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WOL welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno X, Numero 4, Giugno 2014
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Foto di Marco Biondi In questo numero: “La spesa sociale e gli interventi relativi alle politiche sulla disabilità” di Daniela Bucci - pag. 2 “Viaggio nel lavoro di cura” di Gianfranco Zucca - pag. 4 “Persone con disabilità e semplificazione amministrativa” di Carlo Giacobini - pag. 9 Le nostre rubriche: “In agenda” a cura dell’Associazione Nuovo Welfare - pag. 8 “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine - pag. 12
Associazione Nuovo Welfare
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La spesa sociale e gli interventi relativi alle politiche sulla disabilità Il 28 maggio scorso è stato presentato, a Roma, il Rapporto annuale 2014 dell’ISTAT sulla situazione del Paese. In particolare, il capitolo 4 del Rapporto si occupa di Tendenze demografiche e trasformazioni sociali. Nuove sfide per il sistema di welfare. E ci offre uno spaccato degli andamenti demografici, delle condizioni di vita delle famiglie e delle politiche di welfare del nostro Paese. Viaggiando tra i dati proposti in questo capitolo, Condicio.it ha ricostruito lo stato dell’arte della spesa e degli interventi relativi alle politiche sulla disabilità per ciò che è possibile fare sulla base delle statistiche ufficiali. Tra i 28 Paesi dell’UE, l’Italia è settima per la spesa in protezione sociale (che comprende la spesa in Sanità, Previdenza e Assistenza). Nel 2011, il nostro Paese ha, infatti, destinato per questa funzione il 29,7% del proprio prodotto interno lordo, valore al di sopra della media europea, pari al 29% del PIL. Tuttavia, questa settima posizione è caratterizzata da forti disomogeneità rispetto alle voci di spesa. L’Italia è il secondo Paese (preceduto dalla Lettonia) per pensioni di anzianità e vecchiaia, voce che assorbe il 52% della spesa per protezione sociale contro la media europea del 39,9%. Mentre è la penultima per la voce “Famiglia maternità e infanzia” con il 4,8% (la media europea è l’8%). In questo quadro la spesa destinata alle persone con disabilità, nel 2011, è stata pari in Italia al 5,8% della spesa complessiva in protezione sociale, a fronte del 7,7% della media europea, collocandoci tra i Paesi con le percentuali più basse di spesa destinata alla disabilità. A spendere percentualmente meno dell’Italia sono solo Grecia, Irlanda, Malta e Cipro. Si tratta di pensioni di invalidità, contributi per favorire l’inserimento lavorativo, servizi finalizzati all’assistenza e all’integrazione sociale e strutture residenziali. Prestazioni che pesano solo per l’1,7% sul nostro prodotto interno lordo. Una parte significativa del capitolo 4 del Rapporto annuale ISTAT viene dedicata alle condizioni economiche delle famiglie, ma nessun dato specifico viene fornito sulle famiglie con all’interno almeno un membro con disabilità, che sappiamo essere uno dei maggiori fattori di rischio. In Italia, il rischio di povertà nel 2012 è stato
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uno tra i più alti in Europa: il 19,4% degli individui ha un reddito disponibile inferiore alla soglia di povertà contro il 17% registrato nell’Unione Europea a 28 Paesi. Nel reddito disponibile delle famiglie sono ovviamente considerati anche i trasferimenti sociali, di cui hanno beneficiato nel 2012 quasi il 38% delle famiglie; si tratta di sussidi per l’invalidità o di disoccupazione (inclusa la cassa integrazione guadagni), di borse di studio, di benefici a sostegno delle famiglie (come gli assegni al nucleo familiare) e di contributi pubblici per le spese dell’abitazione (come l’affitto). Se non considerassimo tali trasferimenti, il rischio di povertà in Italia salirebbe al 24,4% e in Europa al 25,9%. La spesa sociale di tipo non pensionistico riduce, quindi, il rischio di povertà della popolazione residente, in Italia di circa il 20% e a livello europeo di ben il 34% (valore che varia da circa il 14% della Grecia a più del 50% per i Paesi scandinavi, Islanda e Olanda), a significare che i trasferimenti sociali, nel nostro Paese, sono meno efficaci e consistenti che nel resto d’Europa. In quest’ottica, i tagli alla spesa sociale contribuiscono certamente ad acuire le criticità e gli squilibri territoriali. Nel 2011 i Comuni italiani, singoli o associati, hanno speso per interventi e servizi sociali sui territori poco più di 7 miliardi di euro (7.027.039.614 euro). Un dato che, per la prima volta dall’inizio della rilevazione dell’ISTAT, nel 2003, risulta in calo rispetto all’anno precedente (7.126.891.416 euro nel 2010). Va ricordato che, nel passaggio dal 2009 al 2010, pur verificandosi un aumento della spesa sociale comunale dello 0,7%, si era comunque già registrata una discontinuità rispetto alla precedente dinamica di crescita. Nel periodo compreso fra il 2003 e il 2009 l’incremento medio annuo era stato, infatti, pari al 6%. Inoltre, va anche evidenziato che la variazione avvenuta tra il 2009 e il 2010 era risultata di segno negativo se calcolata a prezzi costanti (1,5%), ossia tenendo conto dell’inflazione registrata nel periodo. Nel passaggio dal 2010 al 2011 l’andamento negativo trova conferma, registrandosi addirittura una contrazione della spesa sociale comunale dell’1,4% calcolata a prezzi correnti, ossia senza considerare l’inflazione.
