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welfare on line Webzine dell’Associazione Nuovo Welfare Anno VIII, Numero 6, Settembre 2012
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Foto di Marco Biondi In questo numero: “L’universalità del sistema sanitario italiano assicura l’equità? Il problema della mobilità ospedaliera” di Roberto Fantozzi – pag. 2 “La lotta di classe dopo la lotta di classe” di Zaira Bassetti – pag. 5
Le nostre rubriche: “Cineforum” a cura di Matteo Domenico Recine – pag. 4 “LibrInMente” a cura di Silvia Spatari – pag. 9
Associazione Nuovo Welfare
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L’universalità del sistema sanitario italiano assicura l’equità? Il problema della mobilità ospedaliera
Nel 1964 Scitovsky scriveva «one can distin- Dopo il 1978, sono intervenuti diversi provveguish degrees of equity according to the num- dimenti legislativi in materia di sanità (1992ber of necessities distributed in an egalitarian 1993; 1998-1999; 2000-2001) che hanno graway; and one can define social progress or dualmente trasferito alle Regioni maggiore reprogress in equity as an increase in the num- sponsabilità ed autonomia gestionale. Il quadro ber of necessities available to all on an egalita- attuale, pur lasciando inalterato l’impianto universalistico, prevede così che, a livello Centrarian basis»1. Ad esempio, in Italia dal 1946 al 1979 il nume- le, siano definiti i Livelli essenziali di Assistenza ro di cittadini coperto dall’assistenza medica (LEA), mentre alle Regioni è demandata la redell’organiz-zazione e passò dal 33% al 95% dell’intera popolazione. sponsabilità In questo caso è possibile identificare un pro- dell’amministrazione finanziaria. In questo scenario che vede la convivenza tra governangresso sociale o un progresso di equità. Nel 1978 fu fondato, infatti, il Sistema Sanita- ce decentralizzata – con differenza nella qualità rio Nazionale (SSN) come sistema universale delle prestazioni erogate – e sistema universacapace di garantire assistenza medica per le – in cui i pazienti possono scegliere le strutl’intera popolazione. Nella Repubblica ita-liana ture in cui essere trattati – si intensifica un fela salute è ricoFigura 1 - Indice di emigrazione per Regione (anni 2000-2010) nosciuta come un diritto fondamentale sia per il singolo individuo che per l’intera collettività, mediante la garanzia dell’assistenza medica anche alle persone indigenti. La questione delle disuguaglianze di salute sembra così non avere più senso, in quanto tutti i cittadini hanno accesso alle risorse per la salute in forma Source: Ownelaboration of data in Ministero della Salute. gratuita. nomeno come la mobilità ospedaliera dei paMa un sistema così strutturato è condizione zienti. sufficiente per affermare che l’universalismo La scelta del paziente di essere curato in un garantisca egualitarismo? ospedale diverso dal luogo di residenza può Per rispondere a questa domanda è utile riper- essere riassunta in quattro cause: 1) i pazienti correre, seppur brevemente, l’evoluzione del hanno bisogno di cure mediche fornite solo in SSN. centri specializzati; 2) maggiore fiducia nei Si possono distinguere gradi di equità secondo il numero di necessità distribuito in modo egualitario; e si può definire progresso sociale o progresso di equità come un aumento del numero di necessità disponibili a tutti su base egualitaria. 1
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servizi ospedalieri di altre regioni rispetto alla qualità dei servizi presenti nella propria; 3) vicinanza geografica a strutture ospedaliere di altre regioni; 4) presenza del paziente in altre
