Orlando n 2

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Orlando esplorazioni ORLANDO 2 — PRIMAVERA 2013

ILLUSTRAZIONE ALESSANDRA DE CRISTOFARO cargocollective.com/alessandradecristofaro

Dove mi sento

a casa

EURO 5,00

LUOGHI GARMISCH | PICINISCO | PARIGI | PRAGA | MOSCA | ROMA PERSONE AMÉLIE NOTHOMB | ANTONELLA TARPINO | GIORGIO VASTA AMARA LAKHOUS | IGIABA SCEGO | FRANCO CORDELLI


Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

PROLOGO (CINEMATOGRAFICO)

E adesso pensate a tutte le case viste, amate, abitate

I

n una famosa scena di La nascita di una nazione, capolavoro del cinema muto di D.W. Griffith, il protagonista torna a casa dalla guerra ed è accolto dalla madre che esce a riceverlo. Ad un certo punto, in piano laterale vediamo il figlio e le braccia della madre, non il suo corpo né il suo viso ma soltanto le braccia. La casa viene così identificata con la madre. La casa come madre, come famiglia, come focolare. Quello che gli spagnoli chiamano “hogar” e gli americani “home”. Che suggerisce calore, un posto accogliente dove riposarsi accanto al fuoco. Perché c’è la casa e c’è la “home”, che è qualcosa in più. Se si facesse una statistica, non mi stupirebbe che fosse “let’s go home” una delle frasi più ripetute nel cinema americano, ma nessun “let’s go home” rimane così indelebilmente registrato nella memoria come quello uscito dalle labbra di Ethan Edwards (John Wayne) quando verso la fine del mitico film di John Ford Sentieri Selvaggi alza in alto sua nipote Debbie e dice “Let’s go home”. Il cinema di Ford è pieno di case e di verande. Ma forse la casa più famosa del cinema non appartiene a Ford se non a Spielberg e al suo E.T. con il dito puntato in alto. Proprio dal cielo, tra le nuvole, viene una delle migliore metafore di un modello di società sradicata e erratica: in Up in the air la casa diventa aereo per George Clooney o, ancora di più, semplice zainetto. In quel viaggio iniziatico nel mondo del rock che è Almost Famous di Cameron Crowe, dove non c’è dimora fissa ma soltanto lussuosi alberghi, aeroplani e autobus, proprio in un autobus, mentre tutti cantano Tiny Dancer di Elton John, il giovane protagonista spiega alla sua accompagnante (Kate Hudson) che deve tornare a casa e questa gli risponde: “Tu sei a casa”. Come a dire la casa è dove sono i tuoi cari, i tuoi amici, le persone con le quali condividi la vita. Visto così, ogni luogo può diventare casa per l’uomo. Persino quello spiacevole posto di passaggio che è l’aeroporto diventa involontariamente casa per Tom Hanks in The Terminal (ancora Spielberg), mostrando, sì, l’estremo surreale al quale si arriva quando la burocrazia prende il sopravento, ma anche la capacita dell’uomo per rendere abitabile qualsiasi spazio. Mentre per Malick in The Tree of Life è il mondo intero che diviene casa, luogo abitabile. Ci sono molte case in The Tree of Life e tutte molto belle. C’è la casa di cristallo, ultramoderna e fredda, priva di vita. C’è la casa dell’infanzia che i bambini devono abbandonare con dolore. Ma c’è soprattutto la casa del mondo quando questo viene capito come focolare. Il Creatore come Padre e il mondo come focolare. Lo si vede molto bene nel viaggio nella memoria di Jack (Sean Penn), verso il passato fino al proprio concepimento e, ancora più in là, fino a la stessa creazione

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dell’Universo. Lasciamo la vita nei posti dove siamo cresciuti e abbiamo vissuto. Ci addolora separarci da quei luoghi, ci sembra che perdiamo una parte di noi stessi. Come capita al poeta Alexandros (Bruno Ganz) in L’eternità e un giorno di Angelopoulos, quando viene a sapere che la figlia ha venduto la villa al mare nella quale aveva trascorso indimenticabili momenti accanto alla defunta moglie Anna. Con la quale adesso parla instancabilmente, rievocando quei momenti e domandandogli “Dove sei? Cosa ci sarà lì dove andiamo?”, domande alle quali la moglie risponde: “Ora guardo il mare senza fine”. Alexandros placa la sua angoscia nell’intuire che “tutto è verità e attesa... della verità”, che la pienezza alla quale ci sentiamo chiamati è possibile, che sull’altra parte della riva c’è una casa, una villa nella quale guardare il mare senza fine. Perché “quanto dura il domani?”, domanda di nuovo a Anna. E questa risponde: “Un’eternità e un giorno”. La strada verso casa di Zhang Yimou, film ispirato al romanzo Remembrance di Bao Shi (anche sceneggiatore del film) che valse al regista cinese l’Orso d’argento e il Premio Speciale della Giuria nel Festival di Berlino del 2000, è uno dei film in assoluto più toccanti sul tema “casa”. In alcuni villaggi cinesi, se una persona muore lontana da casa, la sua bara deva essere riportata a braccia nel luogo natale. All’inizio del film, il vecchio maestro del villaggio è morto in ospedale, in città, e la vedova insiste perché la bara sia trasportata a piedi, per rendere onore a suo marito. Nel villaggio non ci sono giovani a cui affidare questo compito, ma il figlio del maestro, tornato per il funerale, ha denaro per reclutare dei braccianti. Alla fine, un centinaio di persone accompa-

di ENRIQUE FUSTER gnano la bara, inclusi tanti ex-studenti. Così il denaro del figlio, con i risparmi della madre, possono aiutare a compiere l’ultimo sogno del maestro: la ricostruzione della sua vecchia scuola. Il maestro viene sepolto in una collina accanto al vecchio pozzo, in modo che da lì possa vedere la scuola, e la vedova ha l’allegria di, almeno per un giorno, presenziare come il figlio raduna i bambini e li fa lezioni servendosi dello stesso libro che usava suo padre. Nel film la storia attuale è in bianco in nero. Ma questa fa soprattutto da cornice al tenero racconto dell’innamoramento di Luo e Di, ricostruito dal figlio. E questo è rappresentato a colori. Un giorno del 1958 arriva al villaggio un giovane maestro verso il quale Di si sente subito attirata. Di spia il maestro da lontano, si avvicina alla scuola per sentire la sua voce, tenta l’impossibile per fargli arrivare un piatto di ravioli e si dispera per aver perso il fermacapelli che lui le ha regalato. Quando lui si assenta per un lungo periodo, vittima della persecuzione politica, lei pulisce e addobba la scuola vuota. Nel tentativo di raggiungerlo in città si ammala gravemente. Finalmente Luo torna e Di guarisce. Però lui deve ripartire e questa volta sarà via per ben due anni, alla fine dei quali tornerà per non separarsi più da lei. Il giorno del suo arrivo, Di si mette la giacca rossa che tanto piace a Luo e incurante del freddo e la neve lo aspetta scrutando la strada. Quella strada divenuta “il filo che tenne legati i loro cuori”, ricorda il figlio, aggiungendo: “La strada che dalla città conduce verso il villaggio. Forse è per la speranza che ha rappresentato per lei nei lunghi giorni dell’attesa che ora mia madre la vorrebbe percorrere un’ultima volta insieme a lui”.

Chi ha scritto per questo numero di Orlando ENRIQUE FUSTER insegna Teoria e Storia del Cinema all’Università Pontificia Santa Croce di Roma OLGA CAMPOFREDA (1987) ha pubblicato Caffè Trieste, reportage sui luoghi della Beat Generation ALESSANDRO GIAMMEI (1988) studia Letteratura italiana alla Normale di Pisa ALMA GATTINONI e GIORGIO MARCHINI, insegnanti e bibliofili, vivono a Lecco ALESSIO DIMARTINO (1982) ha pubblicato Il professore non torna a cena PIERFRANCESCO MATARAZZO ha pubblicato tra l’altro La certezza del dubbio SARA ANTONELLI insegna Letteratura americana a Roma Tre MICHELA MONFERRINI (1986) ha pubblicato Conosco un altro mare, su La Capria DIEGO VITALI (1984) ha pubblicato Tutto quello che so è per te che lo so MATTEO MICCI (1983) vive a Shangai, è illustratore e autore di libri per bambini NICOLETTA AMATA ama scrivere intorno al cibo ROSSELLA GAUDENZI lavora in una scuola di musica e si occupa di piccola editoria per un blog LUCA ALVINO è autore di poesie e di saggi critici e redattore di “Nuovi Argomenti” GIORGIO BIFERALI (1988) studia Letteratura e si divide fra narrativa, critica e musica LAURA TULLIO scrive e fa l’editor RAFFAELLA D’ELIA ha pubblicato diversi saggi e il

Orlando esplorazioni rivistaorlando@gmail.com www.rivistaorlando.it

Rivista trimestrale diretta da Paolo Di Paolo Art director Dario Morgante Staff editoriale Cristiano Armati Olga Campofreda Mariacarmela Leto Prodotta da Giulio Perrone Editore www.giulioperroneditore.it

Redazione c/o Giulio Perrone Editore Via Squarcialupo 14 00162 Roma tel. 06 97605054 Stampata nel marzo 2013 presso Cimer snc di G. Ceccarelli e co. Roma www.tipografiacimer.it

libro Adorazione SAVERIO SIMONELLI lavora per Tv2000 e ha pubblicato tra l’altro Nel paese delle fiabe, sui Grimm LUIGI LA ROSA insegna scrittura creativa e vive fra Roma, Catania e Parigi MARCO ONOFRIO è saggista e autore di poesia (ultima raccolta Ora è altrove) e narrativa SIMONE NEBBIA (1981) scrittore e cantautore, si occupa di critica teatrale GIACOMO RACCIS (1987) è dottorando in Teoria e Analisi del testo a Bergamo CETTA PETROLLO PAGLIARANI è autrice di narrativa e poetessa (ultimo libro, Te la racconto così) LETIZIA LEONE poetessa (tra l’altro, La disgrazia elementare) ILARIA MAZZEO ha pubblicato fra l'altro il romanzo Il silenzio perfetto

Chi ha illustrato Orlando

ALESSANDRA DE CRISTOFARO NICOLE CASAVOLA SABRINA GABRIELLI MATTEO MICCI ELIF KORK ELEONORA ANTONIONI GIULIA BELLA FABRIZIO MARTINEZ LUIGI LA ROSA DOMENICO LAPOLLA MICHELA MONFERRINI MARIANNA MASSELLI LUIGI RICCA

Genius loci

Ogni numero di Orlando nasce so!o la stella di uno scri!ore. Un timoniere, un ispiratore, un maestro. “Dove mi sento a casa” non poteva che essere dedicato a Georges Perec (1936-1982), l’autore del grande romanzo “condominiale” La vita istruzioni per l’uso. Da pagina 5 a pagina 11 trovate frasi tra!e dai suoi libri.

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PRIMAVERA 2013

CONTATTI MAGICI

Orlando esplorazioni di OLGA CAMPOFREDA

Amélie Nothomb

“Casa mia è in un romanzo di Cocteau” B

elgio, Giappone, Cina, Stati Uniti, Bangladesh. Tanti i luoghi che hai chiamato casa. Ma a quale di questi senti di appartenere realmente? Finalmente, il Belgio! Perché l’identità Belga è così indefinita e vaga: mi si addice. Quale immagine ti suggerisce la parola ‘casa’? Una bottiglia piena di champagne. In Biografia della Fame dichiari: «Moi je parle le franponais». Parlare fluentemente due lingue quanto influisce sul punto di vista, sulla visione del mondo? Il linguaggio influisce sul punto di vista tanto quanto la musica: moltissimo! Ci sono certi sentimenti che riesco solo ad esprimere in giapponese. Esiste un libro in cui ti senti a casa? Sì. Les enfants terribles di Jean Cocteau. Quali erano le letture che ti facevano compagnia, ad esempio, nel difficile periodo del Bangladesh?

L’incipit di Barbablù (Voland 2013, traduzione di Monica Capuani)

Iliade e Odissea (Omero); Les jeunes filles (Montherlant); Le pavillon d’or (Mishima). Qual è stata la prima cosa che hai scritto in assoluto? Un romanzo che parlava di una omelette spaziale, quando avevo diciassette anni. E il libro che avresti voluto scrivere? La Bibbia. È importante il luogo dove scrivi? È sempre lo stesso o cambia per ogni romanzo che scrivi? Non è poi così importante; ho imparato a scrivere dappertutto, perfino in aeroplano. Quanto hanno influito sul tuo immaginario le favole e le leggende dei Paesi in cui hai vissuto? A quale sei più legata? Beh, davvero molto. E le ricordo tutte. Specialmente Yama-uba. È la storia di una bruttissima strega delle montagne, vestita di un kimono stracciato, si ciba di carne umana. Molte leggende le attribuiscono una bocca sulla nuca, nascosta dai capelli; altre narrano che il suo segreto stia in un fragilissimo fiore, che custodisce la sua anima.

