14 minute read

Intervista con campioni ex optimisti

Luca Bursic

Come ti sei avvicinato alla vela?

Advertisement

Come tutti, al Lago d’Iseo nella casa al lago. Il padre compra una barca e la ormeggia all’ANS. Avevo 6 anni, tutto è cominciato da lì.

Della vittoria al Campionato del mondo nel 1997. Cosa ti ricordi di quell’esperienza?

Mi ricordo tutto, molto bene. La sensazione di leggerezza che ho provato quando mi sono reso conto che avevo vinto. Ricordo anche gli abbracci di tutta la squadra e quello di mio padre all’arrivo a terra dal gommone.

Cosa ha significato per te l’optimist?

Innanzitutto gli amici, che sono anche gli ex avversari. L’optimist è stato uno strumento potentissimo per farmi tanti amici, in tutto il mondo. È stato una scuola di vita. Io ero molto timido e andare in optimist mi ha aiutato a superare le mie timidezze ed a prendere decisioni da solo. Mi ha insegnato la disciplina, il perseguire gli obiettivi. È stato importante più a livello umano che tecnico velico. Ti insegna soprattutto la strategia e la tattica di regata e ti dà tanto feeling. Soprattutto l’ultimo anno secondo me, quando sei grande e pesante e devi affrontare decisioni in situazioni non ottimali, devi essere perfetto dal punto di vista tecnico, a livello di sensibilità di movimenti.

Luca sei stato padrino del 1° gruppo nazionale nell’ottobre 2012 a Riva del Garda. Ai ragazzi dicesti: “Andai a quel campionato con due braccia e due gambe come gli altri e me la giocai.” E l’errore più grosso nella carriera da ottimista che ti ricordi ancora?

Lo ricordo molto bene. È stato un concorso di colpe tra me e Walter il mio allenatore. Era il 1996. Era un bel periodo per me, avevo raggiunto il mio massimo. Stavo benissimo, ero forte e sicuro. Quell’anno ci fu il passaggio al one design, una barca che si è rivelata molto diversa dalla mia. Ero al mio 2° mondiale in Sud Africa. Chiaramente dovetti prendere una barca charter (one design) e sinceramente non ci eravamo preparati. Le one design erano diverse dalle altre, 4 cm di differenza di centratura, io non andavo avanti. Fino a che il penultimo giorno, mio padre (che non si intendeva di vela) mi disse di mettere più avanti l’albero che secondo lui c’era qualcosa di strano. Così facemmo e cambiò tutto. Il giorno dopo feci 3 primi. Mi è rimasta di traverso, anche se poi ho vinto il mondiale l’anno dopo. Forse avrei dovuto vincerlo l’anno prima, nel 97 l’ho vinto forse per esperienza.

Quali sono i punti di forza dell’attività giovanile in Italia?

Innanzitutto la geografia dell’Italia. Chilometri di coste, condizioni meravigliose, è naturale che sforniamo tanti talenti. Poi il lavoro che fanno i circoli a livello giovanile è notevole. Anche i circoli più piccoli e la stessa classe AICO: riescono a tirare su dei team che sono veramente forti. Il successo dell’optimist parte dalla base. I genitori, tanti allenatori bravissimi che potrebbero tranquillamente allenare le squadre olimpiche.

Riguardo all’annoso problema dei campioni optimist che quando passano di classe non vanno avanti e si fermano cosa ne pensi?

Forse ci vorrebbe un’altra diretta per affrontare questo problema. In Italia tendiamo a dare opinioni su cose che non conosciamo. Io la

penso come te, cioè che la vela è uno sport molto complesso con tante aree di conoscenza che si intersecano, per fare un’analisi corretta devi avere esperienza alle spalle o aver studiato il problema. Partire dagli errori e fare un’analisi incentrata su l le soluzion i, non fare polemica. Non è vero che gli optimisti non vanno avanti. Negli ultimi 15 anni l’Italia ha reg istrato tante vittorie e 3 atleti su 4 sono ex campioni optimist. Questo succede anche fuori Italia, quasi tutti i campioni anche olimpici sono quelli che hanno vinto in Optimist. Secondo me verso i 17/19 anni c’è una naturale scrematura dovuta a mille ragioni. Il problema forse è la bassa percentuale, che in Italia è sbilanciata al ribasso rispetto ad altre nazioni, tra i campioni giovanili e quelli che arrivano ad ottenere medaglie olimpiche. Per me c’è una sorta di buco nero tra il lavoro dei circoli fino ai 18 anni e la Federazione. Nel mezzo molti atleti si perdono. Tra l’altro questa è un’età molto delicata, bisognerebbe proteggere i giovani talenti. Colpevolizzare l’optimist è assolutamente errato. È solo un alibi per una cattiva gestione dall’altra parte. La vela giovanile italiana è un incredibile bacino che non è sufficientemente supportato.