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regioni per motivi di lavoro, studio, vacanza rizzontale, intesa come eguale trattamento deecc. gli eguali. Ad esclusione Figura 2 - Indice di emigrazione e reddito medio familiare per regione del punto 4, le (year 2008; emigrationindex right axis) rimanenti cause evidenziano da parte del paziente una scelta consapevole nello spostamento dalla propria regione, in quanto egli considera la salute come un bisogno fondamentale. Ottenere le cure migliori, infatti, è la Source: Ownelaboration of data in Ministero della Salute and Istat condizione neSupponiamo, ad esempio, che esistano due cessaria per ristabilire il proprio stato di salute pazienti con la stessa patologia, il primo resiin caso di malattia. La mobilità permette così di dente in una regione che offre servizi sanitari ricercare i luoghi dove l’appropriatezza nella ad alta qualità (HQ), l’altro residente in una soddisfazione dei bisogni sia maggiore. regione con servizi sanitari di bassa qualità Se non esistesse alcuna differenza nei servizi (LQ). Il paziente che vive in LQ dovrà scegliere offerti tra le varie Regioni, la mobilità ospeda- se accettare le cure offerte nella propria regioliera sarebbe ridotta ad un “tasso naturale” le- ne o spostarsi in una regione HQ. Nel primo gato ad eventi di contesto (punto 4) o a parti- caso, rinuncerà ad ottenere un miglior trattacolari cure fornite solo in centri altamente spe- mento, nel secondo, invece, dovrà sopportare cializzati. dei costi di trasferimento (viaggio, soggiorno Quali sono, quindi, le dimensioni del fenomeno pre-ospedalizzazione, costi per familiare a sein esame? Nella figura 1 sono riportati, per o- guito, ecc.) che incidono sul suo reddito. In gni Regione, gli indici di emigrazione, pari al molti casi pur di ottenere le cure migliori, infatrapporto tra il numero di dimissioni ospedaliere ti, il paziente residente in LQ è disposto a sopin altre regioni per pazienti residenti e il nume- portare costi di trasferimento rispetto al paro totale di dimissioni delle persone residenti in ziente che vive in HQ. quella regione. Poc’anzi ci siamo posti la domanda se Risulta evidente come la mobilità assuma di- l’universalismo garantisse egualitarismo. mensioni differenti tra le diverse regioni. L’analisi condotta ha mostrato come, attualL’analisi evidenzia quindi la presenza di ulterio- mente, il sistema sanitario non è in grado di ri fattori, oltre al “tasso naturale”, in grado di fornire un trattamento egualitario dei pazienti. influenzare la mobilità regionale dei pazienti. Ad ulteriore riprova, in figura 2 è riportato Ad esempio nel caso della Valle D’Aosta e del l’indice di emigrazione ospedaliera ed il reddito Molise, che registrano tassi pari a circa il 20% medio familiare per regione. Dal grafico è posnel 2010, siamo in presenza di una mobilità sibile osservare come in Calabria ed in Basilicadovuta alla vicinanza geografica con strutture ta ad un alto livello di emigrazione ospedaliera ospedaliere di altre regioni. Nel caso della Ca- sia associato anche un basso livello di reddito. labria o della Basilicata, invece, si manifesta la Per i pazienti delle due regioni si genera così necessità dei pazienti di ricorrere a strutture un doppio effetto: in caso di malattia per ottefuori dalla propria regione capaci di garantire nere cure mediche adeguate bisognerà sopporuna migliore qualità nelle cure. tare costi aggiuntivi come quelli di trasporto. I La necessità di alcuni pazienti di uscire dalla maggiori costi andranno così ad incidere su un propria regione crea un problema di equità o-
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reddito medio familiare già inferiore rispetto a quello di pazienti residenti in Regioni in grado di fornire un’adeguata offerta sanitaria. Ridurre il tasso di emigrazione a livello naturale richiede una pluralità di interventi non sempre di immediata realizzazione. Una prima soluzione, capace di aumentare l’equità orizzontale, potrebbe consistere nel rimborso, sotto determinate condizioni, dei costi di trasporto.
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Una modalità simile a quella proposta è attualmente prevista nel Healthcare Travel CostsScheme in Inghilterra. Roberto Fantozzi* *
Lavora presso l’Istat.
