WOL - Welfare On Line, N. 4, Maggio-Giugno 2013

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WOL welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno IX, Numero 4, Maggio-Giugno 2013

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Foto di Marco Biondi In questo numero: “Il welfare è un investimento. E i dati lo confermano!” a cura dell’Associazione Nuovo Welfare pag. 2 “Assistenza familiare e immigrazione. L’inclusione finanziaria” di Alessandra Potalivo - pag. 5 “Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di Salute” di Zaira Bassetti - pag. 8 Le nostre rubriche: “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine - pag. 5 “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari - pag. 11

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Il welfare è un investimento. E i dati lo confermano! Tra il 2008 e il 2012, in piena crisi economica, in Europa, a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità, l’incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza è stato pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%). Ma, mentre alcuni Paesi europei si sono resi conto che il welfare può essere un volàno per la ripresa economica e hanno puntato decisamente sull’occupazione formalizzata, pubblica o privata, altri hanno preferito lasciare questa domanda nell’informalità, e cioè “delegando” alle famiglie la ricerca di risposte. Ovviamente gli esiti, sia per la qualità di vita dei cittadini che per la qualità e quantità di occupazione, sono stati conseguentemente diversi. L’Italia, per esempio, comprime la spesa sociale, delega massicciamente l’assistenza alle famiglie, mantiene limitati e risibili gli sgravi per l’occupazione domestica e di assistenza favorendo il lavoro sommerso e senza tutele. Destinare risorse pubbliche al welfare rappresenta, contrariamente a molti luoghi comuni, un investimento. Alcuni studi recenti confermano che l’uso della spesa pubblica per creare lavoro ha effetti sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi rispetto ad altri tipi di misure: fino a 10 volte superiori rispetto al taglio delle tasse, da 2 a 4 rispetto all’aumento di spesa negli ammortizzatori sociali o alla riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese. Rendere pubblici questi dati è stato l’obiettivo della Conferenza stampa organizzata a Roma lo scorso 5 luglio dalla Rete “Cresce il welfare, cresce l’Italia”. Una Rete promossa da più di 40 organizzazioni sociali tra le più rappresentative del nostro Paese che operano nel campo dell’economia sociale, del volontariato e del sindacato. La Conferenza stampa ha rappresentato l’occasione per anticipare alcuni importanti risultati di uno studio commissionato ad un team di ricercatori universitari, coordinati da Andrea Ciarini dell’Università “La Sapienza” di Roma. Ne esce una proposta diversa e nuova per il rilancio dell’occupazione, dell’economia e per il

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sostegno alle famiglie italiane. Infatti, la ricerca ha individuato alcuni significativi elementi che possono incidere sulle riflessioni attuali in tema di occupazione, e che supportano la convinzione della Rete che il welfare non sia un costo ma un investimento. I dati che emergono puntano essenzialmente all’ipotesi che un innalzamento degli investimenti nelle politiche sociali si tramuti in leva strategica per la creazione di nuovo lavoro. In questa direzione, la Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia” è convinta che la necessità urgente di supportare le istanze e le emergenze delle famiglie, alle quali è delegata di fatto gran parte della cura e dell’assistenza di minori, anziani, disabili, non autosufficienti, si coniughi efficacemente con lo sviluppo economico e occupazionale. E propone al Governo l’adozione di alcune misure strategiche: • finanziare adeguatamente i Fondi per il sociale (azzerati per il 2014) anche al fine di estendere e qualificare la rete dei servizi sui territori; • dotarsi di un Piano nazionale per la non autosufficienza e di un Piano di contrasto alla povertà; • aumentare la solvibilità (cioè la capacità di pagare) delle famiglie italiane per l’assunzione di assistenti familiari, ma in un quadro di maggiori e migliori servizi pubblici di assistenza alle persone; • favorire l’emersione del lavoro nero aumentando significativamente gli incentivi fiscali e contributivi; • favorire la qualificazione e la tutela dei lavoratori; • investire per il raggiungimento degli obiettivi europei di presa in carico della prima infanzia, in particolare quelli relativi agli asili nido; • raccogliere l’opportunità offerta dalla decisione della Commissione UE che ha concesso all’Italia una maggiore flessibilità di bilancio nel 2014 per investimenti produttivi e per rilanciare la crescita.

