Estratto: Bramantino a Milano, Giovanni Agosti

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Bramantino a Milano Giovanni Agosti

Ragioni, politiche, di questa mostra Quando, nel luglio scorso, l’Assessore alla Cultura ci ha usato la grande cortesia d’interpellarci sul tema di una mostra da allestire in questa primavera a Milano, non abbiamo esitato a dichiararci per la soluzione più semplice. Proporre cioè alla lettura del pubblico un brano meno noto, ma ben scelto, della vicenda dell’arte lombarda. Un brano che fosse vigorosamente «regionale» senza essere provinciale; un brano che potesse andare in scena dignitosamente anche in tempi di crisi economica. Non che un poco di risorse in più avrebbe nuociuto alla mostra, anzi: si sarebbe così tentato di convocare a Milano il Filemone e Bauci da Colonia o l’Adorazione dei Magi da Londra, il Cristo lunare da Madrid o il Compianto da Bucarest: tutti dipinti che, per le loro dimensioni, avrebbero potuto – in linea di principio – affrontare lo stress di un viaggio per raggiungere il luogo dove cinquecento anni fa erano stati eseguiti. Ed essere presentati, per la prima volta, accanto ai loro compagni. La scelta era infatti caduta, senza esitazioni di sorta, su Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, genio numero uno dell’arte lombarda del Rinascimento. Un artista che fin qui, nonostante le predilezioni, anche militanti, che molto del migliore Novecento gli ha riservato, non ha ancora goduto il piacere e il vantaggio di un’esposizione monografica a lui interamente dedicata e per di più nella città dove ha lavorato per quasi tutta la sua esistenza. Non che siano mancati in passato i tentativi di mandare in porto un’operazione del genere, auspicata già fin dal 1952 da Roberto Longhi, come a dire dal massimo storico dell’arte del secolo passato, che proprio a Milano, alle mostre di Milano aveva dedicato una parte consistente delle energie civili della sua avanzata maturità. Quando Palazzo Reale era – come scriveva Giovanni Testori – «invidiatissimo, invidiatissimo da ogni angolo del mondo». Eppure, anche in un momento così difficile come quello che stiamo attraversando, è possibile un’esposizione sul Bramantino, che riesca a dare conto – con le sole risorse locali – della statura dell’artista e a farlo annettere, così ci auguriamo, al menu, sempre più ristretto, delle predilezioni diffuse, che rischiano altrimenti di arenarsi tra le scogliere degli impressionisti e il maledettismo del Caravaggio (una nemesi per Longhi che aveva posto, a ragione, queste esperienze figurative tra i vertici dell’arte di tutti i tempi). Infatti gran parte delle opere del Bramantino si conservano a Milano, divise tra istituzioni diverse, che pur le annoverano tra i capolavori delle loro raccolte; per altri artisti una soluzione del genere non sarebbe stata applicabile: difficile che un Raffaello a Milano o un Tiziano a Milano possano dare conto del peso effettivo di quegli autori, dello sviluppo delle loro carriere: in altri casi, e per fortuna, il modello qui sperimentato ci pare replicabile. Infatti il progetto 20

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che sta dietro a questa mostra è volto anche a verificare la possibilità che le raccolte della città, non escluso il buon collezionismo privato, scoprano o riscoprano la volontà di collaborare tra loro per un fine comune: un incremento di conoscenza, percorsa persino da brividi di piacere, che dia vita a una crescita civile. Per questo la mostra si rivolge al grande pubblico, secondo forme nuove di partecipazione: non intendendo i visitatori come clienti, da cui ottenere i soldi del biglietto o a cui vendere magneti e magliette, ma come cittadini – in primis, persone – a cui sono offerti strumenti di formazione e comprensione. E sono offerti gratuitamente, riprendendo una vecchia consuetudine del Comune di Milano, di cui chi scrive ha molto approfittato in gioventù. Quando gli enti pubblici erano produttori in proprio di cultura, senza forme di mediazione esterne, attingendo unicamente a chi era in forza nei ranghi dell’amministrazione e chiedendo il contributo disinteressato di studiosi di provata competenza. La gratuità sembra oggi diventata invece una serie B del consumo culturale: come se una manifestazione offerta a tutti fosse di per sé di scarso rilievo. Conoscendo meglio ciò che ci circonda, si procede a una messa in luce delle proprie ragioni espressive, si entra in possesso di strumenti di autocoscienza culturale, si riducono i margini di passività: in maniera adulta e capace si è in grado di esprimere il proprio, personale, punto di vista sulle cose e sulla storia. Speriamo che il gesto non suoni pateticamente retrospettivo, come a molti – non solo a Milano – farebbe piacere (o comodo). Che i dipinti e i disegni del Bramantino si dovessero riunire al Castello Sforzesco era fuori di dubbio fin dal principio dell’impresa: tra le mura inespugnabili della Rocchetta, nella sala del Tesoro, l’artista ha dipinto per Ludovico il Moro il gigantesco murale con Argo, il mitico guardiano costretto a vegliare – con le sue forme possenti – le ricchezze del tesoro sforzesco. Questo affresco, uno dei capolavori dell’arte europea intorno al 1490, è naturalmente inamovibile e ben poco noto fuori dalla cerchia degli specialisti: si trova infatti in una sala della Biblioteca Trivulziana che, per quanto dedicata alle esposizioni, non fa parte del percorso di visita più consueto ai frequentatori del Castello di Milano. Proprio sotto l’Argo, in una sala pesantemente carica di segni della storia (anche di quella recente: dai sogni con i piedi per terra di Luca Beltrami agli equilibri formalisti, e non meno arbitrari, dei BBPR), si è pensato di riunire i dipinti e i disegni del Bramantino. A Milano infatti la Pinacoteca di Brera, la Pinacoteca Ambrosiana e le raccolte civiche conservano il nucleo più grande al mondo di opere di questo artista, il cui catalogo è veramente ristretto, non raggiungendo nemmeno – grafica inclusa – che poche decine di unità. Tra i pezzi più preziosi ci sono i dodici arazzi con i Mesi, tessuti da Benedetto da Milano e dai suoi collaboratori su cartoni del Bramantino, che il Comune di Milano ha acquistato nel 1935 da Luigi Alberico Trivulzio e che costituiscono uno dei vanti, spesso ignorati, del patrimonio pubblico cittadino: in quest’occasione saranno ripresentati nella sala della Balla – soprastante alla sala del Tesoro – secondo nuove modalità, che permetteranno di meglio comprendere il significato di questo ciclo con ben pochi paralleli, per fedeltà al reale e bizzarria d’invenzioni, nella tradizione figurativa italiana. Se apprezzata, questa soluzione espositiva sarà un lascito concreto alla città. Per tutto questo ci è sembrato più onesto intitolare la mostra Bramantino a Milano: evidentemente non sono questi i tempi per un Bramantino tout court. 22

Riuscire a riunire questi dipinti e questi disegni è stato – chi l’avrebbe immaginato in partenza – notevolmente complicato. Per fortuna è prevalso, nonostante i tempi e le cattive abitudini, un senso di solidarietà civica, per cui le istituzioni hanno alla fine compreso le intenzioni del progetto, morali prima ancora che scientifiche. Speriamo tutto questo suoni come test, come prova generale per imprese più vaste e complesse, all’altezza di quello che è stato il paesaggio culturale della città, delle sue remote tradizioni espositive che l’hanno vista – in anni neanche troppo lontani – all’avanguardia critica per rigore di analisi, varietà di riscoperte, vigore di sintesi. La strada che si era avviata con il miracolo del Caravaggio nel 1951 ed era arrivata, per tappe memorabili, fino al Seicento Lombardo nel 1973; ma della partita faranno ancora parte – era il 1982 – lo Zenale (al Poldi Pezzoli) e l’Hayez (felicemente diffuso per la città). Il Bramantino del 2012 è stato costruito, in fretta e furia, in un paesaggio dominato dalle rovine come un segno di riscatto: la disponibilità dimostrata dai funzionari del Comune è stata tangibile, un moto d’orgoglio di cui speriamo il pubblico si avveda. In un momento difficile, senza soldi, si sono viste maniche rimboccate e il piacere, perfino il divertimento (nei più giovani), di sperimentare forme differenti di lavoro, di riprendere il filo di consuetudini dismesse, aggiornandole con strumentazioni una volta neanche immaginabili. Tra le prime a capire tutto questo c’è stata Paola Nicolin; innumerevoli sono i debiti di riconoscenza nei confronti di Simone Percacciolo. All’impegno davvero fuori dell’ordinario di chi sta alla testa del Settore Musei, Claudio Salsi, e alla flessibile e intelligente disponibilità di chi guida l’attività espositiva pubblica, Domenico Piraina, coadiuvati entrambi da conservatori e collaboratori capaci, ha fatto riscontro la generosità di chi ha prestato gratuitamente le proprie competenze. E non solo quelle di chi ha studiato con noi e ha inteso questa ricerca come un momento della propria formazione: non lo sfruttamento sottocosto di una manodopera, come capita di norma nel mercato delle schede di catalogo a cui i giovani non riescono o non possono sottrarsi. Lo studio di Michele De Lucchi, in primis Angelo Micheli, ha compreso al volo il nostro desiderio che l’allestimento della mostra richiamasse, con i dovuti aggiornamenti nella tecnologia e soprattutto nella sicurezza delle opere, le presentazioni del dopoguerra: a evocare, idealmente, un’analogia di situazioni; le soluzioni scelte non sono imposizioni ma esiti di ragionamenti in comune, persino quello sui colori per i pannelli, intesi quasi fossero gli screen di Gordon Craig. Le vernici sono state offerte dalla prediletta Farrow & Ball, già compagna nell’impresa del Mantegna al Louvre nel 2008: stavolta Cornforth White. La messa in opera del progetto è stata opera dell’architetto Giorgio Sebastiano di Mauro, in forza presso il Comune di Milano. Il contenimento delle spese non deve però andare a scapito delle esigenze dello stile; sono troppi infatti gli allestimenti delle mostre italiane in cui i curatori, scontenti in camera caritatis, non sanno che risponderti di fronte alle obiezioni sul ricorso al medesimo professionista, notoriamente incapace: «però costa poco». Nel segno di una continuità con la tradizione che ha dato alla Milano del Novecento forme grafiche chiare ed efficienti per i servizi pubblici, Francesco Dondina ha progettato gli apparati di comunicazione visiva destinati all’esterno ma anche quelli all’interno delle sale. Alessandro Uccelli, alla ricerca del cinema di poesia, ha realizzato un breve filmato per fare 23


Fig. i Bernardo Prevedari, su disegno di Bramante, Interno di tempio con figure (incisione Prevedari), 1481, Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli»

conoscere ciò che è stato impossibile portare negli ambienti della mostra: in primis i sensazionali ritrovamenti di Voghera, non ancora adeguatamente valorizzati, ma anche – a Milano – cantine, scale, servizi e sottotetti della Cappella Trivulzio o i frammenti decorativi riemersi nella residenza di Sebastiano Ferrero, oggi felicemente occupata dal Piccolo Teatro. Sul filo di una vecchia complicità Paolo Landi ha messo a nostra disposizione le sue capacità di relazione per fare conoscere al mondo dei giornali il progetto specifico di questa iniziativa; della divulgazione della mostra e delle manifestazioni collaterali, che abbiamo progettato perché questo Bramantino a Milano raggiunga fasce di pubblico le più varie – e cioè presentazioni di libri che occupano un posto di rilievo nella nostra genealogia culturale o seminari in cui aprire alla città pratiche universitarie difese con i denti –, si è fatta carico Luana Solla. Ci hanno sorpreso l’interesse e il calore dimostrati dalle tante persone e istituzioni, dagli Amici di Brera al FAI, che a rotta di collo sono state contattate per pareri, informazioni, controlli: e non si trattava sempre e solo di amici; altrove gli elenchi di rito ne danno conto, ma non ci si può esimere dal rammentare i fili riannodati con casa Trivulzio, grazie alla disponibilità di Alessandro, Annibale e Marta Brivio Sforza: speriamo che questo sia l’avvio alla ricostruzione di pagine cruciali del collezionismo milanese. Ancora una volta la funzione civile del Piccolo Teatro si è dimostrata nella generosità con cui Sergio Escobar ci ha permesso di esplorare gli ambienti di via Rovello, da cui non è escluso provenga uno dei dipinti più teatrali del Bramantino. Le ragioni del Bramantino Con la velocità di un lampo tra gli artisti di Milano non si fa altro che parlare, intorno al Natale del 1481, di quanto ha appena realizzato l’orafo Bernardo Prevedari: è stato capace di incidere una lastra d’ottone, alta più di settanta centimetri e larga più di cinquanta, su cui ha riportato – dietro richiesta del pittore Matteo De Fedeli, che poi ne entrerà in possesso – un disegno su carta di Donato Bramante con un’immagine quale fin lì non si era mai vista (fig. i). E come non si vedrà neppure dopo. Il contratto, stilato il 24 ottobre, si limitava a fare parola di «hedifitiis et figuris». Per l’appunto un edificio all’antica mezzo in rovina, sovraccarico di decorazioni, in cui si trovano figure di tutte le età, vestite in abiti contemporanei: chi a cavallo e chi a piedi. Le identità di tutti i presenti tra quelle grandiose navate sono misteriose – c’è persino un re immerso nell’ombra – e vane le speculazioni avanzate finora; chi è, per esempio, il cardinale – a denotarne il rango il cappello retto da un paggio – in quinta, sulla sinistra? Lo stile che impronta la scena è quello che in quel momento va per la maggiore in città: non è stato però elaborato a Milano, ha il suo epicentro a Ferrara. Lì infatti si è messo a punto tra gli anni Sessanta e Settanta un linguaggio dai caratteri fortemente espressivi, nato all’ombra del soggiorno padano del fiorentino Donatello reinterpretato però con assoluta bizzarria; i campioni di quello stile, così influente sulle vicende dell’arte in Lombardia, sono Cosmè Tura, Francesco Del Cossa ed Ercole De Roberti: tra loro non poco diversi e diversamente influenti, ma accomunati da una febbre figurativa altrettanto intensa.

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Fig. ii Bramantino, Madonna con il Bambino, 1485 circa, Boston, Museum of Fine Arts

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Dalla lastra incisa, non proprio magistralmente, da Prevedari chissà quanti esemplari sono stati tirati e in quante mani sono passati; ne restano soltanto due e nemmeno ben conservati. Calcati e ricalcati, forati, strausati, si saranno consumati; inevitabile poi gettarli via per fare gli stracci. Eppure erano opere dell’architetto Donato Bramante, arrivato a Milano da poco, reduce da anni di apprendistato alla corte urbinate di Federico da Montefeltro, segnata dalla lezione di Piero della Francesca, e da verosimili anni di pellegrinaggio tra Ferrara e Mantova (che voleva dire, in quel momento, Mantegna, al culmine della sua fama, conclusa da poco la Camera degli Sposi): bramantv|s fecit | in m(edio) l(an)o sta scritto sul plinto del candelabro in secondo piano, sovrastato da una croce, unico segno cristiano, a stento visibile in quell’emporio antiquario, retto da severe ragioni prospettiche. Non si fatica a immaginare che tra i primi fanatici di quella stampa, materialmente realizzata in casa di Matteo De Fedeli da Prevedari, un artefice originario della bergamasca Valle Imagna, ci sia stato un apprendista orafo giunto a Milano proprio da Bergamo. L’8 dicembre 1480 la madre del ragazzo, Pietrina da Sulbiate, lo aveva messo a bottega da Francesco De Caseris (doc. 1). È la prima traccia documentaria che fa il nome di Bartolomeo Suardi, «de Pergamo» per l’appunto. Sotto quel maestro il giovane, orfano di padre, dovrà stare per sei anni, andandoci a vivere insieme: non è del tutto inesperto però. Madre e figlio abitano in quel momento nella zona di San Babila, nel centro di Milano, e lì o lì attorno l’artista vivrà tutta la vita. La formazione di Bartolomeo avviene quindi nel mondo dell’oreficeria, ma ben presto sembra prendere le distanze dalla pratica attiva di quell’arte, che pure tanto deve avere contato per lui, visto che nelle sue opere più antiche il segno presenta un tratto affilato, feroce, spigoloso e soprattutto estremamente controllato, che denuncia quel genere di tirocinio. Non è troppo difficile supporre che il pittore più consono a queste scelte figurative fosse a Milano Bernardino Butinone, originario di Treviglio, una località non distante da Sulbiate e da Bergamo. Alla metà degli anni Ottanta Butinone, che «talora […] riesce più ferrarese dei ferraresi» (Longhi), è impegnato con il suo giovane compaesano Bernardo Zenale – documentato per la prima volta a Pavia nel 1477 insieme a Bonifacio Bembo, l’ultimo alfiere della tradizione tardogotica lombarda – a realizzare proprio per l’altar maggiore della basilica di Treviglio, intitolata a San Martino, un imponente polittico, concluso prima del gennaio 1491. In questa grande macchina, dorata e prospettica, dove le responsabilità dei due artisti sono ancora argomento di discussione, si è autorevolmente suggerito di avvertire la presenza del giovane Bartolomeo: o come autore, alle costole del maturo Butinone, del San Giovanni Evangelista nello scomparto superiore di destra (Romano) o come ispiratore di quella medesima figura, che in questa diversa ottica sarebbe però realizzata da Zenale (Ballarin). In qualunque modo si risolva la questione, resta che alcuni dettagli di questo polittico costituiscono l’introduzione più adatta a intendere le prime prove autonome di Bartolomeo. E non sarà allora un caso che la Madonna con il Bambino ora a Boston (fig. ii), un dipinto di piccolo formato, destinato alla devozione privata, sia stata creduta in passato, e anche da critici illustri, un’opera di Butinone. Non deve distare molto dal 1485, cioè dai verosimili vent’anni di Bartolomeo; già da questa primizia il pittore dichiara una predilezione per scelte 27


