Le ricette di Cartapaglia

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CARTAPAGLIA Le storie-ricette raccontate da Fabrizio Rebollini Uno Chef che sa filtrare le sue ricette attraverso la tela dei suoi ricordi, del territorio in cui abita della qualitĂ dei prodotti utilizzati.

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Indice Latte brusco...................................................................................................................3 Agnolottia “culo nudo” ..........................................................................................5 Crocchette cremose di stoccafisso .......................................................................7 I bomboloni della nonna ......................................................................................9 Trote in carpione .................................................................................................... 11 Zuppa di verza al Montebore ……………………………………………………....13 Gnocchi di Polenta con fonduta di Montebore ………………………….. 15 Crostatina di “masin” e porri ……………………………………………………….. 17 Frittata all’erba di San Pietro e punte di ortiche ……………………… 19 Peperoni ripieni di tonno ……………………………………………………………... 21 Risotto con pasta di salame …………………………………………………………… 23 Ravioli di patate quarantine ripieni di pesto di montèbore ….. 25 Consumato di fagiolane della Val Borbera ………………………………… 28 Ravioli di patate ripieni di Mollana …………………………………………. 30 Torta di mele Carla della Val Borbera …………………………………….…. 32 Cipolle Ripiene ………………………………………………………………………………. 34 Pancetta cotta …………………………………………………………………………………. 37

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Latte brusco Il latte brusco è un piatto tipico dell'entroterra ligure dal quale il nostro territorio è ampiamente influenzato. D’altra parte, siamo attraversati da alcune delle antiche vie del sale e noi, da sempre, qui in mezzo, a sfamare un po’ tutti e apprendere qualcosa di nuovo dai forestieri. Così avveniva anche in passato: pochi soldi per una minestra o, più spesso, cambio merce con gli anciuiè che andavano e venivano a bordo dei loro carri carichi di ceste, sacchi, casse e profumi. Il latte brusco è una ricetta molto semplice che una volta si preparava utilizzando le materie povere che i nostri vecchi avevano sempre in cucina. La particolarità della ricetta, nella versione di casa nostra, è l'utilizzo dei funghi secchi che un tempo era molto più diffuso che adesso, d’altra parte i funghi ci crescevano anche sotto il letto. Questi venivano usati per dare più sapore al tutto e sono proprio i funghi secchi l’ingrediente che diversifica la nostra versione dalla ricetta ligure dove il loro utilizzo non è previsto. Il vero problema, ora come allora, è di non scottarsi, ma dopo le prime ustioni imparerete come fare.

Ingredienti 1 litro di latte 9 cucchiai di farina 2 manciate di porcini secchi 1 cipolla di media grandezza Aglio e prezzemolo tritati, a proprio gusto 4 uova per il preparato 1 uovo e pangrattato per l’impanatura

Preparazione In un tegame, fate bollire mezzo litro di latte. Stemperate la farina nell'altro mezzo litro, aggiungete i porcini precedentemente ammollati, tritati e soffritti con la cipolla, l’aglio e il prezzemolo. Unite il latte bollente alla metà fredda e lasciate bollire quasi a fare una polenta. 3


Aggiungete le uova uno alla volta e mettete nuovamente sul fuoco a rapprendere. Lasciate raffreddare, tagliate il composto rassodato a cubetti, impanate e friggete in olio extravergine d’oliva. Servite subito, appena fritti.

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Agnolotti a “culo nudo” Accendete il fuoco nella fornacella di pietra, fate bollire secchi e secchi d’acqua di pozzo o di ruscello nel calderone di rame, aggiungete la cenere della legna bruciata nel focolare e ….. Non esageriamo, questo era il modo un cui le nostre nonne facevano il bucato e si preoccupavano dell’igiene della biancheria di casa, non pretendo tanto, ma non sognatevi di utilizzare tovaglioli lavati con moderni detersivi profumati del tipo “due fustini in cambio di uno” per servire il piatto di cui vi sto fornendo la ricetta che risulterebbe irrimediabilmente compromesso. Ma perché agnolotti a “culo nudo” ? Perché hanno il fondo in bella vista, senza condimento, e si può apprezzarne pienamente il gusto. Pero, chiunque interrogherete vi darà una propria personale interpretazione e forse è giusto così, prendetele tutte per buone e fate finta di niente. Personalmente credo che all’origine di questa definizione vi siano, però, anche le difficili condizioni di vita delle popolazioni locali che magari, nei giorni di festa ma non tutti, potevano permettersi il ripieno degli agnolotti, ma non sempre potevano permettersi anche il sugo di condimento. Però, può darsi che stia esagerando o forse no. Ci tengo, infine, a precisare che non è mia intenzione creare dispute con località limitrofe, giustamente orgogliose della “vera” ricetta tradizionale. Vi racconto solamente di come li preparo io, scavando nei miei ricordi d’infanzia e seguendo i suggerimenti materni a loro volta tramandati dalla nonna.

Ingredienti Per la pasta: 500 g di farina bianca 12 tuorli d’uovo 3 uova intere 5


Per il ripieno: 500 g di carne di manzo 200 g salsiccia di maiale 3 uova intere una manciata di parmigiano 1 gambo di sedano 1 carota 1 cipolla Due mazzetti di borragine Un bicchiere di buon vino rosso

Preparazione In una casseruola, fate stufare il manzo con sedano, carota, cipolla, quindi bagnate con il vino rosso e continuate la cottura con del brodo. Nel frattempo, lessate la borraggine e tostate in padella la salsiccia sbriciolata. A cottura ultimata, unite il tutto, regolate di sale e macinate il composto per preparare il ripieno che lascerete riposare in una ciotola. Confezionate la pasta fresca tirando una sfoglia molto sottile (qualcuno dice come un velo di sposa) e preparate gli agnolotti che, una volta lessati in acqua salata, servirete adagiati su un tovagliolo di cotone (possibilmente bianco e senza profumo di detersivo) e conditi solo con poco parmigiano per poter meglio apprezzare la bontĂ del ripieno.

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Crocchette cremose di stoccafisso Quello del capitano Querini, veneziano, era stato un viaggio particolarmente “sfigato”. Aveva perso la nave con il suo prezioso carico, guarda caso il 17 dicembre, una delle due scialuppe carica di uomini del suo equipaggio era affondata e lui stesso era riuscito, per miracolo, a sbarcare su un’isola disabitata dove faceva un freddo boia. Per l’Epifania, alcuni pescatori di passaggio l’avevano casualmente salvato e portato nella loro vicina isola. Anche lì ghiaccio e, per di più. una puzza tremenda. Certo che faceva freddo! Si trovava oltre il circolo polare artico, alle isole Lofoten e precisamente a Røst. Per la puzza, invece, era tutta un’altra storia: l’intera isola era invasa da pesci messi a seccare all’aria aperta su appositi tralicci quando non, addirittura, inchiodati alle pareti esterne delle abitazioni di legno. Tuttavia, quando i pochi reduci di quell’avventura tornarono a casa scrissero: “Abbiamo vissuto nel primo cerchio del Paradiso, lontani dalla confusione e dall’obbrobrio dei costumi italiani” (pensa te che novità n.d.r.). Più che della tragedia erano, forse, memori della tradizione delle donne di quei posti che avevano l’abitudine di fare il bagno caldo nude, anche all’aperto, ed erano solite dormire con gli stranieri, quando i loro mariti erano in mare, praticamente sempre. Ma che c’entra tutto questo con la nostra storia-ricetta? Quel pesce era il merluzzo e l’anno il 1432. Fu così che noi, popoli del sud, imparammo a conoscere lo “stoccafisso”. I baschi, invece, che conservavano il merluzzo sotto sale, lo chiamavano “bacalao”, da cui baccalà, e da allora, come vedremo, iniziarono confusione e dispute. Lo stoccafisso invase il mondo e tutti sembravano contenti. Noi italiani, invece, come di solito, cominciammo a sofisticare: In Veneto e in Calabria lo volevano magro e sottile, dalle altre parti la richiesta era di esemplari grandi e più polposi, i Liguri lo volevano più grasso, i Veneti, tra l’altro, cucinavano lo stoccafisso ma, per semplificare la vita, lo chiamavano - e lo chiamano tutt’oggi - baccalà. I poveri norvegesi, che fino allora avevano mangiato solo del pesce secco, cominciarono ad 7


