GIORGIO MARTIGNONI ROBERTO RONCHI
CALCIO
I grandi campioni sono moderni eroi, le loro vite e le loro imprese sono storie di uomini e donne: storie di riscatto e di emancipazione da esistenze modeste, storie di sacrifici e successi, sconfitte e vittorie. Ogni volume della nuova collana di Officina Libraria WATCH – We Are The Champions racconta la storia di uno sport attraverso le biografie di grandi atleti, veloci e coinvolgenti come le loro performance. Fedele alla rinomata qualità dei suoi libri illustrati, per queste storie Officina ha ingaggiato l’agile penna di Giorgio Martignoni e il magistrale tratto di Roberto Ronchi: pagine che sono un’esplosione colorata di energia, illustrazioni essenziali come i gesti atletici più efficaci, come la plasticità di un movimento o l’espressione di un volto, icone capaci di far «perdurare l’incanto» di un grande gesto sportivo, dal gol che decide una finale alla salita più dura, dal canestro da tre punti che ribalta il risultato all’ultimo secondo al gancio decisivo che assegna la cintura di campione del mondo, l’incanto che uomini leggendari hanno regalato ai tifosi di tutto il mondo, compresi gli autori di questo volume. E dunque si comincia con lo sport più popolare del pianeta e si può dire che se la storia del calcio la fanno i fuoriclasse, WATCH – Calcio è un libro di Storia. Per ogni appassionato tifoso che voglia vedere da vicino le stelle che hanno illuminato e illuminano gli stadi di tutto il mondo, e per chi voglia ritrovarsi nelle maglie che rappresentano epiche pagine di sport. I trenta più grandi calciatori del mondo in trenta biografie: guizzanti come un’azione in porta, lasciano con il fiato in sospeso come ai rigori e in ciascuna c’è più di un aspetto curioso, eroico e a volte un tocco di poesia. Si parte con i grandi campioni del passato, come Sindelar e Meazza, per arrivare agli idoli di oggi, Messi e Cristiano Ronaldo, ripercorrendo vite e azioni di tutti quei campioni che ci hanno fatto vivere momenti magici allo stadio o davanti al piccolo schermo. Chi non ricorda Pelè, Crujiff o Maradona? Chi non ha sentito parlare di Maldini, Beckenbauer o Jasˇin?
Roberto Ronchi | Firenze, 1960
Illustratore e creatore di personaggi e progetti editoriali, disegna da svariati anni per Disney (Italia, USA, Giappone) nei settori libri, fumetti e consumer product. Collabora e/o ha collaborato nell’editoria anche con De Agostini, Piemme, Mondadori, Dalai B&D, Fabbri, Corriere della Sera, Egmont, Hachette, Hearst e Eaglemoss. Ha realizzato progetti per Kinder Ferrero e Macdue giocattoli. Nel 2014 ha illustrato Il Libro Infame (Tunuè) ideato con Gianluca Nicoletti che lo ha scritto.
Giorgio Martignoni | Varese, 1963
Diplomato alla Scuola del Fumetto di Milano e all’Accademia Disney come sceneggiatore, frequenta i laboratori di drammaturgia teatrale del Teatro di Pisa e il Master RAI-Script organizzato dalla Radio Televisione Italiana. Dal 1995 è sceneggiatore di storie a fumetti per la Walt Disney Co. e pubblica due romanzi per ragazzi: Cocopa (Edizioni MGC) e Joker va in campagna con le pinne (Kaba Edizioni). È autore del format e dei testi di Comics Land inserto fumettistico del programma radiofonico Grammelot, Radio3 RAI.
SOMMARIO
16 Schiaffino
12 Meazza
8 Sindelar
42 G. Banks 36 Garrincha
40 Charlton
70 Best 60 G. M端ller
64 Beckenbauer
96 Maradona 88 Platini
94 Rummenigge
114 Zidane
112 Maldini
118 Ronaldo
32 Jasˇin
20 Di Stéfano 26 Puskás
52 Eusébio
56 Rivera
46 Pelé
78 Cruijff
86 Zico 84 Keegan
106 Van Basten
110 Baggio
104 Matthäus
126 C. Ronaldo
122 Ibrahimovic´
130 Messi
WE ARE THE CHAMPIONS Centro sportivo “Arthur Wharton”, giovedì pomeriggio. Negli spogliatoi – Il Mister non mi ha fatto nemmeno sedere in panchina. Dice che la divisa non è regolamentare.1 – Assurdo. Anche ha me ha detto lo stesso, non posso tenere in testa il sombrero2 e nemmeno cantare «nella rete del mio cuore tu non sbagli mai un rigore». – Bella! L’hai scritta tu? – Certo! Le ragazze in tribuna la sanno già a memoria. La cantano ogni volta che entro in campo. – Sei un genio! – Eh, ma il boss non la pensa così… mi dice di badare solo a giocare e di non fare il pagliaccio. Ma i tifosi impazziscono per il nostro stile! – Forse era nervoso perché abbiamo aperto la gabbia dei canarini del custode,3 ti rendi conto? Eppure è lui che ci ha detto di prendere esempio dai grandi campioni! – A proposito, ti ricordi come si è arrabbiato quando ho fatto cadere i pantaloncini prima di calciare il rigore?4