anticanoniche: basta guardare – a confronto con le Madonne contemporanee dei suoi conterranei Foppa o Bergognone – il castello che si specchia nell’acqua, la ciotola vuota in primo piano, il Bambino-Titano esibito o il seno innaturale di Maria. Bartolomeo ha già colto il timbro espressivo che gli sarà proprio: assenza assoluta di sentimentalismo, relazioni cerebrali tra uomini e tra uomini e cose, mentre invece la rappresentazione figurata delle emozioni, affettate (Perugino) o vere (Leonardo), si avvia a diventare d’attualità. Ancora più nuovo è il modo con cui l’artista affronta la raffigurazione di un tema mitologico, praticamente senza precedenti: la favola di Filemone e Bauci, narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (viii, 620-724) e liberamente interpretata per l’occasione (fig. iii). Sette episodi sono inseriti in un’unica immagine, con una disposizione che esige da parte dello spettatore la conoscenza del soggetto raffigurato. In secondo piano sulla destra Giove e Mercurio, travestiti da pellegrini, chiedono ospitalità, dopo avere bussato invano a molte porte, a Filemone, un anziano e povero contadino della Frigia, che li accoglie. Come si vede all’estrema destra, egli si preoccupa di preparare loro da mangiare mungendo una mucca: un dettaglio assente dai versi di Ovidio. Il centro del dipinto è occupato dalla tavola a cui sono seduti gli dei, intenti a consumare il pasto loro offerto da Filemone e dalla sua vecchia moglie Bauci: a un certo punto il recipiente del vino comincia miracolosamente a riempirsi da solo; i due coniugi dapprima si stupiscono e poi si inginocchiano in preghiera davanti alla mensa. Intorno al tavolo gli dei sono raffigurati una volta sola, mentre Filemone e Bauci compaiono due volte. Per arricchire il pasto i contadini decidono di sacrificare la loro unica oca, ma a questo punto gli ospiti palesano la loro natura divina, impedendo l’uccisione dell’animale: è l’episodio raffigurato a sinistra. Il resto della commovente favola, inclusa la punizione dei Frigi inospitali tramite un diluvio, non è rappresentato se non nel suo epilogo: la trasformazione della capanna di Filemone e Bauci in un tempio, che campeggia al centro, sotto la catapecchia, e quella, successiva, dei due contadini in alberi destinati a vegliare l’edificio sacro. Il popoloso dipinto, conservato a Colonia, è eseguito su una pergamena di dimensioni considerevoli (cm 57,5 5 78); il supporto potrebbe spingere a immaginare che Bartolomeo avesse consuetudine con la pratica della miniatura, come del resto – a stare a una fonte del Seicento – sembra avesse il suo verosimile maestro Butinone. Non è difficile sopravvalutare l’importanza del Filemone e Bauci: una raffigurazione autonoma di un episodio mitologico, non il riquadro di un ciclo affrescato di tema profano come pure si erano visti esempi in Lombardia; niente strascichi cortesi nella pergamena di Colonia ma neanche la resurrezione del paganesimo antico, progettata con romantica coerenza archeologica, da Mantegna. Piuttosto la ricerca di un timbro espressivo alto, quasi sacrale, come a sfuggire i dettagli di un tempo storico determinato, quello su cui si stava contemporaneamente affaticando proprio Mantegna per dare vita all’epica dei Trionfi di Cesare (fig. 47). Basta confrontare il cielo affocato e struggente delle tele ad Hampton Court con quello limpidissimo, con le nuvole strappate dal vento, del dipinto di Colonia. Non dista molto dal Filemone e Bauci l’Adorazione del Bambino della Pinacoteca Ambrosiana di Milano (cat. 1), in cui maggiormente si avverte la consentaneità di Bartolomeo con le prove più esasperate della scultura lombarda contemporanea. 28

È facile trovare confronti tra i bassorilievi scistosi e i panneggi cartacei e i teatrini di pietra: quelli che erano detti mantegazzeschi (e non manca chi ancora oggi ricorre a questo aggettivo sbagliato) ma che è più corretto imputare a Giovanni Antonio Piatti e alla bottega di Giovanni Antonio Amadeo, il più fortunato scultore lombardo del secolo (figg. iv-v; 5). Nella tavola dell’Ambrosiana ancora una volta le stranezze iconografiche non mancano, combinate a un linguaggio già altissimo e personale; basta guardare il tronco d’albero, ritorto e spoglio, che si staglia in alto a sinistra sul cielo color latte: nessun uccello ci si poserebbe sopra, come su quelli del giovane Mondrian. O la testa della Vergine con la cuffia che nasconde il cranio calvo, quasi stesse facendo la chemioterapia. O la donna all’estrema destra che, tra lenza e coazzone, rappresenta in qualche modo l’antitesi della coeva Dama con l’ermellino. Bartolomeo ha ormai lasciato dietro le spalle, per la complessità dell’immagine ma anche per la tensione stilistica, Butinone; impari è il confronto

Fig. iii Bramantino, Filemone e Bauci, 1485 circa, Colonia, Wallraf-Richartz-Museum

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Fig. iv Giovanni Antonio Piatti, Virtù teologali (Carità, Speranza, Fede), 1478-1480 circa, Parigi, Musée du Louvre (particolare) Fig. v Bramantino, Adorazione del Bambino, 1485 circa, Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca (particolare)

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infatti con le prove, dal medesimo tema, del pittore di Treviglio: sia con la più antica tavoletta della National Gallery di Londra, appartenente a una serie dello scorcio degli anni Settanta, di cui si è sopravvalutata l’importanza, sia con lo scomparto, maggiormente sostenuto di qualità, della predella del polittico di Treviglio (fig. vi). Che le strade tra i due siano ormai divaricate lo dice bene un exploit del più vecchio: il Cristo portacroce nella basilica di Santa Maria del Monte a Varese, un colpo d’ala dello scorcio del decennio, in cui Butinone, oltre a ribadire le antiche predilezioni prospettiche, prova il pedale dell’umorismo. Quando nel 1487 Bartolomeo affitta da Percivalle Negri, il cognato del pittore Antonio Raimondi (una vera primula rossa dell’arte lombarda), una casa tutta per sé a Porta Nuova (doc. 2), sulle sponde del Naviglio che delimita la parte più interna della città, è perciò probabilmente già in grado di mantenersi con il proprio lavoro di pittore. Il padrone di casa è un miniatore importante, impegnato a decorare libri liturgici per la Certosa di Pavia, ammirati ancora nei secoli successivi; se fossero esatte le ipotesi di identificazione delle sue opere (fig. vii), rischierebbe di essere un artista coinvolto nella vague filoferrarese e anche uno dei primi a fare trapelare le sperimentazioni bramantiniane nel mondo del libro. Tra i nuovi vicini di Bartolomeo c’è lo scultore e architetto Lazzaro Palazzi, cognato dell’Amadeo, che si sta avviando – come era già successo a Piatti – a diventare architetto anche lui (del 1488 è la nomina a ingegnere ducale, del 1490 quella a ingegnere capo della Fabbrica del Duomo). Il dirimpettaio di Bartolomeo era sul punto di assumere la responsabilità di uno dei cantieri che segnano la storia di Milano: l’enorme lazzaretto, con le «interminate fughe di portici» (Manzoni), per gli ammalati delle frequenti pestilenze, costruito a partire proprio dal 1488 subito fuori da Porta Orientale, l’odierna Porta Venezia. Per Bartolomeo deve rappresentare però una maggiore novità quanto Bramante in quei giorni sta progettando per il suo amico, e consigliere ducale, Gaspare Visconti, uno dei poeti più in vista alla corte del Moro. Il 10 ottobre 1486 Visconti acquista un’abitazione al primo piano di un edificio in via Lanzone, alle spalle della basilica di Sant’Ambrogio. L’artista marchigiano inventa, a spron battuto, la decorazione di almeno un paio di ambienti: nella «camera di baroni», come è chiamata in un inventario del 1500 successivo alla morte del committente, effigia in nicchie illusionistiche, accompagnate da un complesso repertorio ornamentale, sette personaggi maschili a figura intera, ben noti alla società dell’epoca, tra cui un maestro d’arme e uno schermidore e pittore; in una camera adiacente fa rappresentare, sopra una porta, i filosofi Eraclito e Democrito, uno intento a piangere e l’altro a ridere sul destino degli uomini (fig. 13). Per quanto in una casa privata, oggi distrutta, quei modernissimi cicli, i cui frammenti approdati a Brera danno solo una pallida immagine dell’impatto d’insieme, non restano ignoti agli artisti, complici anche le predilezioni figurative di Gaspare Visconti. Non è escluso che tra coloro che trasferiscono sui muri le ardite scenografie prospettiche di Bramante, complicate da contenuti non del tutto decifrati, ci sia anche Bartolomeo. Nel modo di lavorare di Bramante, che a queste date si dedica già prevalentemente all’architettura, è contemplata infatti la delega a collaboratori per la messa in opera dei progetti. Negli Uomini d’arme di casa Visconti si assiste a un’intensificazione espressiva come fin lì non si era mai vista a Milano: non è fa31


Fig. vi Bernardino Butinone, Adorazione dei pastori, 1485-1490, Treviglio, San Martino

cile uscirne indenni. Ne risente persino il più anziano Vincenzo Foppa: basta osservare l’affresco con il Martirio di San Sebastiano a Brera; non può farne a meno il giovane Bartolomeo che quando riappare nei documenti il 31 dicembre 1489 (doc. 4), in una lista di debitori e creditori della Scuola di Santa Maria presso San Satiro – non forse a caso uno dei principali cantieri bramanteschi in città, dove già strappava stupore l’illusione spaziale del finto coro –, porta il soprannome Bramantino: «Magistro Bartholameo Brabantino depictore». Lo contrassegnerà per tutta la vita. A pochi passi da San Satiro, il Bramantino dichiara lo choc provato in casa Visconti quando – e si sarà su per giù sul 1489 – si trova a dipingere un Compianto su Cristo in cima alla porta della chiesa romanica del Santo Sepolcro (cat. 2). L’invenzione è strepitosa per l’efficacia illusionistica, quasi a rispondere a quella da poco sperimentata dal suo mentore. Un corpo in scorcio che sembra girare le gambe secondo la posizione degli spettatori: un’attrazione che godrà per qualche secolo dell’ammirazione di pittori e viaggiatori; le copie ancora superstiti stanno a testimoniarlo. L’originale invece, mutilato e impoverito, approdato nel corso del Novecento alla Pinacoteca Ambrosiana, fornisce solo un’ombra dell’effetto previsto dal pittore. Perduto o quasi l’exploit prospettico, si può però ancora apprezzare, in mezzo alla rovina, come il Bramantino intendesse piazzare le luci nei suoi dipinti: dal basso, con riverberi colorati. Questa scelta lo contraddistinguerà negli anni a venire. Posando lo sguardo sugli astanti alla scena, si ravvisa senza difficoltà nel viso di San Giovanni un magnifico omaggio alle teste caricate dei «lanzichenecchi» di casa Visconti, «segnate indelebilmente dalle loro esperienze avventurose e ribalde» (Bellosi). Il potenziamento delle corporature, alla ricerca di un’energia, non solo fisica ma espressiva, e la disposizione delle figure dentro strutture architettoniche illusionistiche, arricchite di dettagli ornamentali, sono tratti caratteristici di Bramante: lo dichiara la tavola con il vigoroso Cristo alla colonna, giunta dall’abbazia di Chiaravalle (fig. viii), dove è ricordata per la prima volta nel 1590, alla Pinacoteca di Brera, per cui – analogamente ai coevi affreschi di casa Visconti – non è mancato chi ha autorevolmente proposto il nome del Bramantino. È da manuale il confronto con il dipinto non troppo dissimile per soggetto e di dimensioni quasi 32

uguali (cm 109 5 73 contro cm 93,7 5 62,5) che si conserva al Museo ThyssenBornemisza a Madrid (fig. ix): se ne ignora, come del compagno, la destinazione originaria; si può ipotizzare però che nel 1586 giungesse alla Certosa di Pavia. Qui è indiscussa la responsabilità del Bramantino, che non solo lascia perdere l’esibizione della muscolatura ma rifugge dagli stereotipi iconografici. Inventa un Cristo risorto, che esibisce le stigmate, all’aperto, al lume della luna, all’ombra di una rupe dalle forme architettoniche: forse il sepolcro; alle spalle di Gesù, davanti a un’altissima catena montuosa, sta uno specchio d’acqua solcato da un’imbarcazione, che risponde – nella sua forma singolare – a quella che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il Cristo di Brera attende di essere flagellato, legato a un pilastro decorato a girali non troppo diversi da quelli, impeccabili, che si ammirano nella sagrestia di Santa Maria presso San Satiro. Con queste credenziali, e verosimilmente con la malleveria del Bramante, il Bramantino può affrontare una commissione che gli arriva direttamente da Ludovico il Moro: la decorazione di un segmento della sala del Tesoro nel Castello Sforzesco (cat. 3). Un’impresa sfortunata, che ha vita breve, per ragioni sconosciute: per meno di un decennio è visibile infatti sopra la porta che conduce al sancta sanctorum dove si conservano le ricchezze più preziose della corte sforzesca un grande affresco di contenuto profano e, ancora una volta, non completamente decifrato. Un gigante che sembra sortire da un lungo corridoio, dalla vertiginosa prospettiva, per affacciarsi, imponente, sullo spazio degli spettatori. È circondato da una scenografia iperornata, piena di dettagli figurati, che sembrano chiarire l’identità del protagonista: Argo, il mitico guardiano dai cento occhi, che sarà addormentato e poi decapitato da Mercurio; quante allusioni a questa vicenda si celano nell’apparato ornamentale. Se si aguzza la vista, nello squarcio di esterno che fa capolino ai piedi di questo supereroe antico si vedono le cime di costruzioni fantastiche, che diventeranno una sigla nella pittura del Bramantino. Quando è stato realizzato questo tour de force? Come per quasi tutte le opere dell’artista mancano date e documenti: solo un esame del contesto figurativo circostante aiuta a definire i tempi di affermazione del Bramantino, nell’ipotesi che i suoi strepitosi risultati siano immediatamente registrati dai colleghi più avvertiti. Nel caso dell’Argo si può verificare questo modo di procedere confrontando due pale del Bergognone o del suo ambito che si trovano alla Certosa di Pavia: una con Sant’Ambrogio protagonista risale al 1490, l’altra intitolata a San Siro all’anno successivo. Si ha l’impressione – il primo a rimarcarlo è stato Gianni Romano – che tra i due dipinti sia esploso a Milano l’Argo, a cui spetterebbe perciò una data intorno al 1490. La riscoperta di quest’opera, da sotto scialbi secolari, nel 1894 è al centro di polemiche al tempo dei nazionalismi, vista la disponibilità di Beltrami a lasciare la privativa del ritrovamento a un collega straniero, il tedesco Paul Müller-Walde; che tema per riflettere sugli intrecci tra ricerca e politica internazionale negli anni delle grandi campagne di scavo in giro per il Mediterraneo. Lo straordinario murale – la prima opera nota del Bramantino di grandi dimensioni e di destinazione, si fa per dire, pubblica – aveva da insegnare all’Europa dell’arte per l’arditezza dello stile e per i non meno arditi contenuti. Le Vergini delle rocce sugli altari di San Gottardo in corte e di San Francesco Grande, le architetture vere o dipinte di Bramante, in primis quelle di Santa Maria presso

Fig. vii Miniatore lombardo (Percivalle Negri?), Cristo risorto, 1495 circa, in Messale cartusiano, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense

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Fig. viii Bramante, Cristo alla colonna, 1485 circa, Milano, Pinacoteca di Brera

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Fig. ix Bramantino, Cristo che mostra le piaghe, 1490 circa, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

