100 capolavori dell’Accademia Carrara a cura di Giovanni Valagussa, M. Cristina Rodeschini e Paolo Plebani RASSEGNA STAMPA
«Antiquariato» • 1 aprile 2015
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«la Repubblica» • 23 aprile 2015
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«Avvenire» • 24 aprile 2015
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«Corriere della Sera» • 25 aprile 2015 Quotidiano
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«Panorama» • 13 maggio 2015
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«Corriere della Sera» • 13 maggio 2015
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Mercoledì 13 Maggio 2015 Corriere della Sera
Eventi
La guida
Tour in ventotto sale e gli appuntamenti con i Venerdì dell’arte
Dopo sette anni di restauri, l’Accademia Carrara, torna ai bergamaschi con 600 opere, in 28 sale. Orari: fino al 30/06 lun-giov 9-19; ven-dom 9-20. Dal 30/06 tutti i giorni 10-19 (chiuso il martedì). Allestimento di Maria Cristina Rodeschini e Giovanni Valagussa. Partner: Comune di Bergamo; Oltre Expo. Regione Lombardia; Fondazione Credito Bergamasco; sponsor: Camera di Commercio, Bergamo; Credito Bergamasco; Audi Bonaldi; Barachetti Service; CROWN Fine Art; top
sponsor: Brembo. La guida breve, edita da Accademia Carrara con Officina Libraria, è in italiano e in inglese a € 8. I testi sono a cura di Paolo Plebani, mentre il design è stato affidato a Lupo&Burscher, titolare anche della nuova identità visiva del museo. Ci sono infine i Venerdì della Carrara, incontri e appuntamenti ogni venerdì per il periodo di Expo. Dal 15 al 17 maggio, verrà proiettato il video «The regulating line» dell’artista Shahryar Nashat. Info su www.lacarrara.it.
Il museo Nelle sale dell’Accademia, riaperta dopo sette anni di restauri, una collezione di 600 opere dal Quattrocento all’Ottocento mette in luce non solo l’importanza della scuola pittorica locale ma anche la ricchezza delle raccolte private di Roberta Scorranese
L
a facciata primo ottocentesca ricorda due braccia aperte che invitano a entrare. L’atrio, poi una rampa di scale e ci si trova in una scintillante Commedia dantesca: volti, persone, smorfie, ritratti austeri, Madonne, Cristi in croce, fondi oro e sculture lacrimanti. Tutti dialogano con tutti, in un lungo racconto di nobiltà alternata a miserie, devozioni miste a stupore enigmatico moderno. La bellezza dell’Accademia Carrara, tornata ai bergamaschi dopo sette anni di restauri, è chiusa in questa narrazione intelligente di 600 opere diverse per epoca e stile, però qui contigue. Colloquianti. Forse le immaginava così il conte Giacomo Carrara (1714-1796), una vita trascorsa a dare la caccia alle madonne quattrocentesche. Fu lui a donare la ricca collezione a una istituzione che poi accolse anche i lasciti di Lochis, Morelli e infine di Federico Zeri. Ricostruendo, luce dopo luce, drappo dopo drappo, una geografia compiuta dell’arte (soprattutto pittorica) italiana, dal 1.400 all’alba del Novecento. Prima sala. Subito il Quattrocento, con il suo fulcro a Padova, dove Donatello detta legge. Guardate la Madonna con Bambino di Andrea Mantegna e quella malinconia dipinta (velature su tela di lino, la tecnica che del padovano fu la firma) sul piccolo che riporta saldamente le figure nel rigore spaziale, compensando i toni fiabeschi del mondo cortese. Ma c’è poco da fare e a guidare la danza è Pisanello: il Trecento si sente ancora nel Ritratto di profilo di Lionello d’Este, come a ricordare che il Medioevo è un collante tra le varie
RITRATTO DI CITTÀ
BERGAMO RISCOPRE LA SUA ARTE VIAGGIO TRA I GRANDI MAESTRI NEL RACCONTO DELLA CARRARA
Luce Carlo Crivelli, «Madonna col Bambino», 1482-1483
