PATRIZIO AIELLO
CARAVAGGIO 1951
MILANO
OFFICINA LIBRARIA MMXIX
PATRIZIO AIELLO
CARAVAGGIO 1951
Con una prefazione di Giovanni Agosti e una postfazione di Jacopo Stoppa
MILANO
OFFICINA LIBRARIA MMXIX
La ricerca e la realizzazione dell’opera hanno beneficiato di contributi del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e del Laboratorio di Documentazione Storico-Artistica della Scuola Normale Superiore di Pisa.
Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. © Officina Libraria, Milano, 2019 www.officinalibraria.net ISBN: 978-88-3367-009-6 Printed in Italy
SOMMARIO
Per Patrizio di Giovanni Agosti Caravaggio 1951 Premessa L’ingresso Sala i Sala ii Sala iii Sala iv Sala v Sala vi Sale a, b, c Sale vii-x Sala xi Sale xii-xiv Sala xv Sala xvi Sala xvii Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi. Itinerario
7 35 37 74 78 79 81 86 87 89 90 93 99 100 105 106 108 147
TAVOLE Appendici
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1951-1952: le realtà del Caravaggio di Jacopo Stoppa
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Indice dei nomi
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Immaginiamo, come in un gioco dalla ormai lunga
consuetudine, che a una mostra del Caravaggio come quella del 1951 si fosse atteso mezzo secolo più tardi. Una mostra a tutti gli effetti come quella, e non come le altre, numerose, sull’artista, che si sono succedute nella seconda metà del Novecento e che continuano, nel secondo decennio del XXI secolo, a imperversare nelle programmazioni culturali dei Comuni italiani.1 Molto probabilmente quella mostra sarebbe accompagnata da un battage pubblicitario frastornante ma soprattutto da un catalogo ben più voluminoso di quello edito allora da Sansoni, che non raggiungeva le 200 pagine di testo, tra comitati, introduzioni e schede.2 Altrettanto probabilmente, a corredo della mostra e del catalogo ci sarebbe un nutrito apparato collaterale, tra album dell’esposizione, brochures, poster, segnalibri, magneti e quant’altro di benedetto ci sia per i collezionisti e gli appassionati di fascette delle prime edizioni. E piace pensare che tra questi paratesti ce ne potrebbe essere uno, un dépliant magari, con la pianta del piano nobile di Palazzo Reale, come quella nelle prime pagine del catalogo Arte lombarda dai Visconti agli Sforza;3 o perlomeno con le didascalie delle opere esposte. Non sono prodotti editoriali rari, ma purtroppo non abbastanza diffusi.4 Con in mano questa ipotetica mappa avremmo il ricordo, a mostra finita, del percorso concepito da Roberto Longhi per una rassegna che è divenuta leggendaria, sia per la quantità di opere esposte, con 41
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prestiti mai più immaginabili, sia per lo straordinario successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori.5 E se è vero che il ricordo di una esposizione lo lascia il catalogo, è pur vero che in questo caso le brevi schede, ordinate alfabeticamente, non aiutano a ricostruire la disposizione delle «cerchie» caravaggesche chiamate a raccolta a Palazzo Reale. Il rinvenimento, frutto della cortesia di Silvia Paoli, di una campagna fotografica eseguita nelle sale della Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi ha consentito di colmare, in parte, questa lacuna. Si tratta di una serie di scatti del fotografo Vincenzo Aragozzini, in deposito presso l’Archivio Alinari di Firenze.6 Delle settanta lastre 18 5 24 dedicate alla mostra, solo dieci allargano l’obiettivo sull’allestimento: una documentazione certo non completa ma che in qualche modo rende conto della complessità della mise en scène di cui Longhi è regista ma, come si vedrà, non scenografo. È una precisazione necessaria, perché chi cercherà nelle fotografie i segreti di un allestimento ispirato e le ragioni del successo di pubblico senza precedenti non potrà che rimanere deluso. La sensazione, guardando le tavole, è che le ragioni scientifiche e quelle sceniche viaggino su due rette divergenti. Il dato più sorprendente, anzi, è l’assoluta non straordinarietà dell’allestimento, che non concede nulla allo stupore dei visitatori. Si tornerà più avanti su questo punto, mentre per quanto concerne l’incredibile affluenza registrata nei tre mesi scarsi d’apertura, con oltre 42
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400.000 ingressi, è opportuno non cadere in facili schematismi; non è solo per «la sete di immagini che assilla l’uomo moderno», come ebbe a osservare un commentatore dell’epoca senza spiegare chi è «l’uomo moderno» e quando subentra all’«antico»,7 e nemmeno – fino in fondo – per un semplicistico gioco di specchi con la realtà urbana post-bellica e con le baracche degli sfollati funzionali al neorealismo di Vittorio De Sica, in bella vista in viale Argonne e in altri vialoni della città ancora nel 1950. E dunque per evitare il rischio di sociologizzare conviene attenersi ai realia e accodarsi a Longhi nel riconoscere tra le ragioni del successo «l’accuratezza del piano, la buona scelta della sede nel cuore della metropoli lombarda, la semplicità e il decoro della presentazione, l’abilità dell’ufficio-stampa, la ricca collaborazione dei quotidiani e dei periodici; senza dimenticare il merito principale che spetterà sempre all’argomento stesso».8 A corollario possiamo aggiungere il mezzo radiofonico, con il radiodramma scritto da Piero Bianconi, L’uomo dal ferraiolo negro, in onda sulla Radio Svizzera Italiana la sera del 25 maggio 1951, trascritto e pubblicato a stretto giro sulle pagine della «Martinella di Milano».9 Nessuna considerazione su un evento di questa rilevanza, per di più a queste date, può prescindere dal clima della Milano del secondo dopoguerra e dalle sue capacità attrattive; la città che nel 1950 vede riaprire Brera e un anno dopo il Museo Poldi Pezzoli; 43
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che dà avvio ai lavori per la torre Breda, per chi crede ai simboli significativamente il primo edificio a superare la Madonnina del Duomo in altezza, e che lontano dal centro comincia a urbanizzare le periferie (il Dio di Roserio è pubblicato nel 1954; e se esistesse una fenomenologia dei tracciati tramviari, si dovrebbe rilevare che già in quegli anni a collegare la centralissima torre Breda a Roserio e dintorni era la linea 1, ancora oggi democraticamente in servizio, per un buon pezzo, sulla stessa tratta); ma è, o era stata, anche la città di Oltre Guernica, del Fronte nuovo, del Movimento Arte Concreta, del «Politecnico» o più banalmente di Miracolo a Milano, del realismo, del neorealismo e del relativo dibattito che inevitabilmente finisce con l’essere anche politico. Un dibattito che in qualche modo ha a che fare con la svolta del 1947 del Partito Comunista Italiano e con la presa di coscienza della distanza dal ceto medio («siamo il partito della classe operaia, ma ancora troppo poco il partito del popolo», dice Pietro Secchia nel 1947, alla prima Conferenza nazionale per l’organizzazione del pci),10 che impone il ricorso a «un linguaggio che più tocca il cuore, che più tocca il sentimento», in altre parole che raggiunga il «popolo».11 I ricaschi ovviamente si fanno sentire anche sul piano della politica culturale, e mentre la ždanovščina bussa alle porte,12 proprio in quel torno d’anni ha inizio per Einaudi la pubblicazione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, con le riflessioni sulla letteratura popolare e 44
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sul concetto di nazional-popolare, in particolare nel volume Letteratura e vita nazionale (1950), che sembrano aver maggior presa sugli intellettuali italiani rispetto ai rigidi dettami di Mosca: […] manca una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri.13
Solo un anno più tardi Roberto Longhi avrebbe chiuso l’introduzione alla mostra del Caravaggio con un invito a «leggere […] un pittore che ha cercato di essere “naturale”, comprensibile; umano più che umanistico; in una parola, popolare». Il gioco delle semplici sovrapposizioni lessicali è sordo di fronte alla complessità delle questioni sul tavolo, ed è pericoloso affrettarsi a collocare Longhi all’interno di una linea precisa nel dibattito sul realismo, ad esempio sulla scorta della categoria gramsciana «borghese-popolare» traslata da Mario De Micheli da un contesto linguistico a uno storico-artistico;14 soprattutto in considerazione della reticenza longhiana, in questi anni, nell’uso del termine «realismo», in favore del belloriano «naturalismo», più rispondente ai principi espressi nelle Proposte per una critica d’arte. Una distinzione destinata ad avere poca fortuna, soprattutto in seno alla stampa e ai commentatori di sinistra, che 45
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stanno facendo proprie le categorie di «realismo» e «naturalismo» come delineate da Lukács in Narrare o descrivere?, pubblicato in Italia nel 1953.15 Che Longhi abbia uno sguardo au-dessus de la mêlée, ma al tempo stesso attento, sul dibattito sul realismo sembrano dimostrarlo le sue parole del 1953, nell’introdurre la mostra dei Pittori della realtà, con cui stigmatizza il ricorso «oggi sempre più frequente nelle discussioni sull’arte, di questa parola pesante e decisiva». E ancora: «Se poi oggi l’esigenza sempre più sentita di reimpiego, per così dire, della parola “realtà” sia nel nostro campo originata da una, vorrei dire, “sazietà del digiuno” portato dall’astrattismo dominante o da ideologie indotte da altre sfere dell’intelletto e dell’azione, non è da ricercare qui».16 Come dire che tra le cause non si esclude la dialettica, ma neanche la direttiva di partito, da cui Longhi mantiene una certa distanza. La sua è un’adesione «non certo incondizionata» al marxismo, e su questo punto si rimanda ad Alessandro Conti, per il quale «la definizione di naturalismo […] in occasione della mostra del 1951 suonò come una conferma dell’impegno verso una società migliore delle esperienze figurative che nel dopoguerra si erano presentate con quello stesso nome».17 Ed è importante sottolineare l’occhio rivolto alle «esperienze figurative», e non alle istanze del Partito comunista, per non arrivare a includere, mal intendendolo, il giudizio di Longhi sul realismo tra le prove del «successo del marxismo […] tra gli intellettuali italiani».18 46
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Dall’altro lato, stando attenti a evitare le etichette, non bisogna eccedere nel marcare le distanze, e dimenticare l’«accostamento» di Longhi al pci, forse più intenso in anni poco più tardi rispetto a questi.19 E sarà anche sulla rotta di questo avvicinamento che si dovranno trovare le ragioni di uno schiarimento della sua prosa in atto già nel catalogo della Mostra del Caravaggio e poi, un anno dopo, nella monografia sul pittore edita da Martello; come se le critiche gramsciane ai «neolalismi» siano da recepire anche al di là del fatto artistico, in un’ottica divulgativa e di connessione tra «cultura» e «popolo». Ma il punto cruciale resta il rapporto con il realismo, ed è su quest’ultimo che si innestano alcune critiche alla mostra giunte dalla stampa di sinistra, con i suoi «soliti maccheroni dialettici».20 Non si tornerà su questo aspetto, che è stato di recente preso in esame;21 mette conto solo aggiungere una testimonianza, esclusa dagli ultimi studi perché taciuta da Longhi stesso nel Consuntivo. Si tratta di un trafiletto con cui Renato Guttuso dà notizia su «Rinascita» dell’avvenuta inaugurazione della Mostra del Caravaggio. Il pittore, il cui giudizio è nel complesso favorevole, si concentra sull’aspetto «fortemente realista» del Caravaggio, «un artista profondamente rivoluzionario, sia nei confronti del cattolicesimo della Controriforma, sia della consuetudine accademica dei pittori di quegli anni».22 L’opposizione, prima che a Longhi, è a Vittorini, che nel Caravaggio vede il padre di uno «pseudo-realismo» e di una rivoluzione 47
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anti-accademica risolta a metà, «che costituisce tuttora la base, anche all’estero, delle scuole pittoriche legate al favore dei partiti di massa e dei regimi di polizia».23 Parole da leggere alla luce della distanza, ormai maturata da tempo, di Vittorini dalla linea del pci; una distanza ampliata pochi mesi più tardi dall’attacco dello scrittore, sulle pagine della «Stampa», alle «risoluzioni oscurantiste che prendono nome da Ždanov» e alle «decisioni del Concilio tridentino del Cominform». L’anatema di Togliatti arriverà a strettissimo giro dalle colonne di «Rinascita».24 Per Guttuso il realismo del Caravaggio, inteso come il «vivo legame con il popolo e con le lotte della società contemporanea», non è invece in discussione né motivo di dibattito; ciò che l’artista rimprovera alla mostra, semmai, è l’abbondanza di opere «chiesastiche, cupamente controriformiste», che smorzano la forza dell’«influenza» del Caravaggio, «che si esercitò profondamente soprattutto nei contenuti», in particolare di carattere laico. Nature morte, bacchini, ragazzi con canestre, ramarri o pere, indovine, zingarelle, bari e via dicendo; qui sta, per Guttuso, il segno della rivoluzione popolare che «smantella» le gerarchie stabilite dalla Controriforma, il realismo che ha un punto d’incontro, «in qualche modo», con la Mostra del Caravaggio.25 L’esposizione caravaggesca prende forma in questo clima, che a Milano è ulteriormente arroventato dai problemi della giunta comunale. La data di nascita 48
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della mostra può essere fissata senz’altro al 30 giugno 1949, quando Antonio Greppi, primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, partigiano e socialista, scrive a Fernanda Wittgens, soprintendente alle Gallerie della Lombardia: Non occorre che mi dilunghi a illustrare a Lei il significato di un’iniziativa destinata a sciogliere il voto di un trentennio di studi […]. Di più essa costituirà una doverosa rivalutazione del fondamentale filone «lombardo» che, tramite appunto Caravaggio, ha avuto tanta parte nei nuovi orientamenti della pittura moderna europea.26
Greppi in questi mesi si trova alla guida di una giunta indebolita dall’uscita del psi e del pci, trainata dal Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (psli) nonostante la maggioranza relativa democristiana; l’invito alla soprintendente, nota per i suoi trascorsi antifascisti, cattolica, vicina agli ex-azionisti, dev’essere perciò ben visto da più parti in Comune. Il sindaco è avvertito del dibattito critico trentennale e, a riguardo, si esprime nettamente in favore di quel «filone “lombardo”», in aperto ossequio alla lettura del Caravaggio data da Roberto Longhi, che in questi anni non è certo scontato.27 Il rischio è di sovrainterpretare le parole di Greppi, ma è da correre se si ha presente che, complici le sue note inclinazioni letterarie, sta lavorando da qualche tempo a un testo sul pittore.28 Certo, questa adesione a un Caravaggio «lombardo» è da intendere anche come condizionata 49
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e funzionale a un diverso scopo, magari di carattere politico, il cui fine – in sostanza – è la legittimazione della città come centro artistico, in una sorta di riscatto culturale di cui non si fa mistero nella Relazione conclusiva della presidenza redatta a mostra chiusa.29 L’invito di Greppi è raccolto e mercoledì 6 luglio 1949 il comitato promotore della mostra si riunisce «allo scopo di esaminare […] le possibilità pratiche della mostra, nonché di elaborarne il piano organizzativo». Da questa riunione esce una bozza di organigramma su due fogli con intestazione dattiloscritta «mostra del caravaggio». A far parte della «commissione per la scelta delle opere» sono chiamati Giulio Carlo Argan, Giovanni Costantini (presidente della Pontificia commissione per le opere d’arte sacra in Italia), Roberto Longhi, Matteo Marangoni, Rodolfo Pallucchini, Mario Salmi e Lionello Venturi. Per il «comitato esecutivo» si propone una rosa di nomi illustri: Felice Buzzetti, Raffaele Calzini, Alessandro Casati, Mario Cattabeni, Francesco Flora, monsignor Vittore Maini, Gian Luigi Ponti e Fernanda Wittgens; Costantino Baroni è indicato come «segretario tecnico», assistito da Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento il comitato promotore avanza il nome di Franco Albini, affiancato dai soprintendenti Luigi Crema (ai Monumenti) e Guglielmo Pacchioni (alle Gallerie).30 Il 5 settembre 1949 arriva l’approvazione della proposta da parte della giunta comunale. A interessarsene, oltre al sindaco, è l’assessore «supplente per l’arte, 50
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spettacoli pubblici e sport» Lamberto Jori, anche lui come Greppi traghettato dal psi al psli con la corrente di «Critica sociale» e noto per il suo sostegno alla nascita del Piccolo Teatro non più di due anni prima.31 Il 23 settembre giungono le nomine ufficiali, su carta intestata «Mostra del Caravaggio promossa dal Comune di Milano sotto il patrocinio del Ministero della pubblica istruzione. Palazzo Reale – aprile-ottobre 1950».32 È il caso di smentire subito un’informazione ripetuta troppo spesso ma non corrispondente alla realtà documentaria, per cui la scelta della sede sarebbe uno dei molti meriti apportati da Longhi alla mostra del Caravaggio. In realtà la responsabilità è del comitato organizzatore, che prende una decisione da leggere nel perimetro del dibattito cittadino sulle sorti del palazzo «ex reale», già sede di alcune mostre nel dopoguerra – tra cui Arte astratta e concreta (gennaio – febbraio 1947; fig. 1) e quella dedicata alla collezione Guggenheim (giugno 1949) – ma dalla destinazione d’uso sostanzialmente ancora incerta.33 Lo conferma in via indiretta un promemoria della Wittgens databile all’autunno 1949 in cui si ricorda che Longhi, al pari di Venturi e Argan, ha dato fino a quel momento solo la sua «autorevole adesione di massima» all’organizzazione dell’evento:34 difficile sostenere, in questa fase, un suo ruolo determinante su questioni logistiche e, in generale, non di carattere strettamente scientifico.35 51