Nella tua carriera hai avuto diversi allenatori. Quali valori ti sei portato dietro e riconosci nel tuo ruolo di allenatore oggi? A chi di loro porterai tuo figlio per fare attività?

Sono stato fortunato con gli allenatori. In optimist Walter Kolich dall’inizio fino al 1996 e la cosa che ho imparato di più è il lavoro, la disciplina. Senza il lavoro non si va da nessuna parte. Con Claudio Brighenti ho vinto il mondiale ed ho continuato in 420. La gestione emotiva e delle situazioni. Claudio è un maestro in questo, ha una visione molto chiara delle situazioni. Poi ho lavorato con Andrea Mancini in 420 e 470. Da Andrea ho imparato molte cose tecniche. Aggiungo mio padre che ha avuto un ruolo fondamentale, anche se non capiva niente di vela. Mi ha trasmesso che la vittoria e il successo non sono cose straordinarie, nella realtà bisogna lavorare molto, ma tutto è possibile. Non devi essere un supereroe. Non so da ch i porterei I miei bambini. Abito a Milano e non so neanche se faranno vela. Per ora fanno altri sport ne stanno provando diversi. Il nuoto è obbligatorio per loro fino ai 12 anni almeno. Lo sport è educazione, è scuola di vita. Mi piacerebbe che fossero in mano ad una persona con dei valori, che li renda pensanti ed indipendenti. Mi interessa l’ambiente sano, più che il risultato.

Qual’è il campo di regata a livello italiano e internazionale che preferisci?

In Italia scelgo Cagliari, che è un posto strepitoso e che ho nel cuore. Amo anche la Sicilia, Mondello, Marsala e Trapani. Quindi Sardegna e Sicilia. All’estero scelgo Kiel, dove anche se fa freddo ed è un campo complesso, mi ha sempre portato fortuna, sia come atleta che come allenatore. L’altro è Oackland, un campo molto vario e assolutamente strepitoso.

Tra tutti i ragazzi che hai visto nelle squadre giovanili italiane, con chi ti piacerebbe lavorare in futuro?

Giovanissimi non ne conosco. Gli olimpici Giacomo Ferrari e Giulio Calabrò sono dei fighi. Sono italiani veri, bravissimi, stanno avendo ottimi risultati in una realtà difficile. Poi la squadra italiana del 49er FX ha tre timoniere con un potenziale incredibile. Tutti questi equipaggi dovrebbero puntare al quadriennio successivo, non avrebbero rivali. Margherita Porro una ragazza talentosa, molto semplice che ha voglia di lavorare e ha una grande potenzialità.

Quanto conta il talento e quanto il lavoro quotidiano?

Contano tutti e due assolutamente. Direi 50 e 50. Chi ha talento tende a lavorare meno, chi non lo ha tende a lavorare di più. Per raggiungere una medaglia olimpica, non ci arrivi senza il lavoro, se hai anche talento il percorso è più breve e il percorso è più facile. È fondamentale, anche se da solo non basta.

Come gestirai da allenatore il posticipo delle Olimpiadi a causa dell’emergenza Covid?

È una questione da affrontare sicuramente. Non mi sento però di divulgare le strategie della federazione per cui lavoro. Credo che la motivazione esterna (di un allenatore, genitore, ecc ...) è importante, ma se la motivazione non parte dall’interno è un problema e la motivazione non passa per uno stop di sei mesi.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Adesso sono concentrato al 100% sulle olimpiadi di Tokyo con la squadra 49er FX austriaca. Da qui all’anno prossimo dobbiamo accrescere le nostre possibilità di ottenere medaglie. Il mio

Come ti sei avvicinata alla vela?

Sono cresciuta a Roma, da piccola ero un terremoto e il mio sport era il tennis, che praticavo anche con buoni risultati. Non sapevo neanche che esisteva lo sport della vela, nessuno in famiglia va a vela. Durante una vacanza a Toscolano Maderno sul Garda, mia madre decise di iscrivermi ad un corso di vela. Il mio primo allenatore è stato Claudio Brighenti nel 1996, che ricordo con grande affetto.

