendiamo tramite il film, è poco sorprendentemente simile a quello adottato in altri contesti, in altre epoche, in altri paesi: basti pensare in tal senso all’Argentina degli anni Settanta, al Cile di Pinochet o alla Corea del Nord. Evidentemente, di fronte ad alcuni temi, i contesti socioculturali tendono ad appiattirsi su pratiche comuni. Basri, vedovo e prossimo alla pensione, lavora per le ferrovie turche e si occupa di verificare lo stato di ammaloramento della rete e dei binari. Oltre al lavoro, il suo unico impegno è quello di scoprire cosa sia accaduto al figlio Seyfi, scomparso da 18 anni dopo essere stato arrestato come dissidente. Basri scrive con regolarità lettere alle autorità e alle forze di polizia, ricevendo così, non notizie, ma solo continui controlli e interrogatori. Questa attività è inoltre per lui fonte di offese da parte di uno sgradevole e abietto collega, l’operaio Cemil. Il terzo personaggio cardine del film è il commissario di polizia Murat, il nuovo responsabile assegnato al caso di Basri. Quest’ultimo, a differenza dei colleghi e dei sottoposti, sembra essere permeabile rispetto al dramma del ferroviere e mostra, nel corso del film, un’evoluzione nel modo di rapportarsi con lui: sgarbato all’inizio, è molto più rispettoso e partecipe verso la conclusione. Il contegno di Basri è infatti tanto dignitoso e asettico quanto doloroso. Una sorta di fuga dal mondo, dopo la scomparsa del figlio e la morte della moglie. In questo senso, il ruolo di Cemil è una sorta di contraltare, un deuteragonista tanto umano, in senso deteriore, da essere elemento di assoluto contrasto rispetto al protagonista. Ancor più, nella finalità della trama perché, dopo i continui scontri, è essenziale per consentire al regista di far risaltare la sempre maggiore lontananza dall’umano in Basri. La trama di Muffa è nel complesso piuttosto scarna, così come è ridotta all’osso la vita del protagonista. Per questo motivo, allo spettatore sono concessi solo alcuni piccoli ganci, la radio, ad esempio, per comprendere dove ci si trovi. La fotografia è molto curata e, a causa anche dell’ambientazione, tra le montagne dell’Anatolia, consente alla regia un rigore asettico e distante, che contribuisce a restituire il senso di distacco dagli interessi umani in Basri. Molto curata anche la recitazione, in particolare è degno di menzione il lungo piano sequenza del primo confronto tra Basri e Murat. Un film di Ali Aydin. Con Ercan Kesal, Muhammet Uzuner, Tansu Biçer. Titolo originale Küf. Drammatico, durata 94 min. - Turchia, Germania 2012. – Distribuzione Sacher - uscita martedì 30 aprile 2013.

Disagio sociale e ristrutturazioni aziendali. Un progetto UE per migliorare le relazioni industriali Quasi mai le statistiche sociali riescono a cogliere la dimensione esatta del disagio sociale. Con questo termine, in genere, si allude ad un fenomeno che sfugge ad una definizione univoca ma che chiama in causa una molteplicità di fattori e di motivazioni.

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La delinquenza (minorile e adulta), la tossicodipendenza, l’alcolismo, la malattia psichica, la non autosufficienza di anziani e persone con disabilità, la disoccupazione, la prostituzione, l’immigrazione clandestina. Tali tematiche sono, in genere, complesse; le storie degli indivi-