Cineforum a cura di
Il castello nel cielo
Matteo Domenico Recine
Il castello nel cielo è il terzo lungometraggio a cartoni animati di Hayao Miyazaki, il primo realizzato dopo la fondazione dello Studio Ghibli. Risalente al 1986, il film è ambizioso, con numerosi rimandi e citazioni di classici del passato (partendo dalla Laputa dei viaggi di Gulliver e dal mito di Atlantide); in Italia è uscito al cinema solo nel 2012 (doppiato nuovamente rispetto a una precedente versione per il mercato home video, del 2004). La trama narra le vicende della giovane Sheeta, orfana braccata dall’esercito e da una famiglia di pirati. Sia gli uni che gli altri vogliono privarla del proprio ciondolo, un oggetto misterioso di chiara manifattura Laputa, antico popolo di cui si sono perse le tracce. Accolta nel villaggio dei minatori dal giovane Pazu, è da questi difesa e accompagnata lungo tutto il prosieguo del film. Pazu, quando Sheeta viene rapita dai militari, si fa coraggiosamente coinvolgere e non arretra neppure quando è costretto a scendere a patti con i pirati. Pirati che rispetto all’inizio del film nel corso della narrazione si rivelano più corretti e leali, simili a un gruppo anarchico con una propria etica, piuttosto che a semplici banditi. Ritrovata Sheeta – costretta però ad attivare il potere del ciondolo – Pazu sale con lei sull’aeronave pirata, alla ricerca della misteriosa isola nascosta nel cielo, in cui si troverebbe Laputa. Anche i militari, grazie al ciondolo, sono diretti lì. Il colonnello Muska, dei servizi segreti, si rivela particolarmente interessato all’isola e alle sue tecnologie. Il motivo è chiarito poco dopo: come Sheeta, anche lui discende da Laputa, ma con ben altro spirito. Temi quali ecologismo e antimilitarismo costituiscono linee di sviluppo costanti nei lungometraggi di Miyazaki, e il Castello nel cielo non fa eccezione. Anzi, nel corso del film sono rinvenibili molti spunti che saranno oggetto di ulteriore sviluppo in opere successive (anche a livello visivo). Complessivamente, il film è estremamente godibile e ricco di felici soluzioni grafiche e stilistiche. Il ritmo è in continua progressione, incalzando lo spettatore e non fornendo, se non verso la conclusione del film, alcun attimo di tregua. Considerando i tempi attuali, il monito sul ruolo distruttivo delle armi, non tanto sulle singole persone, quanto più sullo sviluppo della società nel suo complesso, riesce a essere tanto attuale quanto, purtroppo, straordinariamente desueto. Un film di Hayao Miyazaki. Titolo originale Tenku no shiro Rapyuta. Animazione, Ratings: Kids, durata 124 min. - Giappone 1986. - Lucky Red uscita mercoledì 25 aprile 2012.
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La lotta di classe dopo la lotte di classe
Solo qualche giorno fa, in centinaia, alle prime luci dell’alba si trovavano già davanti ai cancelli ancora chiusi di centri commerciali di tutta Italia per accaparrarsi per primi il nuovo iPhone 5: 729 euro per la versione “base”, 949 euro per quello da 64 Gb. La fila era composita e variegata: adolescenti, liberi professionisti, impiegati, studenti, di età media tra i 25-35 anni, uomini e donne. Insomma gente comune. Sono solo di qualche mese fa le immagini di 8 mila persone in fila, molte delle quali hanno trascorso la nottata accampate nelle automobili, per l’apertura di un megastore a Roma che offriva prodotti high tech a prezzi “stracciati”. Gli acquirenti ansiosi di non farsi sfuggire un’occasione così ghiotta hanno mandato letteralmente in tilt il traffico cittadino, paralizzando per molte ore la Capitale. Anche in questo caso gli impazienti avventori appartenevano alla cosiddetta classe media (quella che una volta era definita piccola e media borghesia), così come anche alla classe operaia. Ad assistere a immagini simili vien da pensare che le famiglie degli operai e dei conducenti di autobus, di magazzinieri e operatori di call center hanno la TV con lo schermo piatto, l’ultimo modello di smartphone, trascorrono le vacanze al mare e mandano i propri figli a scuola (spesso anche all’università), proprio come le famiglie dei professionisti, dei commercianti, dei dirigenti di azienda, dei funzionari della pubblica amministrazione. Insomma se si è assistito negli ultimi decenni a una omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, allora è proprio vero che le classi sociali non esistono più. Attenzione, non facciamoci trarre in inganno!, ci mette in guardia Luciano Gallino, il quale precisa: “un conto è lo stile di vita o il consumo di massa visibilmente osservabile; altra cosa è la qualità del lavoro che un individuo svolge, la possibilità di crescita professionale, la probabilità di salire nella scala sociale, il fatto di avere o non avere qualcuno sulla testa che dice ad ogni momento che cosa devi fare”.