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welfare on line Vanno in questa direzione anche le parole del vice Ministro alle Politiche sociali Maria Cecilia Guerra, presente alla Conferenza stampa, secondo la quale è necessario cambiare prospettiva: le “politiche sociali non più intese come interventi riparatori, ma soprattutto come servizi e supporti inclusivi, affinché le persone siano davvero artefici e protagoniste della propria esistenza.” In questo senso le politiche sociali non rappresentano più un costo ma un investimento. Mentre, per quanto riguarda i fonti, “Non basta conquistare le risorse, è necessario che il sociale diventi sistema, progetto, programma consolidato, impossibile poi da smantellare o da comprimere. Non solo trasferimenti monetari, ma anche progetti inclusivi per le persone”. Più nello specifico, secondo quanto emerge dalla ricerca realizzata, il taglio della spesa pubblica che continua ad insistere sulle istituzioni del welfare deriva dalla convinzione che i servizi e le prestazioni sociali rappresentino un costo improduttivo, se non uno spreco, che alimenta la spirale del debito pubblico. Al contrario, sostengono i promotori dello studio, investire oculatamente nel welfare non significa solo migliorare la qualità di vita delle persone e delle loro famiglie (evidenti i problemi dell’invecchiamento della popolazione, della non autosufficienza, della conciliazione vita-lavoro, della cura e assistenza all’infanzia), ma significa anche favorire celermente ed efficacemente l’occupazione. Ad esempio, la Francia ha puntato su una strategia di integrazione tra politiche di welfare e politiche per la creazione di occupazione regolare nella cura e assistenza alle persone, attraverso strumenti volti a rendere solvibile la domanda, cioè a mettere le famiglie in grado di pagare i servizi con sgravi contributivi, voucher, titoli d’acquisto. Grazie a queste scelte il settore dei servizi alle persone si è andato rapidamente sviluppando: nel 2011 sono state 3,4 milioni (il 13% del totale) le famiglie che hanno usufruito di servizi di cura e assistenza personale, con un incremento rispetto al 2005 dell’8%, a cui bisogna aggiungere che il numero dei lavoratori salariati è giunto a 1,8 milioni. Differente la strada intrapresa in Germania. Tra le misure volte a stimolare l’occupazione dei segmenti più marginali del mercato del lavoro e a contrastare il sommerso, va menzionato il sistema dei cosiddetti minijobs (impieghi senza versamenti di tipo fiscale e contributivo, retribuiti per un massimo di 450 eu-

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ro/mese) che ha accompagnato l’introduzione di procedure semplificate per l’assunzione di personale al domicilio da parte delle famiglie. Nel 2012 i minijobs sono arrivati a più di 243 mila unità, tuttavia lo sviluppo dell’occupazione nei servizi sociali ha portato allo stesso tempo all’incremento di occupazioni dai bassi salari e a bassi livelli di protezione sociale. All’interno di questo contesto, invece, l’Italia si trova in ritardo su molti fronti. In primo luogo sul piano dello sviluppo dei servizi di cura, ma soprattutto rispetto all’individuazione di una vera strategia nazionale di sviluppo del welfare che abbia come obiettivo precipuo la promozione dell’occupazione, oltre che la tutela di nuovi e vecchi bisogni sociali. La “delega” alle famiglie e l’attribuzione ad esse del lavoro di cura è l’elemento di maggiore caratterizzazione e impatto del sistema italiano. Infatti, sono più di 15 milioni (il 38,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) le persone impegnate regolarmente nella cura di figli coabitanti di meno di 15 anni, altri bambini della stessa fascia di età e/o di adulti anziani, malati, non autosufficienti, con disabilità. Questa attività di cura familiare interessa soprattutto le donne, sia in valore assoluto (8,4 milioni di donne contro 6,8 milioni di uomini), sia in termini percentuali (il 42,3% a fronte del 34,5%). Si pensi che, secondo le stime dell’Istat, sono ben 240 mila le donne occupate che scelgono il part-time invece dell’orario a tempo pieno per mancanza di servizi all’infanzia adeguati. 489 mila sono invece le donne non occupate ostacolate all’ingresso nel mercato del lavoro per mancanza di alternative di conciliazione. Ma, oltre a questo impegno diretto, le famiglie ricorrono spesso a “badanti” o assistenti, il vero pilastro del welfare all’italiana. Un dato su tutti lo dimostra: la spesa delle famiglie per il lavoro di cura privato, nel 2009, è stata pari a 9,8 miliardi di euro, contro i 7,1 miliardi di euro dell’intera spesa sociale dei Comuni registrata nello stesso anno. Purtroppo, molto spesso si tratta di lavoro non regolare e non supportato da nessuna strategia di sviluppo dell’occupazione nei servizi di welfare, col risultato di lasciare intatti molti dei meccanismi che alimentano il ricorso al mercato sommerso e al “welfare fai da-te”. A ciò si aggiunga che l’invecchiamento della popolazione e l’innalzamento dell’età media generano nuovi bisogni spesso correlati alla non autosufficienza e l’Italia è uno dei pochi

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welfare on line Paesi a non avere ancora elaborato una politica ad hoc: si pensi che, nel pur ridondante corpus normativo italiano, non esiste nemmeno una definizione giuridica univoca di “persona non autosufficiente”. A tal proposito, si noti che il Fondo nazionale per le Non Autosufficienze, istituito nel 2007, è stato azzerato nel 2010, per poi essere rifinanziato nel 2013. Fra il 2008 e il 2012 la destinazione di risorse ai Fondi sociali è crollata del 90%. Per il 2013 il Fondo Nazionale Politiche Sociali è stato rifinanziato per un totale di 300 milioni, a cui vanno ad aggiungersi i 275 milioni di euro del Fondo Non Autosufficienze. Ma, al momento, per il 2014, il Fondo Nazionale Politiche Sociali e il Fondo per le Non autosufficienze risultano annullati. In questo scenario, il costante taglio dei fondi non lascia intravedere alcuna prospettiva di crescita delle prestazioni sociali e della conseguente occupazione. Al contrario, tale situazione innesca una spirale al ribasso anche per le organizzazioni del terzo settore che si trovano in forte difficoltà a causa della drastica diminuzione della spesa sociale. Infine, nell’ambito delle prestazioni sociali si evidenzia un profondo squilibrio da Nord e Sud del nostro Paese. È emblematica la condizione dei servizi di cura per la prima infanzia, con tassi di copertura degli asili nido nettamente al di sotto delle reali dimensioni della domanda. Per dare un’idea della situazione, si pensi che l’indice di presa in carico 0-2 anni (anno 2010) è dell’11,8% a livello nazionale, ma con forti variazioni regionali: dal 25,4% dell’EmiliaRomagna e 22,3% dell’Umbria, al 2,3% della Calabria e 1,9% della Campania. La stessa percezione dei cittadini rispetto alla loro salute si modifica al mutare della quantità e qualità dei servizi sociali: laddove la spesa sociale è più alta (o meglio nelle Regioni che spendono di più in cura e servizi sociali), più basso è il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai cittadini. Lo studio presentato mette, dunque, in luce come l’investimento nei servizi di welfare rappresenti un fattore in grado non solo di migliorare il livello di salute per quote tendenzialmente ampie e omogenee di popolazione, ma anche di ottenere effetti sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi rispetto ad altri tipi di misure (taglio delle tasse, spesa negli am-