welfare on line dui che “contribuiscono” all’emergere del disagio sociale (e che generano quell’attenzione sociale che porta a rilevarlo statisticamente) sono storie complicate, in cui si sono intrecciate e/o sovrapposte molteplici esperienze negative. Negli ultimi anni i temi del disagio si collegano sempre di più all’evoluzione economica e occupazionale del nostro Paese. Si pensi ai problemi personali e familiari che derivano dal perdere il lavoro o dal lavorare in perenne condizione di incertezza e di precarietà, alla cassa integrazione per lunghi anni di vita, al disagio dei giovani che spesso sono costretti a vivere con il nucleo familiare di origine fino ad oltre i 35 anni, per mancanza di un lavoro dignitoso e di una prospettiva autonoma di vita. Naturalmente, questi fenomeni si intrecciano con gli stili di vita individuali e i comportamenti familiari (ad esempio, il progressivo restringimento dei nuclei familiari avvenuto a seguito dell’incremento del numero di divorzi e della diminuzione del tasso di fecondità, ecc.). È certo, però, che l’insicurezza del lavoro è una chiave di lettura molto importante per comprendere l’evoluzione del disagio sociale. Basti osservare le ultime indagini svolte dall’Unione Europea in materia, per capire che ormai i fattori di disagio (psichico, familiare, di salute) spesso creati dai licenziamenti e dai processi di ristrutturazione aziendale (in molti casi accompagnati da demansionamenti, riduzione del salario, ecc.) hanno un impatto significativo sulla qualità della vita dei soggetti interessati. Pensiamo, ad esempio, agli effetti delle ristrutturazione nelle piccole e medie imprese. In questo caso, spesso i licenziamenti o le espulsioni dal lavoro tendono ad essere effettuate in maniera non pianificata, reattiva e senza piani di ristrutturazione formali, e una volta che la ristrutturazione è in corso le decisioni vengono prese in modo rapido e flessibile, spesso dal proprietario senza coinvolgere, almeno formalmente, rappresentanti dei lavoratori, figure che spesso le piccole e medie imprese non contemplano. Quali sono i danni per centinaia di migliaia di lavoratori espulsi dalle PMI, tenuto conto che in Italia gli strumenti di sostegno al reddito sono limitati, spesso non coinvolgono i lavoratori delle piccole imprese, e non esiste una misura di contrasto alla povertà (in Europa il nostro Paese è l’unico, insieme con Grecia e Ungheria, a non essere provvisto di tale strumento). In questo contesto si colloca l’esperienza del

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progetto cofinanziato dall’Unione Europea “Migliorare le relazioni industriali nell’ambito dei processi di ristrutturazione aziendale nell’industria automotive e nel credito”, avviato a febbraio 2013 e conclusosi con un workshop lo scorso novembre. Comprendere quali siano i fattori che sollecitano una ristrutturazione e quali siano le conseguenze delle ristrutturazioni per i lavoratori (e le relative famiglie) e per le comunità locali; identificare misure volte ad anticipare i cambiamenti, definire nuovi prassi da adottare per minimizzare l’impatto negativo nei riguardi degli attori interessati e per incentivare le aziende ad individuare strategie di ristrutturazione alternative alla riduzione del costo del lavoro (riposizionamento sul mercato, innovazione tecnologica, ecc.). Questi gli obiettivi principali del progetto, promosso in qualità di capofila dall’Ires Lucia Morosini, con un partenariato composto da CGIL e FISAC Piemonte, CGIL Lombardia, Fedération CGT des Syndicats d Personnel de la Banque et de l’Assurance (Parigi), FISAC Unicredit, Gruppo IntesaSanpaolo, FIOM Torino, Federación de Servicios Financieros y Administrativos de CCOO (Madrid), FISAC Santander, Sindacato metallurgico OZZ della Polonia (Varsavia), Centre de recherche Travail & Technologies (Bruxelles), Institute for Employment Studies (London). In base alle indagini svolte nell’ambito del progetto, spesso le strategie di gestione aziendale per la riduzione dei costi hanno comportato un’intensificazione del lavoro e un calo delle retribuzioni; tali tendenze hanno riguardato l’industria e anche il credito, tradizionalmente caratterizzato da remunerazioni elevate e buone condizioni di lavoro e di assunzione. Raramente la strategia di ristrutturazione aziendale è stata orientata a riposizionare l’impresa sul mercato e a riconvertire la produzione aziendale tramite l’adozione di tecnologie più avanzate o l’inserimento in nuovi settori caratterizzati da un livello della domanda di mercato più alta. Soprattutto nell’ultimo biennio, le ristrutturazioni sono state finalizzate all’abbattimento dei costi di produzione, sia attraverso strategie di razionalizzazione della manodopera, sia delocalizzando parte della produzione. Nell’ambito delle ricerche effettuate si è potuto osservare come le condizioni occupazionali di milioni di lavoratori siano cambiate in alcuni Paesi europei durante la crisi, spesso con modalità molto differenti.


