Approfondimento di Arti Sceniche e Figurative a cura dei ragazzi del D.A.M.S. di Imperia - N°3 Febbraio 2014 - DISTRIBUZIONE GRATUITA - redazione.eutropia@hotmail.it
Lo Spazio Calvino a giorni si affollerà un po’. Sicuramente mancherà qualche faccia, di qualche nome ci siamo dimenticati per forza, ma il cartellone che troverete nel foyer servirà appunto a riparare i nostri buchi di memoria. Replicare la Walk of Fame di Los Angeles per dare valore a tutte le persone che sono passate di qui, perché il DAMS è nato, ha vissuto e continua a vivere grazie a loro. Ospiti, professori, allievi, collaboratori. Perché è grazie a queste facce che nonostante soldi che mancano, critiche e polemiche, il cuore del DAMS non ha mai smesso di battere. È grazie a queste facce e al loro amore per questo posto, per questa realtà, per questo progetto che le minacce di chiusura sono state sempre e soltanto minacce, mai concretizzate fino in fondo. Grazie alla fatica, al tempo, all’attenzione dedicata dai professori agli studenti, dagli studenti ai progetti, dagli ospiti al luogo che li ha ospitati, il DAMS non ha mai davvero smesso di esistere. E in questi anni ha creato legami, amicizie, amori, collaborazioni, libri, spettacoli teatrali, gruppi musicali, progetti multidisciplinari… anche senza soldi, anche quando le scadenze sembravano troppo imminenti, anche quando la voglia di mollare sembrava più forte di quella di andare avanti. Con fatica, sempre tanta, come tutte le cose per le quali vale la pena sudare. È faticoso far parte del DAMS, farne parte davvero. Farne battere il cuore. Ci sono tanti cavilli tra i quali districarsi, tempistiche da imparare, equilibri da conoscere. Bisogna imparare a scrivere le lettere a chi di dovere e nel linguaggio corretto, conoscere chi può mettere le mani su quali attrezzature, mettere d’accordo tante teste e stare dietro a ciascuna di esse perché ognuna faccia la propria parte di lavoro. Bisogna imparare l’umiltà. Di chiedere aiuto quando non si sa come muoversi, di fare un passo indietro quando la tua idea viene bocciata, di mettersi in discussione sempre, di ascoltare i consigli di chi è più “vecchio”, anagraficamente e accademicamente. Ma sono lezioni che servono anche dopo. Nella “vita vera”. Bagaglio utile a chi sa farne un uso ponderato, a chi sa sfruttare le occasioni che gli si parano davanti. Quelle occasioni che da sempre sono un’enorme risorsa del “nostro” DAMS. Perché le persone che di qui sono passate spesso non si sono limitate a passeggiare. Hanno creato ponti per uscire da qui, trasformando il DAMS in un trampolino, anche temporaneo, per chi avesse avuto la voglia e il coraggio di abbandonare anche solo per un po’ la tranquillità della collinetta sopra la rotonda dell’ASL. Partecipare ad un festival, fare da assistente ad un professore, collaborare ad un corto, realizzare uno spettacolo, allestire un set fotografico, salire sul palcoscenico, scrivere su un giornale… tutto ha riempito il bagaglio di esperienze di chi ha colto quelle occasioni. Nessuno ne è mai uscito a mani vuote. “Finché sei vivo, vivi”, scriveva qualcuno. Se proprio questa volta la minaccia di chiusura del DAMS diventasse concreta e quello iniziato a settembre fosse davvero l’ultimo triennio, fate in modo che sia il più vivo della “nostra” storia! Usate il teatro Eutropia e l’anfiteatro Sofronia, usate quegli spazi per concretizzare le idee che avete in testa, scrivete per il giornale, chiedete aiuto ai professori, e godetevi le loro risposte anche quando non sono quelle che vi aspettate! Finché il DAMS sarà fatto di persone vive che usano e fanno vivere questo posto e gli strumenti che mette a disposizione, il suo cuore non smetterà di battere. CREDETECI! Noi, con questo numero di Eutropia e la festa del 12 febbraio, lo stiamo facendo. Nucleo
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Festa
DAMS
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Redazione
EUTROPIA
L-invenzione-della-solitudine pag.5 pag.3 Le-moscerine-di-anna-marchesini