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mortizzatori sociali o riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese). Una “ricetta” tendenzialmente diversa (o forse solo complementare) rispetto alla prevalente, concentrata quasi esclusivamente sulle agevolazioni fiscali e gli incentivi all’assunzione. In sintesi: per rilanciare l’occupazione si stanno preferendo politiche che agiscono sull’offerta, mentre - e nell’ambito del welfare ne abbiamo l’esempio - sarebbe vincente puntare anche sulla “domanda”. Attualmente c’è una forte enfasi sull’investimento in educazione e formazione e sulle politiche attive del lavoro come leva strategica per la ripresa occupazionale. Il settore dei servizi sociali viene visto come uno degli ambiti nei quali innovare l’intervento dei programmi dell’Unione, con particolare riferimento - tra l’altro - alla promozione di buona occupazione. Tuttavia, si continua a puntare sostanzialmente sul miglioramento delle condizioni di occupabilità e adattabilità dei lavoratori. Siamo ancora dentro un paradigma di politiche solo “offertiste”. Di contro niente è rimesso alla creazione diretta di occupazione attraverso un innalzamento degli investimenti finanziari nelle politiche sociali, come leva strategica per la creazione di nuovo lavoro. Appare positivo il recente vertice europeo di fine giugno 2013, che lascia prevedere misure innovative per il contrasto della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, con 6 miliardi per l’istituzione della Youth european guarantee nei Paesi (tra cui l’Italia) con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%. Ma anche in questo caso il problema appare lontano dall’essere risolto, se affrontato con soli strumenti che intervengono sull’offerta di lavoro (più flessibilità, più occupabilità), senza politiche in grado di incidere anche sulla domanda. In tale prospettiva sarebbe, invece, idoneo raccogliere l’opportunità offerta dalla decisione della Commissione UE che ha concesso all’Italia una maggiore flessibilità di bilancio nel 2014 per investimenti produttivi e per rilanciare la crescita. La versione integrale della ricerca è disponibile sul sito: www.cresceilwelfare.it

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Cineforum a cura di

Matteo Domenico Recine Bellas Mariposas Film di Salvatore Mereu, seppure premiato nei festival (dalla critica come dal pubblico), non ha invece riscontrato lo stesso interesse da parte della distribuzione italiana, che ne ha causato una quasi totale invisibilità. Un vero peccato, questo, non solo per il film in sé, davvero meritevole di lodi, ma più in generale per il continuo perdurare di una sorta di “autoprofezia”: il mercato cinematografico italiano, esclusi i pochi nomi di grido che godono di ampia libertà e riscontro economico, premia solo commedie e horror. Il film si suddivide in linea generale in due macro-sezioni, più la conclusione. La prima parte, quella in cui sono presentati i personaggi, il contesto, gli elementi di contorno, alterna momenti documentaristici ad altri surreali, in cui Cate si rivolge direttamente agli spettatori, proponendo la propria poetica e la propria visione del mondo, in netto contrasto con gli esempi familiari disastrati e con i valori sociali percepiti come condivisi. Nella seconda parte, che riprende – dando un ritmo circolare alla narrazione – i momenti iniziali del film, si svolgono vicende di vita quotidiana nell’arco di una giornata tipica, in cui si aggiunge Luna, la seconda protagonista, di cui gli spettatori ricostruiscono le vicende personali e familiari solo in via indiretta (rispetto all’immersione documentaristica del primo tempo) e in cui il contesto sociale si mostra nel suo grottesco e consueto orrore quotidiano. La giornata trascorsa insieme, in mezzo a esempi di ostilità di vario genere, incontri con persone di buon cuore, maniaci squallidi e ingenui, si conclude verso casa, con un crescendo di pathos per tensioni suggerite ma non concretizzate fino in fondo. Di nuovo, è il surreale, nelle vesti della strega interpretata da Micaela Ramazzotti, a congelare e a sciogliere le tensioni nel finale. In una vita già grigia, priva di prospettive reali di lieto fine - sembra voler suggerire il regista - non è corretto abbattere ancora di più le vite dei protagonisti; serve piuttosto lasciare aperto lo spiraglio della speranza, quella che nonostante tutto permette alle bellas mariposas di sentirsi in diritto di pensare a un futuro migliore. Il taglio del film, che riesce a essere ricco di spunti, di archi narrativi e di soluzioni tecniche, nonostante sia girato con un budget ristretto, risulta riuscito. Le recitazioni sono nel complesso modeste, del resto per via del budget gli attori sono in massima parte non professionisti. Se pure ciò si avverte, non costituisce necessariamente un problema, anzi. Contribuisce piuttosto all’atmosfera documentaristica del film. Gli squarci sulla povertà (economica, etica, morale) delle periferie dicono molto della Sardegna e dell’Italia contemporanee. Un film di Salvatore Mereu. Con Micaela Ramazzotti, Sara Podda, Maya Mulas. Drammatico, durata 100 min. - Italia 2012. Uscita giovedì 9 maggio 2013.