scuole che si stanno per moltiplicare nell’Italia centro settentrionale. Bergamo e Brescia sono ancora nell’orbita di Venezia, dove Carpaccio (qui godetevi la Nascita di Maria) non aveva ancora scelto il buen retiro dopo essere stato stregato da Giorgione. Però presto arriverà Lorenzo Lotto, inquieto e deciso a difendere il suo tratto realistico e mai compiacente. Ma senza fretta: la quarta sala ci spiazza con lo splendore della Madonna dell’Umiltà di Benozzo Gozzoli e, più avanti, la dolcezza del san Sebastiano di Raffaello, così poco ferito, così lontano dalla morte che coglierà il divino fanciullo urbinate a 37 anni. La luce. Il disegno (tipico della scuola toscana) che presto andrà a fare i conti con il tonalismo veneto. Botticelli troneggia nella quarta sala con la struggente Storia di Virginia Romana, ferita a morte dal padre per evitarle il disonore. Piani giustappo-
sti, maestosi, modernissimi. Ma tra Quattro e Cinquecento, c’è un altro maestro che a Venezia opera una silenziosa rivoluzione: Giovanni Bellini, meraviglioso regista delle sacre conversazioni a mezzobusto dove lo sfondo non è più un colonnato da sacrestia, bensì compare la nebbia delle vallate venete, sfumate — Leonardo, ricordiamocelo, a fine Quattrocento studiava anche le condense. Dalla scuola di Bellini arriverà Andrea Previtali da Brembate di Sopra, con questa Sacra Conversazione orizzontale che qui sembra un suggello: la pittura bergamasca e bresciana ha radici precise, con addentellati
Vite per immagini Le correnti artistiche qui si alternano per formare un affresco sociale e culturale
forestieri, spinte controriformistiche, stretta osservazione della realtà. Si guardi anche il Cristo Redentore con la Croce del bergamasco Cariani: ricorda le figure a mezzobusto di Antonello da Messina e anche qui le opere tornano a conversare. Questo quadro infatti apparteneva a Lucina Brembati, ritratta, poco più là, da Lorenzo Lotto. Si ciacola, insomma, come in una provincia dove tutti si conoscono e si riconoscono. Ma soprattutto si fanno ritrarre. Sarà proprio il ritratto, realistico o psicologico, beffardo o serioso, a mappare la scuola bergamasca. Si pensi a Giovan Battista Moroni (15221579) che diede spessore e tensione al sarto così come ai vecchi o alle nobildonne. La tradizione ritrattistica che fiorì a Bergamo a partire dal Seicento è alimentata da più fuochi: una nobiltà ricca e alacre, generazioni di notabili che amministravano terreni, le genti del clero. Tutto combaciava a creare uno spirito della memoria che trovò nel ritratto (austero come in Moroni o grottesco come in Fra’ Galgario) un formidabile strumento di racconto umano. La città si metteva in posa, mentre, dal Seicento inoltrato, Evaristo Baschenis deciderà di ritrarre «volti» diversi: frutta, verdura e strumenti musicali, con il medesimo senso realistico della grandeur. Si arriva all’Ottocento e alla pittura di storia e letteratura, alle umili ragazze di Pellizza da Volpedo, immortalate in una strana estasi angosciata. Ma le donne con il naso storto di Piccio e le vedove di Fra’ Galgario continuano a intrecciare fitti soliloqui che si intersecano nel cuore della città. Città che, poco alla volta, torna ad ambizioni antiche. Anche con l’arte. rscorranese@corriere.it
L’amore per il vero (e per i ragazzi) Fra’ Galgario, talento e nostalgia
È
solo un ragazzo, i tratti morbidi, lo sguardo furbo. La camicia è gonfia, le maniche sono rimboccate, i pantaloni cascano. I vestiti sono più grandi di lui, e anche l’espressione del viso. È il 1732. Fra’ Vittore Ghislandi lo fa posare, in mano la cannuccia con il gesso, esplode di colori, bianco, rosso, marrone. È un pittore da giovane. Vittore, invece, ormai è vecchio, e si rivede com’era. È nato a Bergamo nel 1655, figlio di pittore, battezzato come Giuseppe. A Venezia, che era ancora capitale di Bergamo, diventa Vittore, prendendo i voti al convento di San Francesco di Paola, dove si era allontanato per un amore femminile inviso alla famiglia
e forse unico nella vita. È stato a scuola da Bombelli in laguna e da Adler a Milano, i migliori ritrattisti dell’epoca. Dall’inizio del Settecento, è di nuovo a Bergamo, nel convento del Galgario, da cui il nome di Fra’ Galgario. Vive come un laico, in realtà, e il suo atelier, vicino alle celle e al refettorio, è un andirivieni di uomini e donne. E ragazzi. Fra’ Galgario ha un segreto, le lacche che realizza lui stesso, con procedimenti che non si sono ancora capiti del tutto, danno colori che nessun altro sa fare, toni caldi e freddi insieme, scintillanti e materici. Ma non è solo quello. È che lui sa cos’è un’anima; carica e adula, gonfia e ingentilisce, ma è tutto vero quel che dipinge. Di lui si conservano decine e decine di ritratti; forse, non è un caso se la sua scarsa pittura devozionale e deco-
rativa è tutta scomparsa. C’è il conte Secco Suardo senior con il panciotto giallo e il conte junior con un servitore rozzo, minaccioso, il serio avvocato Bettami de’ Bazini, e poi Francesco Bruntino, ricco mercante di umili origini, corrucciato e con una meravigliosa giacca rossa, e il conte Giacomo Carrara ritratto come se stesse abbottonandosi, con lo sguardo di chi non sa che anche da quel ritratto comincerà la sua collezione. Poi ci sono le donne, l’anziana e la nobildonna, con meno bellezza, forse perché il genere non lo faceva più impazzire. È come se avesse ritratto chiunque, Fra’ Galgario, come se ogni volto meritasse di restare, di essere raccontato. È il 1732, e Galgario decide di dipingersi. Si fa com’è, grasso, gli occhi tondi paiono chiari, fermi ma forse smarriti. Sullo sfondo,
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I toni caldi e materici vengono dalle lacche che lui si fabbricava da solo
Sguardi Ritratto di Francesco Maria Bruntino, di Fra’ Galgario, 1737. Sopra, lo scrittore Giovanni Montanaro, nato nel 1983
Alla Gamec le donne di Palma ● Di fronte alla Carrara, c’è la GAMeC, la Galleria d’arte Moderna e Contemporanea che, fino al 21 giugno, ospita la mostra «Palma il Vecchio. lo sguardo della bellezza», in una ideale continuità nella ricerca delle radici artistiche di Bergamo con la rinata Accademia. Entrambe le istituzioni formano un polo dell’arte sostenuto da Comune di Bergamo e Credito Bergamasco. Maria Cristina Rodeschini è responsabile di entrambe. Tra i lavori esposti, anche La bella (foto), del 1518
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Il personaggio
di Giovanni Montanaro
La galleria
sceglie un quadro che sembra proprio il ragazzo pittore. È bello pensare che decida di ritrarsi per mostrare di nuovo il ritratto di qualcun altro. Di quel ragazzo lì. La sua bottega è piena di giovani. Vengono a imparare il mestiere, ma, soprattutto, a fare scherzi atroci a questo vecchio che pende dalla loro bellezza. Forse, è solo che vanno di moda, si vendono bene. Più probabilmente, più dolcemente, è che gli piaccio-
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Dipinse lo stesso giovane, da quando era bambino fino ai vent’anni
no da matti, quelle figure maschili appena sbocciate, è un desiderio, vissuto, represso che sia, è gigantesco. Lui si diverte a rivestirli, ad acconciarli, le labbra quasi dipinte e quegli sguardi, sospesi tra il puro e il perduto. La tradizione vuole che il modello preferito, ripetuto ossessivamente, tanto da non sapere esattamente in quali quadri sia lui o qualcun altro, fosse il Cerighetto, il chierichetto. Ritratto da quando era un bambino fino ai vent’anni in cui, troppo presto, morì. E forse è solo una suggestione, ma mi pare che Fra’ Galgario continui a dipingerlo anche quando non c’è più. Sono gli ultimi anni della sua vita. Non usa più la tavolozza; un tremito delle mani lo costringe a usare le dita. Ma è tutta la vita che è scossa da quella morte insaziabile. E così, pare che dentro ai volti che dipinge ci sia meno scherzo, meno forza, ma una dolcezza e un dolore improvviso, una grazia che forse appartengono a quella creatura perduta, che ritorna nei volti degli altri, perché, in fondo, si crea sempre qualcosa che si è, che si ama o si cerca. © RIPRODUZIONE RISERVATA
EVENTI
Corriere della Sera Mercoledì 13 Maggio 2015
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In esposizione
Da sinistra, Raffaello, «San Sebastiano», 1501; Sandro Botticelli, «Ritratto di Giuliano de’ Medici», 1478-80; Giovanni Bellini, «Ritratto di Giovane», 1475; Bergognone, «Madonna del Latte», 1485; Pellizza da Volpedo, «Ricordo di un dolore», 1889
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Presenze femminili
Uno scorcio della sezione dedicata all’Ottocento alla Pinacoteca Carrara. In primo piano il «Busto di donna con pelliccia», di scultore italiano della prima metà del XIX secolo
● Il commento Fuori dal cono d’ombra della metropoli Milano di Riccardo Nisoli
L’
attesa riapertura dell’Accademia Carrara dopo sette anni di restauri appare come il simbolo del rinascimento culturale di Bergamo, degna riscossa dopo il fallimento della candidatura a capitale europea del 2019. La rinnovata Pinacoteca, che riluce in una veste elegante e internazionale, non è la sola stella a brillare in questa sorprendente primavera dell’arte. Davanti alla Carrara, nella Galleria d’arte moderna e contemporanea, sono esposti i capolavori di Palma il Vecchio, il maestro di Serina che ha vissuto nella Venezia di Bellini, Giorgione e Tiziano. «Lo sguardo della bellezza» è una straordinaria monografica con dipinti prestati dai principali musei d’Europa, tra cui il Louvre, la National Gallery e l’Ermitage. A curare la mostra è la stessa Fondazione Creberg che dal 7 maggio ha portato nella sede del Credito Bergamasco l’imponente Maternità di Previati, caposaldo del divisionismo, insieme alle opere più importanti della collezione del Banco Popolare. E intanto procede, nonostante le difficoltà a trovare sponsor, la raccolta di fondi per il restauro del Teatro Donizetti. Un fermento che non ha pari negli ultimi due decenni per una città che ha sempre faticato ad affrancarsi dalla «dittatura» culturale di Milano, e talvolta anche di Brescia (ricordate le mostre di Goldin?). Ora, grazie a questi eventi, Bergamo esce finalmente dal cono d’ombra della metropoli. Storicamente assoggettata a un dominio esterno (visconteo fino al primo quarto del XV secolo e quindi per tre secoli, con brevi parentesi, veneziano), la Città dei Mille prova a imporsi come polo culturale autonomo, con proposte di elevata qualità, di cui la pinacoteca Carrara, salutata da un boom di visitatori, è il fiore all’occhiello. Una ribalta da piccola capitale. Nei fatti. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il quadro di Francesca Bonazzoli
Quella dama benestante di Lotto icona dei volti «acqua e sapone»
P
er non essere semplici accozzaglie, anche le collezioni d’arte devono avere un carattere unico, esattamente come un sorriso o uno sguardo. La peculiarità della Carrara dunque sono i ritratti: tutti magnifici, senza eccezioni, e per lo più appartenenti a notabili vissuti fra Bergamo e Brescia, circostanza che trasforma le sale della Pinacoteca bergamasca in quelle di un’avita dimora di famiglia. Proprio fra Milano e Venezia lavorarono alcuni dei ritrattisti più grandi della storia dell’arte, come Lotto, Moroni, Ceruti, Fra’ Galgario, al servizio della nobiltà locale, di piccoli notabili, borghesi e anche del popolo. Tutti questi volti hanno la caratteristica di essere «acqua e sapone», vale a dire non alterati dal trucco dell’encomio sotto cui i pittori di Venezia, Roma o Firenze nascondevano i difetti. Perfetto esempio di questa ritrattistica sincera è la signora ingioiellata e infiocchettata dipinta da Lorenzo Lotto col doppio mento, il naso aquilino, le mani grassocce e quell’aria da provinciale benestante che mai la farebbero scambiare per una sofisticata veneziana. Fino al 1913 l’identità della dama era rimasta misteriosa, ma poi Ciro Caversazzi riconobbe nell’anello all’indice della mano sinistra lo stemma nobiliare della famiglia Brembati e osservando che dentro la luna, sopra la testa della signora, erano scritte le lettere C e I, ar-
La gaffe
Il «Ritratto di Lucina Brembati» (1518 circa) a opera di Lorenzo Lotto. Il dettaglio più curioso è quel pendaglio a uncino, un gioiello stuzzicadenti molto alla moda all’epoca finché Monsignor della Casa, autore del Galateo, non ne decretò la sconvenienza in uno dei suoi scritti
rivò al nome dell’effigiata risolvendolo come un rebus: CI dentro Luna, uguale Lu]CI]na. Lucina Brembati, ecco dunque chi era quella signora. Si era sposata il 24 maggio del 1508 con Leoncino Brembati, membro di un altro ramo della famiglia. Inutile dire che il matrimonio funzionò a perfezione nel mantenere unito il patrimonio di famiglia e infatti la signora (che nel ritratto aveva circa trent’anni) fa sfoggio di collane di perle, anelli, vesti di seta, e di uno zibellino intero, uno dei segni di eleganza più
ricercati della moda femminile cinquecentesca nel territorio veneto. Lo strano monile d’oro a forma di uncino che le pende al collo era invece un gioiello stuzzicadenti, anch’esso molto alla moda finché monsignor Giovanni Della Casa, nel suo Galateo pubblicato nel 1559, non ne decretò la sconvenienza dell’uso: «E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti, erra senza fallo». Non stupisce che a concepire un simile quadro fu Lorenzo Lotto, «il genio inquieto del Rinascimento», personalità enig-
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Il pittore non voleva nascondere i difetti: la signora ingioiellata è una provinciale con le mani grassocce e il doppio mento
matica, a disagio con tutti, ansioso, melanconico, ipersensibile, pessimista, appassionato di enigmi e alchimia, ritrattista di Lutero, eppure al servizio fino ai suoi ultimi giorni dei Domenicani, i guardiani dell’ortodossia contro le eresie. Fu uno dei più illustri pittori veneziani e tuttavia non trovò mai fortuna nella sua città. Ostinato nel suo linguaggio privo di adulazione e retorica e più incline a uno stile arcaicizzante, senza monumentalità e misura classica, fu sbaragliato dal successo di Tiziano, il quale sapeva invece come lusingare i suoi committenti con magnifici ritratti. Al contrario, la sincerità caratteriale del Lotto gli impediva di idealizzare i volti dei clienti così che le sue donne non hanno mai la bellezza sfrontata e la sensualità di quelle di Tiziano, ma appaiono tutte un po’ bruttine, come erano nella realtà. Lorenzo Lotto quindi fu costretto a lasciare Venezia e a esportare il suo «sermo humilis» in giro per l’Italia peregrinando fra Treviso, Bergamo e le Marche. La provincia e la borghesia si attagliavano al suo carattere più dell’aristocrazia e dello spirito pagano della Chiesa di potere. Nemmeno in Vaticano ci fu posto per Lotto. I suoi affreschi furono cancellati da Raffaello i suoi giorni melanconici finirono nel santuario di Loreto dove Lotto prese, alla fine, i voti come oblato. © RIPRODUZIONE RISERVATA