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Questo è solo uno dei tanti spunti di riflessione contenuti nell’ultimo lavoro del sociologo e professore emerito all’Università di Torino “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza). L’analisi svolta dal sociologo torinese ricompone tutti i tasselli che ci fanno vedere un puzzle come un insieme, senza perdere traccia dei dettagli che lo compongono. La tesi è questa: nei primi 70 anni del Novecento la lotta di classe ha portato a una redistribuzione verso il basso delle risorse, la costruzione dei sistemi di welfare ha protetto milioni di persone dalla povertà e dalle incertezze, la pressione dei sindacati ha ridotto la quantità di lavoro e ne ha migliorato la qualità, l’istruzione di massa ha permesso mobilità sociale. A partire da tale tesi Gallino compie un’analisi lucida e impietosa, supportata da studi, dati e non solo opinioni, che ci permette di capire come e perché siamo arrivati alla situazione attuale, dove stiamo andando, seguendo quali (il)logiche. Gallino lo fa, innanzitutto, spiegando che le classi sociali esistono ancora, e la lotta di classe non è affatto venuta meno. La lotta di classe, infatti, esiste. Eccome. Oggi più che mai. Solo che si è ribaltata: la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino, ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. In altre parole, sintetizza Gallino, “la caratteristica saliente della nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori […] sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti”. È proprio questo il senso dell’espressione “la lotta di classe dopo la lotta di classe”, che si basa su dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali. Ma chi sono questi nuovi vincitori? I protagonisti della nuova classe dominante che conduce questa controffensiva sono i top manager, i politici di spicco (che hanno stretto
rapporti con gli esponenti della classe economica anch’essa dominante), i proprietari di grandi patrimoni, i grandi proprietari terrieri di molti Paesi emergenti e, laddove i latifondisti non esistono più, come in Italia, gli immobiliaristi. In altre parole, si tratta di “una classe capitalistica transnazionale”, presente in tutti i Paesi del mondo, sia pure con pesi e proporzioni differenti. Della medesima classe fanno parte anche attori nuovi, provenienti dal sistema finanziario, i cosiddetti “capitalisti per procura” o “gestori dei capitali dei lavoratori” che non possiedono a titolo personale grandissime ricchezze (anche se alcuni di questi sono collocabili tra i ricchi e/o i super-ricchi), il cui tratto distintivo è il potere decisionale sull’impiego, e in particolare sulle strategie di investimento, di capitali che non appartengono a loro, né sono attribuibili a gruppi specifici di azionisti che non siano i lavoratori-risparmiatori. Questa classe dominante si configura come un soggetto collettivo d’azione; ha tra i suoi principali interessi quello di limitare o contrastare lo sviluppo di classi che possano intaccare il suo potere di decidere cosa convenga fare del capitale che controlla, allo scopo di continuare ad accumularlo. Essa si avvale di potenti strumenti di elaborazione teorica e fruisce di un poderoso collante ideologico sostenuto da innumerevoli “serbatoi del pensiero” (si veda il World Economic Furum di Davos), dove si mettono a punto regole e strategie da seguire in campo industriale e finanziario, posizioni comuni e messaggi da trasmettere ai mass media e all’opinione pubblica. La classe capitalistica globale, inoltre, possiede un grosso peso politico e attraverso “porte girevoli” piuttosto diffuse consente il passaggio di personaggi politici verso di essa e viceversa. Infatti, sostiene Gallino, la controffensiva portata avanti non avrebbe mai avuto il successo registrato se non avesse potuto contare su leggi, decreti e normative concepiti e approvati dai vari parlamenti sotto la spinta di lobbies industriali e finanziarie, che ricambiano tale appoggio finanziando le campagne elettorali di certi candidati dei quali vogliono assicurarsi la benevola attenzione. Una delle maggiori vittorie della classe capitalistica transnazionale si conta proprio sul piano ideologico: essa è riuscita a rappresentare alle classi subalterne l’economia neoliberista contemporanea come il migliore dei mondi possibili, l’economia più efficiente che si possa imma-