Quando Saturnine arrivò nel luogo dell’appuntamento, si meravigliò che ci fosse tanta gente. Non pensava certo che sarebbe stata l’unica candidata, ma di lì a essere ricevuta in una sala d’attesa dove la precedevano quindici persone c’era una notevole differenza. “Troppo bello per essere vero” pensò. “Non sarò mai la coinquilina che cercano.” Dal momento che si era presa la mattinata libera, decise comunque di aspettare. Il magnifico luogo la induceva a farlo. Entrava per la prima volta in un palazzo signorile del VIIarrondissement di Parigi e non riusciva a capacitarsi dello sfarzo, dei soffitti altissimi, del tranquillo splendore di quella che costituiva appena un’anticamera. L’annuncio precisava: “Una stanza di 40 metri quadri con bagno, accesso libero a una grande cucina attrezzata” per un affitto di 500 €. Ci doveva essere un errore. Da quando Saturnine cercava casa a Parigi, aveva visitato tuguri immondi di 25 metri quadri senza bagno, a 1.000 € al mese, che trovavano chi li prendeva in affitto. Che imbroglio nascondeva dunque questa offerta miracolosa? Osservò poi i candidati e si accorse che si trattava solo di candidate. Si chiese se la condivisione di casa fosse un fenomeno femminile. Quelle donne sembravano tutte angosciatissime e Saturnine le capiva: anche lei desiderava ardentemente aggiudicarsi quella stanza. Ahimè, perché avrebbero dovuto scegliere lei invece di quella signora dall’aria così rispettabile oppure di quella manager dalla messa in piega spavalda?

Il tuo ultimo libro, Barbablu, è la rivisitazione moderna della fiaba trascritta da Perrault nel XVII secolo. Perché riproporla oggi? Perché sembra quasi che oggi sia proibito nascondere segreti.

Amélie Nothomb nasce nel 1967 a Kobe, in Giappone, dove il padre è diplomatico. Trascorre l’infanzia e la giovinezza in vari paesi dell’Asia e dell’America, seguendo i genitori nei loro cambiamenti di sede. A 21 anni torna da adulta in Giappone, terra da lei incondizionatamente amata, e lavora per un anno in una grande impresa giapponese, con esiti disastrosi e ironicamente raccontati in Stupore e tremori. Alla fine di questa devastante esperienza, torna in Francia e propone il manoscritto di uno dei suoi romanzi a una solida e storica casa editrice, Albin Michel. Si tratta di Igiene dell’assassino, che esce il 1° settembre del ’92 e conquista subito folle di lettori. Da quel momento Amélie Nothomb pubblica un romanzo all’anno, fedele alla stessa casa editrice, Albin Michel, come in Italia è fedele alla Voland. A oggi ha venduto nel mondo 15 milioni di libri, pubblicati da 41 editori diversi. Ha ottenuto numerosissimi premi letterari tra cui il Grand Prix du roman de l’Académie Française e il Prix Internet du Livre per Stupore e tremori (da cui è stato tratto anche un film diretto da Alain Corneau), il Prix de Flore per Né di Eva né di Adamo e due volte il Prix du Jury Jean Giono per Le Catilinarie e Causa di forza maggiore. Vive tra Parigi e il Belgio. Barbablù è il suo 21° romanzo.

Credi che le fiabe abbiano un rapporto molto stretto con la vita di tutti i giorni? Certamente. I brutti uomini si innamorano sempre delle belle donne perché da bambini qualcuno gli ha raccontato della Bella e la Bestia e loro lo hanno creduto possibile.

Barbablu è una storia che parla di stanze. In un palazzo ricco e splendente è nascosto il luogo degli orrori. Il tuo Barbablu spinge ad oltrepassare quella porta o essere saggi e starne alla larga? Io non la vedo così. Per me Barbablù ha ragione: ha tutto il diritto di avere un luogo in cui è proibito entrare agli altri; un posto tutto per sé, nascosto agli occhi del mondo.

E tu cosa hai imparato riscrivendo questa fiaba? Ho imparato di essere stata almeno una volta entrambi i protagonisti, Barbablu e Saturnine.

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

UN LUOGO DA SFOGLIARE: ARIOSTO IN MOSTRA

di ALESSANDRO GIAMMEI

L’Orlando illustrato D

a qualche settimana, girando quell’angolo di viale delle piagge da cui il campanile di San Michele tenta di tuffarsi nell’Arno da più di ottocento anni, è possibile vedere due caccia supersonici sfrecciare su Angelica e Medoro innamorati mentre Olimpia – nuda come un incisore l’ha fatta un paio di secoli fa – si dispera languida poco lontano (Che debbo far? Che poss’io far qui sola?/Chi mi dà ajuto, oimé, chi mi consola?). Dalla parte opposta va loro incontro un ippogrifo cinquecentesco, che sorvola con Astolfo in groppa la torre di Pisa mentre un signore sorridente finge di tenerla su con la mano per una foto da caricare su facebook. Non è il cielo toscano a offrire certi spettacoli – sebbene l’aria di apocalisse, di questi tempi, ci renda pronti a tutto – ma un muro, che fino all’anno scorso era bianco e che ora ospita i segni cólti e pop di Ozmo, writer di Pontedera da anni sulla scena della streetart europea e americana. Un muro che ha fatto da copertina a una mostra che somigliava a un libro e che, incentrata su un libro, ha spalancato libri preziosi davanti ai più disparati visitatori. Se è vero, infatti, che certi libri sono luoghi, addirittura mondi in cui viaggiare con l’agio garantito dai poteri del lettore – ancora più piacevoli da esercitare quando sono messi in discussione o sovvertiti da chi scrive – è altrettanto vero che si può fare di un luogo un libro in cui passeggiare. L’esperimento riesce poi ancora meglio se il luogo in questione è uno spazio espositivo difficile ma splendido come l’SMS di Pisa (vetro e acciaio innestati su una struttura medievale chiaramente visibile) e il libro è l’Orlando Furioso, un’avventura tra le più totalizzanti della nostra letteratura. Pochi anni fa Giulio Ferroni, in coda ad un premiato libro su Ariosto, denunciava il rischio di trasformare vicende vivissime e appassionanti come quelle di Ruggiero e Bradamante in inospitali palestre per sterili esercizi accademici. La mostra di cui sto parlando, intitolata Donne Cavalieri Incanti Follia, pur nascendo come testimonianza di un’intensa ricerca scientifica condotta presso il laboratorio CTL della Scuola Normale, ha cercato proprio di scongiurare un simile rischio, riconsegnando il poema alla sua attestatissima abitabilità. Non c’è bisogno infatti di essere lettori forti né fortissimi per amare l’Orlando Furioso e lasciarsi sedurre dal suo labirinto di trame e personaggi, dal passo leggero delle sue ottave e dalla chiarissima indefinibilità della sua mostruosa conformazione: già a pochi anni dalla

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prima edizione i suoi versi viaggiavano d’altronde sulle bocche di contadini, artigiani, ragazzi di campagna e operai. Lo spiega bene Lina Bolzoni che, introducendo al ricco catalogo della mostra, esibisce le antiche credenziali di popolarità che avvicinano l’opera di Ariosto, per memorabilità, alla commedia di Dante – se è vero che «inculte villanelle e rozze pastorelle» analfabete di fine Cinquecento, come racconta Giuseppe Malatesta, cantavano le ottave del Furioso per rallegrare le ore di lavoro e che Bernardo Tasso riteneva che persino Aristotele, leggendole, avrebbe rivisto la sua Poetica. Insomma possiamo godere senza vergogna delle numerosissime transcodificazioni che il Furioso ha ispirato anche recentemente, ben rappresentate – insieme a dipinti e incisioni classiche – in una sezione della mostra dedicata ai temi della follia, dell’amore, delle armi e della magia: dalle storie di Paperino alle messe in scena dell’opera dei pupi, dalle illustrazioni per ragazzi del Gustavino a quelle realizzate da Grazia Nidasio per l’Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino.

L’importante è rispondere all’invito che la galassia intermediale esplosa intorno al poema non smette di porgerci: quello di tornare a frequentare le sue pagine. Lo stesso invito ha riecheggiato nelle parole quasi confidenziali scelte dai curatori per accompagnare i visitatori nel percorso in parte cronologico e in parte – come detto – tematico della mostra: parole di Nievo, Leopardi, Casanova, Alfieri e di altri illustrissimi appassionati del Furioso che fluttuavano, insieme ai necessari riferimenti illustrativi, su pagine sospese o nella luce delle vetrate. Così – letteralmente – si camminava tra righe di testo, ammirando esemplari delle edizioni illustrate che costituiscono le tappe fondamentali di un percorso lungo quasi mezzo millennio, che segue la curva della fortuna ariostesca dalle xilografie dell’edizione dello Zoppino datata 1536 fino alle enigmatiche e numerosissime tavole prodotte da Fabrizio Clerici per una stampa di lusso del 1968, attraversando gusti e stili editoriali e scavalcando l’inabissamento seisettecentesco dovuto alla concorrenza

di Tasso. Un percorso che, come testimoniato da edizioni esposte di altri capolavori successivi e riedizioni di più antichi poemi, ha imposto un format rintracciabile fino alle soglie della contemporaneità. Anche l’esondazione delle scene ariostesche fuori dal libro, nei dipinti secenteschi, nelle ceramiche, nelle stampe (autentiche e false), addirittura in affreschi proiettati sui muri dell’esposizione, ha raggiunto il recentissimo passato con la versione teatrale di Luca Ronconi ed Edoardo Sanguineti riprodotta, nella sua riscrittura per la televisione, alla fine del percorso. La mostra, chiusa il 15 febbraio 2013, ma ancora viva sul sito, nel catalogo e nel lavoro degli organizzatori che continueranno a navigare nel poema e nelle sue immagini grazie a un importante finanziamento europeo, ha offerto i frutti di una lunga ricerca a un pubblico ampio e indifferenziato, in una forma rigorosa ma accessibile, invitando i lettori – e persino chi, in fondo, legge poco – a trasferirsi tutti nell’incanto fine e popolare di quello che Cesare Segre chiamava «un vero atlante della natura umana». DONNE CAVALIERI INCANTI FOLLIA Viaggio attraverso le immagini dell’Orlando furioso. Pisa, Centro espositivo San Michele degli Scalzi, 15 dicembre 2012 - 15 febbario 2013. http://www.ctl.sns.it/mostrafurioso Catalogo (eponimo) a cura di Lina Bolzoni e Carlo Alberto Girotto, in collaborazione con il comitato scientifico della mostra, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2013, pp. 192, euro 25,00. Tra mille carte vive ancora». Ricezione del Furioso tra immagini e parole, a cura di Lina Bolzoni, Serena Pizzini, Giovanna Rizzarelli, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2011, pp., euro 30,00.


Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

L’AMOROSA INCHIESTA

O

Dove mi sento a casa

“IL DENTRO COME RIPARO DA UN FUORI CHE NON CONTROLLIAMO PIÙ.” CINQUE DOMANDE AD ANTONELLA TARPINO, STORICA di PAOLO DI PAOLO

IL

tema “casa” è stato centrale nella campagna elettorale per le Politiche 2013, anche rispetto al discorso sulla tassazione legata alla “prima casa”. La casa lei scrive in Geografie della memoria (Einaudi 2008) - è il nostro primo universo, contiene tutte le ragioni o le illusioni della stabilità. Quali sono secondo lei, nel presente, le maggiori implicazioni del concetto di “casa”?

FOTO DI NICOLE CASAVOLA

La casa (con il corollario delle tante home digitali verso cui navigare) mi appare sempre più come la sfera unica, totalizzante, in cui sembra condensarsi l’esperienza vitale. E lo è nella forma perturbante di un “domestico” che riconfigura, distorcendolo, ogni forma di quello spazio pubblico (i cittadini ora spaesati) di cui si è nutrito, nel tempo, il nostro “moderno”. Uno spazio ambiguo, ibrido, polisemico sembra essere quello della casa. Tanto più ci pensavo riflettendo sul recente marketing dell’Ikea che mi ha raggiunto tramite lo schermo televisivo nella mia poltrona di “casa”. “Ogni giorno è giusto - recita una voce fuori campo, in mezzo a tavoli montati e rimontati, letti e piumoni affollatissimi di un bilocale - per ricominciare”. Ricominciare che cosa? Sul sito ho approfondito: si allude a una nuova vita familiare, moltiplicando in spazi contenuti piccoli ospiti e quasi adolescenti. La casa cambia con il cambiare della famiglia. Ma poi gli slogan ampliano il loro raggio: “Cambiare lo stato delle cose a partire da casa propria”. Colpisce naturalmente questa rivoluzione evocata solo per proprietari (quelli dell’Imu a cui lei si riferisce nella domanda….). Forse poi lo stato delle cose di cui sopra non è quello classico (delle cose presenti secondo la vulgata marxiana) ma quello degli oggetti: uniche cose, a cui può ambire di cambiare oggi ogni moto rivoluzionario post Imu. Però l’ambivalenza (e insieme l’ambizione) del messaggio la dice lunga, almeno a livello subliminare. In Geografie della memoria, si parla soprattutto del legame fra la casa e il ricordo, la memoria. Casa come archivio, spazio dove i ricordi abitano. Vivere tutta una vita nella stessa casa è raro, e si è accentuata - per ragioni economiche e lavorative - la necessità di cambiare spesso casa. Questo dato come incide sulla percezione dell’orizzonte domestico come “deposito della continuità”? La casa (o il suo ideal tipo) come luogo della memoria è da intendersi principalmente, al di là di ogni singola incarnazione domestica, come luogo del “dentro”, messo a valore in una società non solo sempre più individualizzata ma direi

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intimizzata. “Dentro” in contrapposizione al caos di un “fuori” che non riusciamo più nemmeno a decodificare oltre che, va da sé, a controllare. Il “fuori” quello dei flussi delle merci e del denaro che, anche se in forma via via destrutturata, ridisegnano di continuo lo spazio in cui viviamo. La casa, o almeno l’idea di casa, risalta allora come estremo fortilizio in grado di contrastare proprio quella “crisi dell’esperienza dei luoghi” come incerta operazione mentale, di cui parla la sociologia di Richard Sennet. La casa è la figura di uno spazio di possesso (“casa propria” si diceva con Ikea) su cui, come su un calco, i rituali del corpo e della mente si riproducono instancabilmente, addomesticando anche il cambiamento (ricominciare…). La si porta con sé, la casa, anche quando non c’è più, perché una parte di noi vi continua ad aderire: nei recessi più profondi di una memoria che è tutt’uno con la vita. La si porta con sé tanto più quando la casa non c’è più: lo testimonia la piccola storia di un’abitante di Onna dell’Aquila che sfollata a Pescara, nella guerra del terremoto, si è sorpresa ad acquistare un contentinore di sacchetti per la spazzatura a forma di bambola: lo stesso che aveva a casa sua, prima, quando la casa c’era e che ha dovuto precipitosamente abbandonare.

staurare una forma di ordine (contro il il disordine di ciò che è fuori). Solo tracciando uno spazio intorno a sé l’uomo domina il fuori e lo sottomette alle sue leggi. La casa è fin dalle origini, un principio d’ordine tale da permettere all’uomo - a partire da uno spazio circoscritto (sotto il suo controllo cioè non subìto) - di interpretare i dati della realtà circostante. Ma ora? Nel nostro presente globale quando è sempre meno chiaro dove la realtà abbia il suo domicilio, è una realtà che sta sopra di noi, scorre parallela, rimanda sempre ad altro, in un mondo strutturalmente dislocato, è in una parola ingovernabile: fuori dallo spazio contingente. E la casa, venuto meno ogni principio ordinatore se non del proprio piccolo mondo (ma cambia anche questo come spiega il marketing Ikea) diviene estremo baluardo di un tempo faticosamente sottratto (dagli individui non meno che dai gruppi) al ritmo incalzante della perdita, al penoso dileguare dei mondi vitali, alla fatica di convivere con cose, luoghi, tradizioni che si consumano di continuo sotto i nostri occhi.

che si sono succedute) e in cui l’“anima” ha trovato rifugio, intimizzandosi, nella transizione a quell’“età della collera e dei telegrammi” (così E. M. Forster di Casa Howard) che va sotto il nome di progresso: un salto nella storia forse non meno violento di quello che sperimentiamo noi oggi. È in quel connubio di memoria e insieme utopia che ha preso forma quel microcosmo ovattato dal calore delle cose tramandate nel tempo. E dove ciò che chiamiamo “io” ha finito per mescolarsi, nelle parole di James di Ritratto di signora, a tutto quel “che ci appartiene”: “la nostra casa, il nostro mobilio, le vesti che portiamo, i libri che leggiamo” custodendo in ogni stanza, cantina o giardino interi romanzi del quotidiano e delle cose. Il suo libro Spaesati (Einaudi 2012, Premio Bagutta) prosegue per certi aspetti il discorso cominciato con Geografie della memoria e si interroga sul nostro rapporto con le macerie e le rovine, i segni del tempo e delle catastrofi, i luoghi dell’abbandono. Come si riscattano le rovine, come è possibile integrarle nel nuovo, nel presente?

È con il consolidamento della borghesia ottocentesca che la casa acquista l’intimità che oggi le attribuiamo. Le stanze dei bambini; le camere come spazio esclusivo. Parlando di “Casa Howard” di Forster e di “Ritratto di signora” di James, lei ci fa sentire come in Certo, nel mio Spaesati le case della me“Addomesticare uno spazio” è un istinto ar- quel periodo alle case si attribuisca qualcosa moria delle precedenti Geografie sono colcaico, primitivo, vitale. Come cambia, nel che potremmo chiamare “anima”. È così? te nel loro stato avanzato di rovina, entro corso del tempo, questo “istinto”? Se dovesse il paesaggio dolente di borghi abbandoosservare in volata, dall’alto, il percorso che Sì, nella casa vittoriana è contenuto, a nati, fatti a pezzi, in cui mi sono immersa. porta dalle grotte preistoriche a oggi, cosa mio parere, il nucleo originario di quell’idea di domesticità borghese che si è af- Eppure non di sole fini mi hanno parlato noterebbe? fermata nel corso degli strappi del mo- questi luoghi ma paradossalmente anche Addomesticare uno spazio significa in- derno (e delle varie rivoluzioni industriali di futuro. Perché tra gli squarci di tante povere case si può vedere lontano: laddove, per esempio, a Riace, nella Locride, le case lasciate vuote dagli emigranti sono state occupate, per iniziativa del sindaco Domenico Lucano, dai nuovi profughi del Mediterraneo in guerra, iracheni, palestinesi, afgani anche. O nel cremonese dove le antiche cascine delle battaglie dei braccianti del 1948 sono diventate dimore di mungitori indiani (una memoria questa di mestiere) dei nostri “bergamini”. Lì dove la memoria, troppo spesso assimilata esclusivamente all’idea di nostalgia o di tradizione, è invece strategia di futuro: capitale morale da cui ripartire (o ricominciare) in case di nuovo affollate di anziani e di bambini. Ma quella dei paesi delle case abbandonate e dei movimenti virtuosi del ritorno è ancora un’altra storia…

Tu!o quello che arriva arriva dalle scale.

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

TRA I LIBRI DI CASA IN CASA

di ALMA GATTINONI E GIORGIO MARCHINI

“Questa volta voglio dirti quanto amiamo il tuo cuore di pietra: quanto sei generosa con il tuo fuoco acceso, là in cucina” S

ILLUSTRAZIONE DI SABRINA GABRIELLI

e volessimo passeggiare negli sterminati quartieri delle case letterarie novecentesche, esplorandone le molteplici diversità e costruendo una mappa delle sorprendenti somiglianze, ci muoveremmo in un’alternanza ininterrotta di solidi edifici e di fragili spazi simbolici. La casa ha una sua fisicità, una sua spazialità. È fatta di stanze, di aperture, di chiusure, di angoli, di affacci sull’esterno. È fatta di materiali concreti accumulati nel tempo, di oggetti tramandati

da una staffetta generazionale, che sono lo scenario delle tante vite, su cui si sono costruite negli anni le percezioni di ambienti, le abitudini familiari e individuali, l’avvicendarsi di modelli sociali. Ma, nella complessità del Novecento, la casa è soprattutto un gran contenitore di emozioni e sentimenti stratificati in una durata interiore, tra presenze e assenze. Strappare “un grosso pezzo di carta da parati”, “smontare la maniglia che lei aveva toccato per diciotto anni” sono gesti del feticismo consolatorio con cui un uomo ancora innamorato torna nel Museo dell’innocenza, “nell’angosciante solitudine” di una casa in disarmo alla ricerca di amabili resti, per assaporare “la magia della vasca sgangherata” dove “l’amante perduta aveva fatto il bagno sin da quando era piccola” (Orhan Pamuk). A questo velleitario tentativo di bloccare il senso di una fine sembra invece sottrarsi il protagonista dell’Invenzione della solitudine di Paul Auster. Di fronte agli avanzi di vita nella casa del padre, nel terribile faccia a faccia con gli oggetti di un morto, “condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto”, il figlio si sente “un intruso, uno scassinatore al saccheggio del sacrario di un’anima”. Apparentemente più asettico nel suo “lavoro di sgombero”, ma non meno sgomento di fronte alle “cose abbandonate”, che ogni volta fotografa, è il personaggio centrale di

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Sunset Park. Ogni casa espropriata dalle banche ai vecchi proprietari è “la storia di un fallimento” e l’anti-eroe di Auster sente il dovere di fissare “le ultime tracce residue di quelle vite sperse”. Sotterranee affinità elettive collegano l’indagine dello spazio domestico alla dimensione del tempo. La casa è materializzazione della memoria, che a volte sembra poter contrastare il flusso inesorabile del divenire, come nell’Ode alla casa abbandonata di Pablo Neruda. Altre volte la memoria non sa sottrarsi al fallimento, come nella montaliana casa dei doganieri “a strapiombo sulla scogliera”, con la “banderuola/affumicata” che in cima al tetto “gira senza pietà”. Il luogo, che in passato ha visto entrare “lo sciame dei pensieri” della donna amata, ora s’allontana nell’iterato “tu non ricordi” di un altro tempo che “frastorna la memoria”. La casa diventa così testimonianza del destino di deterioramento e demolizione, del ciclo biologico che accomuna abitazioni ed esseri umani. Il declino di una casa, che l’assenza umana rende più desolata, esemplifica con le pareti spoglie la devastazione del tempo, perché “un’estate dopo l’altra, le cose diventavano sempre più logore. La stuoia si scoloriva; la carta alle pareti si staccava”. La dimora dei Ramsay, abbandonata, deserta, è per Virginia Woolf in Gita al faro “come una conchiglia su una duna a riempirsi di aridi grani di sale ora che la vita l’aveva lasciata”. Ancora più tragica nei suoi effetti è la forza distruttrice della guerra. Il tema romantico delle rovine è sostituito dal drammatico mondo delle macerie, il logorio del tempo dalla violenza della storia: “Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto” (Elsa Morante, La Storia). Ida e il piccolo Useppe, ma anche il cane Blitz perduto nel bombardamento del popolare quartiere di San Lorenzo, sono le vittime innocenti di uno “scandalo

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che dura da diecimila anni”. Ma i disastri della guerra oltrepassano la soglia del millennio, trasformati in tragico spettacolo mediatico da villaggio globale: “ una ripresa da lontano, in grandangolo, della Torre Nord e della griglia d’acciaio sventrata dei piani più alti in fiamme”; “certi puntini” che si staccano dall’edificio e scendono lungo lo schermo in mezzo al fumo; “la tipica zoomata a scatti” che li rivela essere “persone in carne e ossa”. È “l’Orrore” di un 11 settembre newyorkese, diventato televisivo, che entra nella lontana “casetta immacolata a un solo piano” a Bloomington (David Foster Wallace, La vista da casa Thompson). La vastità del tema casa è ben documentata dal suo collocarsi all’interno di cop-

pie oppositive che ne propagano l’infinita dialettica tra resistenza e rottura, tra eredità continuativa e ineluttabile distruzione. Sia nella funzione di protagonista che in quella di comprimaria, nel secolo dell’instabilità e della migrazione, la casa denota la sua propensione a racchiudere un ammasso di oggetti, restituiti dallo stilema dell’accumulo: la familiarità di uno spazio intimo, prima ancora della presenza di volti cari, è fatta di cose possedute, conservate come icone del vivere quotidiano, vessillifere delle singole identità. Ma a volte questi oggetti sono dimenticati, spostati, relegati in parti periferiche agli estremi del cuore della casa, come il solaio o la cantina, vere e proprie proiezioni dell’inconscio, dove ciò che ha perduto senso

Per le scale passano le ombre furtive di tu!i coloro che un giorno ci furono.