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San Satiro con il corredo plastico del De Fondulis, Butinone e Zenale impegnati sui muri della cappella Grifi in San Pietro in Gessate, l’altare di San Giuseppe, in marmo di Carrara, tutto dorato e colorato però (e da Matteo De Fedeli), in Duomo sotto il controllo dell’Amadeo, le prodezze orafe del Caradosso…: anche prima che Leonardo da Vinci finisca di dipingere il Cenacolo, cioè prima del 1497, Milano risulta talmente ricca di proposte figurative da richiamare, come una calamita, artisti da più luoghi d’Europa: l’olandese Geertgen tot Sint Jans, il piccardo Josse Lieferinxe, lo spagnolo Juan de Borgoña... Bramantino non è certo l’attrazione minore. Ancora alla fine del secondo decennio del Cinquecento, come ha osservato Ballarin, la lezione dell’Argo avrà qualcosa da insegnare persino ad Hans Holbein. Da un’esperienza come quella del murale nella sala del Tesoro discende una tipologia di decorazioni improntate a un repertorio antiquario rivissuto in maniera tutt’altro che letterale e popolato di creature tutt’altro che ovvie, derivate da una mitologia peregrina, argentea. Di questo patrimonio decimato dal tempo resta ben poco; tra le tracce ancora presenti a Milano quelle che, nelle giornate serene e luminose, si intravedono sulla facciata di casa Fontana nell’attuale corso Venezia: restano le fonti, Vasari in testa, a ricordarle tra le prove del Bramantino e a segnalarne il complesso programma iconografico che comprendeva (ma stavolta è Lomazzo a parlare) le personificazioni del Po e dell’Italia, Anfione e Giano, dipinte come giganti a finto bronzo. Per studiare l’effetto generale della facciata di casa Fontana, chissà se commissionata da Francesco Fontana, dal 1490 consigliere segreto del Moro, non fa male ricorrere a un acquerello della fine dell’Ottocento (fig. x), quando le figurazioni erano ben più visibili di ora: sotto il fregio, che si conserva tutt’oggi malamente rabberciato, colonne e pilastri dipinti a scandire la parete costituita da uno schermo a finti mattoni, non troppo diverso da quello che si vede nei dettagli dell’Argo. In questo genere di decorazioni all’antica, tra gli artisti attivi in città, sulla traccia verosimilmente di Bramante e del Bramantino, si distingue, per ricchezza di documentazione, l’inafferabile pittore lodigiano Troso de Medici, di cui una facciata con storie romane, dallo spiccato carattere illusionistico, in via Meravigli rappresenta, fino alla fine del Settecento, una delle meraviglie di Milano. Di recente sono stati fatti significativi passi avanti nella comprensione della perduta Natività sulla facciata della Zecca di Milano, contesa nelle fonti tra Bramante e il Bramantino. Ma anche senza allontanarsi di troppo dalla sala del Tesoro e dall’Argo, basta affacciarsi nel prospiciente cortile della Rocchetta: ecco, sotto un’arcata, per quanto in rovina, un portale illusionistico, con timpano, trabeazione, capitelli e girali all’antica che non si possono definire che bramanteschi (o, questione di gusti, bramantineschi). Nonostante la verosimile commissione da parte della corte, il Bramantino non deve stare troppo bene finanziariamente; sua sorella nel 1490 si è sposata ma ancora il 14 aprile 1494 il pittore non è stato in grado di versare la dote al cognato, lo farà poco dopo (docc. 9-10). Il marito della sorella è anche lui un artista, di cui non si conoscono opere però: si chiama Cristoforo Volpi e nel 1490 era alla Certosa di Pavia accanto al Bergognone; in seguito la sua strada professionale si intersecherà, almeno una volta, con quella del cognato. I contatti del Bramantino con l’ambiente artistico milanese si infittiscono e i documenti ne conservano 36

tracce: in particolare è in rapporto con i variegati clan famigliari, tra loro imparentati, dei Mantegazza, scultori e orafi, e dei Retondi, pure scultori. Sono fatti del 1494-1498. Guai però a volere trarre dalle relazioni tra Antonio Mantegazza e il Bramantino inferenze stilistiche: ancora una volta va ribadito che Antonio non è lo scultore feroce e appassionato che realizza proprio nell’ultimo decennio del secolo il Compianto su Cristo nel Capitolo dei Fratelli alla Certosa di Pavia; quanto deve essere piaciuto questo capolavoro al Bramantino che nella folla del fondo avrà ravvisato persino un omaggio al suo Argo. Antonio è invece l’autore, nel 1491, del più prosaico altare di Campomorto, che cerca di condurre la scultura lombarda fuori dall’espressionismo in direzione moderatamente protoclassica, secondo un’evoluzione che, in modi differenti, caratterizza un po’ tutto lo sviluppo figurativo della Valpadana. Peccato non sia arrivata nelle sale di Brera l’Adorazione dei Magi (fig. xi) che, tra il 1856 e il 1863, lasciava Venezia e la collezione Manfrin, dove era creduta di Mantegna; dopo la scoperta del suo autore a opera di Otto Mündler, con il consenso di Charles Eastlake e di Giovanni Morelli, il dipinto del Bramantino è restaurato a Milano da Giuseppe Molteni che, a intervento concluso, non si trattiene dallo scrivere al nuovo proprietario, il diplomatico Austen Henry Layard: «Non le nasconderò che mi piangeva e mi piange tuttora il cuore di questo distacco. Era desso una gemma proprio necessaria alla nostra Pinacoteca, essendo prova evidente della somma elevatezza di questo gran maestro anche come pittore; perché di tutte le opere di questo insigne autore che mi conosca, la sua tavoletta è la più bella, la più forte e la più elevata». Dalle sale di Ca’ Cappello, la residenza veneziana dello scopritore di Ninive, la piccola tavola giungerà nel 1916 alla National Gallery di Londra, che giustamente la annovera tra i propri infiniti capolavori. Oggi sta esposta accanto a un altro dipinto lombardo con lo stesso soggetto:

Fig. x Federico Frigerio, Facciata di Casa Fontana Silvestri in corso Venezia a Milano, 1896, Milano, Castello Sforzesco, Gabinetto dei Disegni

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l’Adorazione dei Magi del vecchio Vincenzo Foppa, che curiosamente in passato ha portato i nomi di Bramante, prima, e del Bramantino, poi, fino a che Giovanni Battista Cavalcaselle, il più grande storico dell’arte dell’Ottocento, l’ha restituita al suo vero autore. Nella Sainsbury Wing le due tavole stanno una vicina all’altra: anche se risalgono entrambe all’ultimo decennio del Quattrocento, la più antica, ma più moderna, rischia di essere quella del pittore più giovane. Nella piccola tavola il Bramantino reinventa l’iconografia tradizionale con dettagli che, ancora una volta, sfuggono alla comprensione letterale; quali sono i Magi nella scena? E chi sono gli altri astanti? Sono corsi fiumi d’inchiostro, senza risposte definitive. L’attenzione deve sostare il giusto sull’architettura: quando si era vista una rovina del genere? E, passando al design, che cosa dire dei recipienti in primo piano, puri come li avesse disegnati, fuori dal tempo, Enzo Mari. Il Bramantino procede a una decantazione formale, eliminando gli elementi ornamentali da scene e costumi e distribuendo le luci con radicalità di pensiero. Di certo l’immagine, di destinazione privata, non ha fatto scuola; il grande quadro del Foppa sta lì a dirlo. Un equivalente in campo grafico delle soluzioni messe in atto nell’Adorazione dei Magi si trova, senza troppe difficoltà, in un disegno dell’Albertina di Vienna (fig. xii) con un Cristo in piedi che, con il corpo rivestito solo da un lenzuolo a cingergli le spalle e la vita, regge con la sinistra la Croce e con la destra addita la piaga nel costato; quanto diverso dalle immagini pietistiche dei Cristi portacroce che furoreggiano in quel frangente tra Lombardia, Veneto ed Emilia: da parte del Bramantino niente close-up per strappare la commozione allo spettatore. Non si conosce la destinazione di quest’immagine tanto potente; nel 1514 un pittore lombardo è però in grado di riprodurla in un affresco nel santuario della Beata Vergine a Vimercate: l’invenzione è resa un poco più esplicita e inserita in un abitacolo architettonico, prospettico, popolato di strumenti della Passione. Le luci «pizzicate», come le avrebbe chiamate Cavalcaselle, che scorrono, a suon di biacca, sul sudario di Gesù sembra di vederle nei pochi tratti decifrabili di due piccole tele con due coppie di Santi (tre uomini e una donna) ai fianchi di una base nuda e in prospettiva che si conservano al Musée Jacquemart-André a Parigi: sono estremamente rovinate ma è ingiusto escluderle dal catalogo dell’artista. Prima che si concluda il secolo e verosimilmente prima che Milano passi dal dominio sforzesco a quello francese il Bramantino deve avere preso parte alla decorazione della chiesa di Santa Maria del Giardino, una dépendance in centro della periferica Santa Maria degli Angeli, la casa madre dell’Osservanza: il Giardino è un insediamento francescano, arricchito da un consistente lascito nel 1490 (doc. 5), grazie al quale si può supporre sia stata avviata, tra l’altro, una campagna di affreschi destinati a decorare i pilastri dell’edificio. Il Bramantino non è l’unico artista di prima fila a prendere parte all’impresa, in cui si prova anche il vecchio Vincenzo Foppa con un San Giovanni Battista e un San Francesco, dai torsi squadrati e dai paesaggi verdini; al pittore più giovane spetta un Noli me tangere (cat. 5) ricoverato, come gli altri elementi superstiti di quest’impresa, nella Pinacoteca del Castello Sforzesco. Procedendo sulla linea dell’Adorazione dei Magi, il Bramantino fa lievitare i panneggi, ne elimina le creste troppo appariscenti e aspre: è il suo modo di liquidare l’espressionismo, senza rinnegarlo. Mette a punto inoltre una tipologia di paesaggio in cui davanti alla città dalla fisionomia inconfon38

Fig. xi Bramantino, Adorazione dei Magi, 1495 circa, Londra, National Gallery Fig. xii Bramantino, Cristo stante con la Croce in mano, 1495 circa, Vienna Albertina

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Fig. xiii Bramantino, Talia, 1499-1503, Voghera, Castello Fig. xiv Bramantino, Melpomene, 1499-1503, Voghera, Castello

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dibile, tutta mura e torri, merli e finestre ridotte a poco più che feritoie, trovano posto rocce a forma di fungo. Chissà come saranno state le «camere e logge, con molte storie lavorate da lui con una pratica resolutissima e con grandissima forza ne gli scorti delle figure» di cui fa parola Giorgio Vasari, di passaggio a Milano verosimilmente nel 1542: quelle «istorie» del Bramantino raffigurano «cose romane accompagnate con diverse poesie» e stanno in casa del cremonese Marchesino Stanga, favorito del Moro, residente a un passo dal Castello (docc. 247, 260); inaugurano una tipologia decorativa per le residenze private, di cui tra non molto si farà interprete, con un linguaggio proprio bramantiniano, il giovane Bernardino Luini. Il Bramantino a questo punto ha raggiunto un’autorevolezza in città che ne fa già un caposcuola. E può permettersi di intraprendere lavori da non condurre più da solo, in prima persona. I nuovi padroni di Milano, i francesi, giunti nel settembre 1499 al seguito del re Luigi XII, si sostituiscono, senza troppi traumi, a chi gestiva prima il potere; acquisiscono cariche, occupano spazi, requisiscono immobili. L’artista trova immediatamente clienti tra i signori francesi o tra chi si è schierato dalla loro parte. Spetta a Louis de Luxembourg, conte di Ligny e dall’ottobre 1499 titolare del feudo di Voghera, requisito al genero del Moro, Galeazzo Sanseverino (che ne era entrato in possesso nel 1496), la commissione dell’ammodernamento di un’ala del castello nella cittadina lombarda. Qui il co-

Fig. xv Bramantino, Musa, 1499-1503, Voghera, Castello

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Fig. xvi Bramantino, Pegaso, 1499-1503, Voghera, Castello

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mandante francese, che morirà trentaseienne il 24 dicembre 1503, non ha modo di risiedere, ma controlla a distanza l’esecuzione dei lavori: un po’ come capiterà, e il confronto ce lo ha suggerito Gianni Romano, per le imprese decorative patrocinate nei suoi feudi di Gattinara e Romagnano da Mercurino Arborio, il consigliere plenipotenziario di Carlo V, per tutta la vita in giro per l’Europa. Nel maniero di Voghera, di fondazione trecentesca e viscontea, sono riemersi nel 1996 brandelli di affreschi in un paio di ambienti; e altri attendono ancora di essere liberati dallo scialbo o recuperati da un degrado secolare. La decorazione pittorica deve essere andata di pari passo con una riorganizzazione architettonica degli spazi dove si vedono messe in opera soluzioni ardite per cui sarebbe suggestivo pensare, alla luce anche dei motivi araldici in stucco probabilmente pertinenti al Ligny, che il Bramantino avesse posto mente, se non mano. È proprio lui infatti, come si è accorta per prima Maria Teresa Binaghi, il responsabile dei dipinti, vuoi in prima persona vuoi tramite la bottega. I due ambienti affrescati di Voghera vanno innanzitutto intesi nella loro reciproca continuità, cogliendo l’analogia delle architetture dipinte, dei cornicioni affrescati, delle trabeazioni e delle paraste, caratterizzate da una corsiva messa in opera di elementi decorativi: motivi vegetali e imprese araldiche, tra cui il fiocco dei Ligny. Il Bramantino si è aggiunto così alle predilezioni figurative di una delle personalità della corte francese, Louis de Luxembourg, di cui erano già noti i rapporti, per non dire altro, con Jean Perréal e Leonardo da Vinci. Solo in una delle due stanze, quella più piccola, quasi quadrata (metri 6,86 5 7,51), le figurazioni, visibili al di là delle cornici prospettiche lilla, sono abbastanza conservate, tanto da definirne i soggetti e coglierne la qualità, a tratti sbalorditiva, nonostante lo stato di conservazione e le integrazioni recenti. Il tema che unifica le immagini è quello delle nove Muse: a ciascuna, seduta all’aperto, è dedicata una specchiatura; un riquadro più piccolo, stretto e lungo, ospita il cavallo alato Pegaso, bianco compagno di giochi delle ragazze tra i gioghi dell’Elicona (figg. xiii-xx e fig. a p. 14). Resta poco dell’animale: qualche ciuffo della criniera riccioluta, un occhio quasi chirghiso e gli apici aguzzi delle ali grigioverdi. Non si individuano modelli per le figure femminili, che scartano dalla tradizione più accreditata nel XV secolo per l’iconografia delle Muse, quella messa in atto prima del 1467 nei cosiddetti Tarocchi del Mantegna, rivelando ancora una volta l’eccentricità delle scelte del Bramantino. La presa di distanza dalla tradizione iconografica è tale che in più casi, complici l’assenza di iscrizioni e il carattere estremamente frammentario della pittura, non si riesce a stabilire con sicurezza l’identità di alcune Muse. Come si completasse nella parte bassa la decorazione dell’ambiente è ignoto; non è difficile supporre invece che nella parete tra Talia e Melpomene ci stesse un camino. Le Muse di Voghera, apici cromatici del Bramantino, non hanno ancora conquistato il rango che si meritano nelle vicende figurative italiane intorno all’anno 1500: l’inaccessibilità del castello e la scoperta relativamente recente non devono impedire che l’Urania con il panneggio bianco ghiaccio, che tra quinte in bianco sporco si staglia su un cielo bianco grigio, o la Talia tutta in giallo o la misteriosa dama in viola, che è intenta a calpestare un soldato in rosso e verde, o la musa egiziana dagli occhi verde salvia si ritaglino il posto dovuto tra i capolavori dell’arte in Lombardia.

Fig. xvii Bramantino, Musa (Polimnia?), 14991503, Voghera, Castello

A Voghera non è difficile avvertire il brusco abbassamento qualitativo che si registra nell’ambiente più grande, un salone lungo 16,80 metri e largo 6,80. Qui, dei riquadri figurati, che occupano tre pareti, restano solo frustuli, lungo i margini superiori: si intravedono frammenti di cielo e brandelli di alberi. Non si può quindi scommettere sui contenuti delle scene sottostanti, impaginate magari sul modello già messo in opera in casa Stanga. Una delle pareti corte è occupata invece, senza tracce di architetture dipinte, da un paesaggio che sborda sui muri contigui e si infila perfino nell’imbotte di una finestra (figg. xxiixxiii). La pittura è corsiva ma l’invenzione dichiara una regia bramantiniana: basta osservare, ed è quasi una firma, la forma così peculiare delle rocce, simili a funghi. Sono due massi, alle estremità opposte della parete affrescata, entro cui si aprono caverne: in un caso – e chissà se l’idea risale proprio al Bramantino – il varco c’è per davvero nel muro. Non è la sola trouvaille illusionistica che connota scenograficamente l’ambiente. La parete contigua a quella dominata 43


Fig. xviii Bramantino, Urania, 1499-1503, Voghera, Castello Fig. xix Bramantino, Erato, 1499-1503, Voghera, Castello

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Fig. xx Bramantino, Euterpe, 1499-1503, Voghera, Castello Fig. xxi Bramantino, Madonna con il Bambino, 1499-1503, Voghera, Castello

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dal grande paesaggio ospita nella parte bassa una nicchia con un altare sopra la quale è dipinta su un fondo blu, con un’iconografia molto rara e prettamente francese, la Madonna, a mezza figura, che espone al devoto il piccolo Gesù con il corpo martoriato da ferite sanguinanti; la affiancano due specchiature in cui con lettere capitali dorate, in versi (non si può dire, vista la lacunosità del testo, se esametri o distici elegiaci), la Vergine, in prima persona, si rivolge allo spettatore, esortandolo a ravvedersi (fig. xxi). È molto probabile che quest’immagine sacra, particolarmente deteriorata, fosse protetta da portelle che la celavano normalmente agli sguardi, chissà se dipinte con figurazioni illusionistiche, così da non fare cogliere a prima vista la discontinuità della parete; soccorrono alla memoria illustri confronti: dalla tavola ancora conservata nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dove Giotto raffigura l’Eterno, alle perdute porte della sala dei Giganti in Palazzo Te a Mantova, che sigillavano l’effetto scenografico dell’insieme. Quanto alla presenza di una nicchia con un’immagine sacra in un ambiente connotato vistosamente in maniera profana non si può che ricordare quanto avviene nella sala dei Prodi nel Castello della Manta. Acquisite referenze del genere, la grande stanza di Voghera diventa più comprensibile e, in un certo senso, più significativa: realizzata in anni a ridosso della leonardesca sala delle Asse nel Castello Sforzesco di Milano, costituisce una personalissima declinazione della rappresentazione della natura, del tutto consona all’approccio mentale e non fenomenico proprio del Bramantino; un riflesso di questo tipo di paesaggio pare di coglierlo, come ci suggerisce Romano, negli affreschi del Maestro delle storie di Sant’Agnese in San Salvatore a Pavia. Gli alberi e le rocce di Voghera non possono trovare spazio che negli anni della decorazione rinascimentale; difficile considerarli più antichi, impossibile tenerli per più recenti. È l’indubbio scarto qualitativo che ne ha precluso fin qui – nonostante il suggerimento di Teresa Binaghi – l’inserimento nell’attività del Bramantino, che diventa possibile invece una volta che si intenda il pittore come un regista capace di mettere in scena un apparato decorativo spettacolare. C’era anche da misurarsi – non va scordato – con la «camera de li arbori» che si trovava in casa di Gaspare Visconti a Milano: si trattava quindi di una tipologia decorativa, di tradizione tardogotica, che continuava ad avere corso in Lombardia. E poi, a guardarle bene da vicino, non tutte le foglie negli alberi di questo panorama avant lettre sono dipinte male. Importa intendere che intorno al 1500 il Bramantino ha messo a punto una pratica di lavoro che prevede la presenza, al suo fianco, di una bottega capace di tradurre in realtà i suoi scenografici sogni. Gli affreschi di Voghera trovano una collocazione cronologica, per ragioni araldiche, tra la fine del 1499 e la fine del 1503; il loro committente è in rapporti documentati con il Bramantino nel 1502 e nel 1503 (docc. 32, 36): il pittore si è recato ad Asti, un baluardo francese, per incontrarlo. Lo stile che queste immagini esibiscono è in diretta continuità con quello che il pittore ha messo a punto all’altezza del Noli me tangere sullo scorcio dell’ultimo decennio del Quattrocento. Salta agli occhi come in questi affreschi ancora non punga lo stimolo del confronto con le sperimentazioni di Leonardo. È ormai il momento per il Bramantino di metter su famiglia: la data del matrimonio non è nota; di certo è già avvenuto il 18 novembre 1502 (doc. 33). 47