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CARTA
Hanno-cambiato-faccia Pag.4 Pag.4 Fulci:violenza-e-passione
Ilustrazione di Valeria Cafagna www.valeriacafagna.co.nr
EUTROPIA è una scatola di cartone costruita nell'aula K del DAMS di Imperia. È una rampa di lancio per chi non avrebbe mai pensato di scrivere o apparire su un giornale. È un filo diretto tra tutti quelli che tra Nizza e Imperia, ma anche un po' più in là, fanno arte, creano qualcosa di nuovo e magari vorrebbero diventasse un mestiere. Eutropia è incontro tra i DAMSiani di Imperia e i loro amici sparsi per il mondo. È un sempiterno cordone ombelicale tra il DAMS, il suo territorio e chi qui è nato, biologicamente o artisticamente. E non fa differenza tra chi è rimasto e chi se n'è andato. Eutropia è l'ideale caffè che fa conoscere gente che prima non si conosceva, pur occupandosi delle stesse passioni. Eutropia è musica, arte, cinema, teatro, letteratura. Ma anche televisione, danza, fotografia, scultura, fumetto. Eutropia è vecchia e nuova, high tech e vintage, cartacea e on-line. Eutropia ha sempre fame. Di cose nuove e di vecchie tradizioni. Per Eutropia passano tutti.
Eutropia è l'aula teatro del DAMS di Imperia dove i libri diventano pratica, il pensiero diventa azione. I suoi camerini puzzano di sudore e si ride e si brinda tutti: attori, professori, laureandi, improvvisatori, musicisti, ballerini, saltimbanchi. Eutropia è l'aula fredda d'inverno e torrida d'estate. È sala prove, laboratorio sceno-luci, aula magna, sala riunioni. Eutropia è la città raccontata da Calvino che si rinnova ogni volta che l'assale la noia. Cambiano le facce, ma i ruoli no. E la riconosci sempre. Come un'eterna commedia, dove ogni cambio del cast rinnova e riscopre l'intera storia. Eutropia è già rinata due volte dopo la fine del mondo profetizzata dai maya. E anche questo vuol dire qualcosa.
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GRAZIE a chi ha collaborato a questo numero: OrianaGullone,PamelaPepiciello,Frances co-Basso,LorenzaCattadori,LucaStardero, FrancescaBestoso, Valeria-cafagna.
L-INVENZIONE-DELLASOLITUDINE Giuseppe Battiston al Cavour con un monologo su padri e figli. Giuseppe Battiston porta la sua grande prova d'attore al teatro Cavour di Imperia. La sua è una carriera poliedrica e varia. Nasce come attore teatrale, diplomandosi alla Scuola d'Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano, ma il suo nome è legato soprattutto al cinema e alla figura del regista Silvio Soldini. Come non ricordarlo nel ruolo di Costantino Caponangeli nel film “Pane e Tulipani” con il quale nel 2000 vince il David di Donatello come miglior attore non protagonista. Altri titoli ancora incorniciano la sua carriera come “Agata e la Tempesta”, “Giorni e Nuvole”, “La Bestia nel Cuore”, “Figli delle Stelle”, “La passione” solo per citarne alcuni. Battiston raggiunge la grande notorietà a livello nazional-popolare con la fiction “Tutti Pazzi per Amore” in cui interpreta il ruolo del dottor Freiss, accanto alla simpaticissima Carla Signoris. Ma torniamo al Battiston teatrale. Sul palco del Cavour la sua interpretazione è magistrale. Il monologo, che ha visto l'attore friulano protagonista della scena per più di un'ora, è tratto dal romanzo autobiografico dello scrittore statunitense Paul Benjamin Auster, che nel 1978 lo pubblica per condividere la sofferenza causata della perdita del padre. L'attore con la sua corporeità porta in scena un personaggio avvolto da una leggiadra sofferenza, come leggiadri sono i suoi gesti e le frasi sussurrate. Leggiadria che si trasforma in grinta e forza quando cerca di sottrarsi al destino crudele che segna il suo cammino. Il protagonista si trova infatti a lottare non solo con il vuoto incolmabile lasciato dalla morte del padre, che in realtà non ha mai fino in fondo conosciuto, ma anche con l'imminente divorzio e con l'eventualità della perdita del figlio. È la storia di un uomo che vede in bilico e mette in evidenza le difficoltà di essere il figlio di un padre assente e sconosciuto insieme all'inadeguatezza di non riuscire ad essere a sua volta un buon padre. Un importante tema affrontato è il distacco, purtroppo presente nel
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percorso della vita di ognuno di noi, e lo stato d'animo di disagio che scaturisce da questa terribile esperienza. “L’invenzione della Solitudine” è in definitiva il ritratto di una famiglia, tutto giocato sul filo della memoria, con una commossa riflessione sulla difficoltà di essere figli e padri. Un inno alla solitudine, vista come unico rifugio e soluzione agli imprevedibili e deludenti avvenimenti della vita. L'invenzione della solitudine è vista anche come una terapia alla sofferenza, causata da un dolore incolmabile, che molto spesso nasce da un'incomunicabilità universale che divide le generazioni umane di ogni tempo e luogo. Battiston emoziona tutto il pubblico in platea, che ha potuto ammirarne lo stile da fuoriclasse. Lo spettacolo, con la regia di Giorgio Gallione, è una produzione associata del Teatro dell’Archivolto e del Teatro Stabile di Genova, le musiche sono del compositore e musicista Stefano Bollani. Una nota di riguardo meritano i costumi e le scene di Guido Fiorato (docente D.A.M.S. di Scenotecnica, NdR). Gli oggetti personali di quel padre da sempre parso distante e sfuggente presenti sulla scena, i documenti da sfogliare, il grande specchio in cui il protagonista immerge la sua identità, simboleggiano al meglio i frammenti sparsi di un'esistenza pressoché estranea. Una nota fuori scena: l'attore alla fine dello spettacolo, dopo aver ricevuto una marea di applausi, ha presentato “La prima scuola” (laprimascuola.wordpress.com), un progetto di impegno civile, di cui egli stesso è ambasciatore, che si propone di raccogliere risorse e impegnare energie per la scuola perseguendo due macro obiettivi: contribuire al dibattito sulla crisi del sistema d’istruzione pubblico relativa alle scuole elementari e finanziare progetti artistici nelle scuole primarie di periferia con un’apposita raccolta fondi. di Pamela Pepiciello
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Hanno-cambiato-faccia Più attuale di così si muore.
Alberto Valle si sta facendo il bagno. All’improvviso assieme all’acqua scorre una voce languida, appassionata che dice: «Una doccia non è una doccia se non contiene l’additivo Tonic Acqua». Uno spot, un messaggio pubblicitario che sbuca durante l’accensione di elettrodomestici, sfiorando materiali di fabbrica, mentre si prova un morbido letto e l’ultima parola che si sente prima di addormentarsi è comprare. “Hanno cambiato faccia”, un film di Corrado Farina del 1971, è un horror satirico. Dracula è sempre tra noi e ha le sembianze dell’industriale che vuole vampirizzare i suoi impiegati e, attraverso l’economia, deturpare totalmente il volto del mondo. Alberto Valle, interpretato da Giuliano Disperati, impiegato di una fabbrica di automobili, è chiamato a raggiungere la villa del suo capo, il dottor Nosferatu, interpretato da Adolfo Celi. Nella villa, non cavalli diabolici che trainano carrozze spettrali, ma 500 bianche, status symbol italiano per eccellenza. La casa è lussuosa e accogliente, ma dipana misteriosi messaggi subliminali, spot pubblicitari che inducono a comprare, interferenze pilota che vengono testate su ingegneri e poi riproposti alle masse. La casa di Nosferatu è la fabbrica mortale del consumo dove
vengono forgiati i sogni degli italiani. «Compro quindi sono» invece di «Cogito ergo sum». Da una parte il bene, Alberto Valle, il lavoratore, dall’altra Nosferatu, il padrone vampiro che schiavizza le menti: chi vincerà? Film assolutamente da vedere, di un’attualità spiazzante che indaga su come i prodotti pubblicitari possano invadere la nostra psiche e come noi, per quanto tentiamo di scacciarli, possiamo fare davvero poco. La pellicola di horror ha solo l’aspetto gotico e la figura del vampiro che collega ogni scena del film, di spargimenti di sangue o terribili mostri nemmeno l’ombra. C’è anche lo spazio sul finale per una scena erotico-spinta sul finale: uno spot pubblicitario che ha per protagonista il Marchese De Sade. Tutti questi spot hanno probabilmente ispirato i finti trailer di Tarantino e Rodriguez, nel fi l m “ G r i n d H o u s e ” p e r e s e m p i o . C l i p apparentemente staccate dal resto del film, ma in realtà estremamente ad esso legate e funzionali. Verso il finale del film, come una sorta di morale della favola, viene citata una frase di Herbert Mancuse: «Il terrore di oggi si chiama tecnologia». Più attuale di così si muore. di Francesco Basso
FRANCESCO BASSO Gullone
TALENTi Di CASa NOSTRA di Oriana
Lucio Fulci, violenza e passione Francesco Basso (anche autore della recensione CIAK qui sopra) si laurea alla specialistica in Scienze dello Spettacolo di Imperia nel 2012. Meno di un anno dopo, la sua tesi “Lucio Fulci - Le origini dell’horror” viene pubblicata e presentata in “cornici” particolari e importanti come la Fiera del Libro di Imperia e l’Italian Horror Fest di Nettuno. Dieci parole di numero che descrivano il tuo libro. Cerco di incarnare lo spirito poetico di Fulci, è un libro sincero, fatto con tanta passione. Perché hai scelto Fulci? È un regista italiano rivoluzionario che mi ha colpito totalmente. La sua messinscena della violenza ricorda il Teatro della Crudeltà di Artaud, colpisce fortemente lo spettatore che assiste a veri e propri dipinti di morte. Nel libro parlo anche dei suoi gialli, erotici e commedie nei quali permane questa violenza molto particolare perché catartica, liberatoria. Non a caso lo scrittore spagnolo Ruben Higueras collega le pellicole di Fulci a quelle di Ėjzenštejn, entrambi mirano a stordire e colpire con immagini molto feroci lo spettatore. Quali e quante persone sono state coinvolte nel tuo progetto? I primi sono stati il professor Zumbo e il professor Trovato del DAMS, relatore e corelatore della mia tesi. Hanno creduto nel progetto e li ringrazio davvero molto. Poi l’editore Gordiano Lupi, lo storico di cinema Roberto Poppi, il direttore della fotografia Roberto Girometti, il critico di cinema Paolo Albiero. I miei colleghi del DAMS Pamela Pepiciello e Andrea Piana mi hanno dato una mano a visionare i film, Elisabetta Novaro e Orlando Botti che sono riusciti a scovare chicche interessanti e curiosità
sorprendenti. Importantissimo il supporto di Maurizio Arietti che mi ha spiegato i retroscena sulla censura di alcuni film. Anche la Cineteca di Bologna mi ha fornito tanto materiale utile. Dove hai presentato il libro finora? Dopo la pubblicazione nel maggio 2013, sono stato alla Fiera del Libro di Imperia assieme a Gordiano Lupi, a Sanremo all'interno di Rock in The Casbah, grazie a Marco Vallarino e Angelo Giacobbe, e a Nettuno all'Italian Horror Fest, dove a presentare il mio libro è stato Antonio Tentori, lo sceneggiatore di Lucio Fulci. A Nettuno ho anche incontrato il suo compositore Fabio Frizzi e la figlia Antonella Fulci, davvero grandi emozioni. C'è un aneddoto, durante la stesura della tesi o successivamente, che credi valga la pena raccontare? Uno un po’ strano c’è. Era giugno 2012, da poco mi ero messo a scrivere la tesi e Pamela, la mia ragazza, mi spinse ad andare alla Fiera del Libro di Imperia per vedere se trovavo del materiale. Non ne avevo molta voglia, ma accettai. Girando per gli stand mi imbattei in un signore che vendeva libri sul cinema italiano di genere. Ne acquistai parecchi e feci per andarmene quando Pamela mi disse: «Guarda che questo signore potrebbe essere Gordiano Lupi, l’autore di “Lucio Fulci: filmare la morte”». Mi sembrava troppo strana come idea, ma la mia ragazza volle insistere e chiese conferma al signore dello stand. Ancora adesso ringrazio il Cielo che l'abbia fatto. Quel signore era proprio Gordiano, ora mio editore. Grazie mille Oriana dell'intervista. Davvero bella. Un saluto horror a tutti i lettori! Grazie a te Francesco, per la tua gratitudine verso il DAMS e i tuoi “compagni d’avventura”.
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MoscerinE Nove piccoli grandi racconti della piccola grande Anna Marchesini. Anna Marchesini sul palcoscenico la conosco a memoria da quando sono nata, letteralmente. Con il Trio (lei, M a s s i m o L o p e z e Tu l l i o Solenghi) erano in RAI alla fine degli anni Ottanta e la mia mamma e il mio papà registravano tutti i loro spettacoli teatrali, che all’epoca passavano in prima serata. Io avevo due anni e credo che i loro Promessi Sposi siano una delle prime cose che ho imparato a memoria nella mia vita, insieme alla Genesi di Guccini e alle canzoni di De André e Battisti. Da allora Anna non ha mai smesso di essere un mito, un modello di riferimento. Una Donna maiuscola, in molti sensi. Qualche tempo fa, ospite da Fabio Fazio, con le sue mani magrissime e le sue mille voci esilaranti, ha presentato il suo primo libro di racconti, “Moscerine”. Un’intervista meravigliosa, un inno alla voglia di vivere e di ridere come solo una persona grande, meravigliosa e guerriera come lei possono regalare (da anni combatte, senza nasconderlo né lagnarsene, con l’artrite reumatoide che la rende ancora più “moscerina” di quanto non fosse già). La si trova facilmente s u Yo u Tu b e , l ’ i n t e r v i s t a , godetevela di cuore. Il libro, edito da Rizzoli, è una raccolta di nove racconti “a forte carica umoristica, in cui la narrazione esalta aspetti microscopici talvolta invisibili dell’esistenza, insospettabili trame, elementi irrilevanti eppure capaci di ribaltarne il racconto”. Così scrive Anna nella quarta di copertina. Una Anna che trasuda da ogni pagina, i racconti parlano con le
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sue mille voci, le senti nitide in testa, come se fosse lei stessa accanto al comodino a leggerteli. Il ritmo dei racconti non assomiglia quasi per niente a quello a cui la magrissima e vivacissima attrice, che da sola tiene il palco con le sue mille maschere, ci ha tutti abituati. Le frasi sono lunghissime, spesso anche faticose da leggere perché con poche virgole, poche pause,
l’appuntamento della signorina Iovis, le grosse tette di Maria Luce Colli. Piccoli dettagli di piccole esistenze che raccontano grandi verità, regalano grandi emozioni e grandi lezioni in questa piccola, grande meraviglia che è la Vita. Una vita che da sempre Anna attrice, Anna regista, Anna artritica, Anna scrittrice hanno avuto il gusto di analizzare, sezionare,
molte descrizioni minuziosissime. Quasi come se la Anna attrice volesse mettere per scritto nel dettaglio lo studio dei personaggi che invece la scena rende più rapido e immediato. Si prende altri tempi. Il tempo di un libro può andare ben oltre le due ore di uno spettacolo teatrale. Leggere un libro può durare giorni, mesi, a volte anni. E l’Anna scrittrice questo tempo eterno vuole goderselo tutto fino in fondo, parlando di piccole, “moscerine” appunto, eternità delle quali chiunque di noi potrebbe raccontare, se si soffermasse come lei ad osservarle al microscopio. Le mosche sulla torta nuziale, la solitudine di Santo,
curiosare in ogni minimo anfratto e segreto. Anna Marchesini è, è stata e sarà una donna curiosa e affamata di vita. Entusiasta e sorridente, nella buona e della cattiva sorte che le capita senza schiacciarla mai. Una piccola grande Donna. Come i personaggi del suo “Moscerine”, come la signora Flora, la cameriera secca, Lucia Mondella, Giulietta, Ljuba. Una, nessuna, centomila, chi più di lei. Non posso che dirti grazie, Anna. Del tuo essere una e tante, del tuo essere mingherlina e fortissima, delle lacrime che da tutta la vita mi fai versare, dal ridere, ma non solo. di Oriana Gullone
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La Baronessa del Jazz in due libri.
Come fare a recensire due libri che non sono disponibili nelle nostre librerie, ma solo sui portali internazionali modello Ibs o Amazon?! Mentre pensavo a Nica, subito tutto mi è sembrato semplice. Quest’anno sono passati cento anni dalla sua nascita, è dunque giusto scoprire questa figura così prismatica e legata alla cultura del nostro tempo. A costo di dover imparare due lingue per farlo. Pannonica De Koenigswarter, più nota come ‘la Baronessa del Jazz’, è la donna volitiva e dolcissima che prendeva sottobraccio Monk sfidando giudizi e pregiudizi. Lei, che era la figlia del banchiere Charles Rothschild - entomologo nel cuore - portava per questo il nome di una farfalla e, con la stessa leggerezza, un giorno si congedò dal marito con un sorriso e si trasferì all’Hotel Stanhope di New York. E qui, sul divano della sua suite, nel 1955 si spense Charlie Parker. Bird e la ‘farfalla’. L’importante era volare. E poi un giorno Pannonica prese la propria Polaroid, determinata a lasciare l’immagine dei “suoi” musicisti più amati eterna e immutabile nel divenire delle cose. Ci pensò un momento e decise che questo non fosse abbastanza per rivelarne tutti i tratti sensibili, così pensò di correlare le foto con la domanda, posta a ognuno, su quali fossero i loro tre desideri. È così che un’indagine di tipo emozionale diviene improvvisamente archetipica e in qualche modo sociologica. I musicisti neri tentano nella maggior parte dei casi - di omettere l’indubbia difficoltà del proprio vivere quotidiano, l’esistenza diluita nelle mille stupide regole di ‘convivenza’ con il
mondo dei bianchi: dunque i desideri rispecchiano più spesso un microcosmo intimo e personale, fatto di amicizie, voglia di suonare, afflati sentimentali, a cui fa eccezione il brivido profondo donato da Miles Davis con il proprio desiderio: «Essere bianco!». Una stilettata al sistema, e un’affermazione molto attinente al personaggio. Ma in questo libro il ‘personaggio’ diventa persona. Non più il musicista figlio del disordine, fuori dagli schemi, ma un uomo che vive in una bolla di sogni. Ed è proprio questo, a mio avviso, il suo punto di forza. Prescindendo da proclami forti e ribaditi, la leggerezza calviniana di Pannonica sta nel voler lasciare ai lettori l’immagine di un mondo scintillante, pieno di fermenti e ricco di spunti proprio lasciandolo scoprire attraverso i protagonisti di quel clima. Senza il peso di uno studio teorico, senza operazioni linguistiche, senza espedienti letterari, ma accompagnando per mano il lettore attraverso le emozioni che anche solo uno sguardo o una particolare inclinazione del musicista sa donare a un appassionato di jazz. Pannonica De Koenigswarter “Les Musiciens des Jazz et Leurs Trois Voeux” - Buchet Chastel - 2008 (con introduzione di Nadine De Koenigswarter – nipote di Nica) Pannonica De Koenigswarter “Three Wishes - An Intimate Look at Jazz Greats” - Abrams Image 2008 (con introduzione di Gary Giddins, critico jazz) di Lorenza Cattadori
Ovvero, l’arte nel quotidiano. Lalita è il laboratorio che crea opere artistiche e di design attraverso l'utilizzo di materie prime di riciclo. Esteticamente le opere richiamano il design nord europeo, ma c'è molto di più: il passato si intreccia col presente, la concretezza degli oggetti con la scoperta di sé e il “recupero” del contatto col mondo. L'arte imita la scenografia, dove tutto è utile ai fini della scena e il superfluo viene eliminato. Apriamo a una finestra e sbirciamo curiosi l’affascinante mondo creato da Elisa Furini e Silvia Chiesa, due artiste made in D.A.M.S. Quando come nasce la tua passione per le arti figurative? Il mio interesse consapevole per il disegno e la pittura nasce alle medie, il terzo anno ho avuto un’insegnante di disegno che mi ha dato molti input. Era un acquarellista affermata e riuscì a trasmettermi la sua passione spronandomi a continuare, così ho fatto, scegliendo poi il liceo artistico. Da allora mi è stato chiaro che i colori e la pittura erano il mio modo di esprimermi; prima non saprei, anche mia madre è molto creativa, quindi senza dubbio è stata la prima a trasmettermi la passione per i lavori manuali. Come nasce l'idea del laboratorio? Dopo l’università ho frequentato una specializzazione in Scenografia Teatrale e Cinematografica a Torino, uno dei compiti finali del corso di Diritto del Lavoro era la realizzazione di un progetto concreto per un nostro futuro lavoro in proprio. Una sera a cena con un’amica è nata l’idea del Laboratorio dalla quale ho sviluppato il progetto, che mi ha dato una visione realistica e più chiara di tutti i passaggi necessari per aprire un’attività. È proprio con quest’amica, Silvia Chiesa, che collaboro a stretto contatto per dare vita alle realizzazioni di Lalita. Come nascono le tue idee? C'è la folgorazione o prediligi la progettazione? Dipende, per la pittura l’ispirazione del momento mi porta a creare immediatamente un’idea, un’immagine. Spesso a posteriori nasce un’analisi e quindi un progetto. Nel caso dei quadri, ultimamente mi dedico a delle serie proprio per non abbandonare un’idea ad un unico esemplare. Cerco di produrre pezzi unici differenti ma legati da un filo conduttore estetico o di tecnica. Quindi c’è sia la folgorazione che la progettazione. Per l’arredamento c’è un lungo studio dietro. Cerco di trarre ispirazione da quello che osservo, se trovo qualcosa che mi colpisce cerco di capire come trasformarlo in un oggetto utile e da lì parte una ricerca sul come convertirlo (lampada, mensola, armadio...), sui materiali, le tecniche, oltre a una ricerca iconografica e sul colore. A volte ho già dei pezzi d’arredamento a disposizione e si tratta di capire se mantenere il loro utilizzo originario o modificarlo, e questo è spesso il caso. Mi piace l’idea di trasformare gli oggetti in qualcosa di diverso dalla loro natura, mantenendone però l’aspetto originario. Sorprendono, perché ti aspetti una cosa chee in realtà è altro. Fondamentale è l’utilità. Non amo i soprammobili, tutto dev’essere funzionale, come in scenografia: se una cosa è sul palco è perché serve all’azione scenica. Hai partecipato a una mostra a Palazzo Ducale presentando un’opera di pittura e riciclo dal titolo “Passato, presente e futuro”. Raccontaci qualcosa. Che cosa si prova a vedere una propria opera esposta? Precedentemente ho partecipato a molte altre mostre collettive a Sanremo e Imperia, ho fatto alcune personali nello spazio Calvino del D.A.M.S. e in alcuni locali. Al Ducale ero all’interno di una collettiva per la mostra “Dumping Art” organizzata da Artelier. All’epoca il laboratorio era in fase di progettazione, quindi ho presentato
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il quadro solo a mio nome. È stata senza dubbio la partecipazione più emozionante. Per il luogo in sé, che rappresenta uno spazio artistico concreto, è per aver visto lì riconosciuto il valore del mio lavoro. Oltre all’emozione di riconoscere anche negli altri artisti un valore comune. L’opera che ho esposto ha tecnica mista acrilico, vetroresina, foglie, scarpe e oggetti presi dalla spazzatura. Il senso è che possiamo vivere il presente, il qui e ora, perché quello che è stato non è più presente e quello che verrà ancora non c’è. Passato e futuro sono uniti e esistono in base a quello che vivo ora, sono e non sono contemporaneamente. C'è qualcosa che desideri particolarmente realizzare? Ci stiamo dedicando a un progetto creativo che unisca la pittura e la fotografia al design, realizzando oggetti d’uso quotidiano che abbiano una parte decorativa ripresa da quadri e foto realizzati da noi o che traggano ispirazione da altri artisti. Vorremmo unire l’espressione artistica a un design funzionale, come con le ultime sedie che abbiamo realizzato, ispirate nei colori e nella scelta della stoffa alla pittura di Gauguin. In cantiere abbiamo la realizzazione di biancheria per la casa che riprenda nei disegni la serie dei nostri quadri “Bamboo”. Non molti possono permettersi o desiderano appendere quadri in casa propria, ma allo stesso tempo la texture o la grafica di un’opera è più espressiva e osservabile se si ha la possibilità di utilizzarla concretamente. Credo che l’estetica che si fermi al dipinto sia riduttiva. L'arte per scoprire sé stessi. Cosa intendi? È il processo creativo in sé. Quel momento in cui sei talmente dentro a ciò che stai facendo che non esiste altro e il tempo non esiste più. Come una meditazione. Non necessariamente collegato al creare un quadro. Può capitare mentre si fa giardinaggio, si cucina o si cuce, si dà spazio e forma a qualcosa. Più che il cosa è il come la si fa, l’energia e l’intenzione che ci si mette. È uno spazio che si dedica a sé stessi. O almeno è quello che capita a me. Filosofia induista (Lalita viene da lì) e design contemporaneo nord europeo. C'è una volontà di unire Oriente e Occidente? Direi che non c’è questa volontà, è la mia vita che mi sta portando in questa direzione. Sono nata qui e la cultura occidentale è imprescindibile dalla mia formazione, ma allo stesso tempo sono molto attratta da quella orientale. Oriente inteso come una forma di pensiero e di azione. L’Occidente, rincorrendo il capitalismo e il consumismo sfrenato, ha perso in gran parte quella dimensione in cui si riporta l’attenzione su di sé e su quello che ci circonda. È semplicemente questo che mi piacerebbe riportare: attenzione e ascolto. C'è una delle tue creazioni che credi ti rappresenti di più, in cui pensi di aver messo più di te stessa? No, non credo. In questo momento quello che mi rappresenta di più è la serie “Bamboo”, ma ognuna delle cose che ho fatto rappresenta una mia fase, anche se non rispecchia il momento presente. Progetti futuri? In questo momento il laboratorio non è aperto al pubblico né facilmente raggiungibile. Vorremmo trovare uno spazio che possa essere aperto, in cui poter lavorare e allo stesso tempo esporre le nostre realizzazioni. Oggi come oggi è un progetto molto ambizioso, viste le condizioni economiche e sociali, ma andiamo avanti comunque. Abbiamo molti progetti di design in cantiere, ma molti dipendono dallo spazio e dalle risorse economiche che abbiamo a disposizione per trasformare le idee o i prototipi in oggetti reali. Oggi si lavora molto sul web, ed è senza dubbio un’enorme vantaggio, ma credo che la possibilità di poter scegliere un contatto concreto tra le persone sia fondamentale.
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foto di Luca Stardero www.stardero.com
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