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PRIMAVERA 2013 viene retrocesso dall’oblio e dalla rimozione. Alla gozzaniana Villa Amarena, tra silenzio e “fuga delle stanze morte”, tra “odore d’ombra” e “odore di passato”, resta la “bellezza riposata dei solai/dove il rifiuto secolare dorme”, un ciarpame di indizi che solo l’affettuoso filtro ironico, già applicato al catalogo salottiero delle “buone cose di pessimo gusto”, può sottrarre all’usura del tempo. Non resiste invece all’alluvione che “ha sommerso il pack dei mobili” la cantina fiorentina di Eugenio Montale (Satura), ultimo rifugio di frammenti identitari (“qualche pennello/da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio”); ma neppure regge alla “atroce morsura/di fango e sterco” un arcipelago di oggetti, dai “marocchini rossi” delle rilegature al “timbro di ceralacca con la barba di Ezra”, reperti per sineddoche di un’epoca della cultura che il soggetto avverte amaramente come ormai superata. Miglior sorte tocca a una casa più recente, quella di Niccolò Ammaniti in Io e te: l’intera vicenda si svolge “in una casa degli anni 50 ammassata in una cantina”, luogo segreto di una vita alternativa, di una settimana bianca mancata, dove si celebra un rito familiare sui generis tra i vecchi mobili polverosi. Lo spazio scelto dal giovane protagonista, inizialmente baluardo individuale, prigione volontaria per separarsi dal mondo, si apre alla profondità del rapporto con la sorellastra. Quello della casa si rivela spazio di gelosa chiusura, di feroce tutela del privato, di fuga dalle responsabilità del vivere civile. Ma la casa è anche ricerca di protezione, è condivisione, dialogo familiare, santuario di affetti e di “piccole virtù” domestiche. Salendo ai piani più alti di questa ideale casa del Novecento, varia si presenta la gamma di atmosfere, difficile la sintesi di sentimenti contrastanti, di valori in evoluzione. La camera della Metamorfosi di Franz Kafka, in cui Gregor Samsa divenuto insetto è confinato, è angosciosa e ostile enclave, priva di calore familiare. Più accogliente in prospettiva futura appare a Mattia Pascal, nel romanzo di Luigi Pirandello, la “camera mobiliata” in cui “allogarsi a pensione” dopo la fuga dalla “trappola” familiare: almeno inizialmente sembra al protagonista una soluzione in perfetto equilibrio tra l’idea di libertà possibile solo “con la valigia in mano” e la presa di coscienza, conse-

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guente alla rinuncia della propria identità, di “non poter più avere una casa”. Con la sua vocazione alla problematicità, anche in cucina il Novecento si distanzia dalla grandiosità fuligginosa del focolare di Fratta in Ippolito Nievo o dalla dimessa convivialità attorno alla “polenta bigia di grano saraceno” della cucina di Tonio nei Promessi sposi. L’ambiente familiare per eccellenza riassume in sé l’anima di una casa-nodo di grovigli esistenziali, palcoscenico a volte di armonie affettive, ma più spesso di conflittualità latenti o esplosive. Nel Gadda della Cognizione del dolore, l’odi et amo di Gonzalo per la madre si trasferisce sulla casa, sulla villa lombardo-sudamericana invasa dai peones, e si concentra non casualmente nel luogo della preparazione del cibo. Nello stesso contesto di “casalinghitudine”, ma con il fondale del boom economico, si svolgono “le ore migliori”, quelle di una moglie e del “lavoro domestico,/che è troppo trascurabile realtà/per essere degno di storia” (Giovanni Giudici, La vita in versi). È l’eroismo di una rassegnata epica quotidiana. Ma basta spostarsi anche solo nella sala da pranzo ed ecco che Italo Calvino trova il luogo ideale per ambientare l’iniziale ribellione alla famiglia di Cosimo e la conseguente scelta di vivere sugli alberi, da barone rampante che rifiuta per sempre il ritorno nella casa di Ombrosa. A conferma di una attenzione costante al tema, lo stesso autore indaga l’universo abitativo delle città invisibili con una geniale anticipazione della Rete e della sua virtuale ragnatela. A Ersilia, per stabilire rapporti, gli abitanti “stendono fili tra gli spigoli delle case” e quando i fili sono troppi “le case vengono smontate”; “restano solo i fili e i sostegni” e la città viene riedificata altrove. È oggetto di acuta analisi persino il bagno, in cui i due sposi nell’avventura esemplare del loro amore difficile contrastano la disumanità dei turni di lavoro, ritagliandosi una nicchia di intimità negli spazi angusti della loro casa operaia. E non manca la denuncia della speculazione edilizia con “casamenti di sei otto piani”, segno di una “febbre del cemento” che a inizio degli anni ‘60 si è impadronita della Riviera ligure e dell’immaginario collettivo piccolo borghese. Nella loro seriale moltiplicazione, queste “seconde” case assomigliano agli anonimi alveari urbani, “i trentacinque metri” in cui la giovane coppia parigina di Georges Perec (Le cose) deve comprimere suppellettili e aspirazioni. Ma per la nuova classe emergente sono lo status symbol di una raggiunta emancipazione, i luoghi dove ricollocare frustrazioni e sogni. Ed è proprio Perec a darci in La vita istruzioni per l’uso la più straordinaria rappresentazione in diretta del vivere cittadino novecentesco. Il suo condominio dilata in una logica combinatoria di spazi, di tempi, di storie l’osservazione di “un palazzo parigino di cui sia stata tolta la facciata, in modo che, dal pianterreno alle mansarde, tutte le stanze siano immediatamente e simultaneamente visibili”, ipotizzando

una alternanza di pieni e di vuoti, ricca di proficue soluzioni narrative. In questa ulteriore antinomia abitativa, se con le ultime ore trascorse dagli aristocratici proprietari nella casa ipotecata del Giardino dei ciliegi Anton Cechov trasmetteva la percezione struggente della fine di un mondo, l’ipertrofico sperimentatore dell’Oulipo consegna in Specie di spazi un inventario vertiginoso di azioni legate al sottrarre, presenti nell’esperienza non meno drammatica del traslocare: “Lasciare l’appartamento. Sloggiare. Fare piazza pulita. Inventariare riordinare classificare selezionare” aprono una serie di 46 gesti che si conclude con un perentorio “Partire”. Se la stabilità del possesso della casa, con l’estensione delle radici e la quiete del microcosmo immobile, appare felice contraddizione di fronte alla precarietà della condizione umana, in altri casi l’abitare genera abitudine, ritualità, soffocante ripetizione. Nella claustrofobica casa di Carla, protagonista nel romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia, “l’abitudine e la noia stavano in agguato e trafiggevano l’anima come se i muri stessi ne avessero esalato i velenosi spiriti; tutto era immutabile”. È il sistema di valori borghesi in disgregazione, già rappresentato nel salotto di casa Malfenti, ma sottoposto dall’interno alla corrosiva ironia della sveviana Coscienza di Zeno, unica cura alla “salute malata” di vuote convenzioni. Anche nella classica dialettica tra movimento e stasi, tra fascino del viaggio e nostalgia del ritorno a un pantheon domestico, già operante fin dall’archetipo dell’Ulisse omerico, il Novecento dà prova di sorprendente vitalità. Così per Giuseppe Ungaretti, il più sradicato degli ulissidi novecenteschi, ci può essere una Casa mia, ma lontano da ogni retorica e in un abbassamento di tono che demitizza anche il Natale. Il “girovago”, incapace di “accasarsi” perché sempre alla ricerca di un “paese innocente”, di una “terra promessa”, può trovare nel “caldo buono”, nelle “quattro/capriole/di fumo/del focolare” un perfetto se pur momentaneo ubi consistam. In altra dimensione, il viaggio dentro se stessi è l’occasione per un itinerario a ritroso nella casa dell’infanzia, che in un felice riscatto di memoria proustiana si staglia indelebile in cima al paese (Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato). Oppure è irrazionale gioco di specchi senza freni inibitori, elogio dell’insignificanza in un caleidoscopico vagare tra libere associazioni nella notte in dormiveglia di Molly Bloom. L’antiPenelope novecentesca, nell’Ulisse di James Joyce, con il monologo finale sovverte l’ordine cronologico degli eventi personali nella stratificazione temporale del flusso di coscienza, che la fa migrare dal presente nel letto di casa, alla stanza di sé bambina all’epoca dei primi turbamenti sessuali, alla casa della giovinezza a Gibilterra, alle atmosfere delle posadas dalle grate moresche. Se in questo inconsueto viaggio autour de sa chambre è la memoria individuale

Orlando esplorazioni

a prevalere, nelle case dei libri e delle biblioteche è il labirinto della memoria collettiva a prendere il sopravvento. Nelle case di Ray Bradbury in Fahrenheit 451, per sottrarsi al fuoco devastatore di un potere onnipresente che li teme, i libri devono rifugiarsi negli anfratti domestici o abitare nella valle degli uomini-libro. Nella “casa-torre” del bibliomane di Giuseppe Pontiggia nel Raggio d’ombra, gli scaffali coprono tutte le pareti, invadono le stanze e salgono fino al soffitto. Tra le migliaia di vite romanzesche accumulate nella casa dal personaggio, alter ego dell’autore nel cartaceo furore di possesso, resta l’ambiguo varco di una “finestrella”. Si può aprirla “per respirare a pieni polmoni l’aria del tramonto” o si può chiuderla per salvare in una casa tutte le case raccontate. Questa antitesi interno-esterno si fa ancora più suggestiva nel contrasto luceombra. Spiare dalle finestre l’intermittenza di un lume nell’oscurità e respirare sensualità sinestetica nell’ “odore di fragole rosse” è doppio e allusivo indizio di morbosa attrazione e di frustrante esclusione per Giovanni Pascoli, che nel Gelsomino notturno assiste dall’esterno di una casa al mistero di una nuova vita che nasce. Nella sera milanese di Giovanni Raboni (Quare tristis) c’è invece empatica adesione per “le rade/ombre” intraviste “nei loro fiochi santuari”, c’è amorosa benevolenza per i “sonnolenti acquari/televisivi”, c’è voglia di una umana condivisione. Due esempi opposti di voyeurismo sulle “luci nelle case degli altri”, che trovano una sintesi folgorante nel quadro di Hopper Finestre di notte. Una casa spiata da lontano. Un’intimità svelata, forse violata, da uno sguardo indagatore, metafora dello sguardo letterario che penetra in una superficie domestica, analizzando dettagli e presenze, umane e inanimate, per coglierne il segreto.

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Si me!eva a pensare alla vita tranquilla delle cose, alle casse di stoviglie piene di trucioli, agli scatoloni di libri, alla luce cruda delle lampadine nude ciondolanti in fondo al filo, alla lenta sistemazione dei mobili e degli ogge!i.

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Orlando esplorazioni DOVE MI SENTO A CASA/1

Quando l’autobus passava in strada l’appartamento tremava tutto

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ono nato a via Flavia 72, rione Ludovisi, Roma. Cioè, tecnicamente sono nato all’ospedale San Giacomo, dietro via del Corso, in pieno centro, sempre a Roma. Adesso l’hanno chiuso, l’ospedale San Giacomo. Ci vogliono fare un albergo di lusso. O un bingo. Vabè, comunque anche il rione Ludovisi è piuttosto centrale. È il rione dove sta Porta Pia. C’è pure il pezzo di muro dove i bersaglieri fecero la breccia. C’è una targa in marmo che lo ricorda, appesa a quel pezzo di muro. A via Flavia 72 vivevamo in un bell’appartamento di 115 metri quadri. Io, mia madre, mio nonno ( il padre di mia madre) e mio zio (il fratello di mia madre). Quando l’autobus passava in strada l’appartamento tremava tutto. Anche quando passava il camion della nettezza urbana l’appartamento tremava tutto. Stava al quinto piano. Era un bell’appartamento, però. Era grande e il riscaldamento decidevi tu quando accenderlo. La mia camera pendeva un po’ verso sinistra. Ma era una bella camera, con un armadio grande. Il fruttivendolo sotto casa, che la gente diceva che prestava i soldi a strozzo, aveva delle foto attaccate alle pareti. Le foto erano virate seppia. Erano foto di suo nonno che pasceva le pecore. Lì di fronte, a via Flavia. Nel 1932 a via Flavia, rione Ludovisi, zona piuttosto centrale di Roma, si pascevano le pecore. Pensa te. Un quarto d’ora a passo svelto e sei a piazza di Spagna. E ci pascevano le pecore. Nel 1932. Pensa te. Poi, quando mio nonno morì, ci trasferimmo. La casa non era nostra e ci aumentarono l’affitto in maniera sostanziosa. Con un vecchio allettato che c’ha il cancro non vi possono cacciare, ci dissero. Era vero. Poi, però, i vecchi, soprattutto quelli allettati che c’hanno il cancro, muoiono. E allora, se non paghi, sì, ti cacciano. Ci trasferimmo ospiti a casa di mio zio, il fratello di mia madre, che nel frattempo si era sposato con una donna ricca che c’aveva un villone mega all’Olgiata. L’Olgiata è un ghetto per gente ricca, annoiata e con un gusto pessimo in fatto di feste di compleanno, situato all’estremo nord di Roma. Molto oltre il raccordo anulare, per intenderci. La villa c’aveva la piscina. Io e mia madre ci trasferimmo lì ad aprile. Io uscivo la mattina per andare a lavorare, facevo il magazziniere. Un viaggio, per andare a lavorare. In centro, lavoravo. Praticamente il grosso del lavoro era andare e tornare dal lavoro. Quando la sera tornavo a casa, qualunque ora fosse, mi buttavo in piscina. Siamo andati via da lì a metà ottobre. Io praticamente da inizio aprile a metà ottobre o stavo al lavoro o stavo in piscina. Spesso dormivo su una sdraio fuori. C’avevano i cuscini legati intorno, le sdraio. Da inizio aprile a metà ottobre ha fatto bel tempo. Ero abbronzatissimo in quel periodo. Un magazziniere che vive all’Olgiata, minchia. Poi spacci droga, no? Mi sono scopato tre donne, in quel periodo. Record assoluto. Nessuna bella, ma che importa. Poi ci trasferimmo a via Livorno, una via che collega piazza Bologna alla stazione Tiburtina. Anche lì in affitto, naturalmente. Un affitto che ci potevamo permettere, però. Io nel frattempo ero andato a lavorare nell’azienda della mia zia ricca. Anche lì facevo il magazziniere. Ma vuoi mettere. Lì ero il magazziniere della zia ricca e proprietaria. Sei il nipote della proprietaria e fai il magazziniere, minchia. Non è che spacci droga, per caso? L’appartamento di via Livorno 36 non era bello. Era piccolo e messo male. Ma a noi ci andava bene lo stesso. Mia madre era depressa e prendeva in continuazione delle pillole blu. A me davvero non fregava un cazzo. Delle