welfare on line La spesa comunale media per abitante è passata da 90,2 euro nel 2003 a 117,8 euro nel 2010, per scendere a 115,7 euro nel 2011. Notevoli permangono le differenze territoriali: dai 282,5 euro per abitante della Provincia Autonoma di Trento ai 25,6 euro della Calabria (nel 2010 erano rispettivamente 304,4 e 25,8 euro). Al di sopra della media nazionale si collocano gran parte delle Regioni del Centro-Nord e la Sardegna, mentre il Sud presenta i livelli più bassi di spesa media pro-capite (50,3 euro), meno di un terzo rispetto a quella del Nord-Est (159,4 euro). C’è da considerare, inoltre, che nel Mezzogiorno le risorse proprie dei Comuni coprono meno della metà delle spese per il welfare locale. In quest’area del Paese è maggiore, infatti, l’incidenza del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali sul totale delle spese per interventi e servizi sociali, a differenza del Nord e del Centro dove i Comuni integrano maggiormente con risorse proprie i fondi nazionali ripartiti a livello locale. Ciò significa che nel Mezzogiorno, dove il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali, i tagli introdotti rischiano di tradursi più direttamente in un contenimento delle risorse impiegate in questo settore, accentuando ulteriormente i già rilevanti differenziali territoriali. In controtendenza, la spesa rivolta alla disabilità risulta aumentare di circa 35 milioni di euro: da 1.594.929.093 euro del 2010 a 1.630.043.404 del 2011, per un valore di 2.886 euro per abitante con disabilità (erano 2.834 euro nel 2010). Fra i principali interventi e servizi erogati per quest’area di utenza, si rileva il sostegno socio-educativo scolastico, che assorbe il 19% della spesa per disabilità, i centri diurni e le altre strutture di supporto a ciclo diurno, quali i laboratori protetti (20%), le strutture residenziali (16%) e l’assistenza domiciliare (14%). Anche nell’area disabilità le differenze territoriali risultano molto rilevanti: mediamente un cittadino con disabilità residente al Nord-Est usufruisce di servizi e interventi per una spesa annua pari a 5.370 euro, contro i 777 euro del Sud. Concentrandoci su alcune tipologie di prestazioni rivolte alle persone con disabilità, possiamo constatare che a livello nazionale la spesa comunale per l’assistenza domiciliare rivolta alle persone con disabilità (233.579.636 euro) continua a essere inferiore a quella destinata alle strutture residenziali (264.224.520 euro),
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a cui si deve aggiungere la compartecipazione degli utenti (51.629.262 euro, per una compartecipazione media per utente pari a 2.326 euro) e quella del SSN (86.702.108 euro). Tuttavia, osservando i dati disaggregati per ripartizione geografica, emergono modelli di intervento significativamente diversi: al Nord la spesa comunale in residenzialità risulta molto più elevata di quella per gli interventi domiciliari; al Centro, al Sud e nelle Isole si registra una distribuzione diametralmente opposta, a vantaggio della domiciliarità. Guardando inoltre dentro i singoli interventi e servizi, la spesa media per utente con disabilità varia notevolmente: per esempio si registrano 3.478 euro annue per utente in assistenza domiciliare socio-assistenziale contro gli 11.903 euro in struttura residenziale (a cui va aggiunta la compartecipazione degli utenti e del SSN). Differenze territoriale si riscontrano, infine, anche in termini di livelli di presa in carico delle persone con disabilità. Con riferimento all’assistenza domiciliare socio-assistenziale, mediamente in Italia usufruiscono del servizio 7 persone con disabilità su 100. In questo caso, tuttavia, le variazioni riflettono principalmente le politiche regionali, piuttosto che il tradizionale divario Nord-Sud. La Sardegna, per esempio, mostra un indicatore di presa in carico decisamente superiore alla media nazionale (40 disabili su 100 beneficiano del servizio). Per quanto riguarda invece le strutture residenziali, gli utenti a livello di ripartizione variano dallo 0,3% del Sud al 9,6% del NordEst. Alle carenze del sistema di welfare del nostro Paese sopperiscono in larga misura le famiglie, con costi sociali notevoli, ancora non del tutto indagati e compresi. L’ISTAT ci dice che l’aiuto da parte dei familiari è quello su cui le persone con limitazioni funzionali contano più spesso, sia in termini di parenti su cui fare affidamento in caso di bisogno (nell’83,1% dei casi), sia in termini di aiuto effettivamente fornito: il 55% delle persone con limitazioni funzionali riceve aiuti unicamente da familiari conviventi o non conviventi. Marginale è invece la quota di chi fruisce di aiuti da parte di assistenti domiciliari od operatori sociali, in via esclusiva (0,8%) o in combinazione con altri tipi di aiuto (1,8%). Nel 7,8% dei casi si ricorre unicamente a personale a pagamento e nel 15,6% alla combinazione di aiuti provenienti da altre persone familiari e non.
welfare on line Ma c’è anche il 7,6% delle persone con limitazioni funzionali che non ha aiuti ma ne avrebbe bisogno (in particolare, tra le persone con lievi limitazioni funzionali di 11-64 anni la quota sale al 20,1%) e ben il 31,2% che ha aiuti ma afferma di averne ulteriore bisogno (valore che sale al 40% tra le persone con gravi limitazioni funzionali). Quali sono i costi sociali di tale delega? Innanzitutto abbiamo un costo indiretto, sostenuto prevalentemente dalle donne, che è quello legato alla cura dei propri familiari; un costo sostenuto sia in termini di salute per i caregiver familiari (costi non ancora pienamente indagati) sia in termini di rinuncia al lavoro. L’ISTAT ci dice tra i 25 e i 44 anni il tasso di occupazione delle donne che si prendono cura di un adulto o di una anziano malato o con disabilità è di circa otto punti percentuali inferiore a quello del resto della popolazione. Inoltre, tra le donne che hanno cura di anziani o adulti non autosufficienti, il 22% riferisce di lavorare part time proprio perché i servizi e le strutture per la cura di adulti non autonomi sono assenti o inadeguati, e per lo stesso motivo il 15,5% dichiara la propria impossibilità a lavorare. L’inadeguatezza dei servizi viene fatta risalire soprattutto ai costi troppo elevati e alla loro assenza nella zona di residenza. Per quanto riguarda i costi diretti, alcune stime ci dicono che il lavoro di cura privato pesa annualmente sulle famiglie per 9,8 miliardi di euro1. Secondo i dati ISTAT, nel 2011 quasi 2 milioni 600 mila famiglie (il 10,4% del totale, ossia una su dieci) si sono rivolte al mercato, per acquistare servizi di collaborazione domestica, di assistenza personale ad anziani o ad altre 1
Pasquinelli S., Rusmini G., Badare non basta. Il lavoro di cura: attori, progetti politiche, Ediesse, Roma, 2013.