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ginare, come se non ci fossero schemi alternativi all’infuori di quello esistente. Nonostante le smentite cui la crisi attuale l’ha di fatto sottoposta. Proprio la crisi, infatti, ha dimostrato che non è affatto vero che secondo le regole del neoliberismo i capitali vengono allocati dai mercati nel modo più efficiente possibile. Piuttosto, quando la teoria inizia a fare acqua da tutte le parti e l’ideologia che vi è alla base va in frantumi, viene chiesto non a chi la crisi l’ha causata ma ai lavoratori di pagare i costi, i fallimenti e le falle di certe pratiche e di un sistema finanziario intero. E allora il fatto che la flessibilità aumenti l’occupazione, che tagliare le spese dello Stato Sociale aiuti l’economia, che la competitività sia un valore a tutti i costi, non appaiono più come delle verità assolute. L’ultimo saggio di Gallino va in questa direzione, illustrando le disastrose conseguenze economiche soprattutto sociali del neoliberismo che ha di fatto elevato la disuguaglianza a ideale di sviluppo. Le armi a disposizione di questa (nuova) lotta di classe sono innumerevoli. In primo luogo, la normativa fiscale confezionata ad arte da numerosi governi per concedere alla classe capitalistica transnazionale sgravi fiscali sotto varie forme: sostanziale riduzione dell’aliquota marginale, forte diminuzione o soppressione delle imposte di successione, abbassamento o eliminazione dell’imposta patrimoniale. A ciò va aggiunto il peso crescente delle imposte indirette, come l’IVA. Un aumento, anche di pochi punti, su generi d’acquisto più comuni non viene nemmeno avvertito dai redditi più elevati, mentre rappresenta un vero e proprio salasso per la maggior parte dei redditi da lavoro. Così ci si ritrova dinanzi a un paradosso: le minori entrate fiscali comportano una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti. Il problema consiste esattamente in questo, ci racconta il sociologo: “il denaro accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce andare in cerca di altro denaro investendo sé stesso, anziché investire in ricerca e sviluppo o, per esempio, nella scuola”. Questo fa sì che, in un’economia che va bene, un’eventuale crescita del PIL di 1-2 punti non può che derivare da “un’espropriazione invisibile” delle classi a reddito più basso. Non si tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino più ricchi, ma che questo
produca direttamente un peggioramento generalizzato della vita quotidiana delle classi lavoratrici e di quelle medie. E a pagarne le maggiori conseguenze è la spesa sociale, presa continuamente di mira in nome della necessità di risanare i bilanci pubblici e dell’austerità. In soldoni, dove il modello sociale esiste, si cerca di demolirlo; dove non c’è, si cerca in tutti i modi di impedire che esso si sviluppi. Un altro modo per condurre la lotta di classe dall’alto verso il basso è sferrando un attacco non diretto alla classe in sé ma alla classe per sé, ossia a quello che ha rappresentato fino ad oggi il suo baluardo più importante: il sindacato. Venuta meno nel Nord del mondo l’industria manifatturiera (l’Italia ne è un chiaro esempio), ossia la roccaforte del movimento sindacale, indebolito nel proprio potere e nella propria rappresentatività e ostacolato nelle iniziative intraprese a livello europeo volte a ridurre il dumping salariale o la violazione della legislazione sul lavoro, i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri. Il motivo di tale divisione risiede in una competitività diffusa, intesa sia come lotta della classe dominante contro i lavoratori, sia come fattore che alimenta varie forme di conflitto intraclasse. È evidente: quando le imprese delocalizzano, oltre alla