Cosa ti ricordi della vittoria all’Europeo Optimist del 1999?

Non avevo ancora 14 anni, ricordo che prima di partire mi ero fatta dei ciuffetti colorati in testa con l’idea che avrei vinto e contemporaneamente lanciato una nuova moda. E avevo ragione…

obiettivo è questo per ora. Nel frattempo stiamo lavorando con un altro equipaggio per le Olim

Giulia Conti

piadi di Marsiglia con l’FX. Più in là vedremo. Ho vinto quel campionato non in acqua, ma terra dopo una protesta. Ricordo ancora l’emozione provata uscendo dalla sala delle proteste con Giorgianni che mi festeggia per la vittoria.

Cosa ha significato per te l’optimist?

L’optimist è stato un modo di esprimere la mia competitività. Al circolo vela Toscolano Maderno ero l’unica femmina e questo per me è stata una spinta in più. Quando hai la barca, che è solo tua, la devi curare, armare, significa prendersi cura di un qualcosa di tuo, prezioso e tra l’altro non economico. Cominci a dare valore ai soldi, a sentirti responsabile. È stato anche far parte di un mondo, di un gruppo i cui protagonisti sono tuttora dei grandi amici.

Quali sono i punti di forza della vela giovanile in Italia?

Senz’altro una grande forza viene dai Circoli velici e dalle scuole vela che creano un ampio bacino da cui attingere. Anche la qualità degli allenatori è un punto di forza. Allenatori in grado di creare una bella atmosfera tra i velisti. Claudio Brighenti, per esempio, era carismatico, sapeva creare gruppo. Anche nei circoli minori si riesce a trasmettere la passione per la vela.

Cosa ne pensi dell’annoso problema dei Campioni optimist che si fermano al cambio classe?

Penso che ci sia una selezione naturale. La motivazione è il motore che spinge un atleta, il fuoco che ha dentro. Poi è decisiva la determinazione. E il caso, la giusta persona che ti da una dritta giusta al momento giusto… è fondamentale. Walter Cavallucci è stata la persona che mi ha buttato nel match race a 14 anni, uscita dall’optimist. È tutto merito suo che mi ha dato una wild card da dove è partita la mia carriera. Gli devo molto per la mia carriera sportiva. Ricordo che, da singolista pura, scesa dall’optimist volevo andare sul 470, ma il mio Presidente di circolo mi consigliò di andare sull’Europa, che non amavo. Un anno e mezzo sull’Europa, ma non tutto è stato inutile: ho comunque continuato ad andare in barca ed ho imparato a cinghiare, abilità che mi è tornata utile successivamente.

Quando eri un’atleta pensavi di diventare allenatrice e di ottenere risultati così presto?

No, non ci avevo mai pensato. Anzi, con il mio carattere non proprio tranquillo e un po’ aggressivo, non avrei mai pensato di poterlo diventare. È stato dopo un anno sabbatico senza vela, iniziato dopo le Olimpiadi di Rio, che ho sperimentato quasi per caso un allenamento di cinque giorni per un equipaggio di 49er con delle ragazze che mi hanno super motivato ad andare avanti ad allenare. Anche a me era piaciuto molto. Poi un’altra esperienza da allenatrice con un equipaggio argentino di 470, che ho anche seguito ai Mondiali di Kiel dove ho sostituito all’ultimo momento il loro allenatore thailandese che aveva avuto problemi con il visto. Un’esperienza tragicomica. Vi dico solo che ne sono successe di tutte… hanno anche scuffiato al traino e spezzato l’albero. È una carriera iniziata col botto! Però è stato proprio lì a Kiel che due ragazze americane mi hanno chiesto di farle da allenatrice e mi hanno proposto di andare a San Francisco ad allenarle. Ci siamo trovate subito bene. È stata una scoperta, anche d i una parte di me che non avevo sviluppato come atleta: sul gommone riesco a praticare lo zen, in barca no.

Adesso che sei allenatrice, cos’è che diresti alle tue allieve di non fare assolutamente per non sbagliare?