welfare on line Anche nel 2012 l’ERM (Osservatorio sulle ristrutturazioni in Europa) ha continuato ad annunciare più casi di perdita d’impiego rispetto alla creazione di posti di lavoro. I dipendenti maggiormente a rischio di perdere il proprio impiego sono anche quelli che più difficilmente ne troveranno uno nuovo. Queste persone presentano solitamente le seguenti caratteristiche: bassi livelli d’istruzione, appartenenza ad una minoranza, provenienza estera, seri problemi di salute e basso stato occupazionale. Chi vanta una lunga anzianità di servizio è in genere protetto dalla perdita del lavoro, ma se finisce con il perdere l’impiego ha minori probabilità di trovarne uno nuovo. Precarietà del posto di lavoro In base agli studi di Eurofound, si è rilevato un aumento della precarietà dei posti di lavoro, legata al maggiore tasso di disoccupazione, al nuovo contesto socioeconomico e alla probabilità che le modifiche introdotte nel diritto del lavoro abbiano indebolito la tutela dell’occupazione (sebbene gli studi debbano ancora confermarlo). Il numero di lavoratori che pensano che perderanno probabilmente il loro posto di lavoro è cresciuto nella maggior parte dei Paesi europei, in particolare in Slovenia, Grecia e Cipro, seguiti da Irlanda, Lettonia, Repubblica Ceca, Portogallo, Spagna, Slovacchia e Italia. Questa tendenza crescente alla precarietà del posto di lavoro è meno evidente nei Paesi nordici, persino in Danimarca dove il tasso di disoccupazione è raddoppiato fra il 2007 e il 2011, forse a causa del modello di “flessicurezza” applicato (Eurofond, 2013). In Irlanda e in alcuni Stati membri dell’Europa centrale e orientale, dove le modifiche apportate alla legislazione in materia di lavoro hanno incoraggiato il ricorso a contratti temporanei, la percentuale di contratti a tempo determinato è aumentata. Sono aumentati anche i lavori temporanei e a tempo parziale involontari, specialmente nei Paesi più colpiti dalla crisi, come l’Italia e la Spagna. Intensità del lavoro e autonomia professionale Vi è poi un nesso tra la ristrutturazione e una maggiore intensità del lavoro, combinata con una minore sicurezza del posto di lavoro. I dipendenti sottoposti a ristrutturazione sono risultati più a rischio di ritrovarsi a svolgere mansioni altamente faticose. È inoltre più pro-

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babile che presentino una maggiore esposizione a rischi psicosociali sul posto di lavoro, livelli superiori di disturbi psicosomatici e assenteismo (Erm, 2013). L’intensità del lavoro è aumentata in Irlanda, Italia e Spagna, ma anche in altri Paesi dell’UE, quale il Regno Unito. Anche i livelli di stress riferiti sono aumentati nella maggior parte dei Paesi di cui sono disponibili dati; tale fenomeno potrebbe essere attribuito a: • una maggiore precarietà del posto di lavoro; • un’intensificazione del lavoro in alcuni contesti e Paesi; • una minore mobilità, o lavoro a tempo parziale o a tempo determinato involontario. Inoltre, anche la violenza e le molestie sul posto di lavoro sono aumentate in numerosi Paesi di cui sono disponibili informazioni – Repubblica Ceca, Danimarca, Italia, Portogallo e Regno Unito. Questa tendenza potrebbe, in una certa misura, essere connessa alla crisi, specialmente in aziende che subiscono ristrutturazioni. Implicazioni per la salute e il benessere Alcuni studi hanno confermato che una maggiore precarietà del lavoro, in particolare in tempi di crisi, conduce ad un deterioramento dei livelli di benessere. Uno studio di Eurofound pubblicato nel 2012 dimostra che nel corso di questa crisi l’equilibrio fra lavoro e vita privata ne ha risentito in Irlanda, Italia e in Spagna, ma anche in Paesi come Austria, Germania e Svezia dove gli effetti della crisi non sono stati così severi. Alcuni indicatori mostrano segnali di cambiamento positivi. I livelli di soddisfazione professionale hanno registrato un leggero aumento, anche in Paesi colpiti duramente dalla crisi – Estonia, Portogallo, Spagna e Irlanda. Sembra che l’effetto negativo della crescente precarietà del lavoro sia compensato dal conforto di avere (ancora) un posto di lavoro. Nella maggior parte dei Paesi europei, i tassi di infortuni sono diminuiti, in particolare fra il 2008 e il 2009, ad eccezione dell’Irlanda e del Portogallo, sebbene siano aumentati nuovamente in alcuni Paesi fra il 2009 e il 2010. Questo fenomeno può essere stato causato da una possibile riduzione dell’attività lavorativa all’inizio della crisi, associata alla permanenza al lavoro di persone più esperte. I dati relativi alle tendenze sulle malattie professionali differiscono. Tuttavia, si osservano tassi di suicidio


welfare on line più elevati in Grecia, Paese duramente colpito dalla crisi. In generale, la maggior parte dei Paesi ha conosciuto un calo dell’assenteismo, forse dovuto in alcuni di essi (come Estonia, Italia, Lituania, Norvegia e Portogallo) all’introduzione di condizioni più rigorose per accedere alle prestazioni per malattia (Eurofound, 2013). Spunti per le politiche Negli ultimi mesi il dibattito europeo sui processi di ristrutturazione si è concentrato attorno alle Raccomandazioni UE in materia approvate dal Parlamento europeo il 15 gennaio 2013. In base a tale indicazioni, la ristrutturazione di successo economico e socialmente responsabile richiede che tale processo venga integrato in una strategia a lungo termine volta a garantire e a rafforzare la sostenibilità e la competitività dell’impresa. Si richiede inoltre di mettere le risorse umane al centro dello sviluppo strategico delle imprese.

La strategia a lungo termine riguarda lo sviluppo economico, le risorse umane, la capacità di adattamento dell’impresa, oltre che interventi per aumentare l’occupabilità dei lavoratori e per facilitare la transizione e migliorare la loro mobilità interna ed esterna. Proprio per rafforzare l’approccio strategico, gli Stati membri sono stati sollecitati a stimolare le aziende a garantire l’accesso di tutti i lavoratori alla formazione (al fine di anticipare le esigenze di lavoro modificate all’interno della società) nonché ad adottare piani pluriennali per l’occupazione e lo sviluppo del capitale umano. Francesco Montemurro ∗ *

Laurea in sociologia, master in Business Administration, coach professionista, è presidente dell’Ires Lucia Morosini, collabora con Auser e ha scritto numerosi articoli per il Sole 24 Ore e altri quotidiani e riviste specializzate in materia di welfare. Coordinatore del progetto UE per il miglioramento delle relazioni industriali nell’ambito dei processi di ristrutturazione aziendale, finalizzato in particolare a minimizzare i costi sociali per i lavoratori e le comunità locali.

In evidenza…

Corsi di FAD per operatori sociali

Sono aperte le iscrizione ai corsi di formazione a distanza (FAD) per gli operatori del sociale promossi da HandyLex.org in collaborazione con l’Agenzia E.Net e l’Associazione Nuovo Welfare. Corsi di aggiornamento con crediti formativi per assistenti sociali: L’accertamento delle minorazioni civili e dell’handicap: inizio 24 febbraio 2014; termine iscrizione: 20 febbraio 2014; costo: 250 euro + IVA; crediti formativi riconosciuti dal Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali: 15 crediti. Europrogettazione in ambito sociale: inizio 24 marzo 2014; termine iscrizione: 20 marzo 2014; costo: 250 euro + IVA; crediti formativi riconosciuti dal Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali: 15 crediti. La durata di entrambi i corsi è di 40 ore ciascuno. Comprendono lezioni multimediali (con contenuti basati su una combinazione di testo, grafica, audio, video, animazioni, domande ed esercizi), momenti di interazione con docenti, tutor e altri discenti, momenti di verifica (simulazioni, test, prova finale). Per maggiori informazioni, per consultare il programma dei corsi e per l'iscrizione: www.handylex.org/corsi