andare in paranoia e dovettero inventarsi una nuova professione, quella del Vrakeren che ancora oggi valuta, distingue e classifica ogni singolo stoccafisso. Come ebbe a dire qualche anno fa il Borgomastro di Røst: “Per noi lo stoccafisso era ed è un pesce, per voi è cultura”. D’altra parte, circa l’80% della produzione è destinata al mercato italiano. E cosa c’entriamo noi delle Terre di Marca Obertenga con lo stoccafisso? Vi ricordate delle rotte delle vie del sale , sulle quali ci troviamo, e degli anciuiè che le percorrevano? Cosa credete che portassero, tra le varie merci, nei loro misteriosi e affascinanti carri?

Ingredienti 150 g di stoccafisso bollito e frullato 500 g di latte 500 g di panna 90 g di farina 150 g di burro 5 patate medie una manciata di prezzemolo tritato e uno spicchio di aglio

Preparazione In una casseruola, fate fondere il burro, aggiungete la farina, quindi il latte e la panna bollenti, in sostanza preparate una besciamella. Lessate le patate, passatele e mescolatele alla besciamella. Aggiungete anche lo stoccafisso (bollito e frullato), l’aglio e il prezzemolo tritati, aggiustate di sale e pepe. Lasciate riposare il composto, quindi formate delle crocchette del diametro di circa 2 cm. Passatele nella farina, impanatele e, dopo averle fatte riposare in frigo per una quindicina di minuti, friggetele in abbondante olio extravergine d’oliva e servitele calde. Qualcuno dirà che questa ricetta non ha molto a che fare con la tradizione. Non è del tutto vero e poi le cocchette a me piacciono moltissimo sin da quando ero bambino. P.S. Per l’ammollatura dello stoccafisso, seguite le indicazioni che vi saranno date dal rivenditore, in quanto variano a seconda delle caratteristiche del prodotto e della lavorazione preliminare a cui è stato sottoposto.

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I bomboloni della nonna Giuseppe e Andrea me lo avevano già detto che questo non doveva essere un ricettario ma, piuttosto, un quaderno d'appunti attraverso il quale parlare con semplicità del nostro territorio. Però, mi sono detto, adesso arriva il Natale e bisogna pensare a qualche piatto classico della tradizione. In fin dei conti, anche se dalle nostre parti non si navigava nell’oro, le festività erano sempre onorate dalle nostre donne con piatti ricchi e succulenti. Mi sono messo a pensare e i ricordi erano tanti. Profumi e visioni che, francamente non so dirvi se sarei oggi in grado di riprodurre. Sarà stata la sapienza dei nostri vecchi, la loro innata sensibilità al dosaggio degli aromi, la qualità e il sapore delle materie prime o forse più semplicemente l’eccezionalità della preparazione di pietanze che certamente non erano di tutti i giorni, però i “ricordi” mi sono sembrati di colpo “irriproducibili”. Ma come fare, allora, a raccontare quelle sensazioni che mi farebbe piacere trasferire a chi legge queste poche righe e magari intende cimentarsi nella preparazione delle ricette che vi propongo? Mi sono rivoltato nel letto per un’intera notte e all’alba mi sono ricordato di un “profumino” che nei giorni di festa non mancava mai in casa di mia nonna. Mi sono alzato, sono andato in cucina e ho cominciato ad armeggiare. Mia sorella Serena è apparsa poco dopo sulla porta della cucina per capire cosa stesse accadendo e mi ha rudemente apostrofato: “ma ti sembra questa l’ora di fare tutto questo casino?”; le parole esatte non posso ripeterle, ma il concetto era abbastanza chiaro. “Sì”, ho risposto brusco, continuando a trafficare mentre le raccontavo di cosa mi era venuta voglia. E’ rimasta, per un attimo, perplessa, si è stropicciata gli occhi, poi mi ha guardato quasi con tenerezza (almeno così mi è sembrato) e ha cominciato a darmi una mano. Anche per lei quel profumo che nei giorni di festa invadeva la nostra casa ancora prima che noi bambini ci alzassimo è ancora oggi un ricordo indimenticabile. Poco dopo ci contendevamo, come dei bambini, il prodotto di questa occasionale collaborazione mattutina mentre fuori dalla finestra un cielo terso e un sole appena sorto facevano risplendere un fantasticopaesaggio innevato. Non avevamo 9


preparato un elaborato piatto da pranzo di Natale, ma che buoni i bomboloni della nonna!

Ingredienti: 500 g di farina 500 g di patate 50 g di zucchero 50 g di burro 50 g di lievito di birra scorza di limone e di arancia (non trattate) 3 o 4 uova, a seconda delle patate

Preparazione: Lessate le patate, schiacciatele e impastatele con il burro, lo zucchero, il lievito di birra, la farina e le scorze grattugiate. Aggiungete le uova e, dopo avere impastato bene il tutto, mettete a lievitare. Confezionate i bomboloni a forma di ciambella così sarà più facile regolarvi sulla cottura, quindi fateli ancora lievitare. Friggeteli in abbondante olio caldo (circa 160/180°) e, quando saranno dorati, scolateli per bene utilizzando della carta assorbente o della “cartapaglia”, fino a eliminare ogni eccesso di olio. Attenzione e farli friggere lentamente in modo che cuociano bene anche all’interno. A fine cottura passateli nello zucchero e serviteli. Non esagerate nel loro consumo come sono solito fare io.

Raccomandazione E’ importante che facciate molto attenzione alla lievitazione. Inoltre, tenete presente che per friggere i bomboloni ci vuole molto olio (meglio se utilizzate una friggitrice elettrica) e con questa dose ne vengono fuori parecchi. Vi consiglio anche di provare la ricetta prima di utilizzarla “ufficialmente” così da capire bene i tempi e le temperature di lievitazione e di cottura.

Variante salata A volte, ne faccio anche una versione salata, a forma di piccole palline, che riempio con pezzetti di buon formaggio di alpeggio non molto stagionato. Ovviamente non utilizzo lo zucchero né per la preparazione né dopo la frittura. Prima di servirli li avvolgo, però, in una fetta di pancetta che grazie al caldo si scioglie e rende il tutto irresistibile. 10


Trote in carpione Nella vicina Liguria per fare il pesce in carpione utilizzano, ovviamente, il pesce di mare. Noi, che il mare non ce l’abbiamo, ci siamo dovuti adattare, ce l’abbiamo messa tutta e siamo riusciti a inventare un nostro carpione che non ha nulla da invidiare a quello di pesce marino. Ma “carpione” altro non è che il nome di un pesce d’acqua dolce (della famiglia dei salmonidi) che si trova quasi esclusivamente nel lago di Garda. Noi, però, che non abbiamo neanche il lago, ma siamo attraversati dal Borbera e dalle sue splendide acque cristalline, utilizziamo la Trota Fario che nulla ha da invidiare al Carpione (inteso come pesce) e la prepariamo in “carpione” (intesa come ricetta). Tutto chiaro? Allora andiamo avanti. Le trote le pescavano gli uomini, praticamente sotto casa, anche se, a dire il vero, il compito non era del tutto facile. In compenso, però, non era neanche faticoso. Si trattava di sapere aspettare e di cercare di essere un po’ più furbi del pesce. Le Trote Fario sono, infatti, pesci furbi e molto sospettosi che ricercano le zone riparate dal sole e sono in grado di mimetizzarsi col fondo. Ma quando si era capito il meccanismo e si erano imparate le zone migliori di pesca, non si faceva certo una gran fatica. A casa, alle donne competeva la pulitura dei pesci, la cottura e infine la loro conservazione. D’altra parte se i loro uomini erano stati furbi, almeno più delle trote, avevano certamente portato a casa tanto pesce e non si poteva morire d’indigestione né, tanto meno, intossicati dal pesce marcio. Poiché una volta era difficile conservare i cibi (figuriamoci il pesce) si trattava di capire come fare. Ed ecco venire in soccorso il “carpione” (intesa come ricetta): con la frittura si evitava che il pesce andasse a male mentre con l’aceto si favoriva la conservazione. Non so se avete capito, ma la ricetta che vi descriverò è quella della trota in carpione! 11


Ingredienti 4 trote, possibilmente Fario 2 cipolle 2 spicchi d'aglio farina un quarto di litro di acqua un quarto di litro di aceto di vino rosso olio extravergine d’oliva salvia lauro sale

Preparazione Fate bollire l'acqua e l'aceto, con la cipolla tagliata a spicchi, l'aglio, la salvia e il lauro, per circa 10 minuti. Prima della bollitura ricordatevi di aggiungere un pizzico di sale grosso. A parte preparate le trote. Dopo averle pulite, lavate e asciugate passatele nella farina bianca e friggetele nell’olio. Una volta scolate nella cartapaglia lasciatele raffreddare, quindi mettetele in una terrina a bagno del composto ottenuto dalla bollitura dell'acqua e dell'aceto, con tutti gli aromi. Lasciatele riposare per mezza giornata ed ecco che sono pronte per essere gustate. Il gusto è stupefacente. L’importante è avere buone trote e un ottimo aceto.

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Zuppa di verza al Montebore Una volta, dalle nostre parti non c’era molto da scialare e i nostri vecchi non erano molto inclini all’ottimismo e, quindi, allo spreco. Si cucinava quel che c’era! Anche quando la materia prima non mancava, la “parsimonia” era di rigore: “c’è poco da sfogliar verze “ era il motto che nelle varie forme dialettali, così simili ma anche così diverse da una valle all’atra, si sarebbe potuto scolpire sopra ogni focolare della nostra zona. Eppure, in inverno, di verze ce n’erano in abbondanza negli orti di tutte le case. E allora, perché prendersela con le verze? Perché le verze, se non lo sapete, sono una verdura infida e traditrice! Ma come, direte voi, la verza che è così buona sia cruda sia cotta sia conservata e per di più fa anche bene? Certo, è infida perché con tutte quelle foglie pressate l’una sull’altra, mentre la si sfoglia, dà la sensazione di non finire mai e potrebbe indurre allo spreco! Togli una foglia, poi ne togli un’altra e un’altra ancora e poi, d’un tratto, ti ritrovi con un torsolo in mano. E allora, dai a inventarsi ricette che consentivano di sfruttare fino all’ultima foglia: zuppe più o meno ricche, involtini di varia foggia per riciclare gli avanzi subdolamente impacchettati, oppure altre soluzioni, più o meno povere, come quella che vi racconterò oggi.

Ingredienti 1 verza di medie dimensioni 400 g di montebore non troppo stagionato 1 cipolla pane raffermo 25 g di burro sale, pepe e noce moscata brodo di manzo

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Preparazione Prendete una verza, togliete le foglie piĂš coriacee, le coste piĂš grosse, il torsolo e, dopo averla lavata, affettatela grossolanamente e brasatela aggiungendo un po’ di brodo, fino a quando non sarĂ diventata tenera. Nel frattempo fate appassire la cipolla, tagliata molto finemente, in poco burro, unite la verza e fate insaporire per circa cinque minuti. Imburrate una pirofila da forno, quindi disponete uno strato di pane raffermo tostato (possibilmente integrale), uno di verza ricoprite con delle fette di montebore non troppo stagionato. Spolverate con noce moscata grattugiata, regolate di sale e di pepe e terminare con un ultimo strato di pane e qualche noce di burro. Ricoprite con il brodo (possibilmente di manzo) e cuocete in forno a 180° per circa 30 minuti. Servite ben caldo. Alcuni nasi raffinati potranno anche contorcersi ma, cosa volete, noi siamo gente rude e ci piacciono i profumi veri.

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Gnocchi di polenta con fonduta di Montebore Quando nella sua serra-laboratorio fai da te vide spuntare delle minuscole foglioline, probabilmente a Biagio vennero gli occhi lucidi. Qualche mese prima, in giro come al solito per valli e cascinali delle nostre Terre, aveva trovato per caso, presso un contadino della Valle Ossona, due vecchie pannocchie annerite dal fumo di un camino. Le aveva accudite per mesi come si può fare con un neonato e, da appassionato genetista autodidatta, qual era, era riuscito a far germogliare ben 5 piantine. Era l’anno 1981 e Biagio Pelletta aveva salvato dall’oblio l’Ottofile tortonese! Perché Ottofile? Ma perché sulle lunghe e puntute pannocchie erano allineate, come tanti soldatini, solo otto file di semi belli e lustri di colore leggermente diverso a seconda delle zone di produzione. In zona, praticamente tutte le famiglie contadine lo avevano coltivavano per decenni, d’altra parte la polenta, come si usava dire, era il “pane dei poveri” e serviva a risolvere molte situazioni di difficile esistenza anche se, a volte, con qualche rischio di malattie come la pellagra se non c’era null’altro da mangiare insieme alla polenta. Tra gli anni ’50 e gli anni’60 però i contadini avevano man mano preferito seminare altre qualità di mais molto più produttive (fino a 5 volte di più) e l’Ottofile era arrivato, di fatto, a scomparire. Poco alla volta, però, grazie alla cocciutaggine del nostro Biagio, alcuni contadini più lungimiranti ripresero a coltivarlo, non senza qualche esitazione, perché se le cose si fanno bisogna farle bene. Intanto bisogna coltivarlo lontano dagli altri mais per evitare impollinazioni che ne comprometterebbero la purezza, manco a dirlo senza concimi chimici e possibilmente in rotazione triennale. E poi, se si vogliono fare le cose al meglio, va macinato a “pietra naturale”. E non dite che è roba da maniaci, la macinazione a “pietra naturale” avviene molto lentamente e non riscalda la farina che riuscirà così a conservare i sapori e i profumi d’una volta quando la utilizzeremo per fare una buona polenta. E non date retta a quelli che vi dicono che quello della 15


polenta è un sapore “neutro”, lo possono dire solo se non hanno mai conosciuto la polenta fatta con la farina del nostro Ottofile, “palestra di fantasia” delle nostre nonne. Ma perché vi ho raccontato tutta questa storia? Ovvio, per introdurvi alla mia nuova storia-ricetta che si basa sulla semplicità. Ma proprio perché è estremamente semplice non può che fondarsi sull’assoluta qualità dei prodotti utilizzati: il nostro mais Ottofile e il nostro imperdibile Montebore.

Ingredienti 1 kg di polenta Ottofile (già cotta) 200 g di farina (per l’impasto) 500 g di panna 60 g di burro 50 g di farina (per la fonduta) 400 g di montebore non troppo stagionato

Preparazione Impastate la polenta con la farina e confezionate gli gnocchi secondo tradizione. Preparate quindi la fonduta facendo bollire la panna e unendola al burro e alla farina già mescolati a caldo. Aggiungete il Montebore tagliato a cubetti e fatelo fondere bene fino ad ottenere una salsa liscia e vellutata. Lessate gli gnocchi facendoli bollire per qualche minuto in acqua salata e saltateli dentro la fonduta. Potete servirli così oppure gratinati in forno a media temperatura fino a che prendono un po’ di colore. Questa è la mia idea di polenta e formaggio.

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Crostatina di “masin” e porri Pochi chilometri tra boschi, torrenti incontaminati, tanti tornanti e finalmente si arriva al mare. Hilario, che abitava nel nostro Paese da quasi un anno, mi parlava in buon italiano alternato a frasi in una lingua assolutamente incomprensibile che ascoltavo per la prima volta in vita mia e aveva i lucciconi agli occhi. Ci eravamo conosciuti il giorno prima durante una delle manifestazioni enogastronomiche alle quali mi capita di partecipare e subito era nata una reciproca simpatia. Dopo cena, con quello che avevamo mangiato e bevuto, i rispettivi riflessi non erano al massimo. Eravamo a quel livello in cui si comincia con le nostalgie. Hilario, non chiedetemi il cognome assolutamente impossibile da pronunciare, mi stava raccontando del suo territorio, che somigliava tanto al mio, e delle sue nostalgie che sarebbero state anche le mie ma che, francamente, non potevo provare perché mi ero allontanato da casa solo da due giorni e vi sarei tornato all’indomani. Veniva da un villaggio sperduto tra le montagne dei Paesi Baschi e, anche lui, sceso dai bricchi (o come diavolo si chiamano da quelle parti) arrivava facilmente al mare, anche lui aveva il suo golfo: il Golfo di Biscaglia. Mi parlò delle stagioni e della primavera, quella che quest’anno, da noi, ha fatto una gran fatica ad arrivare, della stagionalità della sua cucina e dei piatti prelibati che preparava con i “perretxikos” che, in questa stagione, raccoglieva appena fuori dalla porta di casa. I “perretxikos” ? All’inizio non capii cosa fossero, poi me li descrisse, mi raccontò di come li cucinava, pensai alla stagione e non ebbi più dubbi. Si trattava dei funghi di San Giorgio, quelli che dalle nostre parti sono noti anche con il nome di “masin” e che si trovano proprio adesso sotto biancospini e prugnoli selvatici, tant’è che, ad esempio, in Toscana li chiamano proprio “prugnoli”. Come si suol dire: “tutto il mondo è paese” . Mi raccontò che dalle sue parti li cucinavano quasi sempre con le uova strapazzate e qualche volta in zuppa. Io, invece, gli descrissi la ricetta che vi racconto qui di seguito e che, francamente, mi sembra anche più interessante. Ecco, so quello che farò domattina all’alba e quale sarà uno degli antipasti che servirò ai miei clienti. 17


Ingredienti e preparazione Per la pasta brisè 250 g di farina 150 g di burro chiarificato, Sale. Setacciate la farina e versatela sulla spianatoia a fontana, aggiungete nell'incavo il burro a pezzetti, il sale ed impastate velocemente, formando delle briciole con le punte delle dita. Unite un cucchiaio di acqua molto fredda, quindi continuate a lavorare fino ad ottenere un impasto omogeneo che terrete in frigo a riposare, avvolto nella pellicola da cucina, per un'oretta. Stendete bene la pasta fredda su una teglia rotonda da 20/22 cm, bucherellatela, quindi copritela con carta forno e versatevi fagioli secchi oppure gli appositi pesetti per la cottura a secco. Infornate a 180° per circa 12 minuti. Togliete ora pesi e carta e riponete nuovamente in forno a completare la cottura per altri 5/7 minuti. Fate raffreddare. Per la farcia 300 g di porri mondati 300 g di funghi “masin” trifolati 70 g circa di burro chiarificato 4 tuorli d'uovo 300 ml di panna fresca liquida Una grattatina di noce moscata, sale e pepe. Fate sciogliere il burro in una pentola capiente, quindi aggiungete i porri, qualche cucchiaio di acqua, un pizzico di sale e fate cuocere a fiamma media, coperto, fin quando i porri risulteranno morbidi ed omogenei (circa mezz'ora). Togliete il coperchio e lasciate raffreddare . Amalgamate poi in una ciotola i tuorli con la panna, salate e pepate, lavorate energicamente il tutto. Con delicatezza, versate a questo punto i porri , i funghi masin ed il composto di panna e tuorli nella base di brisè già fredda. Distribuite i porri e i funghi uniformemente all'interno. Cuocete nel forno già caldo a 200° per circa trenta minuti, o fino a quando il ripieno non risulterà solido. Servite la crostata calda. 18


Frittata all'erba di San Pietro e punte di ortiche Nicholas Culpeper. Non mi dite che sapete chi sia o che ne avete già sentito parlare perché non ci credo e mi arrabbio, a meno che non siate un erborista o giù di lì. Io l’ho scoperto per caso qualche sera fa a casa di un amico, sfogliando un antico libro scritto in inglese. Non conosco questa lingua e quindi guardavo le figure. Disegni bellissimi e accuratissimi, più realistici delle foto, attraevano la mia attenzione. Ad un tratto l’immagine di un’erba fiorita mi colpì: ma questa io la conosco! Il mio amico ,incuriosito, guardò il libro e mi disse un nome latino - come mi precisò dopo - che non avevo mai sentito. Eppure ero sicuro di averla riconosciuta! Chiesi di tradurmi cosa c’era scritto e il mio stupore crebbe a dismisura. State a sentire cosa scriveva questo Culpeper: «La pianta è sotto il dominio di Giove. La balsamita comune, favorisce l’aumento di urina, addolcisce l’umore, seda la tosse e il catarro, attenua ciò che è grave, taglia ciò che è duro, purifica ciò che è fallace, impedisce la putrefazione, ed è utile in tutti i tipi di febbri a secco. E' astringente per lo stomaco, e fortifica fegato e altri visceri; assunta in siero di latte, opera in modo più efficace. Assunta a digiuno al mattino, allevia i dolori cronici alla testa, attenua il freddo ed i reumatismi da esso causati, favorisce la digestione, fornisce un valido aiuto a coloro che sono caduti in una disposizione costante di male del corpo, chiamata cachessia, soprattutto in inizio della malattia. È un ottimo rimedio per il fegato debole e freddo. Il seme viene dato ai bambini per combattere i vermi, e così avviene anche per l'infuso di fiori al vino bianco, somministrato in circa 60 grammi per volta. E 'una pianta che permette la fabbricazione di pomate eccellenti per curare le ulcere di vecchia data, e se viene bollito con olio d'oliva, insieme a lingua di vipera, e dopo viene filtrato, con l’aggiunta di un po' di cera, resina e trementina, per renderla densa come richiesto, può essere utilizzata in una vasta gamma di applicazioni, apportando benefici duraturi nel tempo».

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Chiesi al mio amico se quella pianta miracolosa pagasse anche i debiti e facesse innamorare le principesse ma non mi diede risposta e, per di più, non mi seppe dire come si chiamasse comunemente. Io, invece, lo sapevo! Non solo, ma sapevo anche dove si trova, quello che ci faceva mia nonna e tutte le massaie di campagna, e ne sentivo il profumo anche se non c’era. E poi, l’ho utilizzata tante volte in cucina e non per fare tutte le cose terribili che diceva quel signor Culpeper (a pensarci bene, che razza di cognome aveva!). Il problema era trovare il nome italiano giusto, visto che ognuno la chiama a modo suo. Tanacetum balsamita no, quello è latino. E allora? Menta romana, erba della Madonna, erba di Santa Maria, menta greca, fritola, erba buona, erba amara, …… noi la chiamiamo erba di San Pietro. Mentre io ho perso tempo a raccontarvi questa storia, mia sorella Serena ha già preparato il piatto che ancora vi debbo descrivere e se non mi sbrigo lo fa tutto fuori. . Fortuna che la ricetta è semplicissima!

Ingredienti 6 uova grandi una quarantina di tenere foglie di erba di San Pietro una manciata di punte di ortiche tenere 3 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato sale, pepe, profumo di noce moscata un cucchiaio d'olio

Preparazione Lavate e asciugate le foglie di erba di San Pietro e le ortiche. Togliete all’ erba di San Pietro il gambo e la costola centrale. Battete un po' le uova, conditele con sale, pepe, la noce moscata e il parmigiano grattugiato. Aggiungete le foglie tritare grossolanamente insieme alle punte di ortiche, date ancora una mescolata e cuocete in padella antiaderente ben calda e unta con un goccio di olio extravergine d'oliva. Il risultato sarà esaltante quanto semplice è la ricetta. Aspettami sorellina!

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Peperoni ripieni di tonno Tutte le volte che debbo inviare una ricetta a quelli delle Terre di Marca Obertenga mi faccio prendere dall’ansia. Ormai un anno fa, quando ci siamo incontrati la prima volta, mi avevano spiegato che non erano interessati a fare uno dei tanti ricettari, ma volevano che raccontassi delle ricette “tradizionali” del Territorio in cui vivo e in cui, da generazioni, la mia famiglia si occupa di ristorazione. L’ansia di cui parlo non deriva tanto dal dovere scrivere una storiaricetta (in questo loro mi danno sempre una mano) ma dal dover trovare una ricetta “tradizionale”. All’inizio, tutto facile, qualche ricordo e via, ma poi le cose si sono sempre più complicate: cos’è una ricetta “tradizionale” e quando una ricetta diventa “tradizionale”? Mi dicono che quelli che parlano di cibo e di cucina, magari senza mai avere cucinato in vita loro, sono capaci di scrivere interi libri per spiegartelo. Una volta ho letto un articolo nel quale si diceva letteralmente che un prodotto enogastronomico, una festa, un vestito tipico, diventano tradizionali quando vengono collocati al di fuori del tempo, o meglio, in un “tempo mitico” completamente a-storico, slegato dallo scorrere effettivo degli anni. Non ci ho capito molto e mi gira ancora la testa al solo pensarci ! Allora ho deciso di dare una definizione che non vuole togliere niente a nessuno ma che vuole essere una risposta a me stesso, a quelli di Terre di Marca Obertenga e a tutti coloro che non hanno voglia di arrovellarsi troppo il cervello. Per me, un piatto (nel senso di una ricetta) è “tradizionale” quando lo ricordiamo e lo viviamo come tale, quando ad esso sono legati i nostri ricordi dell’infanzia e magari quelli dei nostri genitori e dei nostri nonni, quando ne ricordiamo i profumi, quando è realizzato con i prodotti del territorio che siamo sempre stati abituati a vedere circolare in casa. E si badi bene, non deve trattarsi necessariamente di ingredienti che vengono prodotti nello specifico Territorio, ma di ingredienti che “tradizionalmente” venivano e 21


vengono tutt’oggi usati in quel Territorio. Ad esempio, noi in Piemonte le acciughe non le peschiamo (questo è sicuro) però nessuno oserà dire che la “bagna caoda” non è un piatto ”tradizionale”. E non peschiamo neanche il tonno, figuriamoci poi in scatola e sott’olio, quindi non oserete sostenere che la ricetta che vi sto per dare non sia “tradizionale”. Io, specie in questa stagione, la ricordo da sempre a casa mia preparata da mia madre e anche da mia nonna, magari con qualche piccola variante, quindi per me è “tradizionale” a prescindere, come diceva Totò.

Ingredienti 2 peperoni rossi 150 g di pane raffermo ammollato nel latte 350 g di tonno sott'olio 1 manciata di capperi 3-4 filetti di acciughe all'olio d'oliva 2 cucchiai di parmigiano una manciata prezzemolo pepe nero, olio e sale q.b.

Preparazione Fate arrostire i peperoni per 25 minuti in forno a 170°, mondateli e privateli dei semi. Frullate il pane, il tonno sottolio, i capperi, l'acciuga, il parmigiano, il prezzemolo con un filo di olio extravergine e aggiustate il composto di sale e pepe a vostro piacimento. Riempite i peperoni dando loro la forma di cannelloni, lasciateli riposare e serviteli freddi.

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Risotto con pasta di salame D’estate, quando dopo mezzanotte, rassettata la cucina, mamma Marisa mi vede tirare fuori dal garage il mio fido “apepiaggiodacombattimento” assume un’area preoccupata e comincia a borbottare come la classica pentola di fagioli. Certo, andare a quell’ora di notte per bricchi e valli dopo una giornata di lavoro non è proprio il massimo ma è più forte di me, ci sono delle sagre paesane, dalle nostre parti, alle quali non riesco proprio a rinunciare. Pochi giorni fa, ad esempio, c’è stata La festa del Salame Nobile del Giarolo a San Sebastiano Curone, era la decima edizione e non potevo certo mancare. E poi, mi aveva telefonato Andrea, quello delle Terre di Marca Obertenga che ormai da molti anni cura con successo l’organizzazione della festa nei minimi dettagli: “che fai, vieni ?” ..... come dirgli di no! L’apparente semplicità della domanda nascondeva, però, un messaggio in codice. L’invito alla festa del salame aveva un significato preciso che ben conoscevamo entrambi: "vieni e chiudi la serata alla tua maniera?". Decido su due piedi di affrontare i brontolii di mia madre e rispondo di sì. Per non complicarmi troppo la vita, questa volta, poterò con me anche mia sorella Serena che risulta più affidabile di me agli occhi di mia madre e, detto tra di noi, in caso di necessità, provvederà al rientro. Ma perché non andare in macchina? Ogni cosa ha un suo perché! Non debbo caricare molto, sul mio “apepiaggiodacombattimento” c’è già tutto quello che serve in simili frangenti e quello che non c’è lo troveremo sicuramente sul posto. Vuoi che alla festa del salame non abbiano qualche chilo di pasta di salame per qualche disperato nottambulo? All’una di notte, nella piazza del Comune di San Sebastiano Curone, di disperati nottambuli ce n’era più di qualcuno e la pasta di salame per un classico risottino non mancava. Mi organizzo e comincio a cucinare in modo un po’ particolare: riso, cipolla, pasta di salame, vino per il 23


risotto, ….. vino per me …… ma non preoccupatevi, Serena è una sicurezza e, in caso di necessità, sarà in grado di riportarmi a casa, con buona pace di mia madre. D’altra parte sul manifesto della festa c’era scritto a chiare lettere: ”Il Salame Nobile del Giarolo incontrerà i vini della Marca Obertenga”. Potevo mancare l’appuntamento con il rischio che si offendessero entrambi? E la ricetta ? Beh, questa volta non ve la do! Perché una cosa è fare un risotto a casa propria o in un ristorante, altra cosa è farne in gran quantità in una piazza obertenga, all’una di notte di una calda estate. Vi racconterò solamente quello che ho fatto, per quanto riesca a ricordarmi. Non avevo abbastanza brodo e in piazza non avrei avuto il modo di tostare e sfumare il riso, quindi ero arrivato con un’abbondante quantità di riso già sfumato alla barbera. Anche la cipolla del soffritto era già stata stufata con barbera e brodo, lasciata ridurre e frullata. Indovinate, invece, il trattamento per la pasta di salame, anch’essa sfumata alla barbera. Con il riso e la cipolla, già parzialmente preparati, ho iniziato la cottura del risotto, dopo circa 10 minuti ho aggiunto la pasta di salame, fatto cuocere per altri 5 minuti, mantecato con del burro freddo e tanto parmigiano. E voilà ! Signori della Corte, questo è quel che ricordo, per il resto ci ha pensato Serena.

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Ravioli di patate quarantine ripieni di pesto al montébore stagionato. Prima o poi anche le popolazioni europee ci sarebbero arrivate egualmente ma, considerati i ritmi e le diffidenze della cultura contadina, può anche darsi che oggi non avrei potuto darvi questa ricetta. D’altra parte, come dare loro torto quando i trattati scientifici dell’epoca definivano questa pianta come cibo "capace di provocare effetti allucinogeni e di dare alle streghe il potere di volare"? Però, come dicono i nostri vecchi, non tutti i mali vengono per nuocere e fu così che, intorno alla metà del 1700, un farmacista dell’esercito francese, prigioniero dei prussiani, scoprì le qualità nutritive di questa pianta che i comandanti prussiani utilizzavano forzatamente per sfamare il proprio esercito. Il farmacista, tornato in patria, aveva creduto di avere vita facile ma, invece, dovette attendere fino al 1771, prima che la Facoltà di Medicina di Parigi definisse la patata non pericolosa ma anzi sana e di grande utilità sociale. Da allora, grazie al farmacista AntoineAugustinParmentier le streghe non volarono più e chi voleva avere le allucinazioni dovette cambiare pianta. Ma non finì qui, perché dopo la carestia del 1785, Luigi XVI ordinò ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare il tubero. I contadini, che continuavano a essere diffidenti, lo fecero poco e di mala voglia e, allora, pensa cosa s’inventarono il Parmentier e il Re: fecero coltivare patate nei giardini di Champ de Mars e le fecero guardare a vista dai soldati armati posti a protezione di una pianta “riservata al Re”. I contadini abboccarono, rubarono la pianta e la diffusione della patata fu assicurata. Qualche anno dopo tagliarono la testa al Re e a qualche altro migliaio di nobili e non, ma sembra che questo non avesse niente a che fare con le ”allucinazioni” da patata. Con il nuovo secolo cominciarono a sbizzarrirsi i cuochi, che già allora avevano il vizio di scrivere libri di ricette, ed ecco che la patata da umile tubero divenne oggetto di raffinate prelibatezze: in polenta, in crema, in polpette, in bignè, arrostite, ripiene al burro e ,udite … udite, 25


anche "patate in gnocchi": ”cotte che saranno al forno le patate, la loro più pulita sostanza si pesta con una quarta parte di gialli d'uova duri, altrettanta di grasso di vitello e anche di ricotta. Si unisce e si lega dopo con qualche uovo sbattuto, si condisce di spezie e si divide in tanti bocconi lunghi e grossi come un mezzo dito, i quali infarinati si mettono nel fuoco bollente, e bolliti per poco si servono nel piatto incaciati e conditi con sugo di carne”. Certamente, però, questa ricetta, presentata nel 1801 da Vincenzo Corrado ne "Il Cuoco Galante", risentiva dei postumi delle recenti carestie. Ora veniamo a noi che, delle oltre 3000 varietà di patate esistenti al mondo, preferiamo la Patata Quarantina che condividiamo volentieri con i nostri cugini liguri. Cosa vi presento oggi?

Ingredienti Per l’impasto: 1 kg di patate quarantine lessate 250 g di farina 3 tuorli d’uovo 50 g di parmigiano noce moscata sale Per il ripieno: 300 g di ricotta 2 mazzi di basilico 60 g di pinoli 50 g di montébore secco grattugiato 2 dl di olio di oliva

Preparazione Dopo averle lessate e sbucciate, passate le patate e quindi aggiungete i rossi d’uovo. Insaporite con il sale, la noce moscata e il parmigiano. Impastate il tutto con la farina e lasciate risposare. A parte, preparate il pesto con tutti gli ingredienti triturati elencati per il ripieno e mescolatelo con la ricotta fino ad ottenere un composto omogeneo.

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Tirate l’impasto di patate con il mattarello dandogli uno spessore medio. Disponete sull’impasto piccoli mucchietti di ripieno di ricotta lavorata con il pesto e coprite con un altro strato di pasta, quindi formate i ravioli tagliandoli in modo da dare loro forma quadrata e cuoceteli Cuocete i ravioli in abbondante acqua salata. Io li condisco con burro fuso e scaglie di montébore. Serena ….. d’accordo, ne ho mangiati tanti …. ma smettila di VOLARE!

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Consumato di fagiolane della Val Borbera Il percorso di evasione dalla maniera vasariana ………… prime scene di genere dell'arte italiana ……. superare certe estremizzazioni del manierismo tardo-cinquecentesco ……. Confesso che mi stavo annoiando terribilmente anche perché non capivo niente di quanto un’avvenente guida turistica ci stava raccontando da una buona mezz’ora. Ero a Roma dal giorno prima, insieme ad alcuni miei colleghi chef, per un’esibizione e, invece di andarmene a spasso per i fatti miei, mi ero lasciato coinvolgere nella visita di quello che mi dicono essere uno dei più belli e sfarzosi palazzi privati romani: palazzo Colonna. Marmi, mobili preziosi , affreschi e tappeti dappertutto e tanti quadri da perderci la testa. La nostra guida parlava e parlava, raccontandoci tutto di tutto. Confesso che mi stavo annoiando, mentre nella mia testa mettevo a confronto tanta esibizione di ricchezza con lo stile di vita proprio delle genti delle nostre valli. Le ultime parole pronunciate dalla nostra guida, mentre indicava un piccolo dipinto, mi risvegliarono di colpo: … il mangiafagioli , dipinto da Annibale Carracci nel 1584 ….. Che c’entravano i fagioli con tutta quella ricchezza? Mi hanno sempre detto che i fagioli sono la “carne dei poveri”, vuoi vedere che si vogliono fregare anche quelli! Guardai con attenzione e mi sentii di colpo come a casa. Non mancava niente su quella tavola apparecchiata, poveri oggetti e cibi della mensa contadina: una brocca, un bicchiere, un coltello, un piatto con dei funghi, un mazzetto di porri, una micca. Ma al centro di tutto c’era una scodella di fagioli e un uomo dall’aspetto umile colto nell'attimo in cui ne portava alla bocca una cucchiaiata; lo sguardo fisso e vorace e la bocca spalancata. La mano sinistra stringeva un pezzo della micca …. per aiutare a tirar su l’intingolo, dice la distinta signora in tailleur grigio che ci fa da guida. Io, però, so che, in quei tempi di fame nera, quella mano stringeva la micca per difenderla dagli altri commensali

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più o meno affamati che, se appena ti distraevi per un istante, erano pronti a portartela via. Ma sì, in fondo, questa visita mi è anche piaciuta e poi mi ha fatto venire voglia di una zuppa di fagiolane, come siamo abituati a farla in Val Borbera anzi, siccome anche noi siamo diventati raffinati, vi proporrò addirittura un consumato di fagiolane, ovviamente alla nostra maniera.

Ingredienti Mezzo chilo di fagiolane secche ammollate una notte in acqua tiepida 1 carota 1 spicchio d’aglio 1 cipolla bianca 1 foglia di alloro sedano pepe sale olio extravergine d'oliva 2 l di acqua circa

Preparazione In una pentola mettete a rosolare per qualche minuto con dell’olio la cipolla affettata, el’aglio. Aggiungete l’acqua fredda, i fagioli, la carota, il sedano e l’alloro. Mescolate fino portare ad ebollizione, quindi abbassate la fiamma e lasciate cuocere per almeno un paio d’ore. Il tempo di cottura può variare, quindi il mio consiglio è di assaggiare i fagioli durante le fasi di cottura. A cottura ultimata, aggiustate di sale e pepe e frullate gli ortaggi e i fagioli con un frullatore a immersione, fino a farne una crema. Passatela al setaccio per eliminare le bucce, lasciate cuocere ancora un poco fino a raggiungere la densità voluta e servite. Con le nostre "fagiolane" è proprio una poesia.

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Ravioli di patate ripieni di Mollana Una bella ricetta a base di castagne ….. cibo povero, qui ne abbiamo a bizzeffe …., ma no, le castagne si trovano dappertutto. Allora una torta con le mele Carla, ce le abbiamo solo qui …., ma no, se poi fanno il dolce con qualche mela diversa e meno buona sono capaci di dire che è tutta colpa mia che non ho dato la ricetta giusta. Insomma, non so se l’avete capito, sarà colpa del clima autunnale, sarà colpa delle piccole scosse di terremoto che da qualche settimana si aggirano in zona, sarà che ogni tanto ho voglia di riposarmi e non pensare troppo, ma proprio non mi viene in mente una ricetta da proporvi. Un piccolo conciliabolo di famiglia non mi stimola a sufficienza, vuoi vedere che sto andando in letargo come gli orsi ? Mia sorella Serena sta borbottando qualcosa con fare minaccioso (si fa per dire): “… e ricordati di andare a prendere la Mollana, è tre giorni che te ne scordi e ormai siamo senza ….. debbo fare tutto io ….. e poi …..”. Sarà meglio che vada a prendere la Mollana perché altrimenti chissà cos’altro mi faranno fare. Ma certo, la Mollana! Con tutta ‘sta storia del Montébore di qui e Montébore di là mi ero quasi dimenticato di uno degli altri deliziosi formaggi che si producono dalle nostre parti, indovinate un po’: la Mollana, non mi dite che non la conoscete! Si tratta di un formaggio di latte vaccino a pasta molle, di media stagionatura. Una volta, la forma rotonda di circa una ventina di centimetri di diametro e alta circa tre, veniva data con le "fresciele" di legno. La stagionatura minima è di una diecina di giorni, poi va a seconda dei gusti e dell’uso che se ne vuole fare. Per la ricetta che vi darò va bene una forma poco stagionata.

Ingredienti per l’impasto 500 g patate quarantine 150 g farina Sale, pepe

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Ingredienti per il ripieno 250 g di mollana Olio extravergine d'oliva Sale

Ingredienti per il condimento Una noce di burro Tartufo bianco

Preparazione Dopo averle lessate e pelate, schiacciate le patate su un tagliere, aggiungete la farina , sale e pepe a vostro gusto e impastate. Tirate la pasta non troppo sottile con il mattarello e, servendovi di un coppapasta (se non l’avete va bene anche un bicchiere) tagliate la sfoglia a dischetti. Nel frattempo, in una ciotola, avrete ben amalgamato la Mollana con un po’ d’olio e del sale, fino a raggiungere una consistenza cremosa adatta per il ripieno. Preparate i ravioli chiudendoli a mezza luna o, se preferite, sovrapponendo due dischetti di pasta, utilizzando una forchetta …. pardon …. i rebbi di una forchetta. Fateli cuocere in acqua per qualche minuto e, dopo averli scolati, passateli in padella con una noce di burro Serviteli con delle scaglie di tartufo bianco delle nostre Terre. In mancanza dei tartufi, ve li consiglio anche adagiati su un letto di funghi prugnoli, detti anche di San Giorgio, saltati nell'olio con del timo In assenza dei funghi prugnoli che, come ho già avuto modo di dirvi, si trovano a primavera, … beh, ma non avete proprio fantasia ? Io vado in letargo!

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Torta di mele Carla Della Val Borbera Continuavo a ruminare. C’era qualcosa che continuava a passarmi da una parte all’altra della bocca e non voleva saperne di diventare un boccone da mandare giù. Facevo finta di niente ma, non sapevo più come comportarmi di fronte a quei due amici che stavano felicemente festeggiando il proprio matrimonio e mi guardavano ansiosi in attesa degli agognati complimenti. Alla fine cedetti, accostai una mano alla bocca e sputai nel piatto il boccone. Un volante in bella vista su una montagnola di pasta di zucchero rosa con riflessi perlacei. Si, un volante d’automobile! In miniatura, s’intende. Ma cosa ci faceva un volante , sia pure in miniatura, nella mia bocca a un pranzo di matrimonio? Eravamo arrivati alla fatidica torta nuziale! I miei amici piccioni (anzi piccioncini) avevano ceduto alle lusinghe di un “cake artist” che li aveva convinti a scegliere un’ardita torta nuziale culminante in un’automobile cabriolet di color rosa con a bordo due giovani sposi. Forse il cake artist non pensava che qualcuno avrebbe osato addentare la sua opera d’arte, ma io, che sono un appassionato d’auto, non avevo saputo resistere e mi ero appropriato del cofano e del cruscotto, comprensivo del volante. L’incauto cake artist, forse per imperizia, forse per fretta o, forse, perché si usa cosi, aveva accessoriato l’auto con alcuni pezzi preconfezionati in plastica, tra cui il volante. I miei amici mi guardarono un po’ delusi e mi chiesero di assaggiarne un altro prezzo: “Grazie, ma i pistoni non mi vanno giù e le gomme mi risultano proprio indigeste!”. Una risata collettiva ci tolse tutti dall’imbarazzo. Perché vi ho raccontato tutto questo? Ma perché mi piace prendere le cose “alla larga” e avreste già dovuto capirlo da tempo! Ve l’ho già detto che noi valligiani siamo gente semplice che ama le cose semplici. Ed è a fare le cose semplici che bisogna essere artisti (artist).

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Quando l’ho raccontata a mia madre si è fatta una gran risata, ha tirato alcuni ingredienti fuori dalla dispensa e mi ha dato da pulire delle profumatissime “mele Carla della Valborbera”. Dai, che ci facciamo una bella torta di mele, gli artisti siamo noi!

Ingredienti 1 kg 80 g 150 g 100 g 50 g 2 ½ 2

di mele Carla di farina bianca di zucchero di latte di burro uova limone bustine d lievito in polvere

Preparazione Sbattete le uova con 100 g di zucchero per circa 15 minuti. Aggiungete la farina, il latte, la scorza di limone e il lievito, quindi versate il composto in una teglia di circa 26 cm. Distribuite sopra le mele affettate, il burro in fiocchetti e spolverizzate con lo zucchero restante. Fate cuocere in forno per 50 minuti a 170°. Servite fredda.

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Cipolle ripiene Guarda che in sala c’è un tizio che chiede dello chef, è un tipo un po’ strano. L’aria preoccupata di mia madre mi mise in allerta. “Che abbia sbagliato qualcosa e quello strano personaggio abbia da reclamare?” Ripercorro mentalmente i piatti serviti a quel tavolo e non penso di avere commesso errori imperdonabili: vado! In effetti quel tipo è un po’ strano: alto e robusto, capelli bianchi arruffati, occhialini d’oro e un basco in testa. Mi guarda e comincia a parlare in uno strano modo: una cantilena, in italiano con un vago accento spagnolo, intervallata da intere frasi in lingua spagnola, più rivolte agli altri commensali che non a me: ….. luminosa ampolla, petalo su petalo s'è formata la tua bellezza squame di cristallo t'hanno accresciuta e nel segreto della terra buia s'è arrotondato il tuo ventre di rugiada. Lo guardo e non so cosa dire. Gli altri commensali lo guardano ammirati e con gli occhi lucidi. .….. clara como un planeta, y destinada a relucir, constelación constante, redonda rosa de agua, sobre la mesa de las pobres gentes. Capivo e non capivo, parlava di terra che custodiva e alimentava una preziosa ricchezza per la mensa della povera gente.

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…. e quando ti taglia il coltello in cucina sgorga l'unica lacrima senza pena. Ci hai fatto piangere senza affliggerci. Non c’erano più dubbi, stava parlando della cipolla! Terminò subito dopo: y vive la fragancia de la tierra en tu naturaleza cristalina. Che non ha bisogno di alcuna traduzione. Nessuno applaudì e qualcuno si asciugò una lacrima con discrezione. Non era spagnolo, ma cileno e voleva ringraziarmi per la “delicadeza” di un piatto che aveva appena assaggiato. Per farlo non aveva trovato modo migliore che declamare i versi di un suo illustre conterraneo, un poeta anzi, come ci tenne a dire: il Poeta, Pablo Neruda. Mi raccontò anche di essere stato ai suoi funerali in una tristissima mattina di fine settembre del 1973. Poco più di un migliaio di persone seguivano il feretro di quello che era stato un grande Poeta, con un’espressione “fiera, triste e impaurita”, cantando, quasi sottovoce una canzone: ”la internacional”. Poco distante migliaia di persone erano tenute prigioniere nello stadio e nelle prigioni dove i militari del dittatore Pinochet cominciavano a torturare. Due giorni prima avevano assassinato un altro Poeta, il cantautore Victor Jara, …..”Quello che vedo non l'ho mai visto./ Ciò che ho sentito e che sento / farà sbocciare il momento”, i suoi ultimi versi. Adesso, quelli che prima avevano gli occhi rossi si asciugavano qualche lacrima e quelli che prima avevano qualche lacrima piangevano senza ritegno. E vi posso assicurare che le cipolle non c’entravano niente. Quando andarono via mi rimisi a cucinare per la sera, pensando alle cose dette, a quella “Ode alla cipolla” che, prima o poi, avrei dovuto leggere, a quei versi, “sobre la mesa de las pobres gentes”. Pensai a com’è piccolo il mondo e di come ci si può comprendere anche a migliaia di chilometri di distanza. “Sopra la mensa della povera gente”, come accadeva anni fa nelle case di tanta gente delle nostre terre. Mi dovetti asciugare una lacrima, …. ma perché stavo pulendo una cipolla. Anche per cena avrei preparato quel piatto, quella “delicadeza” che aveva tanto affascinato l’amico cileno. Una ricetta non tanto povera, per la verità ma, qualche volta bisognerà pure … sgarrare. 35


Ingredienti 4 cipolle 40 g salsiccia 150 g vitello tritato bene 30 g burro 1 amaretto pestato 5 cucchiai di parmigiano 2 uova 1 cucchiaio di grappa alcuni grissini pestati noce moscata sale e pepe burro per la pirofila

Preoarazione Soffriggete la salsiccia con poco burro e rosolatevi la carne. Lessate le cipolle per 15 minuti circa, tagliatele a metà, estraete la parte centrale, tritatela e unirla alla carne. Unite al composto 1 uovo, sale, pepe, noce moscata, parmigiano e amaretto. Riempite le cipolle e ponetele in una pirofila imburrata. Spruzzate con grappa, pennellate con uovo, spolverizzate con grissini e fiocchi di burro e cuocete in forno a 180° per circa 20 minuti. C’è proprio di che commuoversi.

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Pancetta cotta Qualche sera fa, a casa di un amico, ho visto delle poltroncine affiancate. Erano di legno compensato, molto ben tenute e risalivano agli anni ’30. Sai, mi diceva l’amico, sono delle poltroncine di un vecchio cinema di Milano …. guarda qui, su questo schienale s’intravede ancora una vecchia dichiarazione d’amore incisa con un coltellino: “ti amo”. Saranno molto romantiche queste poltroncine e se ci stai seduto solo per qualche minuto ti potranno sembrare anche comode, ma l’idea di passarci qualche ora per vedere un film mi fa sudare. D’accordo che un po’ dipende dalle mie dimensioni non proprio “small”, ma queste sono proprio piccole. Però, ora che mi ricordo bene, credo di essere stato seduto anch’io su poltroncine molto simili in una vecchia sala cinematografica della zona che adesso non esiste più. Mi avevano portato a vedere un film che parlava della vita di campagna, così com’era ai tempi dei miei bisnonni e forse anche dei miei nonni, tanto cambia poco. Avevo 7 o 8 anni e ricordo poco di quel film, però c’era una scena che non posso dimenticare e che già allora mi sembrava tanto familiare. Le ragazze, in sala, si abbracciavano sempre più strettamente ai fidanzati e le più sensibili chiudevano gli occhi inorridite e lanciavano qualche gridolino, mentre sullo schermo si susseguivano scene cruente e sonori un po’ raccapriccianti. Io, invece, guardavo incuriosito e non capivo il perché di tutto questo trambusto. Guardavo attentamente lo schermo con quella stessa curiosità con la quale alcuni bambini, protagonisti del film, assistevano a quello che già allora mi appariva come un antico “rito contadino” e non come una macabra vicenda. Quei bambini, appoggiati al muro, osservavano con malcelata indifferenza, l’andirivieni di uomini e donne nel cortile della cascina: il fuoco su cui era posto un enorme pentolone pieno d’acqua, gli uomini che lavavano, con delle grandi secchiate un massiccio tavolo di legno, l’arrivo di un carretto con un uomo verso cui tutti sembravano portare grande rispetto. Non c’era segno di emozione negli occhi di quei bambini, anche se di lì a poco sarebbero stati separati per sempre da quella che era stata una presenza quotidiana 37


che li aveva accompagnati per molti mesi, ai quali molte volte avevano portato anche da mangiare e, forse, fatto anche qualche carezza. Quei bambini, sembravano consapevoli di stare assistendo a un rito che faceva parte della vita contadina e che avrebbe contribuito ad assicurare una migliore qualità della loro alimentazione, altrimenti fatta di tanta polenta e poco altro. A dire il vero, mi agitai anch’io un po’ sulla poltroncina di quel piccolo cinema, ma ero piccolo e non soffrivo di quelle ridotte dimensioni che oggi mi metterebbero in crisi. A dire il vero, quel maiale spinto verso il norcino e tutto quello che ne conseguiva mi fece un po’ impressione: mi tappai le orecchie ma guardai tutto con estrema attenzione. Era proprio una bella storia quella di quel film: L’albero degli zoccoli. In questi giorni d’inverno, il rito si ripete ancora, sia pure in modi e forme diverse, ma i bambini non sanno più guardare e spesso non hanno la minima idea di cosa hanno nel piatto da cui stanno mangiando. Chissà, forse pensano che ci siano anche l’albero dei salami, quello dei prosciutti e quello delle pancette. A proposito di pancetta, vi voglio proporre una ricetta tanto semplice quanto poco conosciuta, ma non semplice da preparare.

Ingredienti e preparazione Prendete un bel pezzo di pancetta fresca e mettetelo per 24 ore sotto una salamoia fatta con 90% di sale e 10% di zucchero. Sciacquatela, preparate un trito di aglio e rosmarino che cospargerete all’interno, arrotolatela e legatela ben stretta, quindi fatela cuocere per 10 ore a 82 gradi. Lasciatela raffreddare e servitela affettata. In questo periodo dell’anno si gusta veramente con piacere.

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