produzione scompare anche il lavoro ben pagato e meglio tutelato. È chiaro che, se un lavoratore che prima guadagnava una certa cifra, ora vede scomparire il lavoro sapendo che sarà svolto da suoi simili che si accontentano di una retribuzione dieci volte inferiore oppure, come accade in Chrysler dove i neo-assunti lavorano gomito a gomito con colleghi che svolgono le medesime mansioni ma prendono quasi la metà, gli uni non potranno far altro che nutrire dei sentimenti di rancore e frustrazione nei confronti degli altri. Così facendo si mettono i lavoratori gli uni contro gli altri, ponendo in competizione le condizioni di lavoro che esistono in un Paese sviluppato con quelle di un Paese emergente, utilizzando l’immigrazione come calmiere delle retribuzioni locali, immettendo sul mercato merci a basso prezzo (prodotte da lavoratori sottopagati), esercitando una pressione al ribasso sui sistemi di protezione sociale. Ne consegue che la lotta di classe interna alla classe operaia (intesa questa volta in senso ampio) si potrà superare o quantomeno lenire solo se si farà tutto il possibile per migliorare diritti e salari degli altri tre quarti dei lavoratori globali.
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Davanti a una situazione del genere, trova un senso anche l’affermazione che “la globalizzazione, oltre ad essere un progetto economicoindustriale, è stata anche un progetto politico”. Un progetto politico volto a poter disporre di masse di salariati che avessero meno potere di quello che avevano acquisito le classi americane o quelle europee, ridurne il potere, comprimerne i salari, nonché i sistemi di protezione sociale di cui godevano, per far sì che le corporations avessero una completa libertà d’azione nei Paesi emergenti, per lungo tempo vere e proprie “creature dell’Occidente”. Allora, se è vero che la situazione globale è così drammatica, siamo alla vigilia di un conflitto sociale? La risposta è no. Per dirla con le parole di Gallino, “il peso degli interessi materiali […] non è una buona ricetta per fabbricare dei rivoluzionari”. Probabilmente perché la così tanto nominata crisi attuale non è ancora abbastanza profonda per poter scatenare uno scontro. È vero, le immagini degli ultimi tempi provenienti dalla Spagna contro le politiche di austerità introdotte dal governo, così come quelle di altri Stati europei, farebbero pensare diversamente. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il peso notevole dell’ideologia e delle costruzioni intellettuali che contribuiscono a strutturare l’attività economica e politica. E se l’ideologia attuale è quella di un mondo in cui si accetta che si possa far denaro unicamente per mezzo di altro denaro, quella che professa che si genera sviluppo e benessere per tutti a patto che si tolga qualsiasi vincolo, allora l’ideologia non solo diventa perversa ma raggiunge livelli profondi, al punto che “quando uno ha la mente così posseduta […] non si ribella: neppure se guadagna quattro euro l’ora […]”. Di fronte all’armatura ideologica della “reconquista”, ossia il neoliberismo, diventato una sorta di teoria del mondo secondo la quale il calcolo economico può dare i risultati migliori quando viene applicato a ogni aspetto della società e dell’esistenza umana, è la cultura umanistica la vera sconfitta, vale a dire quella cultura volta a creare condizioni individuali e collettive che diano senso e contenuto all’esistenza. Tutto questo, sostiene Gallino, mentre gli intellettuali, che pur sarebbero nella posizione ideale per alzare la voce, sviluppare forme di analisi critica e riprogettazione politica volte a contrastare la distorsione del pensiero neoliberale imperante, hanno preferito lasciar da parte