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Coppie, non solo famiglie In molte società non è la coppia, ma la parentela che dà luogo alla famiglia, anche a prescindere dalla volontà degli interessati. In altre comunità organizzate l’istituto stesso della coppia - come conosciuto attualmente in Italia - non esiste o è molto diverso da quello creato in età moderna (la coppia come relazione autonoma, indipendente dalla parentela e dalla filiazione). Si pensi, ad esempio, alle società agnatiche o poligame. “In ogni società conosciuta e in ogni epoca troviamo forme di regolazione dei rapporti di sesso, di generazione e tra le generazioni, che individuano i rapporti familiari rispetto a quelli che viceversa non lo sono. In particolare ogni società regola i rapporti di filiazione, ovvero a chi è concesso avere figli”1. Nell’Italia del diciannovesimo secolo, le donne nubili sospettate di essere incinta erano controllate dalla polizia perché non abortissero, per poi forzarle ad abbandonare il bambino una volta nato, in quanto figlio illegittimo. Sempre in Italia, fino al 1975, un padre coniugato non poteva riconoscere un figlio avuto con una donna diversa dalla moglie e una donna coniugata non poteva vietare al marito di riconoscere un figlio che la stessa aveva avuto con un altro uomo. “Un esito contro natura, verrebbe da dire, se credessimo nell’esistenza di una natura umana immutabile e data a priori e non invece a un percorso storico più o meno accidentato e spesso contraddittorio di costruzione dell’umanità”2. Di fatto, la stessa scoperta dell’intimità (e l’attesa di essa) è un’invenzione moderna. Per molto tempo “l’innamoramento è stato visto come un fondamento troppo fragile e inadeguato per un rapporto di lunga durata, quale inteso il matrimonio”3. L’emergere della famiglia coniugale intima caratterizzata da una relazione di coppia centrale scelta dagli interessati, dunque non imposta dalle rispettive parentele, è un’invenzione recente. Questo nuovo modello di coppia come origine e legittimazione autonoma, dove i due partner si attendono l’uno dall’altro non solo divisione del lavoro e relazioni sessuali senza

avere fini riproduttivi, ma anche affetto e, appunto, intimità, è prevalentemente occidentale. E, soprattutto nella sua prima fase, fortemente connotata in termini sia di classe (classi alte) che di ruoli di genere (il marito doveva provvedere “al pane” e la donna a creare uno spazio domestico e intimo dove l’uomo tornava dopo le fatiche lavorative). “La relazione di coppia diviene un obiettivo in se stessa, cui si può aggiungere anche l’obiettivo di avere figli insieme. E la mancanza di figli non solo non è motivo di reversibilità o nullità del matrimonio, ma può essere rivendicata come scelta intenzionale della coppia”4. La coppia coniugale intima si basava su una visione dicotomica dell’essere umano: era solo eterosessuale; era complementare, e quindi i due partner eterosessuali insieme formavano un’unità. La coppia era fusionale, e la ricerca della “propria metà” era fondamentale per riempire il vuoto della nostra incompletezza e per sentirsi “interi”. Nel 1963, Friedan5 denunciò questo modello, parlando del malessere vissuto dalle donne istruite che non riuscivano a sentirsi complete aderendo all’ideale della casalinga felice nell’unità realizzata con il marito e mise in luce l’inganno di “mistica della femminilità” che portò tali donne a rinunciare alla propria realizzazione professionale per dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga, a segregarsi nei suburbi residenziali americani. L’individualizzazione e la resistenza a identificarsi totalmente nel rapporto di coppia hanno prodotto un nuovo modello di coppia, definita conversazionale, costruita nel dialogo e nel confronto, nel riconoscimento e rispetto dell’individualità di ciascuno, dello spazio e degli interessi che dividono, non nella fusione, dove la realizzazione del sé non è affidata alla realizzazione nell’altro. In molte società occidentali, compresa l’Italia, i cambiamenti avvenuti nella coppia, nei rapporti donna-uomo e nella sessualità hanno portato alla ridefinizione di quello che fino a poco tempo fa era considerato “naturale”: i figli naturali sono equiparati a quelli legittimi (notare però la differenza di linguaggio con cui vengono ancora designati i figli nati entro o fuori il matri-