Fig. xxii Bottega del Bramantino, Paesaggio, 14991503, Voghera, Castello

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Sua moglie si chiama Elisabetta Della Chiesa e gli porta in dote terreni e beni, tra cui un mulino, dell’eredità paterna (doc. 6), posti nel territorio dell’Opio nella pieve di San Donato: una località alle estremità dell’attuale quartiere di Lambrate, a nord est di Milano, alle soglie della tangenziale. Di queste proprietà parlano, più che dei dipinti, i numerosi documenti che riguardano il Bramantino; è possibile seguirne analiticamente le vicende, per decenni, tra affittuari e concessioni, ristrutturazioni e abusi, con una precisione di cui si vorrebbe disporre in merito alle opere d’arte realizzate dall’artista. Su quelle invece le carte d’archivio sono quasi del tutto reticenti. Se si prende per esempio in esame l’anno 1503, a cui si riferiscono una decina di testimonianze, si è però relativamente fortunati: da queste voci si evince una sorta di diagramma della posizione conquistata dal Bramantino, della sua affidabilità, dei suoi committenti, dei suoi scenari di attività. È infatti convocato, più volte, dalla Fabbrica del Duomo per dire la sua, insieme a molti autorevoli colleghi – da Amadeo a Caradosso, da Cristoforo Solari ad Andrea Fusina –, sull’annosa questione della porta verso Compedo, cioè la monumentale apertura in testa al transetto settentrionale della cattedrale (docc. 34, 37-38). Chiude la partita con il

Ligny, che entro la fine dell’anno muore. E riceve l’incarico di realizzare o di fare realizzare («retrahere seu retrahi facere»), entro la Pasqua dell’anno successivo, una copia a grandezza naturale, su tela, della «mensa duodecim Apostolorum», cioè il Cenacolo, di Leonardo (doc. 35); a richiederla è Antoine Turpin, tesoriere generale di Luigi XII, ma non si può escludere che alle sue spalle agisca un mandante più importante: e si è fatto il nome del cardinale Georges d’Amboise, primo ministro del re di Francia, e allestitore di un focolaio di italianismi nella sua residenza normanna di Gaillon. A chiusura d’anno il Bramantino è alla Certosa di Pavia, un luogo dove già si avvertivano tracce figurative del suo passaggio: il documento lo fotografa in una cella, accanto al priore, don Pietro Piola, e a Francesco Brivio, un gentiluomo, caro alla corte sforzesca, di cui si conosce il volto da un ritratto al Museo Poldi Pezzoli spesso riferito a Vincenzo Foppa (doc. 40). Non si può credere che l’esercizio diuturno di realizzare una replica di ciò che aveva inaugurato, non solo a Milano, la «maniera moderna», lasciasse indifferente il suo esecutore, che aveva dal committente un lasciapassare per il libero accesso nel refettorio delle Grazie. Non si sa se il Bramantino la copia della Cena l’abbia effettivamente realizzata né che fine abbia fatto; gli echi che si sono ravvisati appaiono molto deboli: ma non si può fare a meno d’osservare che proprio a partire da questo momento si avverte un dialogo a viso aperto tra il pittore e Leonardo. È abbastanza facile cogliere, pure in una trascrizione estremamente personale e mai pedissequa, un filo vinciano che lega la grande Crocifissione di Brera al trittico di San Michele all’Ambrosiana. I confronti tra le teste degli Apostoli del murale delle Grazie e quelle, pure così ammalorate, del quadro di Brera indicano il significato dell’esercizio, la capacità del Bramantino di non farsi intrappolare dalla psicologia, di intendere Leonardo soprattutto come pittore. La Crocifissione è l’unico dipinto su tela del Suardi della cui autografia non sia saltato in testa a nessuno di dubitare (cat. 8); i restauri che si sono succeduti, negli ultimi due secoli, hanno fatto perdere alla pittura la consistenza originaria, da restituire mentalmente come magra e opaca con un effetto simile a quello della Crocifissione di Boccaccio Boccaccino nel Duomo di Cremona: oggi il quadro di Brera appare invece come una pala d’altare a olio. Lo statuto di capolavoro il dipinto del Bramantino l’ha raggiunto solo da poco più di mezzo secolo; basta andare a rileggere che cosa si scriveva di quest’opera, anche in sedi autorevoli, fino a prima dell’ultima guerra. La comprensione della qualità non è andata di pari passo, ahimé, con la decifrazione dei tanti enigmi che gravano sopra il dipinto. La scena, a uno sguardo distratto, appare come una Crocifissione ma parte del suo fascino pungente è anche nel non poterla ricondurre alla tradizione iconografica corrente: che cosa ci stanno a fare, ai fianchi di Gesù crocifisso, un angelo e un diavolo inginocchiati a mezz’aria sotto un sole e una luna, archetipi irraggiungibili per qualunque Fornasetti a venire? Rendono omaggio entrambi, demonio incluso, alla grandezza del Signore? O se ne disputano l’anima? Agiscono dietro l’immagine convinzioni eterodosse? E se sì, quali? Nonostante i fiumi d’inchiostro e le fantasie più visionarie degli interpreti si è ancora al punto di partenza o quasi. Si resta incantati di fronte all’immagine ma non si procede sul piano della decifrazione storica. Idem dicasi sul tema, non meno scottante, della provenienza: la Crocifissione infatti appare quasi dal nulla nelle sale del palazzo

Fig. xxiii Bottega del Bramantino, Paesaggio, 14991503, Voghera, Castello (particolare)

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Fig. xxiv Pittore lombardo, Lucrezia (dal Bramantino), 1530 circa, mercato antiquario Fig. xxv Pittore lombardo, Lucrezia (dal Bramantino), 1530 circa, Milano, collezione privata (durante il restauro)

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di Brera nel 1805. Ma dove era stata fino ad allora? Esiste un filo sottilissimo che potrebbe legarla alla chiesa di Santa Maria di Brera, aprendo così uno spiraglio per avvistarne la committenza; ma forse non è ancora il tempo di forzare le carte. Un foglio di studi della Biblioteca Ambrosiana, di non facile comprensione, anche per via dello stato, quasi larvale, di conservazione, giustappone pensieri per composizioni diverse (cat. 7): a sinistra pare di intravedere un abbozzo per il gruppo delle Marie ai piedi della Croce nel telone di Brera, in basso una mischia di cavalli in cui si è intesa una precoce conoscenza delle riflessioni di Leonardo all’altezza della Battaglia di Anghiari. Se si osserva il disegno con più attenzione però si coglie che almeno uno degli animali è posto di fronte a una sorta di mangiatoia e sorge allora l’idea che quel minuscolo schizzo abbia qualcosa a che fare con la decorazione delle stalle di Galeazzo Sanseverino, un fedele del Moro che non ha esitato a cambiare cavallo: è il Vasari a riferire questi affreschi, di soggetto equino per l’appunto, al Bramantino e a rimarcarne gli effetti di illusione, degni di figurare nella Leggenda dell’artista.

Non troppo distanti dalla Crocifissione e costruite con materiali analoghi sono due invenzioni destinate al circuito privato, dal ben diverso successo: la Sacra Famiglia di Brera (cat. 9), in cui giustamente Ballarin ha visto quasi un Riposo durante la fuga in Egitto, e la Lucrezia. Il quadro di tema sacro è un indiscusso originale, che deve essere rimasto sigillato in qualche casa importante fino a che, in pieno Seicento, entra a fare parte delle raccolte dell’arcivescovo Cesare Monti, il successore del cardinale Federico Borromeo; non se ne avvertono echi infatti nella produzione figurativa del Cinquecento lombardo. Unica rimane anche l’interpretazione del tema, con il ricorso a una sorta di narrazione continua, secondo una pratica neomedioevale che il Bramantino aveva già sperimentato ai tempi del Filemone e Bauci. Le estremità dei corpi si nascondono dentro i panni come succede negli astanti della Crocifissione; e l’Egitto o la Terra Santa non faranno fatica a sembrare, agli interpreti del Novecento, autentiche Piazze d’Italia; sotto un cielo nuvoloso, tra templi, obelischi, cipressi e pietre avvinte dall’edera, quelli più accorti si lasceranno scappare dalla bocca magari un riferimento anche alle Ville romane. Non si

Fig. xxvi Pittore d’Oltralpe?, Lucrezia (dal Bramantino), XVI secolo, Berlino Staatliche Museen, Gemäldegalerie Fig. xxvii Manierista lombardo, Lucrezia (dal Bramantino), seconda metà del XVI secolo, Milano, collezione privata

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Fig. xxviii Zecca di Mesocco, Testone di Gian Giacomo Trivulzio, 1487-1499, Milano, Civiche Raccolte Numismatiche (dritto e rovescio)

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sa invece dove si trovi e se esista tuttora l’originale della Lucrezia, l’eroina romana, suicida dopo la violenza subita da Tarquinio il Superbo e perciò prediletto esempio di virtù: di certo non è un’opera del Bramantino la tela della collezione Sola Busca a Milano (fig. xxv), pure considerata tale dai grandi conoscitori del Novecento; basta osservare come sono poveramente dipinte le pieghe della camicia plissettata o i gorghi del mantello rosso in cui si incastrano gli arti inferiori. Nello stemma ancora da redigere di questa fortunata invenzione, che dovrà essere messo in opera con i criteri della filologia testuale, il dipinto più vicino all’originale è quello, pur estremamente manomesso, al punto da essere ingiudicabile, che fino a pochi mesi fa si trovava in una raccolta privata genovese e che all’alba del secolo scorso era posseduto da Laura Gropallo, parente di Guido Cagnola e grande amica di Bernard Berenson (fig. xxiv). A differenza delle altre copie (in totale si conoscono le immagini di almeno quattro Lucrezie: figg. xxvi-xxvii), solo quest’esemplare – l’unico su tavola, insieme con quello già a Berlino – presenta alcuni dettagli, perfettamente compatibili con l’invenzione originale: l’architettura con elementi colorati (come quella dell’Adorazione dei Magi), la macchia di sangue sull’impiantito a destra e l’abete sul fondo. Con una certa sicurezza si può ora – grazie a un ritrovamento documentario di Roberto Cara (doc. 46) – ancorare al 1505 il trittico di San Michele (cat. 11), un tempo sull’altare dell’omonima chiesa in Porta Nuova a Milano, posta nella parrocchia di San Bartolomeo, la stessa dove dal 1495 vive il Bramantino; tra i suoi nuovi amici solo a pochi si riesce a dare un’identità: l’organista Ludovico Brivio o il figlio di Matteo De Fedeli, Giovanni Antonio (docc. 31, 55). Questa composizione, ora alla Pinacoteca Ambrosiana, nasce come un trittico che la carpenteria provvedeva a unificare; la sistemazione attuale, a un solo comparto, risale a un intervento collezionistico di età neoclassica e rischia di falsare la percezione dell’opera. A ogni visione continua a sorprendere la fantasia senza pari di cui dà prova l’artista escogitando soluzioni memorabili, e ancora una volta intentate e senza seguito: una per tutte, il batrace in prospettiva. Anche se impoverito nella pittura, il trittico mostra l’apice del confronto intrapreso dal Bramantino con il Leonardo del Cenacolo. I panni non sono più «pizzicati» dalle luci come quelli delle Muse; ogni ombra d’espressionismo è lasciata dietro le spalle. Un riflesso tempestivo di quest’opera sembra ravvisabile nell’Annunciazione di Andrea Solario al Louvre che reca la data 1506. Il profilo del Bramantino fin qui delineato mancherebbe di credibilità se non si desse il risalto dovuto al rapporto con Gian Giacomo Trivulzio, detto il Magno, uno dei personaggi più potenti della Milano del primo dominio francese e dei più coinvolti nel mondo delle arti: dai palazzi alle monete; perfino in queste ultime, coniate nelle zecche di famiglia di Mesocco e, forse, di Dongo, si riscontra il ricorso a modelli figurativi di qualità, non indenni da simpatie protobramantinesche (fig. xxviii). E pensare che Renato, il fratello filosforzesco del Magno, ancora tra il 1498 e il 1501, si era fatto committente di Vincenzo Foppa; a lui era destinato infatti, inquadrato da una cornice di Ambrogio De Donati, lo struggente Compianto già nella cappella di famiglia in San Pietro in Gessate, bruciato a Berlino nel 1945. Il legame del ben più moderno Bramantino con il maresciallo di Francia e marchese di Vigevano si deve essere aperto non molto dopo l’ingresso dei francesi a Milano:

Fig. xxix Benedetto da Milano, su cartone del Bramantino, Ottobre, 1506-1507 circa, Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata (particolare) Fig. xxx Bramantino, Crocefissione, 1503-1504 circa, Milano, Pinacoteca di Brera (particolare)

il Trivulzio è alla testa di coloro, tra cui il Ligny, che prendono il Castello, appena abbandonato dal Moro in fuga verso le terre dell’Impero. Il 26 gennaio 1501 il figlio maschio del Magno, Gian Nicolò, aveva sposato Paola Gonzaga, figlia di Rodolfo, signore di Castiglione, morto in battaglia a Fornovo nel 1495, a sua volta figlio di Ludovico, il marchese della Camera degli Sposi. Il matrimonio, che intendeva sancire un passaggio di classe, si era svolto a Vigevano tra gli splendori del Castello, già teatro delle passioni di Ludovico Sforza. Proprio connesso a queste nozze è il primo impegno trivulziano del Bramantino: un ciclo 53


di dodici arazzi, dedicato ciascuno a un mese dell’anno (cat. 12-23). Un’impresa tutt’altro che comune, molto onerosa, con tempi di esecuzione ancora non del tutto chiariti. È di certo in corso durante il primo decennio del Cinquecento ma le uniche evidenze documentarie risalgono soltanto al 1509 e riguardano la tessitura di due Mesi: l’Ottobre e il Gennaio (doc. 68). Il lavoro si svolge a Vigevano, nella bottega del non troppo sofisticato Benedetto da Milano, impegnato contemporaneamente a realizzare una lettiera da campo per il Magno su disegni di Cristoforo Volpi, il cognato del Bramantino; della partita è anche un membro pittore della variegata famiglia Bellazzi, che solo ora comincia ad acquisire un affidabile, anche se discontinuo, profilo. Benedetto è in grado solo parzialmente di restituire sul panno i prodigi figurativi, facili da immaginare, dei cartoni del Bramantino, che si intendono bene in prossimità della Crocifissione e del trittico di San Michele. Al dossier dei confronti già proposti non è difficile aggiungere quello tra la donna reggicarote nell’Ottobre e uno dei misteriosi astanti nella tela di Brera (figg. xxix-xxx). Le scene monumentali sono prive di precedenti, venendo a stravolgere l’iconografia tradizionale, tardoantica e medioevale, dei Mesi. Dal Marzo al Febbraio, va in scena un respiro alto, quasi sacrale, un senso del tempo ciclico, non storico, all’insegna dell’eterno ritorno. Le istantanee memorabili sono senza fine e ciascuno può nell’epica dei Mesi ritagliarsi i propri dettagli d’affezione; non è difficile farli entrare in corto circuito con altre immagini, anche molto più vicine a noi. Le coreografie del Luglio, con le file geometriche dei battitori, tutti vestiti di colori diversi, tra il Novecento di Bernardo Bertolucci e uno qualunque degli Stücke di Pina Bausch. L’anti Cenacolo dell’Agosto, che ribalta il murale di Leonardo, all’insegna del «caldo uccide». I pavimenti a scacchi colorati, che si inseguono tra un panno e l’altro, e strappano alla bocca un rimando ad Alighiero Boetti. Va bene il recupero dell’occhio del tempo, ma la percezione di oggi lascia le tracce sui nostri sguardi: e così c’è chi trova persino Alì dagli occhi azzurri nel Maggio; e non sono nemmeno io. Decifrare i contenuti dei Mesi non è facile; non sono mancati i tentativi: si può aggiungere al molto già fatto che il corredo verbale che accompagna gli arazzi è tutt’altro che trascurabile. Le iscrizioni, una per mese, di quattro versi ciascuna, tessute alla brava, sono composte – e il suggerimento ci viene da Gianfranco Fiaccadori – in gliconei, un metro ricercato. Le variazioni sulla poesia classica indicano in chi li ha scritti una preparazione umanistica non di routine. Ci è sorta quindi l’idea che un candidato plausibile per queste epigrafi possa essere il calabrese Antonio Telesio, il cui soggiorno a Milano all’aprirsi del XVI secolo non ha ancora ottenuto il risalto dovuto negli studi relativi al campo figurativo. Mentre gira per Milano, Telesio ha modo di comporre un carme sul giardino di casa Archinto, con siepi tagliate in forme animali e antropomorfe sul tipo di quelle che colpiscono nell’Aprile, o un altro su una lucerna bronzea, a foggia di Bacco, ricevuta in dono da un patrizio locale o un altro ancora sul Castello, tutto infarcito di mitologia, in occasione del crollo della torre del Filarete avvenuto nel 1521. Il dossier sul Telesio è appena aperto, ma si rivela sollecitante: e il legame trivulziano è garantito dal fatto che tanti anni dopo sarà proprio il calabrese a recitare l’orazione funebre del Magno, grande appassionato fin dalla giovinezza della cultura classica; non trascurabile nemmeno è che Telesio sia in grado di manovrare il metro gliconeo, come risulta da alcuni versi inseriti nel suo 54