l’impegno oppure alimentare ulteriormente la dottrina neoliberale. Ma quali sono gli esiti di questa controffensiva? Secondo Gallino uno dei risultati più vistosi è un forte aumento delle disuguaglianze globali, dovute per lo più a una forte redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto. In questo senso sono due gli indicatori più significativi. La riduzione, in tutti i Paesi OCSE, dell’incidenza sul PIL dei redditi da lavoro: nel periodo 1976-2006 essa è diminuita, in media, di 10 punti (68% vs 58%). In Italia il calo ha toccato quota 15 punti e, ad oggi, i 5 decimi della parte inferiore della scala sociale, cioè la metà della popolazione, posseggono in tutto soltanto il 10% della ricchezza nazionale, mentre il decimo più ricco, da solo, detiene circa il 50% di essa. Un altro indicatore è il confronto tra il livello dei consumi procapite nella maggior parte degli Stati nel mondo (diversi sono gli studi e le statistiche a dimostrarlo). Nel nostro Paese, infatti, sono state ignorate le politiche redistributive volte a ridurre le disuguaglianze: oltre alle politiche fiscali di cui si è già detto, si pensi agli attacchi al contratto collettivo nazionale di lavoro e soprattutto al fatto che l’Italia spende nei servizi alle famiglie, che sono un fattore importante di redistribuzione, sino a 5 o 6 volte in meno di quanto facciano, ad esempio, i Paesi scandinavi o Francia e Germania. Altra conseguenza della lotta di classe condotta dall’alto sono i numerosi interventi in forma di tagli e riduzioni allo Stato Sociale, allo scopo di salvare e risanare i bilanci pubblici. Si assiste, infatti, a una “politica dominata dall’isteria del deficit”, che si palesa con politiche di austerità, condotte indistintamente da governi di centrodestra e di centro-sinistra. È un paradosso: i Paesi dell’Europa, artefici di quel grande edificio civile che è lo Stato Sociale, ne sono ora i carnefici. Da un lato, abbiamo la crisi di bilanci statali e l’aumento del debito pubblico; dall’altro, la conclusione cui sembra si sia approdati è che il modo migliore per risanare i conti sia tagliare le spese destinate a pensioni, sanità, famiglia, sostegno al reddito, interventi per le persone con disabilità. Operando, tra le altre cose, una distorsione del ragionamento economico e politico poiché l’intero pensiero dei governi europei appare concentrato sull’eccesso di uscite del bilancio dello Stato che sarebbero imputabili alle varie voci dello Stato Sociale, non facendo nessun accenno, per esempio, al calo delle entrate dovute alle
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politiche fiscali degli ultimi decenni, all’evasione fiscale, agli investimenti fatti per salvaguardare banche e istituzioni finanziarie in crisi. Tutto ciò non può che generare un “autolesionismo economico e sociale”: accrescono il malcontento, la frustrazione, il conflitto. Ma c’è di più: “austerità significa operare efficacemente per abbassare il livello culturale della popolazione”. Infatti, tagliare le spese per l’istruzione pubblica e aumentarne i costi diretti e indiretti, ridurre i fondi per la ricerca, aumentare le tasse per l’istruzione universitaria, significherà per l’Europa produrre una generazione nel complesso meno istruita. Da quanto detto sinora, dunque, le classi sociali esistono più che mai. Però non danno origine a nessun soggetto capace di rappresentarle. Quali sono, allora, gli effetti dell’esistenza di questa enorme classe in sé, diffusa in tutto il mondo, e l’assenza di una corrispondente classe per sé? Secondo Gallino, le conseguenze ci sono e vanno ricercate su diversi piani. In primo luogo, una delle più evidenti è l’impoverimento della politica, sia in termini di prassi e azione, che di idee e linguaggi, mai come oggi così degradati e di livello scadente. Una tale povertà intellettuale e morale dimostra che il periodo tra gli anni ’50 e ’70, quando si posero le basi dell’Unione Europea e “si è sviluppata quella grande invenzione civile che è lo Stato Sociale”, sono un ricordo sbiadito della storia. A ciò va aggiunta anche l’assenza di un’opposizione in possesso di argomenti robusti e solidi da contrapporre ai governi in carica. E ciò appare ancora più grave perché fa sì che venga a mancare quella dialettica tra tesi divergenti essenziale per il processo democratico, che ne paga le spese e ne esce come il grande sconfitto. Altra conseguenza è il notevole danno provocato all’integrazione