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C. Saraceno, Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, 2012, p. 15. 2 Ibidem, p. 19. 3 Ibidem, p. 46.

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Ibidem, p. 48. B. Friedan, La mistica della femminilità, Castelvecchi, 2012.

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welfare on line monio). È possibile divorziare e risposarsi senza essere vedove/i; l’adulterio, in particolare quello femminile, non è più un reato contro la morale o la coesione sociale; la stessa convivenza al di fuori del matrimonio non è più reato, sebbene in alcuni Paesi le obbligazioni e le responsabilità che si instaurano tra la coppia non solo eterosessuale - hanno ottenuto forme di riconoscimento giuridico simili a quelle che si hanno nel matrimonio; la de-stigmazione della procreazione senza matrimonio, oltre a diffondere la monogenitorialità, non solo femminile (quindi la coppia non è più lo strumento indispensabile per la riproduzione delle famiglie), “ha aperto la possibilità di adozione anche alle persone sole, riconoscendo che la capacità genitoriale non si sviluppa ed esercita solo in un rapporto di coppia”6; la contraccezione è diventata legittima e quindi si è potuta separare la sessualità dalla riproduzione e dal matrimonio. “Il matrimonio e la famiglia, per un numero crescente di donne, non costituiscono l’unico investimento nella vita adulta, in cui giocare una volta per tutte le proprie carte; […] le donne oggi affrontano le decisioni relative al se e come fare famiglia con maggiori risorse negoziali, sul piano economico e su quello dell’identità di genere. Questo potere negoziale è più forte ed esplicito per quel che riguarda la procreazione. Per quanto si possa denunciare lo scarto tra numero di figli desiderati e numero di figli effettivamente avuti (a sfavore dei secondi) come spia delle difficoltà che incontrano le donne a combinare la maternità con altre attività e impegni, questo stesso scarto è indicatore anche di una possibilità di scelta non tanto in negativo, quanto tra priorità diverse”7. Il numero di donne italiane che terminano la loro “carriera riproduttiva” senza aver avuto figli è passato dal 10% per le donne nate nel 1955, al 20% per quelle nate nel 1965, nonostante la pressione sociale esercitata sulle donne (Istat 2003). Accanto a chi non riesce ad avere figli, si sta diffondendo anche in Italia la scelta volontaria di non averne e di dichiararlo. Questi numeri parlano anche delle donne che scelgono liberamente di non avere figli (Childfree), di quelle che si sentono costrette per varie circostanze a non averne (Childless) e delle coppie che respingono l’idea di procrea6 7

C. Saraceno, op. cit., p. 24. Ibidem, p. 117.

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re (DINK: double income no kids - doppio stipendio niente figli8). Molti studi analizzano le donne che non hanno figli. Per quanto concerne l’Italia nel lavoro di Mencari e Tanturri del 20059 è stato evidenziato che esse sono donne istruite, poco religiose, figlie uniche e che prevalentemente formano un’unione, inizialmente convivendo e solo in seguito sposandosi, dopo i trent’anni e che nei primi anni di questa unione hanno un lavoro precario. Anche tra le donne coniugate emerge la volontà di non avere figli sottolineando, senza “senso di colpa”, che la loro realizzazione personale passa da esperienze diverse dalla maternità10. Gli svantaggi legati alla maternità richiamano alla limitazione della libertà e alla rottura dell’equilibrio di coppia che la presenza di figli crea: non il coronamento di un’unione bensì un elemento di disgregazione. Alcune donne evidenziano anche come la maternità sia una scelta senza ritorno; in una società basata sull’incertezza e sulla liquidità e su relazioni reversibili i figli possono rappresentare l’irreversibile. Ma il punto centrale è che oggi la scelta di non avere figli è una possibilità. La donna contemporanea non si sente completa esclusivamente come moglie o mamma, ma in quanto donna. Tale analisi tuttavia non esclude l’adozione di preziose politiche volte a favorire la conciliazione famiglia-lavoro, che rendano economicamente sostenibile la maternità. Come dimostrano, infatti, le ricerche pubblicate su Demographic Research (2013) relative all’andamento della fecondità in rapporto alla disoccupazione, essa ha subito una battuta d’arresto durante la crisi (2008-2013). E ciò soprattutto nell’Europa meridionale dove la carenza delle misure di welfare risulta più forte. La scelta di non avere figli deve essere una scelta, non una costrizione. Vanessa Compagno* 8

F. Bonazzi, Dink. La generazione delle coppie Doppio Reddito, Niente figli, Castelvecchi, 2001. 9 Childless by choice or constraint? Profiles of childless women in select Italian cities, Working Papers, 0372005. 10 M.L. Tanturri, Le donne senza figli: una tela cubista, in F. Ongaro, Scelte riproduttive tra costi, valori, opportunità, Collana Sociologica, Franco Angeli, 2006. *

Sociologa, si occupa di ricerca legata al pregiudizio e agli stereotipi, con particolare attenzione ai migranti e alle differenze di genere.


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LiBrInMenTe La signorina Tecla Manzi di Silvia Spatari

Su Andrea Vitali, prolifico fenomeno letterario tutto nostrano, sono stati versati ettolitri di inchiostro; non so se li valga proprio tutti, ma di certo La signorina Tecla Manzi rappresenta un piacevole diversivo per una lunga serata invernale. Siamo a Bellano, sul lago di Como, negli anni più grassi del Fascismo. Un bel giorno, la suddetta signorina si presenta alla stazione dei carabinieri per denunciare, asciutta asciutta, il furto di un quadretto religioso. “Signorina per dire,” la inquadra subito il brigadiere Efisio Mannu, “sessant’anni li aveva tutti. Forse qualcuno di più. Portati né bene né male, era del tipo nata vecchia”. Non sembra sussistere reato per l’esasperato brigadiere, che ha tra le mani grattacapi ben più odiosi: il seppellitore Sabino Frascati ha appena scoperto una tomba profanata nell’immacolato camposanto del paese. E invece un fatto all’apparenza tanto insignificante si rivelerà la chiave per risolvere più di un mistero e gettare luce su loschi traffici e ancor più loschi individui vissuti (o morti) quasi trent’anni prima. Più che la vocazione del giallista Vitali ha uno spiccato senso del ridicolo, e infatti la trama del libro rappresenta soprattutto un pretesto per mettere impietosamente alla berlina non solo l’apparato e l’ideologia fascista, ma anche le innate idiosincrasie italiane che raggiungono l’apice nell’esilarante animosità che intercorre tra il sardo brigadiere e il suo sottoposto Misfatti, siciliano. Con un linguaggio arguto e quasi onomatopeico, l’autore costruisce personaggi dai nomi improbabili e dai caratteri parodistici che rispecchiano un’Italia di provincia ancora - incredibilmente - attuale. Andrea Vitali Garzanti, 2004 € 16,60

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Hanno collaborato a questo numero

Carla Colicelli, Vanessa Compagno, Francesco Montemurro, Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Foto Marco Biondi Redattore Zaira Bassetti Impaginazione Zaira Bassetti Redazione Piazza del Ges첫, 47 - Roma

Potete inviarci le vostre osservazioni, le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it

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