opuscolo De coloribus. Quando nel 1507 Luigi XII, reduce dalla presa di Genova, fa il suo ingresso trionfale a Milano, Gian Giacomo Trivulzio organizza un ricevimento memorabile dentro e fuori la propria residenza di via Rugabella; tra gli arredi esibiti fin su corso di Porta Romana spiccano «tante pompe da sete e panni razzi» tra cui è molto verosimile ci fossero i Mesi fin lì realizzati. Mentre l’impresa degli arazzi Trivulzio corre verso la sua lenta conclusione e il committente già pensa, almeno dal 1507, alla costruzione di una cappella funeraria annessa alla chiesa di San Nazaro, il Bramantino si presta a fornire alcuni cartoni per le tarsie del coro di Santo Stefano a Bergamo, commissionato da Alessandro Martinengo Colleoni, un parente di Gian Giacomo Trivulzio (fig. xxxi). Intanto ha raggiunto il massimo credito possibile a Milano, dove nel frattempo è rientrato Leonardo dal 1506. Tanto vale a questo punto tentare, forte del prestigio delle commesse ricevute e dei risultati conseguiti, la strada per Roma. Non è escluso che anche questa volta sia stato Bramante, divenuto l’architetto preferito del papa, ad aprirgli la via. Il 3 novembre 1508 il Bramantino è ancora a Milano, il 4 dicembre è già al lavoro per Giulio II negli appartamenti vaticani (doc. 65). Viene pagato per pitture, non specificate, da compiere in palazzo, in quella suite di ambienti dove stanno lavorando all’unisono artisti provenienti da luoghi diversi, non solo d’Italia. Grazie a Vasari si sa dove il Bramantino interviene: in quella che diventerà la Stanza di Eliodoro, accanto a dipinti eseguiti da Piero della Francesca nel 1458-1459. Non si conosce però il soggetto degli affreschi del Suardi, verosimilmente narrativi e da immaginare sulla falsariga dei Mesi Trivulzio o del più antico Martirio di San Sebastiano agli Uffizi; si sa solo della presenza lì in mezzo di prove ritrattistiche, relative a personaggi quattrocenteschi, tanto eccellenti da meritare di essere copiate, per volontà di Raffaello: gli otto dipinti finiranno, grazie a Giulio Romano, nella grandissima raccolta di effigi di uomini illustri allestita da Paolo Giovio a Como ma non si conosce il loro destino successivo e anche le testimonianze visive superstiti sono di poco aiuto; va perduta così ogni traccia sicura del Bramantino ritrattista. Infatti i folgoranti risultati di Raffaello nell’adiacente Stanza della Segnatura portano a una pronta demolizione di quanto il Suardi ha dipinto, quando, probabilmente già nel 1511, l’Urbinate riceve l’incarico di ridecorare completamente l’ambiente. Non tutto è perduto però: infatti Raffaello – come ha fatto per gli affreschi realizzati dal Sodoma nella Segnatura – è disponibile a riadoperare le partiture decorative preesistenti. E proprio tra queste, nella chiave dell’arco e nelle tre fasce degli archivolti che circondano la Cacciata di Eliodoro, Arnold Nesselrath ha individuato quanto resta dell’intervento del Bramantino o dell’équipe da lui diretta (fig. xxxii). Si nota una figura maschile, dalla misteriosa identità, seduta, con il corpo rivestito da un mantello e una testa riccioluta: è illuminata dal basso ed è difficile da scorgere da terra. Presenta caratteri bramantiniani e si intende bene in diretta continuità con le prove del trittico di San Michele e dei Mesi, ma sembra persino recuperare, all’indietro, soluzioni adoperate nel medaglione ai piedi dell’Argo. Il genio di Raffaello è riuscito a mimetizzare quest’intervento come quelli, nella stessa posizione, di Luca Signorelli sulle pareti contigue della stanza, dando un’impressione – a uno sguardo passante, non analitico né ravvicinato – di totale omogeneità stilistica. Per il Bramantino

Fig. xxxi Fra Damiano Zambelli, su cartone del Bramantino (?), Età dell’oro, prima del 1526, Bergamo, San Bartolomeo

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Fig. xxxii Bramantino e bottega, Figura allegorica, 1508-1509, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza di Eliodoro

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deve essere stata in ogni modo una sonora sconfitta: già avvertita probabilmente mentre nel corso del 1509 prende forma la Disputa del Sacramento su una parete della Stanza della Segnatura e dall’esterno l’impresa della decorazione delle Stanze sembra ancora esito di un concerto di artisti (doc. 70). L’accessibilità del nuovo linguaggio di Raffaello, ugualmente solenne ma più piano e tanto meno intellettualistico del suo, deve avere fatto capire all’artista lombardo che non era possibile competere e tanto valeva tornare su. Tanto più che mentre era via non era mancata, per quanto affidata a un documento notarile, l’attestazione che il Bramantino era il migliore pittore di Milano: sta confinata nelle volontà di Giovanni Antonio Castiglioni che il 19 marzo 1509 chiede ai propri eredi di fare realizzare, per la sua cappella in San Pietro in Gessate, un Compianto su Cristo sul tipo di quello dipinto da Foppa per la limitrofa Cappella Trivulzio, cioè il quadro distrutto a Berlino, con l’aggiunta però di un Sant’Antonio; l’opera dovrà essere realizzata dal Bramantino o, in sua assenza, da uno dei principali pittori attivi a Milano. A decorare la cappella ci vorrà una statua di Cristoforo Solari, lo scultore più stimato della città (doc. 69). Il primo novembre 1509, chiusa la parentesi romana, il Bramantino è già a Milano (doc. 72); adesso sta nella parrocchia di San Babila, sempre in centro: lì dove aveva abitato insieme a sua madre, quando da ragazzo era arrivato da Bergamo. Nei vivaci scontri che attraversano la società dei pittori milanesi intorno al 1510 il Bramantino si schiera, tra vecchie conoscenze, dalla parte di Bernardo Zenale in una contesa di cui sfuggono le ragioni, chissà se relative solo a questioni di corporazione o connesse anche alle battaglie dello stile (docc. 75-76). Non è difficile per il Suardi riprendere il controllo della situazione. Per quanto così personali, i suoi modi a Milano riescono a conquistare terreno e a rappresentare il punto di partenza per le ricerche di alcuni giovani, di cui si cominciano a vedere e apprezzare i risultati. L’allievo più vecchio, ancora degli anni quattrocenteschi, un lodigiano, di nome Giovanni Agostino, che ha trascorso parecchio tempo a Venezia, tra l’anziano Bellini e il montare del genio di Giorgione, è tornato a Milano: e non manca chi lo chiama Agostino di Bramantino. Ci sono poi i più giovani leoni, tanto diversi per carattere ma che guardano al Suardi come a un faro, provando a renderne più domestica e divulgabile la lezione, a costo di imbastardirla con accoppiamenti poco giudiziosi: Gaudenzio Ferrari, che viene dalla Valsesia, ai confini con il Piemonte, e Bernardino Luini, la cui famiglia è di Dumenza, sulle colline alle spalle della sponda magra del Lago Maggiore. Proprio i dipinti giovanili di Gaudenzio – a partire dal polittico per Sant’Anna a Vercelli (oggi diviso tra la Galleria Sabauda di Torino e la National Gallery di Londra), realizzato nel 1509, e dalla pressoché coeva cappella di Santa Margherita in Santa Maria delle Grazie a Varallo – costituiscono le testimonianze più significative che a quella data già circolavano e facevano scuola le soluzioni messe in atto nella Crocifissione e nel trittico di San Michele. Ma che dire del Maestro delle storie di Sant’Agnese, la cui carriera, viaggio a Roma incluso, sembra svolgersi un po’ tutta sotto il segno del Bramantino? Anche a un livello non così alto di qualità gli insegnamenti bramantiniani danno frutti: è il caso del pittore, la cui fisionomia si va progressivamente mettendo a fuoco, attivo nelle zone dell’alta Lombardia, a cui spetta il Banchetto di Didone ed 57


Fig. xxxv Bottega del Bramantino, Fregio con arpie, 1510 circa, Milano, Piccolo Teatro-Teatro Grassi (particolare)

Fig. xxxiii Maestro del Cifulet, Banchetto di Didone ed Enea, 1510-1515 circa, Vercelli, Museo Borgogna (particolare durante il restauro) Fig. xxxiv Maestro del Cifulet, Angelo annunciante, 1510-1515 circa, Milano, collezione Saibene (particolare)

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Enea del Museo Borgogna a Vercelli ma anche l’Angelo annunciante di casa Saibene a Milano (figg. xxxiii-xxxiv); suoi saranno, nell’inoltrarsi del secondo decennio del Cinquecento, alcuni degli affreschi più affascinanti di Santa Maria delle Grazie a Gravedona, sulle rive del Lago di Como. Milano è ancora in mano ai francesi e le commissioni pubbliche o semipubbliche non mancano. Tra le prime prove del Bramantino retour de Rome c’è un affresco con la Madonna con il Bambino tra due angeli conservato alla Pinacoteca di Brera (cat. 24). È un’immagine pensata per essere vista dal basso, come illuminata dalle luci di una ribalta sottostante. Il rosso che affiora dagli incarnati delle figure il pittore l’aveva già sperimentato: ma adesso si è fatto più caldo. Il colore è più fuso, le tinte più quiete e tranquille, i panneggi più molli. Le forme hanno assunto un carattere rilasciato, quasi sedato. Anche da un dipinto così si capisce che l’autore avverte che non tocca a lui cambiare il mondo e neanche il corso della storia dell’arte; spetterà a Raffaello o a Michelangelo. È forte la tentazione di supporre che l’affresco provenga dal palazzo che il biellese Sebastiano Ferrero, generale delle finanze del Ducato di Milano, ha acquistato sullo scorcio del 1509 e ha deciso immediatamente di rimodernare: era stato, tra l’altro, l’abitazione del conte di Carmagnola e persino di Cecilia Gallerani, l’ex amante del Moro che ora, in una stagione della vita tanto diversa, se ne sta in campagna, dalle parti di Cremona, a San Giovanni in Croce, insieme al marito Ludovico Carminati, a fare, tra scrittori e musicisti, la nuova Saffo. Nel palazzo sono avviati ingenti lavori di ristrutturazione, con decorazioni che si sovrappongono o coesistono con quelle più vecchie, persino con quelle che la storia dello stile chiamerebbe tardogotiche. I nuovi motivi ornamentali usciti dalla farina del sacco del Bramantino si ritrovano, messi in opera dalla sua bottega, tra gli archi di uno dei cortili e in un salone adiacente in cui sono riemersi brandelli di un fregio monocromo ad arpie (fig. xxxv). Le creature mitologiche esibiscono, di rigore, i seni al vento e tra targhe e volute danno vita a forme nuove di reinvenzione dell’antico, non troppo diverse da quelle che presiedono alla base decorata con foglie di loto su cui sta seduta la Madonna di Brera.

Da quest’affresco non è troppo difficile il passaggio, qualche anno più tardi, a due tavole (cat. 28-29), molto rovinate, oggi nella parrocchiale di Mezzana, un piccolissimo centro alle porte di Somma Lombardo. La collocazione attuale non è evidentemente quella d’origine; e non è priva di verisimiglianza l’ipotesi di Edoardo Rossetti che questi due scassatissimi capolavori provengano da Sant’Angelo a Milano e abbiano a che fare con la committenza di Battista Visconti e con le cappelle della chiesa francescana osservante intitolate al Corpo di Cristo e allo Spirito Santo. Le tavole raffigurano infatti un Compianto su Cristo al quale sono presenti dei Santi, come doveva succedere nel dipinto, chissà se mai realizzato, che nel 1509 aveva richiesto Giovanni Antonio Castiglioni, e una Pentecoste. Il processo avviato nell’affresco di Brera in direzione di una rilassatezza delle forme non subisce interruzioni. E se l’ipotesi di provenienza fosse affidabile, ne verrebbe – alla luce delle simpatie filosforzesche del committente – che la data per queste opere, gemelle in fatto di stile, dovrebbe fissarsi dopo l’estate del 1512, quando Massimiliano Sforza riprende provvisoriamente possesso di Milano, e prima del 1513, quando Gaudenzio Ferrari sembra compiere un furto dal San Sebastiano del Compianto ora a Mezzana per una figura della Preparazione della Croce, un riquadro del tramezzo di Santa Maria delle Grazie a Varallo, datato per l’appunto quell’anno. Una collocazione cronologica del genere non dà disturbo alla ricostruzione delle vicende figurative milanesi. Nelle forme del Bramantino post romano si ravvisa infatti una delle matrici del linguaggio, pur così personale e inimitabile nel suo virtuosismo, che mette a punto a metà del secondo decennio del Cinquecento lo scultore Agostino Busti, detto il Bambaia, reduce anche lui da un soggiorno nell’Urbe, ma stavolta in compagnia di Leonardo e degli amici suoi (fig. xxxviii). Il Compianto e la Pentecoste attraggono irrimediabilmente a sé la tavola, di dimensioni pressoché uguali, con la Madonna con il Bambino e otto Santi degli Uffizi (fig. xxxvi). Un influsso edulcorato e normalizzato del dipinto si può intercettare forse nella pala del Duomo di Como che Bernardino Luini esegue per Scaramuccia Trivulzio nel 1517-1518. 59


Fig. xxxvi Bramantino, Madonna con il Bambino e otto Santi, 1512-1513 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Con i materiali con cui sono costruite le tavole di Mezzana e di Firenze il Bramantino deve avere realizzato anche un paio di altre composizioni con il Compianto su Cristo morto: il suo tema preferito fin dagli anni della giovinezza. Molto fortunata per la sua collocazione milanese, pubblica dal 1985, è la tela del Castello Sforzesco, che si trovava alla fine del Settecento nella sagrestia di San Barnaba, un luogo dalla connotazione quasi protomuseale. Ridotta a una sorta di sindone, l’opera ha rappresentato per il secondo Novecento un vertice bramantiniano: anche qui purtroppo il procedere della ricerca ha comportato un ridimensionamento del giudizio di qualità e la messa in mora del suo statuto di autografo, primo responsabile Gianni Romano. La tela del Castello, per quanto si può giudicare in mezzo alle rovine, rischia di distare non pochi anni dall’epoca del Bramantino e si va ad allineare ora ad altre due repliche, pure diverse per qualità, di questa composizione su cui ci si potrà esprimere solo quando, e se, riapparirà l’originale. Per adesso ci si può limitare a osservare che il patetismo dell’esemplare milanese non sembra solo precorrere il Cerano e l’infinito crepuscolo del manierismo milanese ma esserci sorto in mezzo. Pure non avendola vista dal vero, la tavola di Bucarest raffigurante anch’essa il Compianto su Cristo sembra invece un autografo, per quanto non in buono stato di conservazione (fig. xxxvii); a garantire che non si tratti di un frammento soccorre la copia del Museo di Lille, risalente agli anni del Moncalvo. Ulteriore testimonianza, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto il Bramantino abbia contato e pesato su una certa idea della pittura, e non solo in quanto maestro ideale di Gaudenzio Ferrari, il papà buono del Seicento lombardo. Nel quadro rumeno, dall’ardita inquadratura, con due Marie brutalmente tagliate – come aveva fatto Donatello e come si farà al tempo della Maniera, ma come il Bramantino stesso aveva sperimentato nella Sacra Famiglia Monti – si notano ancora pieghe rilasciate e mani piccole, sotto un cielo azzurrissimo e chissà se overcleaned, mentre l’assembramento urbanistico incombe con la forza di un incubo: alla Gerusalemme di marmo cinta di mura merlate, e fitta di edifici monumentali, risponde in lontananza in cima a una rupe di sogno una specie di Walhalla di ghiaccio. Non è difficile supporre, di fronte a queste esibizioni architettoniche, che Bartolomeo si stia interrogando su una predilezione coltivata fin dagli anni della gioventù. E il salto è vicino, per cambiare mestiere. Non disconviene, per il poco che si può giudicare, a questo tratto di storia la Sacra Famiglia già in casa Silva a Milano e ora nella Fondazione Sorlini a Carzago di Calvagese della Riviera (fig. 30): la tavola, già ridipinta in passato (Ragghianti si dibatteva «tra il Porta e il Ferrario»), è una risposta, tanti anni dopo, al quadro dal medesimo soggetto oggi a Brera. La composizione si è fatta scalena e sgusciante, le solite mani piccole, i panneggi flosci e gonfi, con il gruppo sacro all’aperto nel foro di una città antica. Anche qui la destinazione d’origine è senz’altro privata. Sono anche gli anni in cui, nella turbolenza delle vicende politiche, con i francesi che fanno fuori e dentro da Milano – nel 1515 si reinsediano, dopo un’effimera restaurazione sforzesca –, il Bramantino può pensare di destinare a una fondazione francescana in cima al Lago Maggiore un capolavoro. La Fuga in Egitto nel santuario di Orselina (fig. xxxix), la sola opera che reca la firma dell’artista (bramantino) e la sola ancora conservata nel luogo per cui verosimilmente fu eseguita, è davvero «un viaggio di nubi sul crinale dei monti ticinesi, giusto poco prima che 61


Fig. xxxvii Bramantino, Compianto sul Cristo morto, 1510-1515 circa, Bucarest, Muzeul Naţional de Artăă al României

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scenda la sera» (Testori). Mostra una capacità del pittore, fin qui non apprezzata abbastanza, nella resa del paesaggio: località che si direbbero esperite dal vero. Quella tavola non resta senza esiti in loco: diventa un punto intorno a cui ruota l’attività, di recente ricostruita, di Bartolomeo da Ponte Tresa, l’ex Maestro della cappella Camuzio, che proprio nel luogo che gli dà il nome, nella luganese Santa Maria degli Angeli, ripropone la composizione bramantiniana. Nel quadro di Orselina il soggetto è affrontato per l’ennesima volta in maniera non canonica dal Bramantino, ricorrendo a dettagli che trovano una ragione solo nei testi apocrifi: è quindi da lì che provengono le gambe dei misteriosi, acefali compagni di viaggio di Gesù, Giuseppe e Maria in un Egitto leventinese. Con il rischio di ammassare un gruppo non omogeneo di dipinti – ma lo stato della ricerca per ora non concede di più – potrebbe stare in questa zona della difficile storia del Bramantino il San Giovanni a Patmos: una composizione nota dalla tela in casa Borromeo, dove è attestata, all’Isola Bella, a partire dal 1690. Non è mancata qualche perplessità sullo statuto del dipinto, che resta però indimenticabile per la concentrazione dell’immagine e lo slargo del paesaggio per cui (e forse non è un caso) sono stati richiamati addirittura i castelli di Cannero, quei manieri che sorgono, oggi in rovina, tra le acque del Lago Maggiore, a poca distanza dalla dogana della Madonna di Ponte. Come descrivere la luce di taglio che colpisce il torrione, la roccia scavata da protodesign, con persino il bracciolo su cui poggiare le conchiglie-calamaio… La prospettiva, nonostante il volto di scorcio dell’Evangelista ispirato, non basta più e l’acqua diventa un’innaturale cascata verticale ma anche il rapace è un po’ troppo sintetico. Il filo dei documenti non aiuta molto in questo tratto della storia dell’artista: la testimonianza più importante è anche delle più ambigue. Risale al 28 settembre 1513; la scena è il capitolo dei monaci nell’abbazia cistercense di Chiaravalle, alle porte di Milano, il cui commendatario è il nipote di Giulio II e pronipote di Sisto IV, Sisto Gara della Rovere. Tra le tante questioni di cui si discute quel giorno in occasione della periodica presenza di un notaio – dai debiti con un pollivendolo all’ammissione di quattro novizi, da problemi di approvvigionamento idrico ai viaggi a Roma dei monaci, fino al crollo del tetto di una cascina – ce n’è anche una, la penultima, di carattere artistico e non è un caso che il Bramantino sia lì, fin dal principio, a fare da testimone a più atti che non lo riguardano affatto (docc. 86-92). Il capitolo stabilisce di pagargli, con un versamento dilazionato ma entro l’11 novembre del 1514, un dipinto che è già depositato a Chiaravalle, nella sagrestia del monastero. L’opera, definita «anchoneta» probabilmente a causa delle sue limitate dimensioni, raffigura Cristo morto deposto nel grembo di Maria insieme ad altri Santi e a figure non specificate. Le forme di pagamento stabilite sono complicate e per avere quegli ottanta ducati il Bramantino dovrà tribolare non poco. Il dipinto con il Compianto su Cristo nel corso del 1514 è inviato a Roma, a San Saba, il cui priore, Simone Manzini, era stato presente alla riunione del capitolo del 28 settembre 1513 (doc. 96). Probabilmente il monastero cistercense tra l’Aventino e il Celio non è la destinazione finale dell’opera, che approda – non si sa esattamente quando, ma forse non molto dopo – nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme. La paletta del Bramantino infatti sembra destinata, per quanto i documenti non lo esplicitino, all’anticappella di Sant’Elena che in Santa Croce sta facendo risistemare Bernardino López de Carvajal. Il cardinale 63


Fig. xxxviii Bambaia, Apostolo, 1515-1520 circa, Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Antica, Museo d’Arte Antica Fig. xxxix Bramantino, Fuga in Egitto, 1510-1515 circa, Orselina, Madonna del Sasso

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spagnolo, titolare della basilica romana dal 1495 alla morte, avvenuta nel 1523, non è estraneo ai fatti figurativi milanesi, tanto che lo si potrebbe riconoscere nel Ritratto di prelato ora a Berlino eseguito nel 1499 dal maldestro Bernardino De Conti (figg. xl-xli). Il coinvolgimento riguarda persino l’abbazia di Chiaravalle, a cui il Carvajal nel 1512 ha donato un’ancona con i Re Magi: inoltre il prelato spagnolo è stato uno dei protagonisti dello sfortunato concilio tenutosi (dopo un prologo milanese nel 1510) tra Pisa e Milano nel 1511 e nel 1512, che aveva messo in discussione il potere di Giulio II, fino al punto di essere nominato antipapa con il nome di Martino VI e di essere, di conseguenza, scomunicato. Il rientro all’ovile del Carvajal risale proprio al 1513, con l’avvio del pontificato di Leone X. Il Compianto su Cristo trova posto nella basilica romana, dove nell’abside il Carvajal è sepolto, e non fatica a ottenere una notevole fortuna visiva, pur in un contesto in cui le novità figurative sono ben altre. È il dipinto del Bramantino di cui si conoscono più copie (almeno sei), realizzate con ogni probabilità a Roma. Il quadro resta in chiesa verosimilmente fino al principio del XVII secolo e che il fortunato Compianto bramantiniano attestato dalle numerose repliche sia proprio quello di Santa Croce è garantito, come si è accorto Gianni Romano, da un’incisione di Giovanni Maggi che prima del 1618 raffigura la basilica romana circondata da affidabili riproduzioni mignon dei principali dipinti in essa contenuti (fig. xliii). Dopo avere lasciato la chiesa, e in particolare la sotterranea cappella di San Gregorio (ex anticappella di Sant’Elena) dove è rimpiazzato da una scultura con lo stesso soggetto commissionata dal cardinale Francesco Barberini, il Compianto entra a fare parte, almeno dal 1628, della raccolta del prelato e, fino al 1686, se ne seguono le vicende lungo gli inventari di famiglia, da cui finalmente si apprendono le misure (sei palmi di altezza e quattro o quattro e mezzo di larghezza cioè circa un metro e mezzo per poco più di un metro). In seguito dell’originale si perdono le tracce e gli esemplari riemersi finora sono tutte copie (figg. xliv-xlv), di dimensioni analoghe, a cominciare da quella – più titolata, e più antica, delle altre ma non migliore per qualità – che fu già degli Artaria a Vienna e che da qualche anno è dell’antiquario Sarti a Parigi. Conoscere la fisionomia iconografica del dipinto non significa averne risolto i problemi di cronologia e di linguaggio figurativo. Infatti il documento milanese del 1513 afferma che l’«anchoneta» è già realizzata; di qui l’ipotesi di Gianni Romano che l’opera sia parecchio più antica, degli anni cioè della Crocifissione di Brera. Fino a quando non si vedrà in faccia l’originale risulta difficile prendere una posizione, alla luce del reimpiego che di analoghe soluzioni iconografiche il Bramantino compie persino a distanza di anni. La scena si svolge nel solito foro – anche se stavolta, ammesso che le copie, in questo concordi tra loro, siano affidabili, compare una croce sul timpano di un edificio all’antica – e le fisionomie di molti personaggi ricorrono: per esempio il San Giovanni assomiglia a quello della Crocifissione ma anche a quello del ben più tardo quadro di Mezzana. Sembra vano perciò da questo trarre indicazioni. Di peculiare il Compianto romano ha le capriole dei putti che ancora nel 1711 colpiranno la memoria di padre Resta, a partire da una copia del dipinto che si conservava nella sagrestia di Santa Croce. Si può tuttavia compiere un piccolo progresso su una questione tanto cruciale per l’interpretazione della storia dell’artista. Grazie alla stampa di Maggi si co65


Fig. xl Bernardino De Conti, Ritratto di prelato (Bernardino López de Carvajal?), 1499, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie

Fig. xlii Giovanni Antonio Oggioni, su disegno del Bramantino (?), Porta, 1514, Milano, Santa Maria presso San Satiro

Fig. xli Mosaicista romano, Sant’Elena con il cardinale Bernardino López de Carvajal, 1505-1510 circa, Roma, Santa Croce in Gerusalemme (particolare)

Fig. xliii Giovanni Maggi, Compianto su Cristo morto (dal Bramantino), prima del 1618 circa, Torino, collezione privata Fig. xliv Pittore dell’Italia centrale, Compianto su Cristo morto (dal Bramantino), prima del 16001611 circa, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie (durante il restauro) Fig. xlv Pittore dell’Italia centrale, Compianto su Cristo morto (dal Bramantino), XVII secolo, Napoli, collezione privata

nosce l’aspetto della cornice della paletta di Santa Croce e già Romano, pur all’oscuro della destinazione dell’opera alla cappella del Carvajal, aveva fatto presente quanto questo manufatto sembrasse in debito con le soluzioni messe in atto da Bramante nell’architrave del tempietto di San Pietro in Montorio, la cui erezione era stata curata proprio dal cardinale spagnolo. La cornice del dipinto del Bramantino giunto a Roma nel 1514 è notevolmente simile alle due porte su via Falcone di Santa Maria presso San Satiro (fig. xlii): il cantiere che aveva visto la prima importante affermazione pubblica di Bramante a Milano. Di quelle porte, fortunatamente, si conoscono autore e data: almeno una delle due è stata eseguita nel 1514 da Giovanni Antonio Oggioni (doc. 98), uno scultore che realizzerà pochi anni dopo un monumento funerario per Pietro Foppa nella chiesa di San Marco proprio su disegno del Bramantino. Forse non è troppo azzardato pensare che anche dietro le porte di San Satiro possa esserci un modello grafico del Suardi, così come – qui il gioco si fa più rischioso, in assenza dell’originale – dietro la cornice della pala di Santa Croce. Ne verrebbe che il dipinto sarebbe stato spedito da Chiaravalle provvisto di carpenteria: quest’ultima consona, per Milano almeno, alla data della vendita dell’opera. Se l’ipotesi relativa alle porte di San Satiro fosse affidabile si acquisirebbe un nuovo numero al catalogo delle architetture bramantiniane, che finora consta di una sola unità. Dalla metà del secondo decennio le opere di pittura si vanno rarefacendo: al momento il punto più avanzato nella produzione del Suardi è lo stupefacente San Sebastiano di casa Rasini a Milano (cat. 30). Un prodigio di pittura che nella Roma del Seicento, quando si trovava dagli Aldobrandini, era addirittura preso per opera di Giorgione. Ma è l’ambiguità sentimentale a dichiarare che il suo autore non è il pittore di Castelfranco: come se, venute meno le sicurezze razionali della prospettiva, si fosse in balia di turbamenti tra le edere del sottobosco. E non restasse che appigliarsi alla fibra impalpabile, ancora da inventare, di quel perizoma, sotto cui si cela la vita. Non si potrebbe immaginare nulla di più differente dall’accessibilità divulgativa di Bernardino Luini, che a quel punto aveva implicitamente voltato le spalle alle ricerche del vecchio Bramantino. 66

L’impegno del Suardi per cui restano più informazioni in questo tratto della sua vicenda ha a che fare con la grande cappella, quasi un mausoleo per sé e per la propria famiglia, che Gian Giacomo Trivulzio ha deciso di farsi costruire di fronte alla chiesa di San Nazaro: applicando direttamente alla facciata dell’antica Basilica Apostolorum, di fondazione ambrosiana ma ristrutturata nel XII secolo, un nuovo edificio a pianta centrale (fig. xlvi). E chissà se qui agisce il ricordo della bergamasca Cappella Colleoni. La costruzione di Milano è intitolata alla Madonna di Lonigo, 67


un’antica immagine miracolosa che dalla località nei pressi di Vicenza aveva scatenato, a partire dal 1486, una diffusa devozione, da cui non fu indenne il Trivulzio, passato per quelle zone nel 1510. Già al principio del 1512 qualcosa a San Nazaro doveva essere stato costruito, perché restano un paio di carmi di Giovanni Biffi che festeggiano le prime messe celebrate, per l’appunto, all’altare della Madonna di Lonigo, «ad ianuam magnam Sancti Nazari» (doc. 77); e a quest’epoca deve risalire la tela con l’immagine sacra, ancora oggi superstite per quanto svisata da ridipinture. Si tratta di una produzione milanese che restituisce dell’affresco miracoloso perfino l’incorniciatura all’antica tardoquattrocentesca; gli stemmi, alla base, del Magno Trivulzio e della sua seconda moglie, Beatrice d’Avalos, garantiscono della destinazione originaria di questo trascurato dipinto. Biffi informa anche che è stata avviata, nei pressi del nuovo altare, la costruzione di una canonica. Gli enigmi della Cappella Trivulzio sono infiniti: basterebbe, a monte di qualunque altro, quello sull’eventuale collocazione in questo spazio del monumento funebre per sé, in quanto condottiero, che Gian Giacomo aveva richiesto a Leonardo da Vinci. Il progetto deve essere tramontato presto però, per quanto alcune di quelle idee, in particolare i giovani snodati e turbati, con i capelli al vento, agli angoli della montagna di marmo (fig. 67) possano essere stati tra le immagini folgoranti per la gioventù del Bambaia. Quando l’incarico del cantiere passa nelle mani del Bramantino, chissà se prima o dopo la parentesi (1512-1515) del rientro degli Sforza, non si fa più parola del sepolcro leonardesco, tanto più che il suo autore è ormai prima a Roma e poi in Francia a inseguire altre fantasie. Il nuovo progetto prevede differenti forme di sepoltura e la costruzione di un autentico mausoleo famigliare dove esibire la genealogia dei Trivulzio; il vecchio maresciallo di Francia ha visto morire, nel 1512, il proprio unico figlio maschio, Gian Nicolò, quello a cui aveva destinato, tra i sontuosi regali per le nozze importanti, gli arazzi con i Mesi. Adesso viene su il piccolo Gian Francesco, su cui al nonno sembra si possa puntare perché il nome della famiglia resti alto: si può anche farlo ritrarre da Bernardino De Conti che è passato indenne, come tanti, dagli Sforza ai francesi e che si impegna in una delle prove più convincenti della sua modestissima carriera; riuscirà, nel quadro ora a Detroit, a fare sembrare più adulto e responsabile, e chissà che fatica per lui, il giovanissimo Trivulzio. Fortunatamente i documenti consentono di seguire, abbastanza passo passo, il procedere dei lavori, per la comprensione dei quali ci vorrebbero competenze di cui chi scrive non dispone. Il 27 giugno 1517 il Magno Trivulzio dichiara al vicario dell’arcivescovo di Milano, Ippolito d’Este, di avere iniziato a costruire, a proprie spese, una «mira structura» là dove si trovava il nartece di San Nazaro, con il consenso del prevosto e dei canonici della chiesa (doc. 125). A che punto fosse in quel momento la costruzione non è detto dagli atti, ma neanche quindici giorni dopo, il 6 luglio, un gruppo di lapicidi lascia la Fabbrica del Duomo per recarsi a lavorare per la nuova cappella nella chiesa di corso di Porta Romana (doc. 126-129). Sono nomi senza opere, a cui si aggiunge un paio di mesi dopo, il 27 agosto, uno scultore che non è più un carneade: Francesco Briosco, «magistro a figuris», è infatti il figlio del famoso Benedetto, lo scultore (per non dire altro) del portale della Certosa di Pavia (doc. 130). La pietra per realizzare le statue deve arrivare proprio dalla Certosa: e nei documenti si fa parola di marmo di Carrara, 68

Fig. xlvi La Cappella Trivulzio a Milano

anche se quanto sarà realizzato sembra piuttosto della più economica pietra di Vicenza. Nel 1518, mentre le fortune del Magno Trivulzio alla corte di Francia – passata nel frattempo, dal 1515, nelle mani di Francesco I – vanno scemando, i lavori di San Nazaro devono essere già abbastanza avanti: visto che l’anno compare sulle targhe all’antica, a forma di tabulae ansatae, dove il condottiero dedica il «sacrarium» al Dio Ottimo Massimo e alla Vergine Felice, in un ultimo tripudio di antichismi (doc. 137). Gli sarà corsa la memoria alle tante lapidi antiche che raccoglieva fin dalla giovinezza tra cortili e saloni del palazzo di via Rugabella e che tanto avevano incuriosito, in apertura di carriera, il grande Andrea Alciati, ormai anche lui via da Milano nelle terre di Francia. Non sarebbe difficile dare movenze da romanzo storico al viaggio del decrepito Gian Giacomo Trivulzio al di là delle Alpi, passate d’inverno, per raggiungere 69


il re di Francia e chiarire le ragioni del risentimento nei suoi riguardi: Francesco I non riceve il vecchissimo condottiero milanese e lui muore il 5 dicembre a Chartres. Il viaggio del cadavere, di nuovo sulle Alpi, e l’arrivo a Milano con il funerale indimenticabile che paralizza, il 17 e il 18 gennaio 1519, la città. Come già detto, l’orazione funebre la tiene, nella chiesa di San Nazaro parata di drappi neri e di piramidi di torce e candele, Antonio Telesio che schizza un ritratto del defunto, subito destinato alle stampe. Più accessibile è però sul momento quanto riferisce in versi maldestri, destinati a fogli volanti (e perciò oggi rarissimi), provvisti persino di un’illustrazione, il bel canterino itinerante Notturno Napoletano: peccato che stavolta, a differenza di quanto il poeta aveva fatto altrove, la xilografia non spetti ad Amico Aspertini. Mentre gli eredi Trivulzio continuano a pagarlo, nel cantiere di San Nazaro il Bramantino tiene aperte, ci pare, altre imprese di architettura; l’impegno contratto con il Magno non assorbe tutte le sue energie: sembra coinvolto infatti nei lavori per la chiesa di Santa Maria del Pilastrello a Binasco e fornisce, come già accennato, nel 1520, i disegni per il sepolcro di Pietro Foppa da erigersi, per mano di Giovanni Antonio Oggioni, in San Marco a Milano (docc. 120, 146, 174). Testimonianza di questi interessi che si vanno facendo sempre più intensi, e su cui urge avviare ricerche serie, è anche la partecipazione del Suardi alle riunioni della Fabbrica del Duomo in cui il 19 maggio 1519 si decide di approntare un modello della più grande chiesa di Milano che possa servire da guida per i lavori di completamento: l’incarico di realizzarlo ricade su Bernardo Zenale (doc. 157). Anche lui, come il Bramantino, in tarda età ha dirottato i propri interessi dalla pittura verso l’architettura: e il modello ligneo, grandissimo, lo fa sul serio. I nomi del Bramantino e di Zenale, appaiati e insieme a quelli di Boltraffio, Marco d’Oggiono e Bernardino Luini, vanno a stampa per la prima volta nel 1521 nel commento a Vitruvio di Cesare Cesariano, che li celebra per la capacità di dipingere ad affresco e per essersi recati a Roma a studiare le antichità, da cui erano tornati «pasciutti di contenteza speculativa» (doc. 181); nell’opuscolo di Pasquier Le Moyne pubblicato a Parigi nel 1520 si era già parlato, ma senza fare il nome dell’autore, cioè del Suardi, dei cavalli multicolori dipinti all’esterno delle stalle di Galeazzo Sanseverino (doc. 170). Non riesce ad andare a stampa invece l’annotazione di Marcantonio Michiel, stesa a metà del terzo decennio del secolo, in cui il patrizio veneziano annovera il Bramantino, insieme a Troso de Medici e, ancora una volta, a Zenale tra i responsabili dei cartoni delle tarsie bergamasche (doc. 199). In questa fine di carriera il Bramantino si impegna in un’impresa di pittura, dai contorni ancora misteriosi: la decorazione di una cappella nella chiesa di Sant’Eufemia intitolata ai Re Magi, eretta con i soldi di Giovanni Giacomo Lambrugo. Di questi lavori, seguiti dal Luogo Pio della Misericordia, si comincia a parlare nella primavera del 1519, ma i pagamenti si trascinano almeno fino al 1524 (docc. 158, 164, 167, 173, 189, 194, 196, 198). L’edificio sacro che si affaccia sull’odierno corso Italia ha modificato nel corso del tempo il proprio assetto interno: e quanto resta della facies rinascimentale, che pur non mostra nulla di riconducibile al Bramantino, attesta l’importanza del luogo. La cappella Lambrugo, intitolata ai Magi, stava sul lato sinistro della chiesa, nei pressi della più celebre cappella Brasca, dove un affresco prossimo al Maestro della pala sforzesca e una tavola, destinata a sostituirlo, 70

vicina ai modi di Giovanni Agostino da Lodi, indicano la vivacità della committenza e sono ben più interessanti della faticosa palona del vecchio Marco d’Oggiono. Con tutti i rischi del caso e inoltrandosi in un segmento della storia figurativa del Bramantino per cui non soccorrono confronti, ci si è già chiesti se un’eco delle composizioni di Sant’Eufemia, verosimilmente relative al tema a cui era dedicata la cappella, non si possano ravvisare in affreschi, dalla pressoché identica composizione e dalla collocazione ugualmente periferica (uno nella parrocchiale di Lanzo d’Intelvi e uno in San Pietro a Luino), che sembrano rispecchiare un più autorevole modello comune, non difficile da immaginare collocato a Milano. In quella popolosa Adorazione dei Magi si constata uno strano miscuglio tra assolutezze prospettiche, per esempio il gradino del trono della Vergine, e soluzioni dichiaratamente raffaellesche, come la Madonna che arieggia quella di Foligno; ma anche gli studioli con i padri della Chiesa mostrano cadenze di tradizione bramantiniana. La situazione politica di Milano si è fatta sempre più fragile e la città è sballottata tra francesi e spagnoli: gli arazzi con i Mesi si salvano per un soffio, nel 1521, dal saccheggio del Palazzo Trivulzio di via Rugabella (doc. 186); il Bramantino cambia partito senza difficoltà e si schiera dalla parte degli Sforza, gettandosi dietro le spalle un paio di decenni di impegni continuativi con i campioni del dominio francese in Lombardia. Al punto che, al momento di un temporaneo rientro delle truppe di Francesco I, il Suardi fa parte del gruppo di milanesi che, il 22 gennaio 1525, è costretto a lasciare la città, bandito in una sorta di esilio a Susa, ai piedi delle Alpi (doc. 201). Ma basta il rovescio di Pavia, il 24 febbraio, con la perdita di tutto fuorché l’onore, perché i giochi si riaprano: e il 10 marzo il Bramantino è già a Milano e il primo maggio assume la carica, per nomina del duca Francesco II Sforza, di architetto e pittore ducale (docc. 202, 206). Nella patente si fa cenno a una lealtà alla casa sforzesca, tutta di facciata, a un impegno dell’artista, nelle recenti vicende belliche, sul fronte dell’architettura militare, tutto da verificare, e – quel che più conta per noi – a opere da lui realizzate «in diversis Italiae locis». Oltre al prestigio, il documento, vistato dal cancelliere ducale Gerolamo Morone, di cui si conosce l’espressione dal ritratto di Andrea Solario in casa Gallarati Scotti, sancisce che al Bramantino saranno concessi un salario, agevolazioni e privilegi. Del resto anche prima del breve esilio a Susa l’artista era economicamente benestante – per quanto non al livello dell’«ingegnero» Zenale o del Bambaia – e prima del 1523 aveva traslocato, rimanendo sempre in San Babila, ma un poco più fuori (doc. 191). Nel frattempo la figlia, la sua unica figlia, Giulia, ha sposato un negoziante di Monza che si chiama Gian Giacomo e ha avuto un figlio, di nome Francesco (e poi ne avrà un altro, Pietro Paolo); il figlio di suo cognato, Cristoforo Volpi, Giovanni Pietro, si è messo a fare il pittore anche lui. E si potrebbe andare avanti così per un po’. «…E che ero una qui, e che ero una là»… Le notizie sul Bramantino, scomparso prima del 23 marzo 1530, si sfilacciano in un finale di partita privo di dati e, sembra, di eventi di rilievo, se non le solite storie di affitti e livelli, case da ristrutturare, sfratti, terreni che vanno in malora, il mulino dell’Opio e persino, pare, un ulteriore trasloco, con la moglie, ormai vecchia anche lei, Elisabetta, nella parrocchia di Santa Tecla in Porta Romana. Prima di morire, il Bramantino fa persino in tempo a conoscere il 26 marzo 1528 Antonio De Leyva, il governatore di Milano, il bisnonno di Virginia, la Monaca di Monza. 71


Ragioni, scientifiche, di questa mostra Raccontata così, per sommi capi, tutta al presente e con uno «stile piano, oggettivo, grigio» (almeno queste erano le intenzioni di partenza), la vicenda, ancora più che perfettibile, di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, bisogna chiedersi, prima di lasciare il posto alle schede, come si pone questa mostra rispetto alle fortune dell’artista. È difficile infatti spiegare ai più giovani o a chi non è della partita il peso che il Bramantino ha progressivamente acquisito negli sforzi di ricostruzione della cultura figurativa del Rinascimento nell’Italia settentrionale nel corso degli ultimi decenni. La riscoperta della grandezza dell’artista – architetto, non meno che pittore – aveva infatti caratterizzato un buon tratto del Novecento; la fantasia visionaria, le ossessioni prospettiche, il rigorismo delle sue costruzioni prive di ornati ne avevano fatto un beniamino della critica più avvertita a partire dagli anni Dieci. Il Longhi che nel 1916 esalta il Bramantino sopra tutti i suoi contemporanei attivi a Milano e a cui vorrebbe dedicare un’apposita monografia (ne resta traccia nel suo carteggio con Adolfo Venturi) è il Longhi impegnato, anima e corpo, a difendere Boccioni scultore futurista. Del resto contaminazioni apparentemente sollecitanti erano già nei North Italian Painters del Berenson, che nel 1907, dopo avere individuato in Ambrogio Bergognone un Whistler del Rinascimento, ritrovava nel «fascinating» Bramantino un precedente della «sensitiviness» del Parmigianino e del Rosso Fiorentino, tale da fargli venire alla mente davanti alla Fuga in Egitto di Orselina (fig. xxxix) certe arie dell’Enfance du Christ di Berlioz. Di decennio in decennio la fama dell’artista è cresciuta, lungo un diagramma che ha spazzato via le riserve che pur c’erano e ad alto livello: basta ripercorrere, date alla mano, le sortite di Adolfo Venturi; l’etichetta del manierismo, tanto gradita al secolo passato, è stata applicata anche al Suardi, complice nientemeno che Nikolaus Pevsner: era il 1928 e poteva parere una tessera per la modernità. Non è mancato chi ha fatto cenno infatti all’«attualità» del Bramantino: e inevitabilmente ogni volta la parola si è trovata a significare una cosa diversa. Il Bramantino attuale di Agnoldomenico Pica non ha a che vedere con quello che stregava Aldo Rossi, e sì che si parla in entrambi i casi di architetti: il compagno di Sironi individuava nel 1939, nel coordinamento dei volumi sotto la luce nella Cappella Trivulzio, una prossimità a Le Corbusier, l’autore dell’Autobiografia scientifica guardando il medesimo edificio si lasciava scappare, di fronte a quel razionalismo esaltato, «sprachtlos und kalt»: «Qui è contenuta tutta la mia architettura» (fig. xlvi). E che dire del Bramantino su cui si poseranno gli occhi affaticati per troppa intensità di vita di Patti Smith? Mentre lungo il Novecento le azioni dei seguaci di Leonardo precipitavano, secondo un processo avviato da Berenson e a cui Longhi ha dato man forte, erano il Foppa e il Bramantino a raggiungere le posizioni più alte nella storia dell’arte in Lombardia al tempo del Rinascimento: al Foppa, al suo realismo, alla sua concretezza terragna, alle sue verità morali era concesso un futuro, lungo la linea maestra che avrebbe portato al Caravaggio, il Bramantino restava invece segnato da un’idiosincrasia individuale, intensamente intellettualistica, di cui meno evidente era riconoscere i tramandi (che pure non mancano). 72

Non è questo il luogo per scrivere la «Fortuna storica» del Bramantino né per tentarne un sunto; non ci sarebbero lo spazio né il tempo. La necessità sì: e quanto prima si vorrebbe vedere un profilo adeguato, qualcosa di più di una bibliografia ragionata. Che occasione per un giovane critico o per noi stessi, se le corse della vita ce ne lasceranno il tempo e il fiato. C’è da riprendere una storia lunga cinque secoli, mai raccontata come si deve. Dopo le prime voci, pur così diverse, di Albertini, Le Moyne, Cesariano e Michiel, fare ordine tra le confusioni vasariane tra Bramante e il Bramantino; impelagarsi il giusto tra gli scritti di Lomazzo; drenare le carte del gesuato poligrafo Paolo Morigia…: e si sarebbe solo nel Cinquecento. Ai testi bisognerebbe affiancare le immagini e il numero sempre in crescita delle copie antiche dai dipinti del Bramantino risulterebbe il migliore indicatore della fama da lui raggiunta: che queste repliche siano state prese, in buona o cattiva fede, per originali, anche in studi recenti, non ha a che fare solo con problemi di morale, ma anche di storia della percezione. Certe semplificazioni, caratteristiche delle copie, sono infatti andate singolarmente a genio all’interpretazione novecentesca dell’artista, tutta antipsicologica, tutta antileonardesca, tutta giocata sul filo dell’idea (neanche si avesse a che fare con Giorgio De Chirico o con Giulio Paolini): solo così si spiega il consenso tributato, da Berenson a Zeri, da Longhi a Suida, alla Lucrezia della raccolta Sola Busca (fig. xxv) che, una volta vista e rivista dal vero, ben difficilmente sfugge invece al suo statuto di antica replica. Idem dicasi per il Compianto già Artaria, che pure disponeva di un prestigioso pedigree, destinato a squagliarsi al momento della sua riapparizione fisica. Poco valgono in casi del genere i ricorsi, sempre più insistiti, a raggi e prelievi e diagnostica; continuiamo a credere che l’impatto diretto con l’opera rappresenti la migliore verifica per la qualità di un oggetto. Non è escluso che la bottega stessa del Bramantino, più articolata di quanto si fosse fin qui immaginato e più dedita a imprese d’équipe, sfornasse repliche; di certo alla riproduzione degli originali dell’artista si sono dedicate figure dal profilo ben noto, per quanto di livello molto differente, come il fascinoso Giovan Paolo Lomazzo e Giovan Battista Tarilli, un pittorello ticinese di cui per l’occasione si è incrementato il corpus di copie bramantiniane (figg. 7-8). Resta invece un nome senza opere quel Pietro Martire Stresi, allievo di Lomazzo, specializzato in copie, in un paio di occasioni impegnato a riprodurre originali del Suardi; si è già supposto, faute de mieux, che spetti a lui una delle repliche note della Lucrezia, quella che già fu di Sandro Orsi ed è, da vent’anni, di Giorgio Baratti (fig. xxvii). Interrogare diversamente dal passato le fonti topografiche milanesi, sceverare carteggi e inventari: e si sarebbe d’un balzo dentro il Seicento. Non è difficile incrementare i regesti del già noto; si andrebbe ben oltre le attestazioni di opere del Bramantino, pur sotto mentite spoglie, tra casa Barberini e casa Aldobrandini e casa Giustiniani, solo per stare a Roma (cat. 30; fig. xliv). Basta pensare ai quadri posseduti a Torino da Amedeo Dal Pozzo, il marchese di Voghera, fratello del grande Cassiano, censiti a partire dal 1634; lì si pescano due Bramantini, veri o presunti, una Natività a lume di notte e un Cristo nel sepolcro con un angelo e la Vergine. A chi si dedicherà alla ricerca – la precauzione è forse ovvia – si raccomanda di non restringere l’indagine al solo Suardi, ma andare a verificare tutto quanto si nasconde sotto i nomi ombrello di Bramante e, perché no, di 73


Mantegna. Anche delle Lucrezie si continua a fare parola: anzi verso, visto che Gerolamo Borsieri scrive uno Scherzo, un po’ retrospettivo, sopra una «Lucretia Romana di mano del Bramantino, donata dal Principe di Val di Taro Don Federico Landi a Rodolfo Secondo Imperatore». A prima del 1618 risale inoltre la più antica incisione di traduzione, sia pure in un contesto devozionale, e romano per giunta, che riproduce un dipinto del Bramantino (fig. xliii): è compresa in una veduta di Santa Croce in Gerusalemme di Giovanni Maggi. Le copie continuano a proliferare: a Milano e a Roma, con destinazioni illustri o periferiche. E il nome Bramantino si spende a caso: per esempio nelle Effemeridi bergamasche di Donato Calvi è impiegato per la pala di Ognissanti di Antonio Boselli, in Santa Maria Maggiore. Ma il brano più bello dell’antologia critica seicentesca rischia di essere un passo del canonico di Locarno Giacomo Stoffio che nel 1625 ricordava le «tenebre così bene espresse» e «inimitabili» della Fuga in Egitto di Orselina. Il Bramantino non sfugge alle onnivore curiosità dell’oratoriano Sebastiano Resta, trait d’union inesauribile tra Roma e Milano, con cui si passa dal Sei al Settecento. Di un certo interesse è il carteggio del 1711 rintracciato da Davide Mirabile, che speriamo lo renda noto presto nella sua interezza, tra il vecchio Resta e Nicolò Maria Visconti. In quell’anno Giovanni Sitone di Scozia ha scoperto due documenti relativi al Bramantino, uno del 1513 e l’altro del 1536 (docc. 91, 230): queste due testimonianze, che verranno rese note a stampa prima dall’Argelati e poi nel commento vasariano di monsignor Bottari, fanno conoscere il cognome dell’artista (cioè Suardi) e soprattutto mettono in crisi la convinzione, discesa da un bisticcio vasariano e corrente tra gli eruditi, che il Bramantino fosse vissuto prima di Bramante e ne fosse il maestro. Il settantaseienne Resta è costretto da questi elementi a una palinodia ma perché questa corretta soluzione del problema prenda piede ci vorrà ancora più di un secolo e mezzo. Quanti Azzeccagarbugli pur nel secolo dei Lumi. Intanto Bramanti e Bramantini a Milano fanno la loro comparsa non solo nelle guide; diventano una voce da inventari di collezione e chissà cosa stanno a significare? Basta solo qualche esempio, dei meno noti. Da Giovanni Battista Visconti, morto nel 1722, si trovava «Una S.ta Cattarina inginocchiata tra le ruote in bellissimo paese su l’assa» riferita al Bramantino e una manciata di Bramanti; di certo invece nulla aveva a che fare con il Suardi il paesaggio con figure, registrato sotto il nome del Bramantino, proprio nel 1722, nell’inventario in morte di Giovanni Antonio Parravicini. Restano un enigma anche i due disegni «a penna sopra la carta pergamena», una Madonna con il Bambino e angeli e una Susanna e i vecchioni, che, riferiti a Bramante, si trovavano in casa Mazenta. Dai Trivulzio il nome di Bramante e quello del Bramantino erano di rigore: alla fine del Seicento si trova notizia di un Ecce Homo di Bramante, nel 1751 i rimandi si fanno più fitti, relativi però soprattutto a ritratti di antenati, equamente distribuiti tra i due artisti. E intanto alla Galleria degli Uffizi aveva corso il rischio di arrivare, nel 1711, un supposto autoritratto del Bramantino. Non si può davvero sostare su una vicenda che si fa intricata giorno dopo giorno con il crescere della ricerca erudita; nella Milano del conte Firmian Venanzio De Pagave ce la mette tutta a risolvere il busillis dell’identità dei Bramantini con il risultato di ingarbugliare ancora di più le carte: e tali restano fin’oltre la metà 74

dell’Ottocento. Il pittore, pur con i contorni tanto male definiti, non ha difficoltà a occupare un posto di rango nel pantheon personale del sommo Giuseppe Bossi: e, sul filo dell’amicizia con lui, sarà da intendere anche il verso di Carlo Porta, «Cresp, Boltraffi, Bramantin…». L’Europa romantica sosta sul rospo in prospettiva del trittico di San Michele (cat. 11), degno di una fiaba dei fratelli Grimm. Ma né Passavant, né Mündler, né Eastlake, né Cavalcaselle, né Morelli, che intanto incrementano i cataloghi dell’artista, risolvono il quesito, verrebbe da dire pirandelliano, delle identità storiche dei Bramanti e dei Bramantini: quanti sono stati? Quando hanno vissuto? Alla soluzione del problema arriva solo, al principio degli anni Settanta, Giuseppe Mongeri: e da quel momento in poi le dispute oziose cessano e la ricerca può procedere cercando di correlare, con i soliti rischi, documenti e monumenti. Intanto Gustave Moreau fa a tempo a riprodurre gli angeli senz’ali dell’Adorazione dell’Ambrosiana (cat. 1): un buon ingrediente per i suoi amalgami lussuosi e inattesi, le sue allegorie ieratiche e sinistre che piaceranno al Decadentismo. Non è difficile quindi pescare tra le Faville del maglio un ricordo dell’Adorazione dei Magi (fig. xi) di Ca’ Cappello, a San Polo, i cui segreti stregano D’Annunzio: «Penso quell’altro uomo rosso del Bramantino, quella misteriosa fiamma, somigliante al Cristo adulto che indica il pargolo sul seno della Vergine in turbante. I fantasmi dell’arte fuggono dalle prigioni dei musei ed errano per l’aria e su l’acqua, a Venezia, quando il giorno declina». Intanto nella Milano morelliana era sbarcato il giovane austriaco Wilhelm Suida, infiammato da Thode, e aveva posto le basi di una predilezione per il Bramantino, che lo accompagnerà tutta la vita; il suo primo articolo sull’argomento risale al 1902, l’ultimo al 1957. Troppo poco, si dirà, per una vicenda tanto complessa: ma adesso davvero non c’è tempo. Quello che dovrà insomma risultare evidente dalla «Fortuna storica» è che il libro di Suida del 1953, a tutt’oggi la monografia più completa sul Bramantino, è solo un punto di partenza; è necessario il ritorno ai testi più antichi e più vitali del medesimo autore composti in gioventù, quando i sensi della vita sono più accesi, gli amori e le predilezioni bruciano di più. Al contrario si è assistito nell’Italia, anzi nella Milano, degli anni recenti a uno sforzo erudito talmente misero che di rado si sono superate, all’indietro, le colonne d’Ercole di quella monografia che, per quanto comparsa da Ceschina nel 1953, era in dirittura d’arrivo oltre vent’anni prima (e sarebbe dovuta comparire da Hoepli), come risulta dal carteggio appena reso noto di don Guido Cagnola. Ristabilita la grandezza dell’artista, che incrociava – come si è già detto – i gusti del Novecento, l’industria editoriale non si è fatta attendere: e il Bramantino ha goduto sia del «Maestro del Colore» (a firma del poeta di Minusio, Piero Bianconi, nel 1965) sia, in condivisione con Bramante, del «Classico dell’Arte» (tutto pervaso quest’ultimo dalla moda, in quel tempo approdata anche in Italia, dell’iconologia: era il 1978). Le immagini quindi hanno girato ma non c’è voluto molto perché i migliori storici dell’arte della generazione che ci ha preceduto si accorgessero che il percorso del Bramantino risultava in quelle trattazioni, ma anche nel libro di Suida, poco affidabile: non tanto sul fronte delle attribuzioni quanto su quello della cronologia. A chi non è del mestiere o a chi non intende il mestiere in un certo modo può apparire come una questione di lana caprina: al contrario la data di un’opera è strettamente connessa al peso che essa riveste nella storia delle immagini. 75


Tutto questo per dire che il percorso del Bramantino è diventato in breve tempo, anche se può sembrare un’esagerazione, una palestra in cui saggiare la salute della storia dell’arte. Si può sostenere che il fenomeno abbia preso avvio con una lezione di Gianni Romano al seminario di storia dell’arte moderna all’Università di Padova nel 1985: con quei Problemi aperti sul Bramantino (che sono approdati a stampa solo da qualche mese) è iniziata una nuova vita dell’artista, la cui cronologia in quell’occasione è stata rivoluzionata. Semplificando al massimo, la parabola del Bramantino si sarebbe svolta, in questa prospettiva, immediatamente condivisa, e anzi rafforzata, da Sandro Ballarin, in date molto precedenti a quelle fin lì prese in considerazione: capolavori come la Crocifissione o il trittico di San Michele (cat. 8, 11) sarebbero stati realizzati più di vent’anni prima di quanto comunemente supposto, a monte di quel viaggio a Roma che spacca, alla data 1508-1509, l’esistenza dell’artista e ne ridimensiona, forse, le ambizioni. Di quest’immagine del Bramantino, emersa in occasioni tutto sommato scarsamente ufficiali, quasi carbonare, siamo stati a lungo tra i depositari: ci sembrava, più che ogni altra cosa, un segnale che ci distinguesse dagli altri storici dell’arte, nella tensione della gioventù a fare a botte con chi non la pensa come te. Dopo tanti anni e dopo montagne di pagine scritte e dopo la scoperta degli affreschi di Voghera, siamo per la prima volta a mettere alla prova se quel modello di sviluppo dell’artista, che altri nel frattempo hanno fatto proprio senza dichiarare i debiti dovuti, è in grado di spiegare lo stile dei dipinti e dei disegni. In corso d’opera, in questa mostra preparata in lotta con il tempo, sono emersi dati che hanno spinto a qualche ritocco in quel profilo, quello per intendersi messo a punto oltre vent’anni fa (ma non è esattamente lo stesso) da Ballarin e da Romano: e qualche volta abbiamo dovuto, non facilmente, provare a sostenere posizioni differenti. Il modello di comportamento ha alle spalle le esperienze fatte insieme negli ultimi anni e in particolare il lavoro sul Rinascimento nelle terre ticinesi: la mostra che si è tenuta alla Pinacoteca Züst di Rancate a cavallo tra il 2010 e il 2011, in cui l’esplorazione territoriale, che aveva caratterizzato un certo modo di fare storia dell’arte alla fine degli anni Settanta, era ripresa alla luce di altre sensibilità; e il nostro Block notes in coda al catalogo, tra Carlo Dossi e Rainer Fassbinder, stava lì a dire l’urgenza di fissare le cose mentre accadono, di restituire l’impatto di certe emozioni, di dichiarare la mobilità della ricostruzione del passato e di non blindarla ne varietur… Ci siamo affezionati a quelle soluzioni, persino a quelle grafiche: e dal prototipo della mostra ticinese, con tutto il carico di incomprensioni che la radicalità di pensiero a essa connessa ha comportato, sono derivate altre azioni, in contesti differenti, dalla Valtellina al Varesotto. In un certo senso anche la mostra milanese del Bramantino è una «figlia» di Rancate, legata all’idea della ricerca come un Never Ending Tour, mentre i capelli o la barba ingrigiscono e ci si preoccupa di fare crescere i più giovani, fornendo modelli dignitosi di invecchiamento. E avendo sempre, tra i nostri punti di riferimento, il conforto della presenza di Gianni Romano, testimone critico della stagione più sperimentale della storia dell’arte in Italia, quella seguita alla morte di Longhi, calata nel pieno delle tensioni politiche degli anni Settanta. Da qui anche la forma delle schede di catalogo che nella loro lunghezza assillante e nello sforzo di recupero delle vicende bibliografiche e critiche vorrebbero oppor76

si alla pratica invalsa di trascurare quanto è stato fatto in passato o di riportarlo, con sciatteria e imprecisione, senza giudicare. Un segno grafico e una riga tipografica di spazio, e anche un cambio di registro nella scrittura, segnalano il passaggio dalla zona delle constatazioni, destinata soprattutto a chi è esperto del campo, a quella in cui si tracciano le coordinate storiche e stilistiche dell’opera oggetto d’indagine secondo il punto di vista dell’oggi. La durata, a tratti insopportabile, delle schede è causata dal corpo a corpo con i recenti cataloghi delle collezioni pubbliche milanesi che ospitano i dipinti del Bramantino: il confronto potrà dirla lunga sul modo con cui queste imprese sono state affrontate e sul senso di responsabilità di chi le ha coordinate (e continua a coordinarle) e pubblicate (e continua a pubblicarle). Un lavoro del genere si è riuscito a fare in pochi mesi, non solo perché il Bramantino è uno dei nostri artisti preferiti, ma anche perché nel corso degli anni gli studenti che hanno lavorato con noi si sono dedicati a ricerche che hanno affrontato o sfiorato l’argomento: ed è un piacere avere potuto dare loro voce. Da qui le informazioni riemerse sulle illustrazioni della Storia di Rosini, sui taccuini di Passavant, sulle note di Giordani, sulle minute di Cavalcaselle, sulla mostra lombarda del Burlington Fine Arts Club nel 1898, sugli interessi figurativi di Noseda, sui libri di conti di Steffanoni…: le schede sono state infatti allestite con un occhio di riguardo per le vicende della ricezione delle opere, seminando spunti che potranno dare frutti in più direzioni nelle tante indagini che restano da fare sul patrimonio artistico della Lombardia; non avremmo immaginato di recuperare, alla ricerca del Bramantino, incisioni di traduzione dagli affreschi di Palazzo Borromeo o una pala firmata di Lavinia Fontana, che appartiene – ignorata – al patrimonio della Pinacoteca di Brera. O di procedere all’identificazione degli autori delle sculture della Cappella Trivulzio o di affettare ancora di più il catalogo, già così tanto malfermo, di Andrea da Saronno, che in pochi anni si è sdoppiato e, per l’occasione, triplicato. Tra le regole del gioco che ci siamo dati c’è anche quella di considerare le testimonianze grafiche alla stessa stregua di quelle pittoriche: e perciò la mostra è in grado di allineare, grazie alla disponibilità della Biblioteca Ambrosiana e del suo conservatore Giulio Bora, il nucleo più ampio di fogli bramantiniani che finora sia stato esposto in un’unica occasione (cat. 4, 6, 7, 10, 25-27). La profonda esperienza di Howard Burns ci ha confortato nella conferma al corpus dell’artista del progetto, non poco trascurato negli studi recenti, della facciata della Cappella Trivulzio, conservato nella Raccolta Bianconi alla Biblioteca Trivulziana (cat. 31). Di questo settore dell’esposizione si sono fatti carico Alfonso Litta, autore nel 2009 di un buon profilo dell’artista in una serie bergamasca di pubblicazioni divulgative e di una tesi di dottorato sulla grafica bramantiniana, e Antonio Mazzotta, a cui spetta il primo suggerimento, nelle nostre frequentazioni quotidiane, a raccogliere le opere del Bramantino in città ai piedi dell’Argo (cat. 3). Nella convinzione – immediatamente condivisa da Francesca Tasso – di rendere più chiari e più mossi certi snodi della mostra, abbiamo deciso di aprire piste visive, di cui il volume, per l’urgenza dei tempi, non riesce a dare pienamente conto. Abbiamo perciò ritenuto opportuno destinare un certo spazio dell’esposizione alle più antiche riprese fotografiche di opere del Bramantino, prendendo a esempio la sequenza che dà conto delle vicende di scoprimento e di restauro, a 77


cavallo tra Otto e Novecento, del murale con l’Argo, grazie alla competenza di Silvia Paoli (figg. 14-17). Quell’exploit di pittura prospettica e profana non sarà stato un unicum a Milano: gli scarsi resti, di gusto bramantesco, ancora oggi visibili sotto il cornicione e tra le finestre affacciate su corso Venezia di casa Fontana Silvestri stanno a ricordare quanto Milano sia stata un’urbs picta; perché questo sia fatto presente ai visitatori si è pensato, d’accordo con Francesca Rossi, di accostare all’Argo il grande acquerello che nel 1896 Federico Frigerio trasse dalla facciata di corso Venezia 10 quando le decorazioni erano ben più visibili di ora (fig. x). Ci sembra giusto che gli arazzi con i Mesi (cat. 12-23) escano dal loro isolamento e riprendano temporaneamente contatto con una scelta di opere, tutte presenti nelle raccolte civiche, in grado di aiutare a chiarirne la genesi all’interno della cultura del committente: quindi si vedranno nella sala della Balla due codici provvisti di miniature provenienti dalla biblioteca di Gian Giacomo Trivulzio, monete e medaglie che riguardano lui e i suoi famigliari (figg. xxviii; 48), testimonianze delle sue predilezioni e così via, fino a uno scatto del 1935, che mostra il primo allestimento delle raccolte trivulziane al Castello Sforzesco, all’indomani del loro acquisto (fig. 41); per tutto questo siamo stati amichevolmente soccorsi da Isabella Fiorentini e da Rodolfo Martini. La magnifica collezione di sculture lombarde posseduta dal Comune di Milano ha suggerito di accostare – ed è stato possibile grazie a Laura Basso – un paio di opere ai dipinti del Bramantino, così da accennare ai visitatori lo sviluppo di stile che caratterizza il protagonista della mostra, ma anche la cultura figurativa che gli sta accanto e di cui è uno dei motori: uno splendido, e trascurato, Santo (fig. 5), che da qualche anno è entrato nella lista delle nostre predilezioni e che va annesso al canone della più espressionista scultura lombarda intorno al 1480, degna controparte della filoferrarese Adorazione del Bambino della Pinacoteca Ambrosiana e verosimile compagno del ben più celebre San Bernardo ex Contini Bonacossi, e uno degli Apostoli del Bambaia (fig. xxxviii), dalla disgraziata tomba di Gaston de Foix, in corso d’opera nella seconda metà del secondo decennio del Cinquecento, dove il gioco dei panneggi che reinterpretano così peculiarmente la tradizione classica sembra un’eco del Bramantino delle tavole oggi nella parrocchiale di Mezzana (cat. 28-29). Abbiamo ritenuto opportuno convocare a Milano, da cui verosimilmente provengono, questi due sconquassati capolavori, che pur nel loro stato di conservazione mantengono una forza espressiva difficilmente dimenticabile e siamo grati perciò alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, nelle persone di Sandrina Bandera e Isabella Marelli. Alla Pentecoste di Mezzana abbiamo voluto accostare l’Evangeliario di Francesco II Sforza, conservato nella Biblioteca Trivulziana, in cui una delle miniature (fig. 63), realizzate nel 1531 da Giovanni Giacomo Decio, traduce, in un linguaggio segnato dal Bambaia, la cifrata immagine del Bramantino. Non poteva mancare infine, ed è l’opera con cui si apre la mostra, l’incisione Prevedari di Bramante (fig. i), di cui il Comune di Milano possiede uno dei due soli esemplari noti: una delle immagini che nel 1481 hanno segnato le fantasie giovanili del Bramantino e che Giovanna Mori ha generosamente concesso, non unico dei suoi sostegni, costanti e premurosi, alla riuscita di questo progetto. Tra le inevitabili lacune della mostra c’è il non avere dato il risalto dovuto, per assenza di competenze specifiche, all’attività architettonica del Bramantino, non 78

meno significativa per lui – almeno nel tratto più avanzato della carriera – di quella figurativa. Quali saranno quegli «egregia et laude digna facinora in diversis Italiae locis per eum edita» di cui fa parola Francesco II Sforza nel nominare l’artista, il primo maggio 1525, architetto e pittore di corte (doc. 206)? A parziale compenso della nostra ignoranza si può segnalare che nel frattempo sono intervenuti degli accrescimenti sul fronte architettonico: i locali dell’abitazione dei canonici annessa alla Cappella Trivulzio, attualmente in restauro e purtroppo ceduti da poco a una proprietà differente da quella del Pio Luogo che gestisce il mausoleo di corso di Porta Romana, si sono rivelati – come ci hanno fatto presente Fabio Formenti e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Architettonici di Milano, Giovanni Battista Sannazzaro e Annamaria Terafina – segnati dall’intervento del Bramantino nei progetti e nelle severe decorazioni geometriche di alcuni ambienti. Ci è sembrato necessario mettere a punto, a tanti anni di distanza dalla monografia di Suida, che era stato su questo fronte aiutato da Achille Giussani e da Sofia Cederna Borgese, sorella della grande Camilla, un regesto dei documenti relativi al Bramantino: a partire da un’impalcatura allestita da Alfonso Litta, l’ha realizzato, con autentico spirito di servizio e grandi comprensione e competenza, Roberto Cara, a cui si deve più d’una delle novità che caratterizzano il percorso del Bramantino quale esce dalle fatiche di questa mostra. Grazie alla febbre archivistica degli ultimi decenni i documenti sono duecentosessanta a fronte dei settanta messi in campo da Suida nel 1953; i criteri con cui sono stati inseriti mancano qua e là di coerenza: speriamo che la flessibilità adottata nella selezione sia funzionale a un aumento di comprensione della vicenda del Bramantino e dei contesti in cui l’artista si è trovato a operare. Nella ristrettezza dei tempi ci si è proposti, modestamente, di raccogliere quanto emerso in sedi disparate, così da costituire una base di partenza per le ricerche a venire. La profonda esperienza e la premura affettuosa di Rossana Sacchi e Silvio Leydi sono stati di particolare aiuto in questo settore del lavoro. Ci si è potuto, ancora una volta, avvalere della totale disponibilità di Paola Gallerani e Marco Jellinek nel mettere a punto questo libro, senza tenere conto degli orari e delle feste: anche Serena Solla ha rischiato di rimanere travolta da queste abitudini. Maurizio Brivio è già della partita. Patrizio Aiello ha messo a disposizione del nostro progetto una generosità senza limiti. Dovuto al Bramantino era finalmente disporre di una campagna fotografica omogenea relativa ai suoi dipinti e disegni, condotta da un solo operatore e in tempi ravvicinati, secondo una prassi oggi regolarmente disattesa nei cataloghi delle esposizioni; pur nella ristrettezza dei fondi a disposizione, abbiamo deciso di intraprendere questa strada, grazie a Mauro Magliani, sodale di alcune delle mitologiche imprese di Sandro Ballarin. La quasi totalità delle immagini di questo libro è infatti realizzata da lui ex novo e speriamo non sia solo l’artista a beneficiarne. Per le opere distanti da Milano ci si è rifatti alla documentazione esistente: ci fa piacere che possa qui comparire a colori, per la prima volta, il Compianto di Bucarest. Non l’abbiamo visto dal vero, ma della sua qualità ci resta testimonianza in una nota di Luciano Bellosi che, non molti mesi prima di morire, si era recato – alla ricerca della salvezza – nella capitale della Romania. 79


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