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PRIMAVERA 2013 di ALESSIO DIMARTINO DOVE MI SENTO A CASA/2 condizioni dell’appartamento, intendo. Se pioveva non mi bagnavo e la notte c’avevo un posto caldo dove dormire. Quindi era ok. Un giorno, una persona conosciuta in un punto SNAI nelle vicinanze, mi disse: denuncia il padrone di casa. C’è una legge fatta apposta. Se denunci il padrone di casa che ti fa stare in nero, poi per almeno tre anni rimani dentro a una cifra ridicola, tipo duecento euro al mese. Ti giuro, l’ho fatto io. Torno a casa. Do la buona notizia a mia madre. Lei non mi sente. Io non denuncio il padrone di casa. È una brava persona, il nostro padrone di casa. E poi è amico degli zingari. Gli sbrigano dei lavoretti. Non si sa mai. Poi però ha infartato, il nostro padrone di casa. Mentre guardava la Roma in televisione, mi dissero. E la casa, non so come, se l’è intestata uno zingaro. Abbiamo dovuto sloggiare piuttosto in fretta, io e mia madre. Lei non capiva bene cosa stesse accadendo. Io nemmeno, per la verità. Però le dissi: ma’, forse è meglio che andiamo. Non si sa mai. E così ci trasferimmo in un bilocale di un amico di mio padre. Mio padre non è mai entrato in questa storia, fino adesso. E infatti non ci entra manco adesso. D’altronde ci uscirebbe subito dopo esserci entrato. Risparmiamoci la fatica. Il bilocale, in realtà trilocale, visto che c’erano due stanzette da letto e una stanzetta ancora più piccola che era il cesso, si trovava in località Torre Spaccata, zona Casilina. La zona col più alto tasso di kebabbari a Roma, dicono. Infatti lì, nell’aria, non c’è puzza di smog. C’è puzza di kebab. Nella mia stanzetta da letto c’era l’angolo cottura. Infatti la mia stanzetta da letto doveva essere il soggiorno con cucina, si pensa. Quando cucinavo un pezzo di carne in padella dovevo tenere per metà cottura la padella fuori dalla finestra, se no poi non dormivo dall’odore. Tanto a me la carne piace al sangue. Praticamente cruda. E mia madre… mia madre non mangiava molto. Praticamente nulla. Non si stava male in quel bilocale ma in realtà trilocale, dopotutto. Certe sere, quando non trovavo manco un cane con cui bere una birra, mi veniva voglia di spararmi in bocca. Ma non si stava male, dopotutto. Non possedendo armi da fuoco, pensavo a un volo dalla finestra, certe sere. Solo che dalla finestra, di solito, ci entravo e uscivo di casa. Stavamo al piano rialzato. Davvero poco rialzato. Sarebbe stato come tentare di uccidersi gettandosi violentemente fuori dalla porta d’ingresso. E no, dai. Perché non ho chiesto un prestito agli zii ricchi, chiederete voi. E chi vi dice che non l’ho chiesto? Non me l’hanno dato. Ho scoperto che ai ricchi non piace prestare soldi. I poveri prestano i soldi. Tanto, anche se non gli tornano indietro, non gli cambia un cazzo. Solo che farmi prestare dieci euro non cambiava un cazzo a me. Ora io e mia madre viviamo qui, in campagna. In campagna vicino Velletri. Mi sono inventato un mestiere. Non faccio più il magazziniere, ora. Ora tengo i cani alla gente che va in vacanza e non se li può portare appresso. Una specie di ospizio canino. Anzi, senza specie. È proprio un ospizio canino. Abbiamo tanto spazio. Abbiamo un giardino molto grande. Un discreto tot di ettari di terreno. Quand’è periodo ci crescono persino le pesche. C’è un albero di pesche. E pure uno di mandarini. Anche il casolare è spazioso. E accogliente. E bello. C’è il camino. C’è il barbecue in muratura. Come abbiamo fatto, io e mia madre, a ottenere tutto ciò, chiederete voi. Ricordate mio padre, che era inutile entrasse in questa storia, per la fretta con cui avrebbe dovuto abbandonarla? Ebbene, alla fine ce l’ha fatta, lo stronzo. Ci è entrato. Ma anche in fretta uscito. Ha infartato pure lui. Però s’è scoperto che c’aveva ‘sto popò di possedimento. E soprattutto s’è scoperto che l’ha lasciato a me. Troppo stronzo non doveva essere, in fondo. Mia madre prende sempre meno pillole blu. Ha iniziato a magiare la carne. Ogni tanto sorride pure. A mia madre piacciono i cani.

Nella pancia di una coccinella

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ì, proprio nella pancia di un coleottero, di quelli che da piccoli avrete inseguito almeno una volta, convinti di riuscire a succhiargli via tutta la fortuna, sicuri che, prima o poi, vi sarebbe servita per realizzare ciò che volevate o ciò di cui avevate bisogno. E qui comincia la nostra esplorazione, perché le due cose non sempre vanno d’accordo e non vi citerò prestigiosi filosofi o tormentati autori romantici, no, la scelta fra queste due posizioni va ben oltre le cosiddette menti elette. L’esplorazione comincia da Mamma Odie. Ve la ricordate? No? Signori, oltre a leggere, bisogna anche andare a cinema e se, come me avete un figlio di cinque anni, sarà lui a scegliere le pellicole che andrete a vedere, fornendovi una scusa inattaccabile per godervi ogni nuovo lungometraggio animato in uscita, americano o nipponico che sia. Ora vi è tornata in mente Mamma Odie? Ok, vi aiuto: è un personaggio minore de La principessa e il ranocchio (49° lungometraggio fra i “classici” Disney, distribuito nel 2009), una anziana sacerdotessa voodoo un po’ matta e molto cieca, che ha scelto come casa un albero cavo al centro di una mefitica palude. Ecco, Mamma Odie non fa che cantare e dimenarsi, dall’alto dei suoi anni, per tutto il film (è un musical ambientato a New Orleans), cercando di spiegare ai due protagonisti, entrambi pronti a cambiare la loro vita e la loro casa, che ciò che volevano non era ciò di cui avevano davvero bisogno. Perché accettare consigli da una pluricentenaria che vive in una palude? Beh, tanto per cominciare perché ha scelto come casa un luogo che in pochi avrebbero scelto, soprattutto se anziani, soli e cechi, un luogo inospitale, umido e oscuro. Un luogo dove per riuscire a intravedere la bellezza bisogna avere molta fantasia o forse il coraggio di mettere in discussione gli schemi mentali della maggioranza e scegliere ciò di cui si ha bisogno e non ciò che si vuole o si dovrebbe volere. Ma torniamo alle nostre coccinelle. Non vi preoccupate, niente più cartoni animati. Qui parliamo di vere coccinelle… o quasi. Che si scambiano sguardi d’intesa, sogghignando per le corse delle signore che con i loro tacchi arditi si arrampicano sulle scale che portano fin dentro le loro pance. Una volta entrate le signore e i loro accompagnatori scopriranno che il ventre di una coccinella gigante è rosso, come il ciliegio con cui è stato rivestito, come le poltroncine che lo percorrono, come la passione che vi si aggira da or-

di PIERFRANCESCO MATARAZZO mai dieci anni. Vi state avvicinando? Un altro piccolo aiuto: siamo a Roma, in una casa molto importante, quella della musica. Siamo all’Auditorium costruito da Renzo Piano a forma di tre giganteschi coleotteri in un vecchio quartiere creato per le Olimpiadi del 1960. Una casa che ha appena compiuto dieci anni (inaugurata nel dicembre 2002) e che è riuscita dove molte altre case hanno fallito, concedendo ai suoi abitanti il lusso di sperimentare, di esplorare ciò di cui hanno bisogno e paura al contempo: l’assoluta libertà. Prima che di azione, di pensiero. Ma il pensiero, come direbbe Mamma Odie, ha bisogno di essere lasciato un po’ in pace, nel silenzio, senza che nessuno lo bombardi con immagini, azioni e richieste altrui; in pace, perché possa liberare la sua casa da tonnellate di parole altrui, che per anni gli hanno indicato il cammino, gli hanno spiegato ciò che doveva volere. È anche per questo che le orchestre, prima di iniziare a suonare, si prendono qualche attimo per accordare gli strumenti. Pensate davvero che la Royal Philarmonic Orchestra di Londra, la Saito Kinen o l’orchestra di Santa Cecilia, abbiano bisogno di capire pochi attimi prima del gesto vibrante del loro direttore se i loro strumenti siano accordati come si deve? Nossignore, fanno pulizia. Pulizia nella loro casa mentale, pulizia nella dimora dove si nascondono le loro paure, pulizia nel luogo dove si sono aggrovigliate le stoccate e i rimproveri di una vita dedicata a un solo e unico padrone: lo spartito. Stanno scegliendo, decidendo, ancora una volta, se ciò che vogliono e ciò di cui hanno bisogno sono possibilità sovrapponibili. Se lo saranno, voi che vi sarete accomodati nella pancia di una coccinella per fuggire da una casa di scelte troppo pesanti, potrete iniziare un viaggio di esplorazione che vi porterà fuori dalle decisioni più consunte, fuori da quella “piacevole serenità” cui si riferisce spesso la scrittrice e drammaturga Yasmina Reza in una delle sue pièces più famose (Il dio de massacro – Adelphi 2011), quel senso di totale indifferenza, non solo per l’altrui bisogno, ma anche per il proprio, messo (apparentemente) sempre al di sopra di tutto, ma mai esplorato fino in fondo. Ma intanto il silenzio sarà finito, la musica starà per farvi germogliare sulla testa decine di orecchie di ogni forma e colore, per spezzare ogni precisa scusa che la vostra casa mentale avrà costruito pur di impedirvi di partire. Ecco, sta iniziando. Mettetevi comodi.

Un giorno sopra!u!o, sarà la casa intera a scomparire, saranno la via e il quartiere che moriranno.

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

SENTIRSI A CASA TONI MORRISON

di SARA ANTONELLI

Fino a che il mondo stesso sia per noi casa N

el ciclo di canzoni Honey and Rue la scrittrice Toni Morrison (1931) e il compositore Andre Previn ripercorrono la vita e le tante battaglie degli afroamericani in territorio statunitense. Presentato per la prima volta alla Carnegie Hall di New York nel 1992, il ciclo si sofferma sulla traversata a bordo della navi negriere, sulla brutalità della schiavitù, sulla grande migrazione al Nord, sulla ricerca della felicità, sull’alienazione costante dalla storia americana. “Di chi è questa casa” (Whose house is this?), si chiede per esempio la seconda canzone. Cos’è questo strano posto - prosegue - “che non è mio”, ma in cui “la mia chiave entra perfettamente nella serratura?”. La casa (house) di cui si parla in questi versi è quella in cui gli afro-americani si trovano anche oggi scomodamente ad abitare. Questa casa appartiene agli una casa fondata sulla razza (race-speStati Uniti e alla loro storia. cific home) che sia però non razzista?”, Nel 1994, in “Home”, l’intervento di si chiedeva Morrison a Princeton. E apertura al convegno “Race Matters, come smontare il concetto di razza Black Americans, US Terrain” a Prin- così da lasciare fuori l’oppressione ficeton, una Morrison appena insignita sica e psichica che da esso discende? del premio Nobel continuava a ragionare sulla stessa immagine. In quel- Posta davanti alla diffusa “fame di cal’occasione parlò della casa (house) in- sa” - “hunger for home”: sono queste tesa come luogo straniante, le parole della scrittrice che oggi ritroimpenetrabile e gerarchizzato secondo vo tra i miei appunti del 1994 - che col la differenza tra le razze, ma anche del- passare dei secoli ha coinvolto masse la casa (home) quale luogo accoglien- sempre più imponenti e disperate di te, solido, arioso e in cui la razza - cioè migranti, Morrison sfidava la propria le differenze - non è cancellata né uti- immaginazione romanzesca adottanlizzata per fondare nuove architetture do una lingua liberata dalla legge del di esclusione, bensì addomesticata, la- padrone, una che le permettesse di costruire un mondo in cui tutti potessciata libera di entrare. sero abitare. Non un’utopia d’evasioCome sempre accade quando leggia- ne in cui le razze spariscono, bensì un mo Morrison, un’intellettuale sofi- mondo finalmente concepito come sticata e al tempo stesso limpida e li- una casa (world-as-home), fondato su neare, nella distanza istituita tra una configurazione del concetto di queste due metafore (house-home) razza, che escluda il dominio, il connon c’è alcun concetto difficile da af- cetto di “barbari” e i detriti razzisti; ferrare. Morrison si limita ad appro- un mondo in cui sia consentito a tutpriarsi di quel lieve slittamento di si- ti, agli schiavi costretti a lasciare gnificato che anche noi abbiamo l’Africa nel Cinquecento così come ai imparato in prima media, il giorno in milioni di rifugiati della contempocui i nostri professori ci hanno spie- raneità, di fermarsi per sentirsi finalgato i due diversi modi in cui tradurre mente protetti e al sicuro. Un mondo in lingua inglese la parola “casa”. che sia una casa dove coltivare sé stesConcetti alla portata degli undicenni, si e la propria storia. insomma, che tuttavia nelle mani di Morrison si trasformano in un pro- Se oggi i versi di “Whose house is getto politico radicale. “Come si può this?”, la canzone del 1992, appaiono essere liberi e situati; come trasforma- sotto forma di esergo al suo nuovo rore una casa razzista (racist house) in manzo, è evidente che da allora Mor-

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All’inizio del romanzo Frank e Cee si trovano lontani uno dall’altra e costretti ad abitare in due luoghi di detenzione coatta – quello di Frank rimanda a quello di Shadrack, in Sula (1980) — dai quali dovranno fuggire. “Da dove vieni, Frank” si sente chiedere il protagonista una volta arrivato a Chicago. “Beh, Corea, Kentucky, San Diego, Seattle, Georgia. Di’ un posto che tanto io vengo pure da lì”, risponde lui. Sembra una vita eccitante e invece non lo è affatto perché, come ogni rifugiato, Frank non ha alcun domicilio su questa terra. Ora per esempio corre verso Atlanta per ricongiungersi a Cee, la quale giace ammalata nella casa di un medico che nel suo distacco di studioso ricorda lo spaventoso maestro di Amatissima, quello che schedava con la boria di un antropologo razzista gli schiavi della piantagione di Sweet Home - che crudele ironia chiamarla così: “Dolce casa”. No, non è una bella vita quella di chi deve sempre scappare senza sapere se e dove fermarsi. Né questi anni Cinquanta sono spensierati come quelli nostalgicamente descritti nella serie tv Happy Days (1974-84). Questi viaggi, d’altra parte, non hanno nienrison non ha mai smesso di investite in comune con quelli di Jack Kerogare lo spazio aperto tra le due metauac in On the Road (1951). fore (house/home) né le trasformazioni alchemiche necessarie per Questi viaggi, più lungo e avventuroso redimerlo (da house a home). E se in per Frank, assai breve - pochi chiloquesta nuova opera, intitolata Home, metri in taxi - per Cee in stato di inesattamente come il discorso tenuto coscienza, terminano in un luogo di a Princeton, si ritrovano, seppure in bellezza ma anche di delitto; in un una trama inedita, una quantità di si- Eden inevitabilmente macchiato di tuazioni ed elementi già incontrati sangue che potrà diventare casa solo negli altri suoi romanzi, allora non quando Frank e Cee avranno onorato sarebbe azzardato affermare che Home una sconosciuta vittima sacrificale, racchiude una carriera, che la rein- della quale trasportano i resti in un terpreta. quilt - così come avevamo visto fare a

Home (2012, in Italia pubblicato da Frassinelli con il titolo A casa), la cui copertina riproduce in rilievo un alberello di alloro - che rimanda immediatamente ai segni delle frustate che formavano un albero sulla schiena di Sethe (Amatissima, 1987) - racconta il viaggio verso casa di Frank, un giovane reduce afroamericano della guerra in Corea (1950-53), e di sua sorella Cee. La casa verso cui sono diretti in realtà non esiste, ma i due finiranno per costruirla dalle rovine di quella dei genitori, a Lotus, in Georgia. Lotus non è Itaca, la patria in cui un altro guerriero, Ulisse, faceva felice ritorno dopo la guerra di Troia, ma una versione americana della terra dei Lotofagi: un approdo dove dimenticare i fantasmi del passato e in cui potersi finalmente fermare per sempre.

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Vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando di non farsi troppo male.

Pilate in La canzone di Salomone (1977). Perché dimenticare il dolore è certamente auspicabile. Dimenticare le vittime, quelli che non hanno fatto in tempo a scappare o che non hanno trovato una casa neppure da morti, è una crudeltà da cui non può germogliare niente di buono, nessuna redenzione. Toni Morrison, Home. A Novel, New York, Knopf, 2012. Kathleen Battle (voce), Toni Morrison, Andre Previn, Honey and Rue, Deutsche Grammophon, CD, 1995. Toni Morrison, “Home”, in The House that Race Built. Black Americans, U.S. Terrain, a cura di Wahneema Lubiano, New York Pantheon Books, 1997.

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PRIMAVERA 2013

TRASLOCHI A PAROLE

di MICHELA MONFERRINI

Sembra una valigia e invece è una casa, perché case sono le lingue, e simili a valigie i dizionari

ILLUSTRAZIONE DI MATTEO MICCI

A

dipingerla, sembrerebbe una viaggiatrice: una giovane ragazza – avrà poco più di vent’anni –, accompagnata da un neonato e da un oggetto rettangolare, rigido e scuro come una valigia. Poi, però, bisognerebbe dipingerle attorno un anno, un anno verde militare come il 1956, e una cittadina bella e tranquilla, fuori com’è dalle rotte consuete: Neuchâtel, Svizzera. Forse qualcosa rivelerebbe persino che la ragazza proviene dall’Ungheria – un certo modo di annodare i capelli, o la forma degli occhi, suoi e del neonato. Allora lo sguardo più attento cadrebbe sulla superficie dell’oggetto che sembra una valigia ma è molto di più; sembra una valigia e invece è una casa, perché case sono le lingue, e simili a valigie i dizionari. Ché del resto la ragazza e suo marito sono partiti – fuggiti – con nulla; l’unica valigia, leggera nella testa, è l’ungherese, valigia per due perché il bambino ancora non porta alcuna parola con sé. Così alla fine della fuga inizia la nostalgia e alla fine della nostalgia si compra un dizionario, che è come dire gli infissi, le mura, il corridoio, finanche la corrente elettrica che illumina la casa nuova che sarà arredata, abitata. Il bambino, più tardi, sarà abituato solo a queste stanze che sono il francese di un angolo svizzero; non avrà memoria delle origini, e quando sua madre gli parlerà in ungherese – estremo tentativo di rievocazione, simile ai colpi battuti su un tamburello di latta nell’opera d’esordio dell’altro emigrato Günter Grass – scoppierà a piangere come chi cerchi di capire e non riesca. Nella mappa degli scrittori esiliati stanno due continenti: quello di chi, una volta fuori dal proprio paese si è chiuso ancor più nella casa-lingua che come una valigia leggera s’era portato sulle spalle, e l’altro, di chi ha posato la valigia in un angolo per abitare nel dizionario dei nuovi confini. La ragazza con il bambino ha lasciato subito il vecchio bagaglio, e iniziato la lotta con la «lingua nemica»: di nuovo analfabeta, come quando era bambina e come suo figlio, Agota Kri-

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stof si è ri-appropriata di uno spazio personale a partire dai verbi, dai pronomi. Scrivere in francese è stato un modo per arredare, capire di poter abitare quel luogo, riempirlo. L’esilio, l’emigrazione sono, sempre, una lezione d’umiltà; costringono a ricominciare, a ricostruire: «Ammaina la tua vanità, dice l’esilio, non sei che un granello di sabbia nel deserto» scrive Iosif Brodskij. Kristof ha scritto per abitare, non altro: lo scrittore emigrato non può neppure immaginare che riuscirà a essere pubblicato, in una lingua che non è la sua. «Lo scrivere» ha dichiarato il premio Nobel cinese Gao Xingjian in una conversazione con il poeta Yang Lian, entrambi esiliati in Europa dagli anni Ottanta, «non ha più niente a che fare con il guadagnarsi da vivere, perde ogni significato pratico. Se continui a scrivere, lo fai solo per te stesso, perciò il tuo rapporto con la lingua diviene ancora più duro […]. Uno scrittore è responsabile solo verso la propria lingua, non verso la propria patria, il proprio popolo, i propri lettori o chiunque altro. Io non so neanche più dove sono i miei lettori». Si scrive per non far entrare la pioggia, perché la tua lingua diventa una casa con il tetto rotto: non puoi invitarci nessuno, vi risiedi da solo. Per chi sceglie la via del dizionario, la lingua nemica – mentre diviene più familiare – a poco a poco sembra farsi assassina: sta uccidendo la lingua madre, sta cancellando – nella memoria – l’ordine delle stanze, la lunghezza dei corridoi, le macchie sulle pareti, la disposizione dei mobili. Quando Kristof “torna a casa”, lo fa da scrittrice francofona, da tradotta, e in oltre trenta lingue. L’ungherese è tra queste, ma è un ungherese di cui non sente di possedere più le chiavi di casa. Nel “trasloco”, lo stesso rischio lo ha avvertito la poetessa brasiliana Vera Lúcia de Oliveira, poetessa in portoghese e in italiano: «Confesso di aver avuto paura di perdere la mia lingua materna. Poi ho visto che non correvo questo rischio, che le due lingue convivevano in me. Ci sono testi che “nascono” in portoghese, altri in italia-

no». La storia del Novecento insegna che è proprio nell’incontro con l’altra lingua che ci si accorge di averne abitato una – madre, patria, madrepatria. Gli oggetti, le persone, i sogni fin lì erano stati in ungherese, in portoghese? Si scopre che avrebbero potuto non esserlo, da principio. Era stato solo automatico, non era stato scontato. La lingua madre, lingua che «c’è sull’istante» senza che vi sia memoria d’averla appresa, «da questo momento in poi – scrive Herta Müller – non è più l’unica stazione degli oggetti». In questa prospettiva, l’esilio come evento linguistico è visto come evento positivo; si apre, nella conversione lin-

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guistica, una nuova geografia delle cose, un loro nuovo modo di esserci, di stare: lo stesso paesaggio viene osservato da due finestre diverse, e il panorama muta; la verità è oltre nessuna e oltre entrambe le finestre. Müller, nata in Romania in una zona di minoranza linguistica tedesca, negli anni Ottanta si è trasferita in Germania, dove ha conosciuto un tedesco “ufficiale”, diverso da quello del suo villaggio. Ma prima di questo, ha scoperto la lingua rumena come sua seconda lingua, e l’ha scoperta più simile a sé, più vicina alla sua sensibilità; se le rondini potevano non essere più soltanto rondini, se potevano essere sedili in fila come nel ru-

Nessuno si interessa più ai soffi!i.

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PRIMAVERA 2013 meno, se nel nome poteva starci un’immagine, lei voleva parlare le immagini, voleva dire il palato cielo della bocca per lasciare più spazio alle parole: «Non volevo più rinunciare al filo delle trasformazioni. Nei miei libri non ho ancora scritto una frase in rumeno. Ma si capisce che il rumeno scrive sempre con me perché mi è cresciuto nello sguardo». E tuttavia, se il titolo di un’opera di Herta Müller non ancora tradotta in italiano recita Casa è ciò che viene parlato qui, questa sua disponibilità allo sradicamento è in realtà rara negli scrittori, nei poeti. Paul Celan, nato in una regione oggi ucraina da madrelingua tedesca, rifugiato a Parigi, padrone di casa del francese, conoscitore dello yiddish, del rumeno e del russo, si trovò di fronte a un bivio: continuare a scrivere in tedesco, la lingua di sua madre? Continuare anche se era diventata la lingua degli assassini di sua madre, fucilata in un campo di concentramento? Ogni dittatura, per controllare un popolo, è entrata dalla lingua nazionale per introdursi nelle case dalla porta principale. La stessa Müller, con l’opera d’esordio Bassure si è vista pubblicare in rumeno una versione censurata dei suoi racconti, dove persino la parola valigia le era stata negata, rimandando all’emigrazione di quella minoranza tedesca di cui lei stessa faceva parte. E così Agota Kristof non era fuggita dalla lingua ungherese, ma dalla dittatura che aveva occupato la sua Ungheria piegandola anzitutto alla lingua russa, dichiarando proibita ogni altra lingua in una terra in cui ancora il tedesco sopravviveva a ricordo di una passata dominazione austriaca. A Parigi, da sradicato, Celan aveva sentito di non aver perso tutto, aveva sentito quella valigia nella testa, quel contenuto insieme grave e leggero, il solo bene che aveva potuto salvare salvando sé stesso: «raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce». Continuare nella propria lingua, dunque, anche se il labbro «sanguinava di linguaggio», anche se «nessuno agli assassini ferma la voce»; continuare perché non possano fermarla gli assassini ai poeti. GeorgesArthur Goldschmidt si era fatto fermare, come tanti: dopo l’Olocausto si è rifiutato di continuare a usare la lingua tedesca, adottando il francese; eppure, ancora per Müller, quando lo scrittore è tornato al tedesco ha scritto opere che hanno fatto “impallidire” le precedenti francesi: a volte, allora,

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la lingua madre non vuole spegnersi. Nel 1960, la libreria Flinker, Librairie Française et Étrangères, diffuse tra gli scrittori un questionario sul tema del bilinguismo. Celan rispose con un biglietto breve e conciso, schierandosi dalla parte dell’unicità della poesia. «Al bilinguismo in poesia – scrisse – io non credo»: a Parigi, lui, aveva portato la sua casa, quella che avrebbe definito come un «messaggio in bottiglia», come «una sorta di rimpatrio»; quella che avrebbe disegnato come meridiano di una carta geografica in cui non fosse più dato riconoscere i paesi di un tempo, unica superstite. La storia del Novecento è, soprattutto, una storia di lingue che viaggiano fuggendo gli uomini, di confini che saltano sotterraneamente prima che sulle mappe. Brodskij ha usato l’immagine di un uomo spedito nello spazio dentro a una capsula. L’uomo si è ritirato dentro la sua lingua madre: e intorno il vuoto. Ma si potrebbe anche rovesciare l’immagine: la lingua madre s’è ritirata dentro un solo uomo, ultimo e unico paese, uomo che non compra il dizionario, uomo che si rifiuta di “essere tradotto”. La lingua è la casa dell’uomo, allora, o il rapporto deve essere invertito? «Oggi tu non vivi più nella lingua, ma la lingua vive in te», ha dichiarato Yang Lian nella stessa conversazione con Xingjian, il quale ha evidenziato come lavorare all’estero, per uno scrittore – lavorare come un’isola linguistica – apporti non solo un mutamento nella lingua d’origine, ma modifichi soggetti e temi trattati dalla scrittura. Accostare due lingue diverse, inglobarne una nell’altra, farne due coinquiline, porta a trasformazioni inevitabili: così pure nelle traduzioni, quando la lingua – l’opera – , viaggia senza che necessariamente sia l’uomo a farlo, il cortocircuito che si crea è, anzitutto, cortocircuito di senso. Milan Kundera, scrittore ceco naturalizzato francese doveva saperlo bene: il controllo delle traduzioni alle sue opere era, per lui, diventato una forma d’ossessione. Tra il 1968 e il ’69 il suo Lo scherzo aveva trovato “casa” in tutte le lingue occidentali, ma soprattutto in Francia, in Inghilterra e in Argentina il testo era stato stravolto, causando un vero e proprio choc allo scrittore. Il traduttore inglese non conosceva una sola parola di ceco: «Come ha fatto?» gli aveva chiesto Kundera; «Col cuore» si era sentito rispondere. In realtà, il traduttore era “passato” attraverso il corridoio comodo della versione francese, trasformando il già trasformato e inaugurando per Kundera l’impresa impari e sfinente di seguire tutte le traduzioni personalmente, in un vero e proprio tentativo di “addomestica-

re” (portare, riportare a casa) la sua opera. Curioso che nel suo L’arte del romanzo, quando tale controllo delle traduzioni gli si era ormai dimostrato impossibile, Kundera riprendesse un’annotazione di Nabokov sull’Anna Karenina evidenziando come nell’incipit in lingua originale dell’opera di Tolstoj la parola “casa” ricorresse otto volte in sei frasi, mentre nella traduzione francese si poteva contare un’unica occorrenza, e nel ceco soltanto due. In italiano, a seconda delle

traduzioni, si trovano da tre a cinque ripetizioni. Kundera si serviva dell’osservazione di Nabokov per dimostrare come i traduttori non tenessero in alcun conto il volere dell’autore, arrivando addirittura a cancellare una ripetizione evidentemente voluta, cercata dall’autore stesso. Era, la sua, una personale vendetta: ma attaccando l’insana passione dei traduttori per i sinonimi, dimostrava definitivamente come cambiando lingua si cambiasse anche casa.

Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 2011. Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi, Torino 2008. Agota Kristof, L’analfabeta, Casagrande, Bellinzona 2005. Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988. Herta Müller, Il re s’inchina e uccide, Keller, Rovereto 2010. Gao Xingjian e Yang Lian, Il pane dell’esilio, Edizioni Medusa, Milano 2001. Il catalogo delle voci, D. Bregola (a cura di), Cosmo Iannone, Isernia 2005.

I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno.

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PRIMAVERA 2013

ALTRE VOCI, ALTRE CUCINE/1

di DIEGO VITALI

Ho sempre considerato la cucina il posto migliore per affrontare il dolore M

i piace stare qui. In questa come in tutte le cucine in cui io sia stato. Mi sono piaciute tutte. Anche quelle piccole e asfittiche e buie. O quelle luminose, ma senza tavolo, né sedie – che pure sono importanti. Quelle straniere, quelle di amici o ex-amici. Le cucine, dovunque si trovino, sono il posto migliore per certe cose. Apro lo sportello dello scolapiatti, che di solito sta sopra il lavabo, ma non sempre. Può anche trovarsi accanto al lavabo, o non esserci affatto. In ogni caso, cerco la caffettiera. Ce n’è sempre una nelle mie cucine, non necessariamente la stessa. Se proprio non c’è, perché sono in guai grossi, molto lontano da casa, molto solo, in una situazione precaria al punto da non avere neanche la macchinetta del caffè, allora ripiego sul tè. Quello c’è per forza. Essendo stato diffuso dall’imperialismo britannico, lo troverete con una certa facilità nella maggior parte delle cucine del mondo. E se gli inglesi avessero amato il pecorino sardo, mi chiedo? Però adesso il caffè c’è. Apro lo scolapiatti e prendo la moka piccola. Non trovo il filtro. Passo almeno un minuto a guardare nel posto sbagliato. Che beata perdita di tempo. Poi apro il secondo sportello e lo vedo, il filtrino. Che se n’è andato a spasso per conto

suo. Forse si annoiava. La noia ci fa fare cose strane. A tutti. È pericolosa, la noia. Quindi metto l’acqua nel serbatoio, fino alla valvola. Certi giorni anche al di sopra. Altri fino a metà. Quasi mai il livello scende sotto la valvola. Non mi piace il caffè corto. Non c’è molto altro da fare. Chiudo la moka, la metto sul fornello e accendo il gas. Poi aspetto. Questo è un momento che amo molto. L’attesa del caffè. È il momento che amo di più di tutta la mia vita. Perché per quanto il dolore che mi attanaglia lo stomaco e l’anima sia intollerabile, anche lui dovrà attendere con me, che il caffè venga su. Quei cinque minuti. Circa. Non ho mai contato. Né voglio farlo. Perché quel tempo è sacro, ha in sé il germe dell’infinito. In quei cinque minuti tutto deve fermarsi e aspettare. Questa è la vera pausa. Anche se avessi un cancro o ci fosse una guerra, anche se tutto stesse finendo per sempre, ogni cosa dovrebbe fermarsi e aspettare con me, pazientemente. È come quando l’angelo fa visita a Maria. Tutto si congela. Ci sono delle volte, lo ammetto, in cui mi lascio trascinare da questo gioco. Lascio che i minuti si sommino ai minuti, lascio che la pausa si prolunghi oltre i termini naturali della sua dura-

ta. Perché a me questo limbo in fondo piace. L’idea che il male sia congelato, che smetta di crescere, che il dolore sia in stand-by. Mi piace stare lì a contemplare il vuoto, nella mia stessa anima. Poi mi riscuoto e trovo il caffè schizzato da tutte le parti, odore di bruciato, di sconfitta, di fallimento. Allora prendo una spugna imbevuta d’acqua e pulisco. Rimetto a posto. Quando il caffè è venuto su, ormai è fatta. La magia è finita. Tutto riprende il suo corso. Anche il dolore riprende a scorrere, non più bloccato da quella piccola diga di ferro con su scritto Bialetti. Il caffè in sé, non mi dà alcuna gioia, me ne rendo conto. Dovrei dire: ormai. Ormai non mi dà più alcuna gioia. Il vero piacere ormai sta tutto in quella microscopica attesa. In quella distensione. È come stirarsi le ossa dopo una lunga posizione scomoda. Non importa. In cucina trovo gli strumenti per curare la mia anima e nutrire il mio corpo. Anche se non è detto che questo cibo e questi rimedi siano quelli più giusti o più efficaci o salutari. Anzi, molto probabilmente non è così. Probabilmente anche nel mio cuore ci sono uno scolapiatti, una moka, un barattolo di caffè. La mia dose sui fornelli, il mio limbo da tazzina. Quando me ne allontano, i peggiori

incubi da astinenza mi fanno visita. I giorni passano, sempre più oscuri, carichi di presagi. Divento un indovino, un aruspice. Leggo segni in ogni cosa. E sono sempre infausti. Mi cade la mia tazzina preferita e va in mille pezzi – tanto per cambiare. Il gatto non mi sopporta e mi graffia. Non dormo. Se dormo, ho incubi terribili. Tutto diventa di un colore controverso, vomitevole, violento. Viola. Tutto diventa viola. Le facce della gente. L’allegria della gente. È tutto viola. Fino a quando non arriva quel giorno, in cui il tempo compie una brusca frenata. S’impenna. Le ore sgocciolano, svogliate, aspettando. E quando sono sul limite, proprio sul punto di rottura, ne ultra citraque, qualcosa arriva come un’acrobata sul trapezio e mi afferra per le dita. Qualcosa di piccolo, che potrebbe anche stare in una tazzina. E io resto in sospensione, una particella in un fluido, un’ora, un’ora e mezza, una serata, una notte, il tempo che ci mette il caffè a venire su, mentre le molecole si agitano, agitate dal vapore. Un turbinio, una rivoluzione, una nascita. E l’amaro svanisce, la giostra è già ripartita e non posso fermarmi, perché devo andare, devo incontrare il frutto di questo parto, il mio nuovo io, che ancora non conosco ma potrebbe essere diverso, questa volta, potrebbe essere tutto diverso.

ALTRE VOCI, ALTRE CUCINE/2

di MATTEO MICCI

Dovunque c’è una tazza di tè, lì è casa mia C’

è un tè per ogni luogo in cui ho vissuto. Posso rievocarli con fatidica precisione, i profumi, le sensazioni, i momenti che hanno incorniciato, il tepore della tazza nelle mani. E tutti profondamente diversi l’uno dall’altro. Ero ancora uno studente quando ho abitato a Toronto, ricordo l’English Breakfast che la signora da cui alloggiavo mi faceva trovare in tavola al mattino: carico come pochi altri, dozzine casuali di minuti di infusione che impattavano sui denti come un gancio di pugile, astringente fino alle lacrime. Ho il rifiuto da allora. Però mi rievoca quella cucina, le tendine a fiori minuscoli colorati, il ciabattare strisciante di lei, il coinquilino coreano che suonava continuamente Hotel California alla chitarra. L’aria fresca di Toronto, quel vento pieno di pro-

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messe che si insinuava nel colletto di un adolescente già pieno di sogni. E poi a distanza di tempo ricordo il Masala Chai che mi ha accolto in India. “È tè, questo?” ho chiesto, troppo denso e color carne. Ma ho una reverenza particolare per lui, che con la sua miscela di spezie mi ha salvato dal raffreddore da aria condizionata classico di Mumbai. E poi in volo su fino alle Ande, dove con bocca esterrefatta e uno scintillio di curiosità negli occhi ho bevuto il Mate de Coca: l’aroma tanto simile alla cicoria, quel calore tra le mani mentre fuori gelava, a cinquemila metri sulle cime più selvagge della cordigliera. Durante quel mese in viaggio lungo il Perù, sugli autobus tra deserti e montagne, il Mate era diventato simbolo di salvezza, l’unica panacea in grado di volatilizzare emicrania, nausee, indigestioni. Nelle

stesse foglie, gli sciamani ci hanno letto il futuro e fatto offerte agli spiriti. Ricordo la casetta dove quella dolcissima famiglia peruviana ha ospitato me e i miei compagni: anche lì, ci fu offerto il Mate, in segno di amicizia. E di nuovo via, in un’altra terra, in Tanzania, in pieno deserto, dove ospitato da una suora insegnavo inglese e giocavo con i bambini del villaggio. In un pomeriggio torrido, con la bocca secca dalla polvere e l’affanno dopo che i bimbi erano andati via, c’è stato quel tè del Kilimangiaro, leggermente aromatizzato allo zenzero. Al solo pensarci tornano alla mente tutti quei visetti coi denti di perle, ammucchiati fuori della finestra della casa che chiamavano all’adunata. Dovunque io fossi, qualsiasi cosa stessi facendo, era così semplice: bastava sedersi un attimo, gettare le foglie nel-

l’acqua bollente, l’infusione cominciava. E quando le labbra quasi timorose sfioravano l’acqua con quel “sip” fugace, il naso immerso nelle volute di fumo aromatico, assaporavi l’eterno. Bastava quel gesto così semplice per trasportarti fuori da te, lontano, eppure tanto dentro, in profondità, in quel luogo probabile dove l’anima si rifugia ed è pace. Un viaggio nuovo: un movimento senza movimento. “Il tè è la bevanda dei viaggiatori”, mi ha detto un giorno un Maestro del Tè a Taiwan. “Fa viaggiare i sedentari, seduti a casa nelle loro poltrone, e riporta a casa i viandanti spersi nel mondo”. Lungi dal sapere a quale categoria io appartenga, quel che so di certo è che dovunque ci sia una tazza di tè, lì c’è la mia casa.