Assistenza familiare e immigrazione. L’inclusione finanziaria Sebbene nieri”, le stici non più parte

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si continui spesso a chiamarli “stracollaboratrici e i collaboratori domesono degli estranei e fanno sempre delle famiglie italiane.

La collaborazione familiare si è ormai imposta come soluzione di sistema ampio di welfare, in assenza di interventi pubblici, e viene definita con espressioni sempre più significative: dal

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welfare on line welfare “fatto in casa” a quello “fai da te”, ad “ammortizzatore sociale della terza età, privatizzazione delle politiche sociali per gli anziani”. Tuttavia, nonostante l’ormai indubbia importanza delle collaboratrici e dei collaboratori domestici, i lavoratori di questo settore spesso rimangono invisibili1. Con le definizioni precedentemente menzionate, si è soliti riferirsi alla necessità di ricorrere a lavoratori stranieri per supplire alle lacune del nostro sistema di welfare, che non è in grado di rispondere adeguatamente alle necessità di assistenza per le persone non autosufficienti. Ciò in un contesto in cui il modello tradizionale di famiglia è notevolmente cambiato (aumenta il numero delle donne, seppur a fatica, occupate fuori casa) e tenuto conto della scarsa propensione degli stessi anziani italiani a ricorrere alla prospettiva di un ricovero presso istituti (a differenza di quanto avviene in altri Paesi europei). Per assistenza familiare si intende, in generale, una serie di compiti di cura che riguardano la casa (pulizia, preparazione dei pasti), eventualmente la cura del giardino o la guida della macchina, il baby sitting. Ma più spesso, e in maniera preponderante, con questa espressione si intende l’assistenza a persone anziane o non autosufficienti; nel qual caso ci si riferisce al lavoratore straniero con il termine di “badante”. Il prevalere dell’attività di cura rivolta agli anziani, ai malati o agli adulti con disabilità è dovuto alla mancata capacità di presa in carico dello Stato, motivo per cui le famiglie sono costrette a ricorrere all’aiuto privato, diventando sempre più “badanti-dipendenti” e sostenendo in proprio il costo dell’assistenza. Si stima che la metà delle persone con disabilità abbia più di 80 anni e che il 62,2% sia colpito da tre o più patologie croniche. Ogni anno il numero delle persone non autosufficienti cresce di 90 mila unità e oltre mille anziani al giorno diventano “cronici” a seguito di patologie quali il diabete e i problemi cardiovascolari. Per il Censis il 10,5% delle famiglie italiane (2

milioni e 451 mila) cura un anziano in casa; secondo l’organizzazione Badandum del Pio Albergo Trivulzio di Milano nel 2010 le badanti sono costate alle famiglie 9 miliardi di euro, appena un miliardo in meno della spesa sostenuta dallo Stato per l’indennità di accompagnamento, consentendo così un notevole risparmio alle strutture pubbliche. Il costo di un assistente familiare, infatti, va ben oltre i 1.000 euro al mese (già più del doppio rispetto all’importo dell’indennità di accompagnamento) e, oltre che dei contributi, bisogna farsi carico del vitto e dell’alloggio nel caso di coresidenza. L’Italia, insieme alla Germania, è risultato il Paese con l’incremento più alto delle spese per l’invecchiamento della popolazione. Se pensiamo che, contemporaneamente, vi è stata una diminuzione dei fondi pubblici allocati per il sociale e che la presenza di una persona con disabilità in famiglia comporta un sovraccarico assistenziale, non c’è da stupirsi come la disabilità possa rappresentare per il nucleo familiare di appartenenza una delle principali cause di impoverimento, e di altri significativi impatti, come ad esempio l’impossibilità di perseguire una carriera lavorativa. Questi sono alcuni dei dati contenuti nell’indagine di Unicredit Foundations “Il contributo degli immigrati all’assistenza familiare”, presentata lo scorso maggio. Lo studio, oltre a proporre un’analisi molto circostanziata e completa sul mondo immigrato occupato in tale settore, sviluppa un argomento che intreccia la dimensione economica con obiettivi volti a perseguire un miglior inserimento degli stranieri nella vita sociale in Italia, ponendo l’attenzione sull’esigenza di incrementare la predisposizione all’integrazione. Attraverso informazioni sulla capacità di risparmio e sul collegamento con la propria famiglia (nella maggioranza dei casi rimasta in patria), e su come il settore del credito e l’attività di una banca possano contribuire attivamente allo sviluppo dei territori in cui opera, il vero volto dell’assistenza familiare viene presentato di pari passo con un maggiore apprezzamento nei confronti di chi la esercita2.

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Come confermato da numerose indagini, la maggioranza di questi sono donne provenienti dall’Est (Europa e non), arrivano in Italia da sole, in età adulta, con una buona formazione, senza lavoro od occupate in lavori poco redditizi, spinte dalla necessità di sostenere economicamente la famiglia, nelle intenzioni iniziali per soggiorni di breve termine e interessate ad un impiego fisso, preferibilmente in convivenza con l’assistito per non dover pagare l’affitto e massimizzare i guadagni.