sociale: il venir meno della visibilità delle classi sociali nella vita quotidiana ha provocato anche il declino del senso di comunità e dell’appartenenza a una collettività. Di contro, ha preso piede un “individualismo rozzo”, derivante dal fatto che le comunità e le collettività (a vari livelli, pezzi di classi sociali) non esistono più (per esempio non ci sono più le grandi fabbriche e i distretti industriali attorno i quali esse si sviluppavano). Inoltre, a disincentivare l’integrazione ha contribuito il venire a mancare della componente rituale tipica di tutte le manifestazioni, pratiche collaborati-
ve, che producevano legami stabili tra le persone, creavano dei gruppi e un terreno comune, costituivano un prezioso collante per tenere insieme la società. Ma la conseguenza più drammatica è la “scomparsa di una speranza collettivamente condivisa”. Perché ciò produce delusione, disinganno e a volte rabbia. L’idea di partecipazione, e con essa la convinzione che sia possibile tramite azioni comuni esercitare un’influenza reale sulle decisioni politiche ed economiche, porta con sé la speranza che il proprio futuro non sia interamente eterodiretto. E che sia possibile un mutamento tangibile, un’innovazione della società che renda più liberi, padroni del proprio destino, emancipati. Secondo il sociologo torinese è proprio di tutto ciò che bisognerebbe riappropriarsi. Mentre, nell’immediato, quelle classi che stanno alla
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base della piramide sociale dovrebbero dimostrare a coloro che dicono che le classi non esistono più che esse invece sono vive e vegete, che sono stanche di subire sconfitte politiche e soprattutto culturali e che si stanno organizzando su tutti i fronti “per far cambiare un’altra volta direzione alla storia”. In conclusione, l’ultimo lavoro di Gallino è sorprendente, pur nella sua semplicità. Ad avviso di chi scrive, esso serve a risvegliare quel marcato vigore critico, necessario per comprendere l’attuale situazione economica e politica del mondo, finora troppo sopito, poiché tutti impegnati oltremodo a rincorrere uno stile di vita individualistico e consumistico che non ci restituisce il senso della nostra esistenza come esperienza collettiva. Zaira Bassetti
LiBrInMenTe La scrittrice abita qui di
Silvia Spatari
Sono convinta che ci voglia un ottimo scrittore per raccontarne un altro; ebbene, Sandra Petrignani si rivela decisamente all’altezza della sfida in questo suo libro che condensa il ritratto di cinque grandi scrittrici del Novecento, vere icone letterarie che hanno segnato il secolo in cui sono vissute e anche tutto il tempo a venire. Queste cinque donne hanno vinto premi Nobel, hanno suscitato scandali e viaggiato, hanno violato i sacrari della letteratura maschile, hanno professato la propria unicità vivendo con un curioso misto di fragilità e audacia; e in fondo hanno istoriato sé stesse nella perfezione delle loro opere. Dalle pagine emerge il racconto di personalità regali e visionarie, promiscue e rigorose, totemiche, nevrotiche, e così magnetiche da risultare irresistibili. Poiché “visitare case è evocare spiriti”, Sandra Petrignani è andata pellegrinando tra l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti, per cogliere in cinque vecchie dimore ormai adibite a museo l’eco straordinaria delle donne che le avevano vissute. Calibrando gli oggetti, i colori e le atmosfere di queste case, ma anche i carteggi e le testimonianze letterarie, ha ricomposto di queste scrittrici degli splendidi ritratti dalla forte vocazione intimista. E nonostante sia un libro tutto al femminile, le vicende che narra non sono una questione di genere, ma di genialità. Sandra Petrignani 2007, Neri Pozza € 13,50; disponibile anche in formato EPUB € 8,99
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Hanno collaborato a questo numero Zaira Bassetti
Roberto Fantozzi
Matteo Domenico Recine Silvia Spatari Foto
Marco Biondi Redattore
Zaira Bassetti
Impaginazione Zaira Bassetti Redazione
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