A dire il vero una cosa importante sulla quale non mi sono focalizzata abbastanza da atleta, è proprio il sapersi dare la possibilità di sbagliare. Essere consapevoli che si impara molto di più dagli errori che non dalle vittorie. Io non perdo mai: o vinco o imparo. Crearsi degli obiettivi specifici durante una regata e cercare di fare al meglio quelli, tralasciando altri fattori, senza badare al risultato. Sviluppare una mentalità orientata al processo di crescita più che al risultato. Ti togli tanto stress e tanta pressione. Sbagliando s’impara. Cambia la percezione della pressione sull’atleta. Tornando indietro ci presterei più attenzione.

Quali sono i campi di regata che preferisci? A livello Internazionale, non mi piace Miami, forse perché lì sono sempre arrivata seconda.

Palma di Maiorca è senz’altro la più bella, per le ottime condizioni di vento. In Italia, il Garda è un po’ sempre lo stesso, forse perché mi sono formata lì ed è come stare a casa. Cagliari ha condizioni fantastiche, sempre vento, di tutti i tipi e intensità, soprattutto d’inverno. Molto divertente. Anche Marsala non è male.

Nella fascia di età dai 19 ai 23 anni perdiamo tanti atleti. Cosa ne pensi?

La mia determinazione è sempre stata molto forte. A 18/19 anni avevo fatto già un’Olimpiade, quindi era naturale seguire il percorso. La mia fortuna è stata avere accanto la Marina Militare, se non ci fossero stati loro non so se sarei riuscita a proseguire. Avevo in testa solo le olimpiadi e ho seguito la mia determinazione. Però mi rendo conto che l’età è critica, nuove scoperte, nuove amicizie, più libertà, aperitivi, discoteche, università. I sacrifici incominciano a farsi sentire ed è facile mollare. Per me non è mai stato un problema, la mia scelta era consapevole: io volevo andare in barca. La motivazione, la dedizione e la determinazione sono le cose essenziali. Altrimenti saremmo tutti grandi campioni.

Chi è stata l’avversaria più forte?

Senz’altro la brasiliana Martine Grael. Sul 49er è stata l’avversaria più temuta e la cosa è stata vissuta da entrambe le parti. Ricordo che in partenza per il Campionato del Mondo in Argentina prima di partire ho voluto superare un mio limite personale (soffro di vertigini), salendo in cima alla Tour Eiffel a Parigi. Arrivata su a fatica, ma motivata a superarmi e a battere la brasiliana, urlavo come una matta. Ma ci sono riuscita e in Argentina ho vinto il Campionato del Mondo e l’ho battuta. È stata comunque una competitività sana la nostra, che ha fatto bene a tutte e due.

Quanto conta il talento e il lavoro quotidiano?

Solo con il talento non si va da nessuna parte. Senza il lavoro quotidiano che comunque presuppone una motivazione forte, non si va da nessuna parte. Certo il talento è una marcia in più. Impegnarsi al massimo per ottenere risultati migliori sia nello sport che nella vita e nei rapporti di squadra da molti frutti. Anche la routine è importante. L’impegno da risultati più solidi e se dovessi scegliere tra solo talento o solo dedizione, senz’altro sceglierei la dedizione, 100%. I campioni si costruiscono.

Qual’è l’olimpiade che ricordi con più piacere e il sogno nel cassetto come allenatore?

L’olimpiade più vissuta e più bella come esperienza è stata la prima ad Atene, l’unica in cui alloggiavamo all’interno del villaggio olimpico. Ogni giorno incontravo campioni e campionesse olimpiche che per me erano miti. Ero diventata la loro mascotte. Mi interessavano più le gare degli altri che le mie e mi sono vista tutte le gare che potevo. Dal punto di vista della prestazione, è stata Londra, dove non mi aspettavo niente. Anche la vicinanza dei parenti e amici a fare il tifo è stata importante. Condividere quest’esperienza con i tuoi cari è senz’altro più bello. Era un periodo per me complicato e tutto sommato il 5° posto è stato un buon risultato. A Pechino abbiamo preso una grande batosta, mi sentivo pronta a vincere ma il campo di regata non era sulla nostra sintonia, si doveva essere molto estreme nelle scelte tecniche. Senz’altro c’è stata una mancanza tecnica da parte nostra, e una grande difficoltà a digerire l’ennesimo quinto posto. Rio mi è piaciuta meno, non mi sono divertita ma forse non ero abbastanza motivata. Infatti è stata l’ultima regata che ho fatto. Peccato che la mia carriera si sia chiusa così. È l’unico rimorso che ho.

This article is from: