Approfondimento di arti sceniche e figurative a cura dei ragazzi del DAMS di Imperia - Anno ! / n°1 Marzo 2012 DISTRIBUZIONE GRATUITA - eutropiadams.wordpress.com - redazione.eutropia@hotmail.it
Il-lato-oscuro-del-3d pag.2
Finalmente ce l’abbiamo fatta, il primo numero cartaceo ha emesso il suo vagito! Non ci sono voluti nove mesi di gestazione, certo, ma la fatica e l’impegno sono stati pag.2 analoghi: tra volantini, copisterie e biglietti da visita siamo l’horror-amatore riusciti a partorire la nostra creatura. EUTROPIA potrebbe essere definito un “manifesto festival.di-sanremo dell’arte”, uno spiraglio di luce in una società grigia e (purche’se-ne-parli) monotona. In molti hanno domandato il perché pag.3 dell’elmetto di “Full Metal Jacket”. Bene, noi iniziamo una battaglia contro una società e una cultura dei media decisamente mediocri, che ci vogliono più attenti alla ben pag.4 La-maledizione-di nota farfallina di Belen Rodriguez che al valore della buckethead omaggio musica (sanremese e non) nella nostra vita. pag.3 a-luigi-tenco Perché alla fine, pensiamoci, quali sono le cose che ci rendono felici durante la giornata? Gli affetti, certamente. Un-uomo. Ma anche l’arte che ciascuno di noi in qualche modo è una-donna.i-ricordi pag.5 capace di creare, pur neo modi più disparati: componendo una canzone, scrivendo un racconto o magari scattando una fotografia. pag.5 Ascoltare e imparare a “produrre” musica, nel senso più il-femminile-nel-teatro stretto del termine. Disegnare, andare a vedere una mostra. Come diceva Jean Arp (1887-1966), pittore, scultore e bentornata,ferocia poeta francese, <<l’arte è un frutto che cresce pag.6 nell’uomo, come un frutto su una pianta, o un bambino nel ventre di sua madre>>. E allora lasciamolo crescere, non uccidiamolo con certi prodotti velenosi, televisivi e non. meraviglioso-paesaggio pag.6 Lasciamolo fiorire, seguendo le nostre naturali inclinazioni e i nostri personalissimi gusti. Per questo nasce EUTROPIA. Una rivista universitaria pag.7 che ha lo scopo di fornire valide alternative alle lacune pick-of-the-month culturali della nostra società. Bene! Ora che l’avete tra le mani (senza doppi sensi, mi raccomando!), potete Capo-redattore: sfogliarlo e valutarne i contenuti. Chiudo citando l’Italo Agnese Vero Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: Correttore-bozze: <<Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, Roberta Poggio raggomitolato, coricato. (...) Regola la luce in modo che Impaginazione-egrafica: non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai Ivan Muzzioli sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di Redattori: smuoverti. (...) Cerca di prevedere ora tutto ciò che può Sara Pellegrini, Davide evitarti di interrompere la lettura. Le sigarette a portata di Izetta, Davide Fazio, Oriana Gullone mano, se fumi, il posacenere. Che c’è ancora? Devi far la Collaboratori: pipì? Bene, saprai tu>>. Géneviève Alberti di Agnese Vero
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VISIONI
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Francesco Mirabelli
Fantasma
Il lato oscuro del 3D
di Davide Izetta
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CASA
NOSTRA di Davide Izetta
L’ horror-amatore
TALENTI
La 3D mania, che impazza sul grande schermo, non poteva non coinvolgere - o in questo caso contagiare - la leggendaria s a g a fantascientifica di George L u c a s : “ G u e r r e Stellari”. L’uscita nelle sale italiane del primo episodio “La Minaccia Fantasma” in 3D (avvenuta il 10 febbraio 2012) non ha quindi sorpreso nessuno, anche considerando che Lucas è tanto un pioniere della tecnologia quanto un abile imprenditore. Tuttavia questa volta, anche se racimola ai botteghini, Lucas non centra l’obiettivo, dissipando la magia che questa saga ha regalato a quasi tre generazioni. Sia perché quest’episodio è, per usare un eufemismo, il meno amato dell’intera saga, sia perché il risultato finale non è dei migliori. L’idea generale è che la versione in 3D sia stata realizzata senza cura, più per esigenze imprenditoriali che per intrattenere con un prodotto valido. Ciò si traduce in un’immagine sfocata e confusa. Paradossalmente la qualità non migliora, la visione è alterata, così sbavata da compromettere la stessa messa a fuoco dello schermo. Discutibile la scelta di tagliare alcune scene minori, importantissime per l’evolversi della saga, al solo scopo di trascinare più a lungo possibile la sequenza della gara di Sgusci (mezzi fantascientifici che ricordano monoposto di Formula 1), ovviamente in 3D per la sua interezza. Un risultato piuttosto scarso per gli standard cui Lucas ci ha abituato non resta che sperare in un miglioramento con gli episodi successivi della saga.
Francesco Mirabelli è un promettente regista alle prime armi. Frequenta il DAMS di Imperia, anche se è originario di Agrigento. È ora in dvd il suo primo cortometraggio, un horror intitolato “Delirium 464”. Lo abbiamo raggiunto per parlarci del suo lavoro. Come ti è venuta in mente l’idea per il soggetto e a cosa s’ispira l’intera lavorazione? Il soggetto nasce da una lapide con inciso sopra un numero (dettaglio importante nel film, Ndr) che ho visto in una chiesa. L’idea di base è quella di riproporre le atmosfere tipiche degli horror anni Settanta quali le opere di Bava, che è il mio Vate, e di Dario Argento, per citarne alcune. Questo si riflette in tutto il lavoro, dalla sceneggiatura alle luci fino alle inquadrature. Quanto è difficile per un regista amatoriale produrre e far conoscere il suo lavoro? È molto difficile. Gli ostacoli che un regista si trova davanti sono, per farla breve, due: il budget, ovviamente limitato, e, mi rincresce dirlo, lo scetticismo del pubblico. La qualità risente della mancanza di strumenti avanzati, fuori dalla portata degli amatori, e purtroppo questo scoraggia tanti spettatori, che considerano solo la povertà d’immagine e di audio senza tener conto della cura nella regia e della solidità della sceneggiatura. Hai in mente progetti futuri? Realizzare questo progetto è stato difficile ma gratificante. Non appena ne avrò di nuovo la possibilità, mi piacerebbe esplorare un altro filone dell’horror, il Gotico, di cui mi affascinano le atmosfere.
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La-Maledizione-di-Buckethead
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Quando saper suonare non serve proprio a nulla. L’America è un posto meraviglioso, qualsiasi altro Stato conta in parte come una gigantesca dependance degli USA. L’America è il posto più bello del mondo, più ricco, dove trovi di tutto. Nelle terre dello Zio Sam ovunque puoi trovare armi, orsi, pick-up, texani, messicani clandestini, ma forse l’importante è che puoi trovare uno come Buckethead. Buckethead, al secolo Brian Carroll (classe 1969), altri non è che un musicista, un discretamente geniale musicista, che si distingue dalla massa di banali strimpellatori per un motivo che non coincide non la sua abilità (peraltro piuttosto elevata). Il simpatico Brian, oltre ad aver rilasciato forse due interviste in vent’anni di carriera, non è mai stato ripreso in volto. La sua specialità è comparire in pubblico con una maschera bianca sul viso, calzando in testa, con fare un po’ spavaldo, un secchio del Kentucky Fried Chicken. Proprio una di quelle catene di fast food che si vedono nei telefilm, quelle che dispensano secchi di pollo fritto alle spezie, impossibili da mangiare senza conciarsi come un bimbo in un pozzo di vernice. Davvero una bella presenza scenica. Purtroppo, questa si tramuta anche nella sua maledizione. Nessuno riconosce Brian per le innumerevoli colonne sonore che ha contribuito a comporre, per la sua sconfinata abilità di polistrumentista, per la lista infinita di collaborazioni con i grandi. Per la gente, Buckethead è solo il tipo con la maschera e il secchio in testa. Basta, punto, finito. È questo il guaio dell’America, e del mondo intero: la musica, come
l’arte in generale, passa sempre in secondo piano rispetto al personaggio che ti crei. Passerà ai posteri come “La Maledizione di Buckethead”, maledizione fra l’altro in grado di serpeggiare tra oceani e paesi perché, recentemente, ha attaccato anche la nostra Sanremo. Di musica se n’è sentita troppa, ma non ne ha parlato nessuno, erano tutti distratti dalle ronzanti polemiche su Celentano che se la prendeva con i giornali cattolici, per esempio. Gente come Brian May (stesso nome del nostro “Testadisecchio”, le coincidenze non esistono), ex Queen, o Patty Smith, la donna che si è inventata l’alternative rock, hanno miseramente ceduto il palcoscenico al gossip, tra l’altro abbastanza becero. Cosa si cela dietro la maschera di Buckethead? Avrà le mutande oppure no? Belen Rodriguez suonerebbe mai la chitarra con una confezione di bastoncini Findus sulla testa? E che ne è della musica? Dei brividi che si sentivano quando Patty Smith cantava “Impressioni di Settembre” con Cristiano Godano? Forse se non avesse avuto quello smoking un po’ frusto e avesse indossato un bikini, oggi ci sarebbe un revival dell’artista. Eccola qui “La Maledizione di Buckethead”, siamo prigionieri delle nostre parole, e per quanto ci sforziamo di urlarle più forte, ci risponderà solo la nostra muta immagine allo specchio. Parlate gente, parlate, non sia mai che, quando vi ritroverete senza fiato, magari impariate ad ascoltare. di Davide Izetta
62°Festival-della-canzone-italiana Purché se ne parli... Il 62° Festival della canzone italiana si è concluso con il trionfo di “Non è l’Inferno” interpretata da Emma Marrone. La giovane era già nota per aver vinto Amici, il celebre talent show condotto da Maria De Filippi. Questa edizione è stata condotta per il secondo anno consecutivo da un Gianni Morandi teso per i continui imprevisti.
L’arrivo di Ivana solo nella seconda serata per un malessere, i microfoni che s’incantano, il monologo super critico e criticato di Celentano e infine la fatidica domanda che tutti si sono posti: “Belen portava o no le mutande?”, hanno monopolizzato il palco dell’Ariston. Così Sanremo è sulla bocca di tutti non per le canzoni, ma per i
commento di Sara Pellegrini
fortunati “imprevisti”. Vale la legge del “purché se ne parli”: i mezzi non sono importanti, basta innalzare l’audience. Poco importa se, di questa edizione, nessuno ricorderà le canzoni in gara, ma lo spacco vertiginoso di Belen. Per fortuna a salvare la situazione ci hanno pensato i super ospiti, una su tutti la leggendaria Patty Smith.
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Omaggio-a-luigi-tenco I dubbi e le certezze lasciati dal cantautore scomparso 45 anni fa
Sono passati quarantacinque anni dal quel 27 gennaio, giorno in cui morì il cantautore Luigi Tenco. Omicidio o suicidio? In molti si sono posti e si pongono questa domanda. Di certo sappiamo che è stato trovato nella stanza 219 dell’hotel Savoy a Sanremo, steso a terra. Accanto al cadavere vi erano una pistola e una lettera di addio: <<Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente 5 anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io Tu e le Rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi>>. Ma chi è Luigi Tenco? Innanzitutto nasce a Cassine, provincia di Alessandria, il 21 marzo 1938. Sappiamo che suo padre, Giuseppe, muore in circostanze non chiare prima della nascita del cantautore. Non è neppure sicuro che lui fosse il vero padre di Luigi. A dieci anni si trasferisce con la madre e il fratello a Nervi, in Liguria. Prende la maturità al Liceo classico da privatista. Negli anni delle superiori mette su diversi gruppi musicali, dove suona il clarinetto e il sax. Nel ’53 forma, insieme a Bruno Lauzi, Alfred Gerard e Danilo Degipo i Jerry Roll Morton Boys Jazz Band, in onore del celebre pianista jazz. Forma poi un altro gruppo, I Diavoli del Rock, insieme a un giovane Gino Paoli e a Roy Grassi. Prova anche l’esperienza universitaria, prima a Ingegneria poi a Scienze Politiche. In questi anni collabora con artisti del calibro di De Andrè, Alberto Cameli, Mario De Sanctis e molti altri. La madre e il fratello Valentino giudicano dispersivo e inutile quello che per Luigi diventa, giorno dopo giorno, qualcosa di più che un hobby: la musica. Nel ’59 Tenco, con il gruppo I Cavalieri, esordisce per la casa discografica Ricordi incidendo il 45 giri “Mai\ Giurami Tu”. Da qui inizia la scalata di Luigi che, anno dopo anno, pubblicherà diversi album tra cui “Una Vita Inutile\ Ti Ricorderai” e “Come Le Altre\ La Mia Geisha”. Ma
Luigi Tenco non è solo un cantautore, è anche un attore apprezzabile nel film “La Cuccagna di Luciano Salce”. Qui interpreta un giovane comunista idealista, estraniato dalla società del boom economico, che odia qualsiasi conformismo e minaccia di uccidersi se verrà chiamato a fare il militare. Fa rabbrividire il pensiero che interpretasse un potenziale suicida cinque anni prima della sua scomparsa. L’incontro con Iolanda, in arte Dalida, segna per sempre la vita di Luigi. Tra i due sembra esserci un grande amore ma, dalle lettere indirizzate alla presunta fidanzata Valeria, si direbbe tutta una farsa per attirare l’attenzione del pubblico: <<Tenco e Dalida, la coppia vincente del prossimo festival. Che notizia golosa per i giornalisti!>>, scrive. La canzone che i presunti amanti portano sul palco dell’Ariston è “Ciao Amore, Ciao”, i cui versi esprimono un profondo disagio del cantautore, una denuncia sociale: Andare via lontano cercare un altro mondo dire addio al cortile andarsene sognando e poi mille strade grigie come il fumo in un mondo di luci sentirsi nessuno. Dalida, ormai famosa e apprezzata, ottiene consensi e applausi. Luigi, provato e non nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, viene spregiato. Fin dal primo momento non si sente a suo agio in quel mondo che lui stesso definisce corrotto. Un sistema che lo costringe a cambiare il testo della sua canzone perché troppo crudo. È qui che, romanticamente, si inserisce l’ipotesi del suicidio. Un cantautore che non è libero di esprimersi attraverso la propria musica non ha più senso di esistere. <<Io sono uno che non nasconde le sue idee, questo è vero perché non mi piacciono quelli che vogliono andar d’accordo con tutti e che cambiano ogni volta bandiera per tirare a campare>>. (“Io Sono Uno”, 1966). di Sara Pellegrini
Un-uomo.Una-donna. I-ricordi-di-una-coppia.
“Piccoli Crimini Coniugali” in scena a Bordighera Sabato 18 febbraio 2012 è andato in scena presso il Palazzo del Parco di Bordighera “Piccoli Crimini Coniugali”. Elena Giusti e Paolo Valerio, con la regia di Alessandro Maggi, portano in scena un dramma coniugale dai toni chiaroscuri tratto dalla nobile penna di Eric Emmanuel Schmitt. L’autore, drammaturgo e scrittore francese di fama internazionale i cui drammi teatrali sono tra i più rappresentati sui palcoscenici di tutta Europa, è stato insignito di numerosi riconoscimenti, tra i quali tre premi Molière per la sua commedia “Il Visitatore”. Tema portante delle sue opere è l’indagine sulla complessità dei rapporti personali nella vita dei protagonisti. E proprio questa difficoltà dei rapporti tra personaggi è alla base di “Piccoli Crimini Coniugali”, che racconta la vicenda complessa e tormentata di un uomo (Paolo Valerio), di una donna (Elena Giusti) e del loro tentativo di ricostruire la memoria di lui, perduta a causa di un incidente domestico. Quest’uomo, risvegliatosi in ospedale con un’amnesia, si ritrova poi in una casa all’apparenza sconosciuta in compagnia di una donna che dichiara di essere sua moglie, ma che a lui risulta estranea. La donna gli racconta le vicende che l’hanno visto coinvolto e, per convincerlo che lei è veramente sua moglie, gli parla
segnalato da Oriana Gullone
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del loro passato insieme, sperando di fargli recuperare la memoria. È appunto in casa che si svolge il dramma. La donna sembra voler rivelare solo i lati positivi del loro matrimonio e del carattere di suo marito, descritto come un uomo amorevole, gran lavoratore, magari un po’ pignolo, ma premuroso, amante dell’arte. Insomma, un marito ideale da come lo rappresenta lei. Man mano che la storia va avanti, però, cominciano a emergere quei lati oscuri della coppia che la moglie aveva cercato invano di nascondere. Grazie a una serie di indizi e colpi di scena, si arriverà a capire che in realtà tutto è l’opposto di quel che sembra. Alla fine, come nei migliori gialli, ciascun pezzo del puzzle tornerà a posto e si scoprirà che era stata la donna, in un attimo di folle gelosia, a colpirlo e a mandarlo all’ospedale. Per via del lavoro lui era sempre assente e lei si sentiva così trascurata che si era data all’alcol, convinta di essere stata tradita. In realtà l’uomo non aveva perso completamente la memoria. L’aveva recuperata in ospedale poco dopo essersi svegliato, ma era stato al gioco della moglie per capire il motivo di un tale gesto nei suoi confronti. Un uomo e una donna. I personaggi non hanno un nome, quasi a dire che potrebbero essere due persone qualsiasi, anche degli spettatori. di Davide Fazio
femminile
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teatro
Concorso per autori e autrici teatrali
Il Festival dell’Eccellenza al Femminile, che si svolge da sette anni a Genova e ha ricevuto due Medaglie del Presidente Giorgio Napolitano, ha istituito nel 2010 il Premio Ipazia all’Eccellenza al Femminile che è stato attribuito fino ad ora all’étoile Carla Fracci e all’attrice Elisabetta Pozzi. Il Premio è dedicato a Ipazia, scienziata alessandrina (d’Egitto) del V sec. barbaramente uccisa per ragioni di integralismo religioso e culturale. In un momento in cui il teatro è forse l’ambito culturale fra i più colpiti dalla crisi e dai tagli, dunque più bisognoso di attenzione e di sponsorizzazione, il Festival intende dedicare una sezione del già affermato Premio Ipazia alla scrittura teatrale che si rivolge ad argomenti e storie che riguardano le donne e “il femminile”. Il Festival, avendo la finalità di contribuire a stimolare la nuova drammaturgia nel teatro contemporaneo e valorizzare la figura femminile e la presenza anche numerica delle donne nel Teatro, invita autori e autrici italiani e stranieri a partecipare al Bando di Concorso per nuove opere teatrali incentrate su: • storie di donne, • figure femminili dalla Storia del Teatro classico e contemporaneo, • argomenti culturali, storici, di cronaca o di attualità dedicati all’indagine del “femminile” in tutte le sfere della società. Priorità dell’autore dovranno essere avvicinare ed attrarre lo spettatore al Teatro, con particolare attenzione alle giovani generazioni, fornire al pubblico strumenti nuovi per l’approfondimento e la comprensione della realtà, stimolare nuove forme di creatività nella messa in scena e contribuire a sensibilizzare il pubblico alla comprensione delle problematiche di genere. Quest’anno l’argomento è la Maternità e il rapporto tra le generazioni. Il termine di invio delle opere è fissato al 15 maggio 2012 alle ore 18. Il Premio ha la finalità di mettere in contatto gli esperti di settore con giovani attori e drammaturghi per favorire nuove opportunità di lavoro e sarà consegnato a un solo autore per una sola opera nell’ambito del Festival nella terza settimana di novembre 2012. Il Premio materiale consiste in un bonus in denaro e nella pubblicazione dell’opera in una tra le più importanti riviste di settore, un bonus per un viaggio in una destinazione a scelta dell'autore e la rappresentazione dell’opera in mise en éspace. Per maggiori informazioni, per scaricare il bando completo e il calendario delle manifestazioni legate al Festival: www.eccellenzalfemminile.it
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“Così in terra”, esordio letterario di Davide Enia
<<Acqua bagna, vento asciuga>>. Queste potrebbero essere le parole chiave del nuovo romanzo di Davide Enia, edito da Dalai editore. Una storia che parla di cadute e risalite, sia familiari che sentimentali. Ma anche di coraggio e forza interiore. Una vicenda che dura 50 anni, dal ‘42 al ’92, e che attraversa tre generazioni di pugili in una Palermo che, al contrario dei suoi abitanti, sembra non cambiare e non crescere mai. Una Palermo che ferisce e fa male, prima con le bombe della Seconda Guerra Mondiale poi con la Mafia e gli attentati. Protagonista di questa storia è Davide, detto Davidù. Inizia a boxare a nove anni, seguendo passo passo le orme del padre, il Paladino, morto prima della sua nascita, e dello zio Umbertino, entrambi pugili straordinari. Accompagnato dall’inseparabile amico Gerruso, tra i nove e i diciotto anni crescerà plasmato
dai duri allenamenti in palestra, dal fresco e puro amore per Nina e dalla profonda saggezza di nonna Provvidenza. Enia sa trattare magistralmente la materia, vissuta per certi aspetti in prima persona (palermitano, classe ‘74), nonostante sia al suo esordio letterario. Autore di testi teatrali, diventa uno dei massimi esponenti del teatro di narrazione, dove recupera le tradizioni siciliane (la sua opera, “Maggio ‘43” tratta dei bombardamenti a Palermo). Nel 2005 esordisce alla radio, in collaborazione con Fabio Rizzo, con un programma per
Meraviglioso-Paesaggio
Radio RAI2, “Rembò”, che diventerà poi nel 2006 un libro edito da Fandango Libri. Nel 2008 fonda con Rizzo un’etichetta discografica, la “800A Records”, e nel 2010 pubblica il racconto “Mio Padre Non Ha Mai Avuto Un Cane”. In una città che ti costringe a tenere costantemente la guardia alta anche quando il tuo avversario è senza volto, dove <<l’umiliazione brucia più dei pugni presi>>, questa storia raccontata in un siciliano “italianizzato” - parla al lettore di audacia e di forza d’animo. È un romanzo di formazione potente e splendido, dove anche le ombre più dure e nette sono addolcite dalla genuinità dei personaggi che crescono sapendo di poter contare sulle proprie forze per rialzarsi in caso di caduta. Con questa sequenza ciclica: come l’acqua bagna, il vento inesorabilmente può asciugare. di Agnese Vero
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<<Una bellezza che strazia l’anima>> Ingresso 5 minuti dopo mezzogiorno, praticamente all’apertura. La ragazza che stacca i biglietti non si fa scrupoli a rilasciare un ridotto studenti “sulla fiducia”. Le fotografie - circa 120 in tutto - provengono da collezioni private, è un po’ come sbirciare in casa altrui. Prima i ritratti, personaggi in posa che hanno atteso chissà quanto per poter essere immortalati in quelle lastre al collodio. Poi i paesaggi, il viaggio inizia a Ponente. Bordighera, Sanremo, Dolceacqua, Imperia, il mare è oggi com’era allora, ma le case, i volti dei pescatori e dei contadini, le vie tradiscono una realtà che il progresso ha ormai accantonato. Ecco Genova, i palazzi signorili e i trogoli dei quartieri popolari. Le strade appaiono quasi deserte, mi spiegano che per via dei lunghi tempi di esposizione spesso le persone non rimanevano impresse sulla pellicola. Guardo meglio, in effetti noto delle figure evanescenti, sembrano fantasmi che popolano un passato borghese. I fotografi, molti “ambulanti”, spesso stranieri, attraversavano la Liguria a caccia degli aspetti più pittoreschi della nostra regione. Ecco allora le fotografie di Adolphe Bernoud, Alfred Noack, Alessandro Pavia, Jean Scotto e di molti altri. Via Caffaro, piazza dell’Annunziata, via Madre di Dio… chissà quante volte Charles Dickens ha percorso
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quelle strade, o magari Alexandre Dumas o Mark Twain. Vado avanti, pian piano mi dirigo a Levante, supero Nervi e raggiungo Portofino, Camogli, poi le Cinque Terre. Il mio viaggio è finito. Invidio chi, ancora a ovest, sta intraprendendo un percorso che lo guiderà in quel mondo maestoso e silente che è già impresso nel mio immaginario. L’ennesimo regalo che i curatori della mostra, Pietro Boragina e Giuseppe Marcenaro, hanno fatto alla loro città. Dagherrotipi, stampe all’albumina, la fotografia nella seconda metà dell’Ottocento compie i suoi primi passi, permettendo alla tecnica di avere la meglio sull’aderenza alla realtà. Senza per questo mai tradire l’oggetto del suo desiderio, una Liguria che si spoglia davanti all’obiettivo, una città, Genova, che proprio a quei tempi ha strappato a Gustave Flaubert parole uniche: <<Una bellezza che strazia l’anima…>>. “Meravigliato paesaggio: la scoperta della Liguria e i fotografi dell’Ottocento” è visitabile dal martedì al venerdì con orario 12.00-18.00 e sabato e domenica dalle 11.00 alle 19.00. Genova, Palazzo della Meridiana, fino al 9 aprile. di Roberta Poggio
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