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Nel trattare i benefici di un’inclusione finanziaria degli immigrati come un passaggio fondamentale per il raggiungimento di una piena integrazione, gli autori della ricerca si ispirano all’impostazione contenuta nel primo Rapporto dell’Osservatorio Nazionale sull’Inclusione Finanziaria dei Migranti, realizzato dall’ABI e dal CESPI con il sostegno del Ministero dell’Interno e presentato a Roma il 12 novembre 2012, in cui si afferma che l’inclusione fi-

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welfare on line Questo duplice aspetto del fenomeno, che ci restituisce un’immagine più positiva e funzionale dell’assistenza alle famiglie, ma non meno realistica in merito a problemi e contraddizioni, rappresenta l’elemento peculiare di tale studio, un’interessante novità, anche perché lontana dai “cliché” che hanno dominato il dibattito dell’opinione pubblica in questi anni. Dall’indagine, territorialmente circoscritta alle regioni del Nord e del Centro Italia (quelle più interessate dalle migrazioni e dalla collaborazione familiare) e indirizzata agli assistenti familiari “bancarizzati” - neologismo che indica i clienti delle banche3 -, emerge infatti che nonostante le innumerevoli difficoltà incontrate sul territorio, il lavoro di assistente familiare viene svolto con piacere (“molto o moltissimo” le risposte nel 37,2% dei casi, “abbastanza” nel 47,7%). Ed è ampia la gamma degli aggettivi positivi con cui le persone intervistate descrivono gli italiani per i quali lavorano (tuttavia è da precisare che in parte potrebbero essere stati influenzati dal fatto di rispondere “ufficialmente” ad un intervistatore). Tale attività, quindi, pur rimanendo esposta ad un’estrema flessibilità, alla quale spesso si associa una minore tutela o la totale assenza di diritti, viene apprezzata dalla maggior parte dei lavoratori, anche se probabilmente non si tratta del lavoro che avrebbero desiderato fare. E ciò nonostante il quadro politico/legislativo italiano risulti nel settore molto carente: motivo, questo, di insoddisfazione. Ad esempio, le stesse modalità di pagamento nella gran parte dei casi risultano poco improntate alla formalità: in contanti nel 62,4% dei casi, meno frequentemente tramite bonifico bancario (22,1%) o assegno (12,5%). E se ciò da un lato potrebbe essere l’espressione di un rapporto improntato alla familiarità, dall’altro nanziaria (dalla gestione del risparmio all’invio di rimesse e alle iniziative imprenditoriali), costituisce una leva importante per favorire e accelerare il processo di integrazione e di partecipazione degli immigrati. Tra gli indicatori di stabilizzazione sociale c’è l’apertura di un conto corrente e un maggior utilizzo degli strumenti bancari, con successivo ricorso a prodotti e servizi più evoluti. 3 I questionari raccolti sono stati 606.454 e va sottolineato che, trattandosi di un’indagine a carattere esplorativo, il campione non è statisticamente pienamente rappresentativo di tutti gli assistenti familiari immigrati sul territorio nazionale, pur fornendo indicazioni di grande interesse. Nonostante il campione non sia stato estratto secondo criteri scientifici, tuttavia sono ben rappresentate tra gli intervistati le collettività alle quali appartiene il maggior numero di assistenti familiari operanti in Italia.

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potrebbe dar luogo a situazioni e forme di sfruttamento. Per non menzionare poi i contributi che vengono evasi, anche se non si tratta di un tema affrontato direttamente nella ricerca poiché interessa principalmente chi è sprovvisto di permesso di soggiorno, e che quindi non è stato considerato nel campione d’indagine. Inoltre, l’equilibrio previdenziale risente fortemente della frammentazione delle dichiarazioni reddituali degli assistenti familiari, fatte in occasione dell’entrata in vigore delle quote annuali o dei provvedimenti di regolarizzazione (l’ultimo nel mese di settembre 2009) o di emersione (15 settembre - 15 ottobre 2012), poiché a distanza di pochi anni se ne perdono le tracce. Tutto ciò accade perché a partire dagli anni ’80, e non solo nel nostro Paese, è andato sempre più disgregandosi sia il sistema di welfare, sia l’apparato legislativo ad esso collegato, per cui si è fatta sempre più limitata l’inclusione di questa tipologia di lavoratori nei sistemi di diritti e di protezione sociale. Al contrario, sono sempre più ricorrenti i casi di violenza e gli abusi, anche sessuali (non sempre puniti). Le spesso poco chiare e ambigue condizioni lavorative offerte a questi lavoratori, prevalentemente donne, creano situazioni che possono apparire inverosimili se pensate in Europa o nei Paesi occidentali, terre di democrazie e diritti sociali. Eppure sono diffuse e comuni a livello globale. Lo conferma l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che, dopo l’adozione della Convenzione sul lavoro domestico nel giugno 2011, ha realizzato uno studio che riporta i nuovi dati sulla categoria (in tutto il mondo sono almeno 52 milioni gli impiegati nel lavoro domestico, donne nell’83% dei casi, migranti e spesso anche bambine), in cui si sottolinea come il settore non goda di buone condizioni lavorative, né di protezione giuridica sufficiente, col rischio di maggiore vulnerabilità. Solo il 10% dei lavoratori domestici è coperto dalla legislazione generale del lavoro alla pari degli altri lavoratori e oltre un quarto di loro è del tutto escluso dalla legislazione nazionale del lavoro e quindi dalla fruizione di diversi benefici da questa previsti. I lavoratori migranti sono particolarmente a rischio perché lo status giuridico precario e la mancata conoscenza della lingua e delle leggi del posto li rende ancor più fragili.

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welfare on line Un salario minimo (nei Paesi in cui non esiste questa garanzia), una forma di pagamento almeno mensile (limitando le remunerazioni in beni materiali), un maggiore accesso alla sicurezza sociale (inclusa la maternità), la fruizione obbligatoria di almeno un giorno libero alla settimana (24 ore di riposo) e la regolamentazione dell’orario: sono solo alcuni punti citati dall’OIL, allo scopo di riconoscere a questa attività lavorativa una dignità pari a quella prevista dalla legislazione per le altre categorie, con particolare riferimento alla maternità. La Convenzione sul lavoro domestico è entrata in vigore nel 2012 ed è stata ratificata dal nostro Paese, dove la situazione non è però del tutto rosea. Secondo Raffaella Maioni, responsabile nazionale delle Acli-Colf, “innanzitutto c’è un passo avanti culturale, che è la completa equiparazione del lavoro domestico agli altri lavori, mentre oggi, anche in Italia, non è così. Dov’è questa uguaglianza se oggi la malattia dei lavoratori domestici non è pagata dall’Inps? E perché, sul fronte della tutela della maternità, è riconosciuta solo l’astensione obbligatoria?”. Sussiste, infatti, il riconoscimento dell’astensione obbligatoria per maternità, con divieto di licenziamento fino a tre mesi, ma non vengono riconosciuti l’astensione facoltativa dal lavoro e neppure le ore di assenza giornaliera per allattamento o il congedo parentale nel caso di un figlio con handicap. Tutto ciò induce a riflettere sulle carenze in materia di qualità dell’assistenza alle famiglie e ai suoi componenti, che non dipendono tanto dai lavoratori stranieri impiegati in questo settore, quanto dalle politiche sociali che lo regolano. Sarebbe, infatti, fuorviante concentrare l’attenzione solo su aspetti problematici legati ai ridotti casi di maltrattamento addebitabili a colf e badanti, pur importanti ma spesso enfatizzati, e bisognerebbe ridimensionare i toni aspri usati in Italia nel dibattito sull’immigrazione.

L’indagine evidenzia che, nella maggior parte dei casi, i collaboratori domestici possiedono un buon livello di scolarizzazione (che andrebbe completato con un’adeguata formazione specifica), sono fortemente motivati nel lavoro e si mostrano molto attaccati alle nuove famiglie (l’aspetto, forse, più sorprendente che è emerso), nonostante pesi la lontananza dal proprio nucleo familiare. Altro aspetto di non poco conto è la disponibilità con cui svolgono le mansioni affidate, pur non essendo il lavoro di “colf” o “badante” quello più confacente al proprio livello di formazione. I risultati della ricerca accreditano gli assistenti familiari immigrati come una categoria che vive con una certa serenità di spirito e positività di comportamento una situazione lavorativa impegnativa, anche se precaria quanto alla durata del contratto e del soggiorno. Ciò dovrebbe sollecitare tutte le parti interessate ad azioni più incisive. Il legislatore nazionale a farsi carico di interventi significativi che vadano nel senso di una maggiore stabilità. I datori di lavoro (sui generis, perché si tratta delle famiglie) e i sindacati (alle prese con le difficoltà operative proprie di una realtà lavorativa polverizzata) ad impegnarsi nel rinnovo del contratto collettivo nazionale e nella ricezione di elementi innovativi, non tanto sugli aspetti retribuitivi (specialmente in questa fase in cui il reddito delle famiglie è tutt’altro che soddisfacente), quanto su aspetti attinenti alla formazione e ad una maggiore qualificazione delle stesse persone occupate come colf o badanti.

Alessandra Potalivo∗ *

Laureanda in sociologia presso “La Sapienza” di Roma, si occupa di politiche del lavoro e immigrazione, prestando particolare attenzione al tema delle badanti, alla loro presenza nel mercato del lavoro e alle ripercussioni di tale fenomeno sui sistemi di welfare.

Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di Salute In che modo bisogna operare e quale modello organizzativo-gestionale occorre adottare per

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assicurare alle persone in condizioni di difficoltà dovute a disabilità sociali e/o conseguenti a

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welfare on line patologie psichiche o fisiche, nonché a situazioni di vulnerabilità psico-sociali, di poter disporre delle risorse umane, professionali ed economiche capaci di garantire o restituire loro la libertà di avere gli stessi diritti degli altri? Lo strumento più adatto per rispondere a questi interrogativi è il Budget di Salute (BdS). Lo sostiene Fabrizio Starace nel volume “Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di Salute” (edito da Carocci Faber, 2011 - € 23,00). Tale strumento costituisce una delle più avanzate elaborazioni ed applicazioni in tema di integrazione sociosanitaria in Italia, seppur già sperimentato ampiamente oltreoceano. E “rappresenta l’unità di misura delle risorse economiche, professionali ed umane necessarie per innescare un processo volto a ridare ad una persona, attraverso un progetto terapeutico riabilitativo individuale, un funzionamento sociale accettabile, alla cui produzione partecipano il paziente stesso, la sua famiglia e la sua comunità. Si tratta in sostanza di pacchetti di prestazioni multiple cui corrispondono pacchetti di risorse multiple (individuali, comunitarie, istituzionali, sanitarie, sociali) che caso per caso vengono programmate non a prestazione, ma a pacchetti di intervento”. Le aree sulle quali s’intendono promuovere effettivi percorsi abilitativi, caratterizzati dalla inscindibilità degli interventi sanitari e sociali, corrispondono, al tempo stesso, ai principali determinanti sociali della salute ed ai diritti di cittadinanza costituzionalmente garantiti: apprendimento/espressività, formazione/lavoro, casa/habitat sociale, affettività/socialità. Sotteso al Budget di Salute vi è, dunque, un approccio integrato e personalizzato ai bisogni di salute della persona (welfare mix), caratterizzato da un intreccio molto stretto e sinergico tra iniziativa pubblica e risorse comunitarie, ossia tra operatori sanitari, sociali e del privato, insieme agli utenti ed ai familiari. Tali soggetti, insieme, coprogettano, cofinanziano e cogestiscono un “sistema di tutela e promozione del benessere delle persone e delle comunità locali, orientato verso le determinanti socioeconomico ed ambientali della salute ed integrato con i modelli di sviluppo locale”, andando dunque a cambiare radicalmente la precedente concezione della governance. Il volume consta di due parti. La prima parte raccoglie la descrizione dei componenti socio-economici ed ambientali della salute, la sintesi del quadro normativo nel

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settore sociosanitario, l’elaborazione teorica e la presentazione di un modello integrato di salute di riferimento, ossia la Welfare Community. Segue la descrizione pratica di un approccio organizzativo-gestionale, quello appunto del Budget di Salute, che costituisce una possibile applicazione della normativa sull’integrazione sociosanitaria in Italia. La sua realizzazione, sostiene l’autore, “è testimonianza diretta delle straordinarie possibilità che la «comunità competente» è in grado di esprimere, quando le istituzioni svolgono il ruolo di promuovere, rafforzare, accompagnare attivamente i processi di recupero ed affermazione del protagonismo e della libertà di scelta delle persone e delle famiglie”. Nella seconda parte del testo, invece, vengono descritte esperienze pratiche di attivazione del Budget di Salute in contesti regionali diversi, quali la Campania ed il Friuli Venezia-Giulia. Inoltre, viene proposta una suggestione evolutiva del modello mediante l’individuazione della Fondazione della Salute ossia di un organismo partecipativo che superi le problematiche emerse in termini di meccanismi di governo, responsabilità, risorse. Ma quali sono i destinatari del BdS? Gli interventi sanitari e sociali ipotizzati all’interno di tale modello sono rivolti a cittadini in condizioni di disabilità sociale concomitante o conseguente a patologie psichiche o fisiche a decorso protratto e potenzialmente ingravescente, o a stati di grave rischio e vulnerabilità per la salute che richiedono progetti individuali caratterizzati dalla inscindibilità di tali interventi, a partire da bisogni con prevalenza sanitaria ad espressività sociale. Tali azioni sono specificamente dirette a persone che richiedono prestazioni socio sanitarie ad elevata integrazione e caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica, riferite all’area materno–infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche, dipendenza da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronicodegenerative. In quest’ottica, all’interno del volume, viene ipotizzato un nuovo modello di governo in collaborazione col privato. È da sottolineare che il “privato”, nel modello organizzativo-gestionale proposto, non è concepito come soggetto a cui delegare o affidare attività, ma come partner di percorsi di costruzione e sviluppo di sistemi attivi di protezione sociale, a partire da proget-

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welfare on line ti individuali. Inoltre, è importante notare che con il termine “privato” si intendono sia il privato sociale ed imprenditoriale, sia le persone e le famiglie, e le relative reti formali ed informali, che intendono collaborare in partenariato con il pubblico a coprogettare, cofinanziare e cogestire. L’evoluzione di questo modello, sostiene l’autore, “prevede la costruzione di un sistema di partnership governato da una Fondazione, denominata “Fondazione della Salute”, con un patrimonio misto pubblico-privato, aperta ad una partecipazione privata diffusa, avente lo scopo di orientare gli attori del sistema stesso verso pratiche di sviluppo di welfare comunitario e familiare, di miglioramento della qualità di vita e di promozione delle libertà positive delle persone svantaggiate, in alternativa all’assistenzialismo”. In pratica, si tratterebbe di un’organizzazione in grado di fornire un sostegno attivo al “processo di pluralizzazione degli attori e degli strumenti di tutela e promozione del benessere delle persone svantaggiate che richiedono interventi sociosanitari integrati”, nella convinzione che “l’efficacia delle politiche integrate di protezione sociale non coincidono più esclusivamente con la politica pubblica (intesa come istituzioni statuali) ma debbano essere patrimonio e funzione sociale diffusa”. In questo senso, è fondamentale il cambiamento di prospettiva che caratterizza la partnership tra pubblico e privato: dall’esternalizzazione alla cogestione. Secondo questo nuovo approccio, l’inserimento delle persone nei BdS non fa decadere, ma integra la presa in carico degli utenti da parte delle strutture del servizio pubblico, ponendo l’enfasi su coprogettazione, cogestione e cofinanziamento, nonché sulla valutazione di processi e progetti da allestire e realizzare tra enti pubblici e privato. A tal fine gli “attori privati” (persone, famiglie, terzo settore, micro, imprese profit) sono chiamati a partecipare ad un avviso pubblico di selezione per diventare cogestori con i servizi pubblici di progetti terapeutico-individuali (mediante il BdS). Nell’ambito delle quattro aree target degli interventi sociosanitari sostenuti da BdS, fermi restando gli obiettivi e le azioni specifiche di ognuna, servizio pubblico e privato sociale ed imprenditoriale si impegnano al conseguimento degli obiettivi generali di seguito riportati. Il privato: promuove e contribuisce alla costituzione di sviluppo economico sociale locale ed alla ri-abilitazione integrale del territorio; so-

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stiene e formula il bilancio partecipativo sociosanitario ed ambientale insieme ai Comuni ed all’ASL; diviene lo strumento dell’ASL e dei Comuni per la trasformazione del prodotto sanitario rigido (welfare dei servizi) in prodotto flessibile (welfare comunitario/municipale), attraverso i BdS - progetti individuali; sostiene lo sviluppo locale anche attraverso l’uso delle risorse dell’FSE e dei progetti regionali, nazionali ed europei volti alla re-inclusione delle persone svantaggiate. Il pubblico: persegue la cultura della deistituzionalizzazione e della prevenzione delle nuove istituzionalizzazione delle persone con disabilità sociali in carico ai servizi pubblici, attraverso piani di sviluppo del territorio, anche attraverso l’uso delle risorse dell’FSE e progetti strutturali regionali nazionali ed europei; sviluppa insieme ai comuni il bilancio partecipativo sociosanitario ed ambientale; sostiene la trasformazione e regola l’interdipendenza fra welfare dei servizi e welfare comunitario/municipale, favorendo la trasformazione di prodotti rigidi (servizi) in prodotti flessibili (progetti individuali). Alla revisione/ripensamento delle metodologie d’intervento sociosanitario, come quella presentata all’interno del volume, sostiene Starace, “è essenziale affiancare analoga revisione del contesto tecnico, amministrativo ed organizzativo, fondato su prassi consolidate riproduttive dello status quo e poco permeabili all’innovazione, ancorché considerate valide e necessarie”. È essenziale, pertanto, promuovere ed investire nella costruzione di un diverso contesto tecnico: nell’organizzazione dei servizi territoriali, nelle forme di collaborazione e corresponsabilizzazione tra pubblico e privato, negli strumenti contabili-amministrativi, in quelli programmatori, nelle tecniche e nei metodi di lavoro impiegati dagli operatori e nelle conseguenti azioni formative. Infine, per valutare il margine di efficienza recuperabile con l’applicazione del modello del Budget di Salute, è stata effettuata anche una simulazione econometrica. Elevati margini di efficienza si realizzano nell’area anziani (nella quali si passa da € 8.182.205 a € 3.358.000) e nell’area salute mentale (nella quale si passa da € 7.519.000 a € 4.088.000). Complessivamente, con un ipotetico campione di 1.000 utenti, si passerebbe da una spesa “storica” pari a € 29.892.405 ad una pari a € 17.155.000, con un risparmio di esercizio di € 12.737.405.

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welfare on line In sintesi, secondo la modellizzazione, un minor ricorso alla residenzialità presso strutture ed una più frequente domiciliarizzazione delle

cure, oltre ad incontrare il favore degli utenti, risulterebbero più economiche. Zaira Bassetti

LiBrInMenTe Il libro di Mush di Silvia Spatari

È estate, e l’estate è dolce nella fertile valle di Mush, tra le montagne dell’Anatolia orientale. La nebbia è rosea, il grano ondeggia maturo e i mushetsi, i contadini armeni che popolano la valle, conducono una vita di gioie semplici, piccole speranze. È estate quando nella valle di Mush cala dal Caucaso l’esercito turco appena sconfitto dai russi, stanco e incattivito e pronto a sfogare il giusto rancore sugli odiosi armeni: cristiani traditori del sublime Impero ottomano, con quel linguaggio incomprensibile e quegli occhi avari, chissà quanti denari nascondono nel fondo delle loro valli isolate… È estate quando il millenario monastero dei Santi Apostoli, uno dei luoghi più sacri della cultura armena, viene dato alle fiamme, e gli abitanti del vicino villaggio tutti trucidati. Alla furia dei militari riuscirà a sfuggire solo un quintetto, invero male assortito: due donne, una coppia greca e un bambino. Questo libro racconta la loro storia. Racconta di come, terrorizzati, braccati, abbiano trovato lo stesso il coraggio e l’orgoglio di portare in salvo uno dei tesori più preziosi della cultura occidentale, scampato al rogo grazie all’estremo sacrificio dei monaci: il Libro dei Sermoni di Mush, antichissimo manoscritto miniato venerato da tutti gli armeni e simbolo di un mondo caduto sotto i colpi di una distruzione insensata. Dei mille villaggi armeni della valle di Mush rimane oggi solo il nome. Solo il ricordo. In quella terribile estate del 1915 si consuma un genocidio, “un’eliminazione programmata e precisa, scientifica, per svuotare la valle di ogni sangue armeno, che se lo beva la terra, diventerà ancora più fertile”. Scamperanno in pochissimi allo sterminio, e questo libro riecheggia dei loro lamenti e di quelli dei loro morti piangendo il destino degli armeni con grande passione e una Hanno collaborato a questo numero memoria storica penetrante e accorata Antonia Arslan Skira, 2012 15,00 €

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Hanno collaborato a questo numero Associazione Nuovo Welfare, Zaira Bassetti Alessandra Potalivo Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Foto Marco Biondi Redattore Zaira Bassetti Impaginazione Zaira Bassetti Redazione Piazza del Ges첫, 47 - Roma

Potete inviarci le vostre osservazioni, le critiche e i suggerimenti, ma anche gli indirizzi e i recapiti ai quali volete ricevere la nostra webzine alla nostra e-mail: info@nuovowelfare.it

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