persone non autosufficienti e di baby sitting. A fronte di dieci famiglie che si avvalgono delle prestazioni svolte dai collaboratori familiari, ve ne sono tuttavia novanta che non lo fanno. E ciò non sempre significa che non ne abbiano bisogno o che non vorrebbero, visto che il 27,9% delle famiglie sarebbe interessata ad acquistare i servizi sul mercato, ma non lo fa per motivi economici (il 21,2%). Quello per il welfare informale è infatti un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari, visto che a fronte di una spesa di 667 euro al mese, solo il 31,4% delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’indennità di accompagnamento (19,9%) e, a seguire, nelle detrazioni fiscali (9,4%). Complessivamente, la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5% sul reddito familiare. Non stupisce, quindi, che in piena recessione la maggioranza (56,4%) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2% ha ridotto i consumi, pur di mantenere il collaboratore; il 20,2% ha intaccato i propri risparmi; addirittura il 2,8% delle famiglie si è dovuta indebitare. L’irrinunciabilità del servizio (ben l’84,4% dichiara di non poterne fare a meno) sta inoltre portando alcune famiglie (in media il 15,1%, ma al Nord la percentuale arriva al 20%) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa possa rinunciare al lavoro per “prendere il posto” del collaboratore. Daniela Bucci *
Direttore responsabili di Condicio.it.
Condicio.it, nato nel 2013, è il sito della FISH - Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap che raccoglie dati e cifre sulla condizione di vita delle persone con disabilità.
Viaggio nel lavoro di cura* *
Le interviste sono state realizzate dai volontari e dagli operatori delle Acli Colf in modalità faccia a faccia, solo in alcune situazioni il questionario è stato auto compilato dalle lavoratrici. La metodologia dell’indagine non prevedeva un piano di campionamento specifico, l’unico vincolo è che le intervistate lavorassero come assistenti familiari con persone anziane (in termini tecnici, quello analizzato è quindi un campione autoeletto). Data la nettissima preponderanza di donne, nel testo si parlerà delle persone intervistate (donne e uomini) al femminile.
1. Chi è stato intervistato Viaggio nel lavoro di cura è un’indagine promossa da Acli Colf e Patronato Acli con l’obiettivo di comprendere le trasformazioni del
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lavoro domestico in Italia negli anni della crisi economica. L’indagine con questionario è stata realizzata dall’Istituto di Ricerche Educative e Formative (www.irefricerche.it) con la collabo-
welfare on line razione di trenta sedi Acli Colf e Patronato Acli. Attraverso questa rete sono state contattate 837 lavoratrici, residenti in 177 comuni, attive nel settore dell’assistenza alle persone: le cosiddette “badanti”. Sul fronte della provenienza nazionale, sono state intervistate donne e uomini da 35 nazioni diverse. Una badante su quattro è rumena, un altro 25% è di nazionalità ucraina. L’8,3% viene dal Perù, il 7,4% dalla Moldavia. In generale le donne dell’Est-europeo sono il 64,8% del campione, le intervistate che vengono dall’America Latina il 14,1%, dall’Asia il 6,6%, dall’Africa il 9,2%. Infine, il 5,2% delle lavoratrici è di nazionalità italiana. Quanto alle modalità di svolgimento del lavoro, nel 60% dei casi la lavoratrice coabita con la persona che assiste: è questo un dato da tenere presente perché la coabitazione, quasi sempre, implica delle differenze nella quantità e nella qualità della prestazione assistenziale. In generale, il profilo socio-demografico del campione è molto vicino alla rappresentazione tipica della badante: una donna matura, proveniente dall’Est-Europa con un titolo di studio mediamente alto che abita nella casa della persona che assiste. Infine occorre menzionare i dati relativi alla formazione professionale delle lavoratrici. Il 22,4% ha avuto un’esperienza formativa in campo medico-infermieristico. Inoltre, una su tre ha fatto un corso di formazione specifico in Italia. Considerando entrambe le possibilità, si ottiene un 44,9% di intervistate che ha una qualche esperienza formativa in campo assistenziale. 2. Tanto lavoro per poco Le badanti hanno ritmi di lavoro molto sostenuti: in media lavorano nove ore al giorno per sei giorni alla settimana. All’interno del campione ci sono anche lavoratrici che dichiarano di lavorare sette giorni su sette (11,8%); le badanti che dichiarano di lavorare 60 ore, o più, a settimana sono il 34,4%. Il 64,6% del campione fa un numero di ore superiore al massimo previsto dal contratto nazionale di lavoro (54 ore settimanali per una lavoratrice assunta full time): in pratica, due lavoratrici su tre lavorano più del massimo previsto dalla legge. Nel 76,5% dei casi il rapporto di lavoro è regolato da un contratto scritto, ma il 51,1% delle intervistate dichiara un qualche livello di irregolarità contributiva, con il 15% che afferma di non aver ricevuto nessun versamento contributivo. Orari di lavoro lunghi, difficoltà a
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contrattualizzare il rapporto, mancata contribuzione previdenziale sono le spie di una condizione lavorativa che, nei casi più estremi, può arrivare a connotarsi in termini di sfruttamento. Sul fronte delle retribuzioni, la stima ottenuta tramite la combinazione del calendario lavorativo (una serie di domande sull’orario lavorativo nei sette giorni della settimana) e l’ammontare complessivo dello stipendio mensile, evidenzia che in media le badanti guadagnano 800 euro al mese, risultato di una retribuzione oraria di 4 euro (valore mediano). Una cifra che, in caso di coabitazione, può essere considerata relativamente soddisfacente, mentre se la lavoratrice preferisce o è costretta ad abitare per conto proprio può essere insufficiente, soprattutto nelle grandi città. Continuando a esaminare i dati sulle retribuzioni, è interessante verificare le differenze tra coresidenti e lavoratrici che invece non abitano nella casa della persona assistita. Le prime, al mese dichiarano di guadagnare 700 euro (valore mediano), le seconde, invece, 850 euro. Questa differenza si ribalta se si considera la paga oraria: le badanti coresidenti guadagnano 3,75 euro l’ora, le non coresidenti 4,32 euro. È evidente che il lavoro in coabitazione implichi un impegno orario nettamente superiore, per cui chi coabita guadagna un poco di più, lavorando molto di più. Questi dati, peraltro, possono essere comparati con quanto registrato in un’indagine similare, realizzata dall’IREF nel 2007 (Il welfare fatto in casa). Il confronto evidenzia una mediana della retribuzione mensile di 850 euro: in sette anni le badanti hanno quindi perso 50 euro al mese. All’apparenza si tratta di una perdita stipendiale contenuta, tuttavia se si considerano i dati relativi agli orari di lavoro si nota una dinamica di compensazione tra stipendio e orario di lavoro. Lo scarto più significativo è difatti nella retribuzione oraria che, nel 2007, era di 6 euro l’ora, nel 2014 solo di 4 euro. In pratica, per mantenere un livello retributivo minimamente soddisfacente le badanti lavorano di più, abbassando il proprio costo orario. La formula è più lavoro, per lo stesso stipendio. A livello territoriale (grafico 1), ci sono altre differenze significative: se nel Centro-Nord la retribuzione media è di 4,20 euro, nel Meridione si scende a 2,70. Proiettando su un orario di 54 ore settimanali i due dati citati, si ottiene un gap salariale fortissimo: poco più di 900 euro per le lavoratrici del Centro-Nord, 540 euro
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per le meridionali. Scendendo lo stivale in pratica si perde circa il 40% del salario. A influire in negativo sulla retribuzione oraria sono anche altre variabili, come la dimensione della città e, ovviamente, lavorare o meno in coresidenza. Il combinato di questi due elementi da come risultato che una badante coresidente occupata in un comune non capoluogo di provincia guadagna 3,86 euro all’ora. Al contrario una lavoratrice non coresidente che vive in una città metropolitana riesce a portare a casa 5 euro l’ora. Considerando, invece, solo la ripartizione geografica si ha che in un piccolo comune del Sud Italia il guadagno orario è di 2,69 euro, mentre in una grande città del Nord 4,50, con una differenza di 1,80 euro. I dati dunque evidenziano divari territoriali sia tra Nord e Sud, sia tra città e paese, con la coabitazione che rafforza, in entrambi i casi, gli scalini retributivi. Un’altra indicazione di rilievo proviene dal confronto con l’indagine 2007. Le lavoratrici in coabitazione hanno perso in sette anni 1,25 euro all’ora: nel 2007 la retribuzione oraria era di 5 euro, nel 2014 è di 3,75 euro; una flessione di proporzioni maggiori si riscontra, però, tra le lavoratrici non coresidenti: da 6,50 euro l’ora a 4,32 euro, con una perdita di oltre 2 euro. In pratica, il lavoro in coabitazione ha resistito un po’ meglio alla compressione dei salari innescata dalla crisi poiché partendo da una base retributiva più bassa la riduzione non è potuta essere così marcata come quella riscontrata nel lavoro senza coabitazione. Sintetizzando al massimo le indicazioni ottenute dalle interviste, va rilevato che le re-
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tribuzioni orarie appaiono fortemente schiacciate sui minimi retributivi previsti dal CCNL e, in alcuni casi, sono anche significativamente inferiori. Per fare un esempio, un lavoratore non convivente di livello A (il più basso equivalente a un impiego generico e con limitato livello di responsabilità e autonomia) ha un minimo orario di 4,47 euro, una cifra molto vicina a quella percepita da molte delle badanti intervistate per la ricerca. Tuttavia, come si evince con chiarezza dai dati sulle mansioni, le badanti svolgono compiti molto più complessi e che darebbero diritto a retribuzioni orarie superiori. 3. Qualunque cosa succeda, occupatene tu Le badanti intervistate assistono per lo più persone non autosufficienti dal punto di vista fisico e mentale (42,4%): solo il 19,1% lavora per persone completamente autosufficienti. In altre parole, le intervistate si fanno carico di assistere quelle persone che, per le famiglie, rappresentano un vero “rebus assistenziale” poiché hanno bisogni di cura complessi e costanti (grafico 2). Un dato fondamentale per comprendere la situazione lavorativa delle badanti è il supporto di altre figure assistenziali come assistenti domiciliari, infermieri/e, assistenti sociali. Al riguardo, il 60% delle lavoratrici afferma di occuparsi completamente da sola dell’assistenza. Il dato restituisce uno scenario preoccupante: le badanti che assistono persone con gravi problemi psico-fisici, in un caso su due, sono sole. Nel Meridione, il dato sale al 67,9%. C’è da aggiungere che, nel caso di assistenza a un soggetto completamente non autosufficiente, la percentuale di lavoratrici che non riceve al-
welfare on line cun aiuto esterno scende solo di dieci punti (50,8%). Specificando meglio il problema è opportuno riportare anche il dato relativo al supporto da parte di altre badanti: tra le lavoratrici che supportano persone con scarsa autonomia psico-fisica, solo una su quattro (25,6%) condivide il carico lavorativo con qualche altra collega. L’indagine permette di analizzare nel dettaglio le mansioni svolte dalle lavoratrici. Si possono distinguere tre generi di mansioni assistenziali: (1) di base, nel quale rientrano attività come lavare, aiutare la persona nelle funzioni corporali, tenere in ordine la casa, stirare e cucinare; (2) accessorie, ossia pagare le bollette, andare dal medico, controllare la scadenza di alimenti e farmaci; (3) para-infermieristiche, consistenti nel somministrare medicinali, misurare febbre, pressione, glicemia, fare iniezioni e medicazioni varie. Nel complesso, la ricerca ha raccolto informazioni su tutto lo spettro delle attività di cura e gestione della casa, assumendo – e testando con domande ad hoc tale ipotesi – che la badante non sia una figura occupata solo nell’assistenza alla persona, ma colei che entra anche nella gestione di ciò che ruota attorno alla persona assistita. Rispetto alle mansioni assistenziali di base, il 50,5% delle intervistate afferma di svolgere tutte e sette le attività previste dal questionario, un altro 29% invece dichiara di svolgerne tra le cinque e le sei. Quando la lavoratrice coabita con la persona assistita è molto più frequente che sia incaricata di svolgere tutte le mansioni assistenziali di base (61,3%, contro il 33,7% delle lavoratrici che non coabitano). Sul fronte delle mansioni accessorie, il 90,9% delle intervistate ne svolge almeno una, con il 31,1% che si incarica di assolvere quattro o cinque mansioni accessorie. I dati mostrano che l’espressione mansioni accessorie, per quanto teoricamente adeguata, non coglie la concretezza del lavoro: in pratica, la badante è una sorta di factotum alla quale si chiede di espletare compiti eterogenei e non necessariamente connessi con l’assistenza alla persona. Basti pensare che il 43,2% delle intervistate afferma di svolgere anche lavori per la famiglia di appartenenza della persona che assiste e, in un caso su quattro, senza che per questi compiti aggiuntivi venga corrisposta alcuna integrazione economica. A questi carichi lavorativi occorre poi aggiungere una serie di incombenze di tipo parainfermieristico, mansioni che solo il 13,8% del-
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le badanti non svolge. Il 49,8%, invece, ha la responsabilità solo di alcune delle attività parainfermieristiche previste dal questionario, mentre il 36,4% dichiara di doversi occupare di tutte le mansioni para-infermieristiche. C’è da rilevare che tra le badanti che dichiarano di svolgere tutte le mansioni di piccola assistenza medica, il 33,9% lavora “in nero”. In termini di responsabilità personale e di rischio lavorativo, quest’ultimo è un dato da considerare con attenzione poiché senza le tutele contrattuali si perde la possibilità di veder garantita la propria posizione in eventuali situazioni problematiche. Combinando i tre tipi di mansioni è stato elaborato un indice di carico lavorativo. Quando si assiste una persona in condizioni di non autosufficienza psico-fisica si rilevano i carichi maggiori: in questo caso, il 50,8% delle badanti fa registrare un valore alto sull’indice di carico lavorativo (il dato sul totale del campione è di 14 punti percentuali più basso, 36,4%); una differenza simile si osserva anche in assenza di supporto assistenziale da parte di terze persone (infermieri, assistenti sociali e domiciliari): 49,5% di alto carico lavorativo. Più di una lavoratrice su due si trova quindi in una situazione lavorativa nella quale la badante è l’unico attore assistenziale. L’assistente diventa un soggetto al quale viene chiesto di intervenire su tutto lo spettro dei bisogni di cura della persona. In pratica, in questi casi, la badante riceve una sorta di delega “in bianco”, sulla quale è scritto: “qualunque cosa succeda, occupatene tu”. 4. Comincio a non farcela più Secondo le badanti intervistate, negli ultimi anni è diventato sempre più difficile lavorare con un contratto di lavoro: il 41,7% si dichiara molto d’accordo con questa considerazione. Allo stesso modo, il 44,3% delle badanti è molto d’accordo con l’idea che negli ultimi anni le famiglie chiedano alle badanti di lavorare di più, senza per questo aumentare lo stipendio. Le lavoratrici sembrano dunque avere una chiara percezione di quello che sta accadendo: la crisi economica ha impattato sugli standard minimi di lavoro, in alcuni casi, provocando un peggioramento. Una trasformazione che non riguarda solo orari e salari. Se si considerano i dati riferiti ai disturbi psico-fisici derivanti dall’esercizio della professione (tabella 1), si riscontrano altri segnali negativi. Il 68,6% delle intervistate dichiara che da quando lavora come badante soffre di mal di schiena, il 40,6% riferisce di altri dolori fisici.
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Fare la badante è, dunque, un lavoro logorante che influisce sulla salute della lavoratrice, soprattutto quando è condotto con ritmi di lavoro così serrati. C’è poi il logoramento psicologico: il 39,4% soffre di insonnia, mentre il 33,9% delle donne intervistate afferma di soffrire di ansia o depressione. Bisogna aggiungere che una badante su tre, nell’ultimo anno, non è mai andata da un medico a controllare il proprio stato di salute, tra le under 35 il dato sale al 44,2%. Il tema del logoramento si salda dunque con la questione della qualità del lavoro: il settore assistenziale è strutturalmente labour intensive, tuttavia i dati su orari e carichi evidenziano la diffusione di fenomeni di vra-occupazione. Per compensare le perdite salariali si lavora di più, peggiorando l’impatto del lavoro sulla vita personale. Sebbene a causa della crisi, la redditività del lavoro si sia ridotta, l’auto-percezione della professione è positiva: l’81,6% delle donne intervistate non ha remore nel dire a chiunque di
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fare la badante, mentre il 59,5% è dell’opinione che “badante” sia il mine migliore per descrivere il lavoro che fa (e per questo viene usato che in questo articolo). Un’espressione per anni considerata squalificante trova l’approvazione la stragrande maggioranza delle ratrici. È un dato dall’alto valore bolico che, però, appare in parziale contraddizione con un’altra opinione espressa dalle intervistate. Alla domanda, “Secondo te la gente sa quanto è importante il lavoro di badante?”, il campione si spacca in due gruppi: il 50,5% afferma che le persone comuni hanno una consapevolezza poca o nulla della valenza sociale del lavoro di cura; l’altra metà, invece, esprime un punto di vista positivo. Il lavoro di cura non ha, dunque, nelle percezione di chi lo svolge, caratteristiche socialmente stigmatizzanti ma sconta un deficit di riconoscimento sociale: questa sfasatura può essere una fonte di disillusione per le lavoratrici e influire negativamente sulle motivazioni personali, elemento quest’ultimo che, nello svolgimento di un voro stressante e logorante, conta molto. Gianfranco Zucca
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* IREF – Istituto di Ricerche Educative e Formative, Roma.
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Persone con disabilità e semplificazione amministrativa Il tema della semplificazione amministrativa è centrale nel rapporto fra la Pubblica Amministrazione, i cittadini e le imprese. Ai sovraccarichi amministrativi, cioè alle procedure imposte da un sovrapporsi spesso disorganico di disposizioni, viene giustamente imputata la causa di maggiori oneri traducibili in costi diretti o indiretti per chi si trova ad affrontarli. Tempo e denaro sottratti ai diretti interessati, ma anche maggiore impiego di risorse umane della Pubblica Amministrazione, provocano un riverbero negativo in termini di sviluppo economico, ma anche di qualità della vita delle persone. Negli ultimi anni il Legislatore italiano è intervenuto, con maggiore o minore decisione, nella direzione della semplificazione amministrativa. Nell’ambito della disabilità il sovraccarico amministrativo rappresenta un elemento di ulteriore disagio perché investe opportunità e diritti e ne rallenta o appesantisce la fruizione. In particolare i percorsi di riconoscimento di status (invalidità, handicap, disabilità ai fini lavorativi, handicap ai fini scolastici) risultano assai farraginosi, comportano inutili duplicazioni di visite di controllo, revisione e verifica prevalentemente ingiustificate. In questo ambito gli interventi normativi sono stati piuttosto marginali e timidi negli anni: unica norma degna di rilievo, pur di efficacia “depotenziata”, è la legge 80/2006 che impone il principio che le persone con grave disabilità, stabilizzata o ingravescente, siano esonerate da ulteriori visite di verifica e controllo. Dei limiti di questa norma parleremo più sotto. Nell’ultimo decennio, più volte, le Associazioni delle persone con disabilità, e in particolare la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, hanno avanzato organiche proposte di semplificazione amministrativa che, tuttavia, pur incontrando una disponibilità teorica, sono rimaste finora lettera morta. Di tutt’altro segno il recente decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, pubblicato lo stesso giorno in Gazzetta Ufficiale dopo la “sofferta” controfirma del Presidente della Repubblica. Il testo è già in vigore, ma è in attesa della conversione in legge: l’analisi del provvedimento inizierà dal Senato. L’articolo 25, rubricato “Semplificazione per i soggetti con invalidità”, reca le più interessanti novità. Ci limitiamo qui ad illustrare quelli strettamente attinenti alla semplificazione
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amministrativa. Patente e guida Ottenere l’idoneità alla guida per una persona con disabilità è spesso un percorso ad ostacoli. La sua idoneità e l’eventuale uso di particolari adattamenti vengono stabiliti da una commissione medica locale di cui fanno parte un medico e un ingegnere della motorizzazione civile. Tempi di attesa e costi diretti per la persona sono notevoli. Generalmente la durata della stessa patente è inferiore a quella degli altri cittadini e per il rinnovo si deve seguire il medesimo iter rivolgendosi nuovamente alla commissione. Questo percorso è identico sia che la disabilità sia stabilizzata (esempio amputazione d’arto) che nel caso, invece, sia ingravescente o possa necessitare di adattamenti diversi nel tempo. Finalmente il secondo comma dell’articolo 25 del nuovo decreto legge sopprime questa ridondanza. Esso prevede che se nella prima visita di idoneità alla guida la commissione certifica che il conducente presenta una disabilità stabilizzata e non necessita di modifica delle prescrizioni o delle limitazioni in atto, i successivi rinnovi di validità della patente di guida potranno essere effettuati senza passare per la commissione, cioè come tutti gli altri “patentati” con un risparmio di tempo e di denaro. La durata della patente rimane quella prevista per questi casi.
Rinnovo dell’idoneità alla guida per patologia o menomazione stabilizzata
Ieri
Oggi
Era necessario rivolgersi alla commissione medica locale con tempi di attesa e spese addizionali.
È sufficiente rivolgersi ad un medico autorizzato (Agenzia pratiche, ASL …) come gli altri cittadini.