– Ah, ah! È vero. Però hai fatto gol! Come quella volta che anziché tirarla direttamente in porta me l’hai passata, io te l’ho ridata e tu hai segnato col portiere a farfalle!5 Mitico! Avevo scommesso un bicchiere di granatina6 che saresti riuscito a fargli gol! – Già, peccato che la granatina «non è consentita» e che ce l’ha fatta buttare via, insieme al pesce fritto7 che avevamo portato negli spogliatoi per festeggiare. Che colpa ne abbiamo noi se non conosce la storia del calcio? – Figurati che quando ha visto che indossavo dieci paia di calzettoni8 è diventato tutto rosso e si è attaccato al thermos… – …che era pieno di minestrone!9 – Certo per rinforzare il fisico! Ma lui non se l’aspettava e si è strozzato. Aveva dei pezzi di carote che gli uscivano dal naso, mo-stru-oso, e mi ha fatto segno di tornare a casa. – Non vinceremo mai un mondiale se non si documenta un po’. – Potremmo regalargli una copia di WATCH… – Uhm, quello mica legge i libri… – Ma almeno può guardare le figure, con tutte quelle azioni, e dare un’occhiata alle statistiche: è fissato con i numeri! – Dai, facciamogli uno scherzo, tipo una dedica finta… – …sottoscritta da qualche calciatore super importante! Ok, ce l’ho: «Se leggi questo libro scoprirai che un paio dei tuoi ragazzi hanno qualcosa in comune con i più grandi campioni di tutti i tempi. Scommetto un bicchiere di granatina che con loro vincerete il campionato! Firmato: Michel Peléatini. P.S.: Quando mi faccio la barba non posso fare a meno di cantare “nella rete del mio cuore tu non sbagli mai un rigore”. La proporrò come inno per i prossimi Mondiali!» – Dici che ci casca? – È sicuro. Clarence G. Bourgogne
1. Tutte le stravaganze dei ragazzi sono tratte da episodi raccontati nel libro. Per il costume da Batman e la canzone vedi Kevin Keegan. 2. George Best. 3. Garrincha. 4. Beppe Meazza. 5. Johann Cruijff. 6. Michel Platini. 7. Alberto Di Stéfano. 8. Ronaldo. 9. Cristiano Ronaldo.
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Lev
JaŠin il ragno nero
«La gioia di vedere Jurij Gagarin volare nello spazio è superata solo dalla gioia di parare un rigore!» Lev Jašin Lev Ivanovicˇ Jašin | Mosca, 22 ottobre 1929 – 20 marzo 1990 nazionalità: russa altezza: 189 cm peso: 82 kg ruolo: portiere
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Il più grande portiere della storia del calcio, l’unico capace di conquistare il Pallone d’Oro nel suo ruolo, nasce a Mosca il 22 ottobre 1929. Fin da piccolo lo sport è la sua passione, ma il lavoro in fabbrica è una necessità. Donne e ragazzi vengono reclutati per sostituire gli uomini impegnati sul fronte occidentale e anche Lev, all’età di quattordici anni, lavora come operaio metalmeccanico a Mosca. È alto e ha le braccia lunghe, i compagni di lavoro «dicevano che avevo dei riflessi prontissimi e si divertivano a tirarmi all’improvviso quello che gli capitava tra le mani: bulloni, scatole, panini. E io prendevo al volo tutte queste cose», racconta.
Comincia a frequentare la società sportiva della fabbrica e alla fine della guerra i dirigenti della Dinamo lo notano e lo fanno entrare nella formazione giovanile nel 1949. In attesa di promuoverlo tra i titolari della prima squadra, il cui posto era stabilmente occupato dal grande Aleksej Khomich, lo dirottano tra i pali della formazione di hockey su ghiaccio… e nel 1953 vince addirittura il Campionato sovietico! L’anno successivo il portiere «inamovibile» si infortuna e così viene chiamato a sostituirlo. «Era la mia prima partita e dovevo essere all’altezza del mio predecessore. […] La partita era appena cominciata, io stavo lì, tra i pali, tutto emozionato, quando il portiere della Torpedo fece un rilancio lungo, molto lungo. Il pallone volò alto, attraversò tutto il campo, andò a cadere sulla linea della mia area di rigore, rimbalzò… io mi gettai sul pallone, ma mi scontrai con un compagno di squadra. Il pallone, beffardo, rotolò in porta: 0-1! Lì per lì pensai d’essermi giocata la carriera.»
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Aveva venticinque anni e a dispetto di questo incidente di percorso giocherà 326 partite con la stessa maglia e conquisterà cinque titoli nazionali diventando una leggenda. È alto 189 cm, possiede riflessi eccezionali e con il suo senso della posizione dà sempre l’impressione di poter coprire ogni angolo della porta. Non ha rivali nella capacità di bloccare la palla con interventi plastici o di rinviarla con uscite spericolate. Gli attaccanti devono fare i conti con una valanga umana che gli si getta contro senza paura, oppure che li sfida spingendosi fuori dall’area di rigore, da dove rilancia il contropiede della sua squadra. Nessuno aveva visto prima di allora un portiere comandare la difesa con quella sapienza tattica e con quell’autorità. Rivoluziona il suo ruolo, ma più di ogni altra cosa diviene un idolo per gli sportivi perché para tutto. La sua specialità sono i calci di rigore. In carriera ne annulla più di 150, spiegando che tali prodezze gli riescono grazie all’esperienza e alla conoscenza profonda dell’avversario. Non la pensa così Sandro Mazzola, attaccante dell’Inter e della Nazionale italiana: «Jašin mi parve una figura ingigantita dal nero della maglia, una sorta di mostro che invece di mani e piedi protendeva tentacoli. Lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si buttava a destra: potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Jašin. Aveva rimpicciolito la porta, mi aveva stregato». La divisa completamente nera, da cui il soprannome Ragno Nero, le mani grandi, la leggenda che dopo ogni rigore parato trovasse un quadrifoglio nei pressi della porta, il gesto scaramantico di portare due cappelli, uno da indossare e l’altro da piazzare dietro la porta, il sospetto che ipnotizzasse i tiratori avversari, e i suoi preparativi «segreti» che consistevano nel
fumare una sigaretta e nel farsi un goccio di superalcolico prima della partita, contribuiscono a creare una figura carismatica che incute una sorta di timore reverenziale e di sudditanza psicologica anche agli attaccanti più smaliziati. L’URSS si affida alle sue qualità: con la maglia della Nazionale Jašin gioca 128 volte (78 ufficiali e 50 amichevoli, ed è presente in quattro Mondiali), vince il titolo olimpico a Melbourne nel 1956 e quello europeo nel 1960. Per tredici anni è un muro invalicabile, in alcuni casi eroico: ai Mondiali di Calcio del Cile (1962) subisce un violento colpo da parte di un calciatore della squadra di casa, ma rimane in campo con un occhio bendato e con la visuale dimezzata. Subito dopo i Mondiali annuncia il suo ritiro, ma ci ripensa immediatamente e l’anno successivo torna alla ribalta con una serie di prestazioni impeccabili che lo portano, dopo esserci andato vicino più volte, a vincere il Pallone d’Oro. Diventa un simbolo della rinnovata potenza politica e militare sovietica. Nel 1967 riceve per questo l’Ordine di Lenin (la massima onorificenza dell’URSS in tempo di pace). Alla partita d’addio nel 1971 allo stadio Lenin di Mosca contro una selezione di all-star mondiali, tra i quali Pelé, Bobby Charlton ed Eusébio, assistono centotremila spettatori, ma la richiesta di biglietti supera quota settecentomila! Quando Jašin abbandona il campo alla fine del primo tempo la sua porta è inviolata, e il pubblico lo saluta tra le lacrime. Dopo il ritiro allena alcune squadre minori in Unione Sovietica e in Finlandia. Nel 1989 riceve la medaglia di Eroe del Lavoro Socialista e nel 1990, dopo la diagnosi di un male incurabile, muore all’età di sessant’anni. Gli è stato dedicato l’asteroide denominato 3442 Yashin.
TITOLI INDIVIDUALI 1 Pallone d’Oro (1963) 812 presenze, oltre 150 rigori parati (1949-1971) VITTORIE CON LA FK DINAMO MOSCA 1 Campionato sovietico Hockey ghiaccio (1952/53) 5 Campionati sovietici di Calcio (1954, 1955, 1957, 1959, 1963) 3 Coppe dell’URSS (1953, 1967, 1970) VITTORIE CON LA NAZIONALE 1 Olimpiade (1956) 1 Campionato europeo (1960)
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«Pelé è uno dei pochi che hanno smentito la mia teoria: i quindici minuti di celebrità, per lui saranno quindici secoli.» Andy Warhol
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Edson Arantes do Nascimento | Três Corações, 23 ottobre 1940 nazionalità: brasiliana altezza: 172 cm peso: 75 kg ruolo: attaccante
Três Corações, villaggio del Minas Gerais, uno stato a nord di Rio de Janeiro. In paese è arrivata l’elettricità e per festeggiare l’avvenimento il calciatore Dondinho chiama suo figlio Edson, in onore di Thomas Alva Edison. In una piccola casa costruita con mattoni di seconda mano nasce così Edson Arantes do Nascimento, è il 23 ottobre 1940, e quando Dondinho vede scalciare quelle gambette magroline esclama: «Sarà un grande calciatore!» Fin dall’età di tre anni, Edson è appassionato di calcio e ogni volta che può si mette in porta cercando di emulare Bilé, il portiere della squadra del padre. A ogni tiro respinto urla «Buona Pilé! Bel salvataggio, Pilé!» finché un compagno di classe comincia a prenderlo in giro chiamandolo Pelé! Le prime partite nel vicolo Rubens Arruba, con un pallone fatto con un calzino pieno di stracci, sono interminabili. Ma il gioco e il divertimento diventano una vera ossessione quando Edson vede piangere suo padre per la prima volta.
È il 1950, il Brasile ha perduto il Mondiale giocato in casa contro l’Uruguay, e nel vano tentativo di consolarlo, davanti a un quadretto di Gesù, promette: «Un giorno vincerò il Mondiale per te». Comincia a giocare in piccole squadre dilettantistiche, poi Waldemar de Brito, campione brasiliano degli anni ’30, lo porta a San Paolo per un provino al Santos. Nel 1956 Pelé debutta in prima squadra, non ha ancora sedici anni. Mostra una tecnica e un’abilità atletica incredibili e va subito in gol. È esplosivo nei movimenti, è agile, gioca di prima e ha un sesto senso che gli consente di anticipare tutti. Nel 1957 è il miglior realizzatore del Santos e l’anno successivo, segna 58 gol in 38 partite, con una media da fantascienza. A furor di popolo viene convocato in Nazionale per i Mondiali di Svezia. Il «bambino creolo» realizza 6 gol in 4 partite e trascina la sua Nazionale alla prima vittoria Mondiale. Nella finale contro la Svezia segna uno dei più grandi gol nella storia della Coppa del Mondo. Al 10’ della ripresa dribbla tre avversari di fila, ne supera un quarto, Gustavsson, con un pallonetto
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e ruba il tempo al portiere infilandolo con un tiro diagonale al volo. La «torcida» sugli spalti urla «Samba! Samba!» e quando segna anche il quinto gol, di testa, per l’emozione sviene davanti alla porta. Garrincha gli solleva le gambe ma lui si riprende solo quando la partita è finita. I giocatori piangono di gioia, il mondo intero ha tifato Brasile e anche il difensore che lo aveva marcato, Parling, ammette «dopo il quinto gol, anch’io avevo voglia di applaudire». Pelé invece non riesce a ripetere altro che «devo dirlo a mio padre…» «Paris Match» gli dedica una copertina scrivendo che il calcio ha un nuovo re. O Rei ha conquistato il cuore di tutti e in Brasile viene accolto come un eroe. Tutti vogliono vederlo giocare, e nel Santos ripaga i suoi tifosi inanellando una serie incredibile di risultati. È un giocatore spettacolare, capace di realizzare un numero enorme di gol. Nella sua carriera segna 92 triplette e in una partita contro il Botafogo batte il portiere Machado per otto volte! Eppure «la difficoltà, lo straordinario, non è segnare mille gol come Pelé, ma è segnare un gol come Pelé» disse il poeta Carlos Drummond de Andrade. Magari come quello del marzo del 1961, realizzato al Maracanã, contro il Fluminense e conosciuto come il «gol de placa» perché in sua memoria fu realizzata una targa in bronzo. «Presi il pallone fuori dalla nostra area di rigore e iniziai a correre verso la porta. Un avversario venne verso di me per fermarmi, poi un altro, poi un terzo, un quarto, un quinto, un sesto… e io li saltai tutti come se stessi danzando, fino a superare anche il portiere».
TITOLI INDIVIDUALI 1 Pallone d’Oro – Prix d’Honneur (2013) 1367 presenze, 1283 reti (1956-1977) VITTORIE COL SANTOS 10 Campionati Paulista (1958, 1960, 1961, 1962, 1964, 1965, 1967, 1968, 1969, 1973) 2 Coppe Intercontinentali (1962, 1963) 2 Coppe Libertadores (1962, 1963) VITTORIE CON IL COSMOS 1 Campionato NASL (1977) VITTORIE CON LA NAZIONALE 3 Campionati del Mondo (1958, 1962, 1970)
Il Santos diventa la squadra più famosa del pianeta, vince tutto, e «io non riuscivo a smettere di segnare», ammetterà Pelé. I grandi club europei cominciano a corteggiarlo almeno fino a quando il presidente del Brasile lo dichiara «Patrimonio Nazionale» e quindi non «esportabile». Per vederlo non resta che invitare il Santos a giocare partite amichevoli in ogni angolo del mondo. Giocano anche quattro partite a settimana. Il pubblico, gli avversari e i media vanno in visibilio. Intanto la Nazionale carioca vince i Mondiali in Cile nel 1962, anche se Pelé si infortuna nel primo incontro, così come succederà ai Mondiali del ’66, vinti dall’Inghilterra in casa, dove si infortuna al ginocchio a causa delle attenzioni particolari che gli riservano gli avversari e che gli faranno dichiarare di non voler più giocare in Nazionale.
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Per fortuna ci ripensa e ai Mondiali del 1970 in Messico, insieme a una formazione fantastica, O Rei regala al Brasile la vittoria che vale l’assegnazione definitiva della Coppa Rimet. Vincono a ritmo di Samba, e arrivano in finale con l’Italia. Allo stadio Azteca, dopo 18 minuti Rivelino crossa in area e Pelé salta insieme al difensore Burgnich. Il difensore cede alla forza di gravità, O Rei no. Resta sospeso per aria, colpisce di testa e infila il portiere con un gol incredibile. Il Brasile trionferà vincendo 4-1 e un’intera nazione sarà ancora ai suoi piedi. «Prima della partita mi ripetevo: “è fatto di ossa, carne e sangue come me”. Be’, mi sbagliavo» dice Tarcisio Burgnich, e il «Sunday Times» intitola: Come si scrive Pelé? D-I-O Il 2 ottobre 1974, dopo venti minuti dall’inizio di una partita contro il Ponte Preta, Pelé si trova a centrocampo. Riceve la palla, la prende con le mani e si inginocchia mettendola tra le gambe. Alza le braccia come a formare una croce con il corpo e si gira lentamente verso ogni angolo del campo. Le lacrime gli rigano il viso, dopo quasi diciannove anni con la stessa maglia, O Rei abbandona il calcio e la folla piange con lui. Il più ricco ingaggio che avesse mai sottoscritto e l’idea di promuovere il calcio negli USA lo convincono, però, a indossare la casacca del Cosmos e per la prima volta nella sua storia il «New York Times» darà spazio al «soccer» in prima pagina. O Rei giocherà altri tre anni incrementando il suo palmares e impegnandosi nel sociale come ambasciatore del calcio e della pace nel mondo a coronamento della straordinaria carriera di un campione umile, gentile e di grande cuore come solo un uomo nato a Três Corações può essere.
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Gianni Rivera
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«Il capitano del Milan è il solo a dare ancora un senso di poesia a questo sport. Come Oscar Wilde, egli ricerca il lato estetico più che il risultato.» Pallone d’Oro 1969, motivazioni della giuria
Giovanni Rivera | Alessandria, 18 agosto 1943 nazionalità: italiana altezza: 175 cm peso: 68 kg ruolo: trequartista
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Nel 1958, a quindici anni, esordisce nell’Alessandria, la squadra della sua città, e dopo una partita contro il Milan l’allenatore della formazione rossonera, Gipo Viani, cerca di persuadere la dirigenza ad acquistarlo: «Presidente, al Moccagatta [lo stadio di Alessandria] ieri c’era nebbia. Non si capiva chi fosse Schiaffino e chi Rivera». Malgrado i limiti dinamici dovuti a un fisico esile, Rivera convince per il suo modo di interpretare il gioco: ha una tecnica sublime e un’intelligenza tattica rara. Accarezza la palla, la sfiora, gioca di prima, non spreca mai i palloni ed effettua passaggi in profondità vellutati e precisi. E così nel 1960 debutta nel Milan. In diciannove anni giocherà 659 partite sempre con la stessa maglia, incantando la platea calcistica con il suo stile e le ragazze (e le loro mamme) con i suoi modi garbati e con il suo eloquio forbito.
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La critica invece è divisa. Si guadagna l’epiteto di «abatino» (giovane prete mondano e lezioso) dall’autorevole giornalista sportivo Gianni Brera perché, «deficitario di qualità agonisticoatletiche», non si sacrifica per la squadra. In effetti non corre, non marca, non insegue gli avversari e lascia il lavoro pesante di interdizione ai «gregari», che allenatori come Nereo Rocco gli posizionano al fianco. In questo modo, però, può dedicarsi completamente alla gestione del gioco: detta i tempi e rifornisce gli attaccanti di palle pronte per essere calciate in porta. «È stato uno dei più grandi assistmen della storia e la sua abilità nel dribbling e nella distribuzione del gioco ha avuto pochi eguali» dirà Michel Platini. Il 22 maggio 1963, a Wembley, il Milan conquista la sua prima Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusébio. Rivera ha vent’anni e, in un periodo in cui il «catenaccio» identifica le squadre italiane, propone un calcio spettacolare votato all’attacco. Secondo la stampa inglese è un «Golden Boy».
La sua carriera straordinaria culminerà nel biennio 1968/69 con scudetto, seconda Coppa dei Campioni contro l’Ajax, Coppa delle Coppe, Coppa Intercontinentale, Campionato europeo con la Nazionale e Pallone d’Oro. Con la Nazionale partecipa a quattro edizioni dei Mondiali, ma l’alternanza con Sandro Mazzola, che il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi gestisce con la famigerata «staffetta» (giocano un tempo per uno, nello stesso ruolo), condiziona in parte le sue prestazioni. Mondiali di Messico ’70, semifinale contro la Germania Ovest. Dopo un epico susseguirsi di emozioni e di ribaltamenti di fronte, al 5’ del secondo tempo supplementare Gerd Müller pareggia con un gol di testa: 3-3. A portiere battuto, la palla passa in uno spiraglio tra Rivera e il palo. Il Golden Boy, in pieno sconforto, si rivolge al portiere Albertosi: «Adesso vado e sistemo le cose». Palla al centro, passaggio a Facchetti, da questi a Boninsegna che va sul fondo
TITOLI INDIVIDUALI 1 Pallone d’Oro (1969) 744 presenze, 184 reti (1958-1979) VITTORIE COL MILAN 3 Campionati italiani (1961/62, 1967/68, 1978/79) 4 Coppe Italia (1966/67, 1971/72, 1972/73, 1976/77) 2 Coppe dei Campioni (1962/63, 1968/69) 2 Coppe delle Coppe (1967/68, 1972/73) 1 Coppa Intercontinentale (1969) VITTORIE CON LA NAZIONALE 1 Campionato europeo (1968)
e da sinistra mette in mezzo, rasoterra. Rivera arriva puntuale sulla palla e, con un preciso tocco di piatto destro a incrociare, spiazza Sepp Maier che, secondo il radiocronista Enrico Ameri, «rimane impietrito come un ramarro». Sono passati sessanta secondi: 4-3. L’Italia è in finale. Il Golden Boy è un eroe, e la «partita del secolo» (come recita la targa esposta allo Stadio Azteca) entra nella storia. Proprio per questo nessuno si sarebbe aspettato l’ennesimo affronto al talento: nella finale contro il Brasile Rivera viene mandato in campo solo a sei minuti dalla fine di una partita ormai compromessa. «Rivera avrebbe trovato posto, e per tutti i 90 minuti, in qualsiasi Nazionale, anche nel Brasile che poi si è laureato campione del Mondo» disse José Altafini. Nel 1979 si ritira dal calcio giocato, è vicepresidente del Milan fino al 1986, poi si dedica alla carriera politica. Nel 2010, proprio lui che diceva «non mi sono mai sentito bambino perché quando si facevano le squadre finivo sempre a giocare con i ragazzi più grandi», si fa carico del settore Giovanile e Scolastico della Federazione Italiana Gioco Calcio. «I quattro calciatori italiani più forti? Rivera, Rivera, Rivera e Rivera.» (Alf Ramsey, commissario tecnico della Nazionale inglese)
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Cruijff il profeta del gol
«Non è un attaccante, ma fa tanti gol; non è un difensore ma non perde mai un contrasto; non è un regista ma imposta il gioco in ogni zona del campo e gioca il pallone sempre per i compagni» Alfredo Di Stéfano
Hendrik Johannes Cruijff | Amsterdam, 25 aprile 1947
nazionalità: olandese altezza: 176 cm peso: 68 kg ruolo: trequartista
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Negli anni ’60 ad Amsterdam è in corso una grande rivoluzione culturale e masse di giovani invadono Vondelpark e piazza Dam piantando le tende e predicando l’amore libero. Arrivano da tutto il mondo e hanno una concezione radicale dell’idea di libertà. È in questo contesto sociale che il piccolo Hendrik Johannes, detto Johan, tira i primi calci a un pallone. Classe 1947, orfano di padre a dodici anni, «questo elettrico magrolino era entrato nelle file dell’Ajax quando era ancora un bambino: mentre sua madre lavorava nella taverna del club, lui raccoglieva i palloni che finivano fuori, lucidava le scarpe dei giocatori, collocava le bandierine agli angoli del campo e faceva tutto quello che gli chiedevano e niente di quello che gli ordinavano. Voleva giocare ma non glielo permettevano a causa del suo fisico troppo debole e del suo carattere troppo forte. Quando glielo permisero, non smise più. Ancora ragazzo debuttò nella Nazionale olandese, giocò stupendamente, segnò un gol e fece svenire l’arbitro con un cazzotto» scrive Eduardo Galeano. A soli quattordici anni, infatti, vince il suo primo torneo giovanile con la maglia dell’Ajax (e per questo indosserà sempre la maglia numero 14), a diciassette esordisce in prima squadra, a diciannove conquista lo scudetto che rivince l’anno successivo insieme alla Coppa d’Olanda. Da lì inizia una carriera strepitosa, ancora più incredibile se si pensa che al servizio militare viene scartato a causa dei piedi piatti e di una caviglia «sformata». È proprio grazie a lui e a giocatori come Haan, Krol e Neskens, che due allenatori dell’Ajax di Amsterdam, Rinus Michels, che poi guiderà anche la Nazionale, e S¸tefan Kovács, fanno scoppiare la «rivoluzione olandese» del calcio. Siamo agli inizi degli anni ’70 e nessuno ha mai visto giocare una squadra che attacca in dieci e difende in dieci con un costante atteggiamento offensivo dal primo all’ultimo minuto. Tutti i giocatori sono impegnati nel pressing, e nel possesso di palla, sincronizzano i movimenti, incessanti, per creare spazi tra gli avversari: è il «calcio totale». L’utopia di un calcio fatto di alternanza nei ruoli trova in Cruijff l’interprete capace di tradurla in realtà in una serie di partite memorabili come il famoso 4-0 inferto al Bayern Monaco nei quarti di finale della Coppa dei Campioni del 1973, che tutt’ora è considerata la più bella partita di tutti i tempi.
TITOLI INDIVIDUALI 3 Palloni d’Oro (1971, 1973, 1974) 752 presenze, 425 reti (1959-1984) VITTORIE CON L’AJAX 8 Campionati olandesi (1965/66, 1966/67, 1968/69, 1969/70, 1971/73, 1972/73, 1981/82, 1982/83) 5 Coppe d’Olanda (1967, 1968/70, 1971, 1972, 1983) 3 Coppe dei Campioni (1971, 1972, 1973) 1 Coppa Intercontinentale (1972) 1 Supercoppa UEFA (1973) w
Non bastano i numeri da 1 a 11 per definire la sua posizione in campo. È un giocatore senza fissa dimora, praticamente immarcabile. Insieme ai suoi compagni di club e della Nazionale (soprannominata dallo stesso allenatore Michels «Arancia Meccanica» per il colore della maglia e per i perfetti sincronismi tra i giocatori) rompe gli schemi, cambia il gusto dei tifosi e trasferisce sul campo di gioco la filosofia di vita di un Paese. Secondo calciatore professionista in Olanda, dopo Keizer, era polemico, anticonformista, narciso e capace di gesti atletici inimitabili come il «gol impossibile» realizzato nel dicembre 1973 contro l’Atletico Madrid quando, su cross di un compagno di squadra, l’«Olandese Volante» arriva sul secondo palo, si alza in volo, e anziché colpire la palla di testa si avvita e la colpisce col tacco destro, beffando il portiere Reina. Un gol incredibile considerata l’altezza cui arriva la gamba del fuoriclasse e la coordinazione che riesce a mantenere in aria.
VITTORIE COL BARCELLONA 1 Campionato spagnolo (1973/74) 1 Coppa di Spagna (1978) VITTORIE COL FEYENOORD 1 Campionato olandese (1983/84) 1 Coppa d’Olanda (1984)
Ma è capace anche di gesti apparentemente folli come il «rigore a due» calciato contro l’Helmond Sport il 5 dicembre 1982, quando batte un rigore passando la palla a un compagno di squadra che gliela restituisce: il portiere è spiazzato e Cruijff segna a porta vuota. Oppure quando nella finale mondiale contro la Germania guadagna un rigore al primo minuto senza che gli avversari abbiano avuto la possibilità di toccar palla. Basettoni, capelli lunghi, libertà di trascorrere i giorni del «ritiro» in compagnia di mogli e fidanzate, o di fumare una Camel senza filtro prima di scendere in campo, sono aspetti di costume che appassionano i media e che contribuiscono a ingigantire l’immagine dei geni ribelli del calcio.
VITTORIE COME ALLENATORE 2 Coppe d’Olanda (Ajax 1986, 1987) 2 Coppe delle Coppe (Ajax 1987, Barcellona 1989) 1 Coppa di Spagna (Barcellona 1989/90) 4 Campionati spagnoli (Barcellona 1990/91, 1991/92, 1992/93, 1993/94) 1 Coppa dei Campioni (Barcellona 1992) 1 Supercoppa europea (Barcellona 1992) 3 Supercoppe di Spagna (Barcellona 1991, 1992, 1994)
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Con l’Ajax, oltre a due Palloni d’Oro, vince sei campionati, tre Coppe dei Campioni e una Coppa Intercontinentale. Nel 1973 approda al Barcellona, vince il campionato spagnolo e il terzo Pallone d’Oro. Rimane in Catalogna fino al ’78 poi si trasferisce negli Stati Uniti dove indossa la maglia dei Los Angeles Aztecs e dei Washington Diplomats. Dopo una parentesi con gli spagnoli del Levante, chiude la carriera in Olanda, giocando ancora nell’Ajax e poi nel Feyenoord. Smette nel 1984 dopo aver segnato 425 gol in 752 partite ufficiali e inizia la carriera di allenatore dove svilupperà con successo la sua filosofia di gioco. «Questo sport fantastico è stato inventato per divertirsi e, di conseguenza, appassionare. Non certo per correre a casaccio tirando calci a una palla» scrive nella sua autobiografia. Guida l’Ajax fino al 1988. Poi passa al Barcellona, con cui vince 4 campionati spagnoli e soprattutto la prima Coppa dei Campioni nella storia del club catalano (1992). Nel 2007, in occasione del suo sessantesimo compleanno, l’Ajax decide di ritirare per sempre la mitica maglia numero 14. Un omaggio a chi ha cambiato la storia del calcio e a chi, come sosteneva il giornalista sportivo Gianni Brera, «ha elevato la dignità degli arti inferiori a livello di quella delle mani».
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ZINÉDINE Zizou ZIDANE «Era il re dei fondamentali. Nessuno poteva controllare o addomesticare una palla come faceva lui. Aveva basi tecniche straordinarie.» Michel Platini
Zinédine Yazid Zidane | Marsiglia, 23 giugno 1972 nazionalità: francese altezza: 185 cm peso: 78 kg ruolo: trequartista
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Quartiere La Castellane, nella periferia settentrionale di Marsiglia, luogo di immigrati, palazzoni e bambini che giocano tra le auto. «È lì che ho imparato tutto quello che so sul calcio. Per strada con i miei amici. Cercavamo sempre di inventare nuove finte. Chi scopriva qualcosa era tenuto a mostrarla agli altri. È così il calcio di strada» racconta Zinédine Zidane. Nato il 23 giugno 1972 a Marsiglia da una famiglia berbero-algerina, Zinédine Yazid Zidane entra a nove anni nel club del quartiere, l’AS Foresta. Partecipa ad alcune importanti selezioni e si trasferisce in piccole società fino a quando cattura l’attenzione dell’osservatore del Cannes, Jean Varraud. «Ho visto un ragazzino… ha le mani al posto dei piedi!» dirà ai dirigenti del suo club.
Il 20 maggio 1989, un mese prima di compiere diciassette anni, debutta in prima divisione contro il Nantes. Ma il vero trampolino di lancio della sua carriera è l’approdo a Bordeaux, nel 1992, dove metterà in mostra il suo straordinario talento. Partito come terzino e divenuto poi centrocampista e trequartista è forte fisicamente ma elegantissimo nei movimenti. Nel suo repertorio c’era la «ruleta» o «roulette de Marseille», una veronica che consiste nel fare una giravolta su se stesso facendo perno con la scarpa sulla sommità del pallone, interponendosi così tra la sfera e l’avversario. Abile nel controllo di palla con entrambi i piedi, nei dribbling e negli stop, ha una visione di gioco straordinaria e quando approda alla Juventus, nel 1996, raccoglie i frutti del suo talento vincendo una Coppa Intercontinentale, la Supercoppa europea e lo scudetto. Perde due finali di Coppa dei Campioni ma si consola, nel 1998, con la prima vittoria dei «Bleus» nella storia dei mondiali. Il 12 luglio allo Stade de France la Nazionale francese vince il trofeo battendo il Brasile per 3-0 grazie a una doppietta, di testa, di Zidane che giocherà una partita perfetta, più brasiliano dei brasiliani. «È un fenomeno, oppure un extraterrestre» dirà il selezionatore della Nazionale Aimé Jacquet. La Francia è in festa, l’immagine del campione è proiettata sull’Arc de Triomphe e dopo il fischio finale un milione e mezzo di persone urlano la loro gioia sugli Champs-Élysées: «Zizou président!» Nasce un mito, la Zizou-mania è inarrestabile. Gli sponsor se lo contendono e le sue quotazioni di mercato schizzano alle stelle: per averlo tra le sue fila il Real Madrid spende 140 miliardi di lire, 72 milioni di euro, rendendolo il giocatore più costoso della storia fino a quel momento. Malgrado la concorrenza di campioni come Raul e Figo, si trasforma nel grande protagonista della stagione. Il Real vince la Supercoppa di Spagna e ac
subito dopo la finale di Champions League 2001-2002 contro il Bayer Leverkusen, dove Zidane segna uno dei goal più belli di sempre: il pallone calciato da Roberto Carlos spiove al limite dell’area tedesca, Zizou non prova a controllarlo e nemmeno guarda dove sono piazzati gli avversari, ma si coordina per la conclusione al volo, d’istinto, anche se la distanza è tale da rendere improbabile il buon esito. Resta in attesa e insieme a tutto lo stadio vede il portiere che non può fare nulla e il pallone infilarsi nel sette sotto la traversa. L’Hampden Park è in delirio e il cronista spagnolo che urla «Goool!» per quasi quaranta secondi entra nel Guinness dei primati. «Un artista puro che scava nel suo inconscio per osare quello che gli altri non osano nemmeno immaginare» scriveranno su «L’Équipe» ricordando le sue imprese. Al termine della stagione Zizou ha vinto la sua prima Champions League, la Supercoppa UEFA e alcuni mesi dopo la Coppa Intercontinentale.
Nella stagione successiva 2002-2003 vince il campionato e la Supercoppa di Spagna. Conquista il Pallone d’Oro nel 1998, e la BBC lo definisce il miglior giocatore europeo della storia. La FIFA dopo avergli assegnato tre premi World Player of the Year (1998, 2000, 2003), lo nomina miglior giocatore europeo degli ultimi cinquant’anni. Il 25 aprile 2006 annuncia l’intenzione di ritirarsi dopo il Campionato del Mondo e il 7 maggio gioca l’ultima partita di club contro il Villareal allo stadio Santiago Bernabeu. I biglietti degli ottantamila posti sono venduti in due ore. I tifosi sventolano bandierine bianche in cui è stampato il suo numero, il 5, e sugli schermi dello stadio scorre un montaggio delle sue migliori azioni. Firmerà il gol del 2-2 di testa su cross di David Beckham, quarantottesima realizzazione con la maglia del Real, e alla fine della partita uscirà dal campo con le lacrime davanti alla sua famiglia e al pubblico osannante.
VITTORIE CON LA JUVENTUS 2 Campionati italiani (1996/97, 1997/98) 1 Supercoppa UEFA (1996) 1 Coppa Intercontinentale (1996) 1 Supercoppa italiana (1997)
TITOLI INDIVIDUALI 1 Pallone d’Oro (1998) 3 Premi FIFA World Player of the Year (1998, 2000, 2003) 798 presenze, 155 reti (1989-2006)
VITTORIE COL REAL MADRID 2 Supercoppe di Spagna (2001, 2003) 1 Champions League (2001/02) 1 Supercoppa UEFA (2002) 1 Coppa Intercontinentale (2002) 1 Campionato spagnolo (2002/03) VITTORIE CON LA NAZIONALE 1 Campionato del Mondo (1998) 1 Campionato europeo (2000)
Dopo il fallimento ai mondiali del 2002, la Francia cerca la rivincita nei mondiali di Germania e, grazie anche all’apporto determinante di Zidane conquista la finale contro l’Italia. Zizou vuole concludere la carriera in maniera gloriosa, realizza un calcio di rigore con un pallonetto alla Panenka, o a cucchiaio, quasi a sbeffeggiare il portiere avversario, ma all’inizio del secondo tempo supplementare cade lui stesso nella provocazione del difensore Materazzi reagendo con il gesto più folle che si sia visto su un campo di calcio: lo colpisce con una testata al plesso solare facendolo crollare a terra, in mondovisione, davanti a milioni di telespettatori. L’espulsione è inevitabile e la finale è perduta. Un epilogo inimmaginabile anche per un ragazzo delle periferie, come lui, capace di gesti estremi e di grande generosità come quando insieme al compagno di squadra della Juventus, Davids, camuffato con cappello di lana e abiti anonimi, si diverte a scambiare qualche palleggio con i ragazzi extracomunitari che popolano di notte i parcheggi di Torino, increduli per aver giocato insieme a un campione così grande e così simile a loro.
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