Certificati provvisori e agevolazioni lavorative Molto interessante anche il quarto comma su cui vanno spiegate le premesse. La normativa vigente in materia di agevolazioni lavorative (permessi mensili e congedi biennali retribuiti) pone come condizione ineludibile la presentazione del verbale di handicap con connotazione di gravità (art. 3, comma 3, legge 104/1992) e non ammette l’equipollenza di altre certificazioni di invalidità.
welfare on line L’art. 2, comma 2 del decreto legge 27 agosto 1993, n. 324 (convertito alla legge 27 ottobre 1993, n. 423) prevede che qualora la commissione medica non si pronunci entro 90 giorni dalla presentazione della domanda, l’accertamento di handicap può essere effettuato dal medico, in servizio presso l’Azienda Usl che assiste il disabile, specialista nella patologia dalla quale è affetta la persona con disabilità. L’accertamento produce effetti, ai fini della concessione dei benefici previsti dall’articolo 33, sino all’emissione del verbale da parte della commissione medica. Questa eccezione, tuttavia, oltre a comportare comunque una visita (quella specialistica) ulteriore, non risolve tutte le emergenze e la necessità di accedere in tempi rapidi alle agevolazioni lavorative. Inoltre riguarda solo i permessi lavorativi (art. 33, legge 104/1992) e non anche i congedi (art. 42, decreto legislativo 151/2001). Il quarto comma del decreto legge 90/2014 risolve questi paradossi. Abbassa il limite di 90 giorni a 45, autorizza le commissioni a rilasciare il certificato provvisorio (valido fino all’emissione di quello definitivo) già a fine visita e, infine estende al validità ai congedi retribuiti (quelli fino a due anni di astensione). Quindi un’accelerazione dei tempi e un risparmio di tempo (e di denaro per richiedere la visita di uno specialista).
Certificato provvisorio di handicap grave finalizzato alle agevolazioni lavorative
Ieri
Oggi
Era da richiedere ad un medico specialista non prima che siano trascorsi 90 giorni dalla domanda di accertamento. La Commissione ASL non era autorizzata formalmente al rilascio di un certificato provvisorio al termine della visita di accertamento. Valido solo per i permessi (art. 33, legge 104/1992)
Da richiedere ad un medico specialista non prima che siano trascorsi 45 giorni dalla domanda di accertamento. La Commissione ASL è autorizzata al rilascio di un certificato provvisorio al termine della visita di accertamento. Valido per i permessi (art. 33, legge 104/1992) e per i congedi (d. lgs. 151/2001)
Neomaggiorenni Culturalmente e politicamente meritevoli di plauso i commi 5 e 6. Anche in questo caso è necessario un inquadramento generale. Fino ad oggi un minore ti-
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tolare di indennità di accompagnamento per una grave disabilità, anche se stabilizzata e ingravescente, è comunque costretto al compimento della maggiore età ad una nuova valutazione dell’invalidità (o cecità o sordità) altrimenti gli viene revocata l’indennità e non gli viene concessa la pensione che gli spetterebbe come maggiorenne. Una contraddizione per una normativa che ha già tentato di contenere le visite di revisione inutili. Il comma 6 stabilisce finalmente che al minore titolare di indennità di accompagnamento per invalidità civile, o cecità o di comunicazione per sordità “sono attribuite al compimento della maggiore età, e previa presentazione della domanda in via amministrativa, le prestazioni economiche erogabili agli invalidi maggiorenni, senza ulteriori accertamenti sanitari.” Niente più visite, solo una domanda amministrativa per i minorenni con indennità di accompagnamento. Il testo dell’articolo reca un’imperfezione che non ne altera lo spirito ma che ci si augura venga corretta in sede di conversione (il richiamo anche alle patologie di cui all’articolo 42-ter, comma 1, del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, articolo modificato dallo stesso nuovo decreto 90/2014). Notevole anche il comma 5 che interessa i minori titolari di indennità di frequenza. Costoro, presentando una domanda in via amministrativa entro i sei mesi antecedenti il compimento della maggiore età, ottengono in via provvisoria, già al compimento del diciottesimo anno di età, le prestazioni erogabili agli invalidi maggiorenni (verosimilmente solo la pensione o l’assegno). Rimane fermo, al raggiungimento della maggiore età, l’accertamento delle condizioni sanitarie e degli altri requisiti previsti dalla normativa di settore.
Neomaggiorenni titolari di indennità di accompagnamento
Ieri
Oggi
Venivano sottoposti a nuova visita al compimento del 18° anno di età.
Non vengono sottoposti a nuova visita al compimento del 18° anno di età. Vengono concesse le provvidenze spettanti ai maggiorenni su domanda amministrativa.
welfare on line Neomaggiorenni titolari di indennità di frequenza
Venivano sottoposti a nuova visita al compimento del 18° anno di età.
Vengono sottoposti a nuova visita al compimento del 18° anno di età, ma in attesa della visita vengono concesse le provvidenze per invalidità civile spettanti ai maggiorenni.
Rivedibilità L’attuale scrittura del comma 7 è praticamente neutra, cioè non produce al momento alcun effetto e, forse andrà corretta o rafforzata in sede di conversione in legge. Sopprime infatti un periodo della legge 9 agosto 2013, n. 98 relativo alle visite a campione (Piani straordinari) che prevedeva di non sottoporre a controllo gli invalidi in particolari situazioni. L’abrogazione, al momento, non appare sufficiente ad evitare, come voluto, disagi ai cittadini. Storica invece l’abrogazione prevista dal comma successivo. La legge 9 marzo 2006, n. 80 affronta il problema della ripetizione delle visite di accertamento per soggetti che hanno patologie o menomazioni stabilizzate e non reversibili. La norma prevede, modificando l’articolo 97, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, che i soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, che abbiano dato luogo al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento o di comunicazione siano esonerati da ogni visita medica finalizzata all’accertamento della permanenza della minorazione civile o dell’handicap, questo per evitare inutili duplicazioni di visite. Quindi quella norma non estende il divieto di revisione anche a tutte le situazioni stabilizzate a meno che non godano dell’indennità. Solo a titolo di esempio una persona con amputazione che non dà titolo all’indennità di accompagnamento, a normativa vigente non rientra nelle previsioni dell’articolo 6 della citata Legge 80/2006. Il decreto legge al comma 8 abroga un periodo della norma originaria, eliminando il paradosso fra l’altro con una tecnica giuridica molto apprezzabile. D’ora in poi l’esonero dalla revisio-
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ne riguarderà tutte le patologie stabilizzate, gravi o meno che siano. Il periodo abrogato è infatti: “I soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, inclusi i soggetti affetti da sindrome da talidomide, che abbiano dato luogo al riconoscimento dell'indennità di accompagnamento o di comunicazione sono esonerati da ogni visita medica finalizzata all'accertamento della permanenza della minorazione civile o dell'handicap.” Rimane in vigore solo il periodo successivo: “Con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, sono individuate, senza ulteriori oneri per lo Stato, le patologie e le menomazioni rispetto alle quali sono esclusi gli accertamenti di controllo e di revisione ed è indicata la documentazione sanitaria, da richiedere agli interessati o alle commissioni mediche delle aziende sanitarie locali qualora non acquisita agli atti, idonea a comprovare la minorazione.” Il vigente decreto interministeriale 2 agosto 2007 – che aveva elencato i gruppi di patologie esonerati da visita - è, a questo punto, da riscrivere almeno nella premessa.
Esonero dalla ripetizione di visite di verifica o di controllo
Ieri
Oggi
Spettava alle persone con disabilità stabilizzata o ingravescente, solo se titolari di indennità di accompagnamento (invalidi, ciechi totali) o di comunicazione.
Spetta alle persone con disabilità stabilizzata o ingravescente, anche se non titolari di indennità di accompagnamento (invalidi, ciechi totali) o di comunicazione.
Concorsi pubblici L’ultimo comma interviene pure sulla legge 104/1992 e in particolare sull’articolo 20 quello che riguarda le Prove d’esame nei concorsi pubblici e per l’abilitazione alle professioni. Giustamente e razionalmente viene inserito un nuovo comma che stabilisce che una persona con invalidità uguale o superiore all’80% non è tenuta a sostenere la prova preselettiva eventualmente prevista. Carlo Giacobini* *
Direttore responsabile di HandyLex.org.
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Cineforum a cura di
Matteo Domenico Recine
Short Term 12 Secondo lungometraggio di Destin Daniel Cretton, film indipendente basato sull’omonimo cortometraggio e non ancora distribuito in Italia. Le vicende narrate traggono spunto dalle esperienze realmente vissute dal regista durante due anni di lavoro presso un centro di recupero per ragazzi, simile allo “Short Term 12” in cui è ambientata la storia. La protagonista è Grace, una giovane donna che da qualche tempo ha assunto la responsabilità del centro di assistenza per adolescenti, coordinatrice di un gruppo di colleghi comprendente anche Mason, suo compagno. Grace scopre, all’inizio del film, di essere incinta, ma prende immediatamente e in autonomia la decisione di abortire (“per la seconda volta”, riferisce al proprio medico). Tra i ragazzi ospiti del centro, seguiamo particolarmente le vicende di Marcus, una sorta di sottotrama rispetto alla trama principale, e di Jayden, che costituisce il Vaso di Pandora del film, per due motivi: in primo luogo, perché l’arrivo di questa ragazzina spinge Grace ad affrontare i fantasmi del proprio passato; in secondo luogo, perché proprio la possibilità di affrontare il passato con l’intento di scacciarne i demoni permette alla donna di accogliere il futuro con spirito costruttivo. Jayden, affidata al centro dal padre, diviene per Grace motivo di particolare attenzione: come anni prima era accaduto a lei, anche Jayden è vittima silenziosa di abusi, da parte del padre. In questa situazione di forte coinvolgimento emotivo, Mason è informato della gravidanza e chiede alla compagna di sposarlo, ma Grace è troppo coinvolta dalle vicende di Jayden, che in qualche modo rivive come proprie, e decide d’impulso di chiudere con lui. Nel frattempo, Marcus, disperato di aver raggiunto la maggiore età e di dover abbandonare la struttura (tornando così a casa dalla madre), tenta il suicidio. Nel momento in cui viene raggiunto questo culmine negativo, con quattro vicende drammatiche che sembrano spingere verso conclusioni pessime, ogni elemento riesce a trovare la giusta collocazione. Short Term 12 è caratterizzato da un andamento simile a un “giallo”, in cui Grace assume su di sé il doppio ruolo di investigatrice, tramite il quale riusciamo a scoprire la verità di Jayden (ma anche di Marcus), e di vittima, di cui rinveniamo progressivamente il doloroso percorso emotivo e le scelte successive. Il messaggio positivo che riesce a passare, nonostante le tinte scure di buona parte del film, è che anche da vittime si può trovare una speranza di riscatto. Così come accaduto per Grace e Mason, possiamo sperare che Jayden e Marcus ce la facciano e che possano a loro volta essere d’aiuto per altri ragazzi. Il film è riuscito per il tono sempre delicato e mai morboso con cui riesce a suggerire evitando di mostrare apertamente, senza ricorrere a stereotipi e banalità. Emblematica, in questo senso, la scena in cui Marcus rappa un proprio testo, tirando fuori tutto il proprio dolore nonostante la timidezza. Molto convincente l’interpretazione di Brie Larson. Un film di Destin Daniel Cretton. Con Brie Larson, John Gallagher Jr, Kaitlyn Dever, Stephanie Beatriz, Rami Malek. Drammatico, durata 96 min. - USA 2013.
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Hanno collaborato a questo numero Daniela Bucci, Carlo Giacobini, Matteo Domenico Recine, Gianfranco Zucca Foto Marco Biondi Redattore Zaira Bassetti Impaginazione Zaira Bassetti Redazione Piazza Campitelli, 2 - Roma Potete inviarci le vostre osservazioni, le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it
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