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PRIMAVERA 2013

ALTRE VOCI, ALTRE CUCINE/3

di NICOLETTA AMATA

Basta fare un salto al Nuovo Mercato Esquilino per portarsi a casa un pezzo di Bangladesh

FOTO DI ELIF KORK

R

icevo la telefonata salvifica: «Nicoletta, ho buone notizie. C’è una signora bengalese, una mia amica, che abita qui con la famiglia. È disponibile a raccontarsi, a cucinare per te». Direzione Centocelle, si parte. Sul treno, nel composto viavai di immigrati che abitano da quelle parti, mi sento quasi un’intrusa. Incrocio lo sguardo di alcuni di loro e ripenso a quanto sia stato difficile trovare una persona disposta ad aprirmi le porte di casa sua. Rimango all’interno dei confini metropolitani, ma in fondo è come un piccolo viaggio altrove. Suono il campanello. La porta si apre e compare una signora con indosso un bellissimo abito tradizionale, il salwar kamiz. Lo scialle, di un azzurro brillante, le avvolge il capo e le incornicia il viso: lo sguardo è timido e leggermente sfuggente, il sorriso imbarazzato. Dice qualcosa in bengalese al figlio più piccolo, che si allontana e riappare poco dopo con un maglione addosso. Evidentemente ha ritenuto impresentabile la magliettina a mezze maniche con cui Tamim mi aveva accolto e l’ha richiamato all’ordine. Come la gran parte delle donne bengalesi che abitano a Roma, Rina non parla bene italiano nonostante i dieci anni trascorsi qui, perciò la presenza dei due figli, Niloy e Tamim, sarà preziosa per riuscire a comunicare. È il momento delle presentazioni: racconto com’è nata l’idea dell’articolo, degli odori emanati dalla finestra della mia vicina – anche lei del Bangladesh – che ogni sera mi avvolgono mentre rientro a casa. «Profumo? Non direi…» esclama Tamim con tono scettico. «Beh, a me piace molto» ribatto. Questa è soltanto la prima delle occasioni in cui, nel corso della nostra chiacchierata, mi ritroverò a difendere la loro cucina, con un ribaltamento delle parti che ha del paradossale. Profumi inebrianti per le mie narici, odori troppo intensi per i ragazzi, talmente penetranti da farli quasi imbarazzare: «Molti non aprono le finestre ed è un problema, perché l’odore non se ne va, rimane forte. Noi stiamo attenti a queste cose, perché non bisogna dare fastidio agli altri. Poi abbiamo una cosa nella nostra cucina che io odio tantissimo» prosegue Niloy, con una nota di disappunto: «è un pesce essiccato al sole, quando si cucina si sente una puzza che non finisce più!». I ragazzi lo detestano al punto da proibire alla madre di cucinarlo: «Sì, lei lo vuole fare, ma dico io: con tutte le alternative che abbiamo perché per forza quello?». Ne approfitto per chiedere se oltre ai piatti della loro tradizione mangiano anche

cibi italiani. Con il suo simpatico accento romano, Tamim rivela di essere un grande fan della pasta e di preferirla al riso, ingrediente imprescindibile nell’alimentazione di un bengalese. Così era, perlomeno, per la generazione dei genitori, nati e cresciuti in Bangladesh ed educati secondo quel modello: «Se mamma e papà non mangiano riso per tre giorni di seguito, allora gli manca qualcosa» aggiunge Niloy. Nonostante il grande rispetto per il loro paese, i ragazzi mostrano una leggera vena critica nei confronti della cucina bengalese: stracotta e poco sana, ha troppi soffritti e preparazioni eccessivamente lunghe. Ai loro occhi, le ricette italiane appaiono più semplici e leggere e non vanno reinterpretate alla maniera bengalese, come invece tende a fare Rina, talvolta, aggiungendo spezie asiatiche a un sugo per la pasta. Scopro il perché: «Ho lavorato come domestica in una famiglia italiana: era tutto bollito, cucinavano senza sale né pepe» spiega sorridendo. I nostri piatti devono esserle sembrati poco appetitosi, persino scialbi. Anche il loro approccio al cibo cambia in relazione alle due cucine: le mani, utilizzate senza problemi per gustare un piatto bengalese, vengono sostituite dalle posate per mangiare un italianissimo piatto di pasta. Mentre chiacchieriamo, Rina è già all’opera tra i fornelli. Il crepitio della cipolla, che soffrigge con olio e burro in un’ampia padella, richiama la mia attenzione; lo scoppiettio è sempre più fragoroso, il ritmo disordinato, quando comincia a spargersi per la cucina un profumo, quel profumo che mi ha condotto fin qui. È quasi un’epifania. Con il passare dei minuti, il clima si fa sempre più disinvolto e i padroni di casa

premurosi e ospitali. Rina mi regala persino una piccola lezione privata sul riso, mostrandomi tre diverse varietà – il biryani, il basmati e il chinigura – e spiegandomi le differenze. Il piatto che sta preparando si chiama chicken biryani, una ricetta tipica del Bangladesh, molto diffusa anche in India e Pakistan. Ed è qui che entrano in gioco le spezie, un vero tripudio di tinte e profumi che mi lascia ogni volta a bocca aperta. Infilo il naso in uno di quei barattoloni di vetro, inspiro e sogno già di essere in Asia: «È curcuma? Ha un profumo inconfondibile». Rina prende un fogliettino con una sfilza di parole in bengalese e chiede assistenza al figlio per la traduzione: curcuma, zenzero, cardamomo, cumino, coriandolo, chiodi di garofano, peperoncino, pepe nero e bianco. Sulle note dei chicchi di riso tostati, le chiedo se ha difficoltà a trovare gli ingredienti per i suoi piatti. Scopro che a Roma esiste una realtà multiforme e dinamica, che la comunità bengalese è talmente ampia da far sì che tutti i loro prodotti siano facilmente reperibili in città. Basta fare un salto a Torpignattara o al Nuovo Mercato Esquilino per portarsi a casa un pezzo di Bangladesh, dagli abiti tradizionali alle verdure, passando per diverse varietà di pesci d’acqua, un tempo importati, e adesso allevati in vasca persino

in Italia. Racconta Niloy: «Mio padre ricorda i tempi in cui è arrivato e dice che dieci anni fa le cose che abbiamo adesso non si trovavano. Dovevano portarle loro in valigia». Le sue parole mi fanno riflettere. Sentirsi a casa in un paese straniero diventa più semplice se hai a portata di mano tutti i prodotti e gli ingredienti che evocano il luogo da cui sei partito. Mi chiedo se c’è qualcosa del Bangladesh che non sia ancora arrivato: «C’è un profumo che non si sente per le vie di Roma e che ti ricorda casa?». «Il jackfruit!» risponde Rina. Armati di smartphone i ragazzi mi mostrano un’immagine di questo frutto, molto diffuso nel sud-est asiatico; è buffo, enorme, ha una superficie bugnata e un profumo che, a quanto pare, lo identifica in modo netto: «Quando lo apri emana un odore forte e abbastanza dolce. Sopra ha la polpa, dentro il seme. È grande come un fagiolo e, se vuoi, puoi cucinarlo insieme alla carne o alle verdure. È buono, sa di castagne». Jackfruit a parte, qui hanno tutto ciò che serve per mantenere vivo il legame con la loro terra, grazie anche alla possibilità di pregare in una moschea, osservare il Ramadan e la festa musulmana del sacrifico e persino festeggiare il capodanno bengalese a Roma, ad aprile. Solo gli affetti sono rimasti in Bangladesh. E tornare indietro ha un costo troppo elevato, a volte. «Venite a mangiare, sennò si fredda!». Il chicken biryani ha un aspetto bellissimo e con la sua rosa rossa, ricavata da un pomodoro, fa faville nella moltitudine di portate che si affollano sulla tavola, ricca e coloratissima. C’è pure un delizioso dolce di riso al latte, il payesh, che si prepara in occasione delle feste o per celebrare un momento speciale. Mi piace pensare che Rina l’abbia realizzato con questo spirito. Tocca a me. Vorrei provare a mangiare con le mani, ma mi sento impacciata. Così mi giro verso Niloy: forse è meglio osservare lui per capire qual è la tecnica migliore, non vorrei imbrattare tutto con il riso. Inaspettatamente, però, afferra un cucchiaio e si appresta ad affondarlo nel piatto. Glielo faccio notare e scoppiamo in una grassa risata: «Mi dispiace. Però se vuoi ti faccio vedere come si mangia. Per quanto ne so, devi unire le dita e formare come una palla. Tienile un po’ inclinate…». Solo una precisazione prima di iniziare il pranzo. «Nel mio paese diciamo “Bismillah”». È un ringraziamento a Dio per il cibo che stai per mangiare. Non la farò lunga, non starò a spiegare che non credo in un Dio, ma non voglio deluderli, per cui: «Bismillah!».

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

AMARA LAKHOUS

intervista di ROSSELLA GAUDENZI

Avere più case, più lingue, più visioni del mondo A

mara Lakhous riconosce come lingue proprie il berbero, l’arabo, il francese. Che valore attribuisce come scrittore al plurilinguismo? Per me si tratta di una fonte straordinaria, come avere più occhi. Ricordo una bellissima frase di Federico Fellini: «ogni lingua guarda il mondo in modo diverso»; quindi se possiedi più lingue hai la possibilità di guardare questo mondo dalle varie angolazioni. Sono uno scrittore bilingue: non solo parlo più lingue ma scrivo in arabo e in italiano – in francese no, scrivere già in due lingue è cosa particolare, direi eccezionale, non conosco altri autori che facciano altrettanto – . Io scrivo un libro in due versioni: la versione in italiano e la versione in arabo, escono insieme, due gemelli. Ad esempio Divorzio all’islamica in viale Marconi è uscito in due paesi diversi, a due mesi di distanza, luglio-settembre, con titoli differenti, copertine diverse. I personaggi sono gli stessi ma con differente connotazione: ad esempio Christian nella versione italiana parla in siciliano, cosa che non può trasporsi in lingua araba. I protagonisti arabi parlano egiziano gli egiziani, marocchino i marocchini, tunisino i tunisini. Ritengo che la lingua sia fondamentale come progetto letterario. Non c’è letteratura senza lingua, non c’è letteratura senza stile e lo stile viene dalla lingua, io poi in realtà arabizzo l’italiano e italianizzo l’arabo: importo immaginari, modi di dire, proverbi da una lingua all’altra. Per cui la risultante è che il mio stile sia particolare, e ciò mi viene riconosciuto sia per il mio modo di scrivere in italiano che in arabo. Dove risiede la bellezza del libro per Amara Lakhous: stile, storia, inventiva? Cosa deve possedere un buon libro per essere definito tale? Credo ci siano alcuni criteri che mi spingono a comprare un libro e leggere un autore. Il primo contatto è il titolo, che è quindi fondamentale. Sono per un titolo ironico, molto forte, che crei curiosità. Un buon titolo è questo. Si entra in libreria e ci scorrono sotto gli occhi migliaia di titoli; l’attenzione cade su un titolo particolari. So che molti lettori hanno comprato Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio esattamente per questo motivo. Ovviamente poi la quarta di copertina deve contenere una storia in cui ti riconosci, ma la prima calamita è rappresentata dal titolo. A seguire c’è l’incipit, trascurato da alcuni scrittori, ma con l’incipit l’autore si gioca tutto, lo stesso vale per il finale. Esattamente come in teatro: ci ricordiamo l’inizio e la fine. Altro elemento che mi appassiona è seguire un autore che abbia un progetto:

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molto aggressivo. Primo segnale. Secondo segnale. Arrivo e mi reco nel quartiere di San Salvario per alloggiare, cercato appositamente vicino alla stazione perché i luoghi attorno alla stazione sono sempre affascinanti. Trovo un albergo, esco la sera e trovo una città popolata da tanti immigrati, tante prostitute. Nel 2005 ho iniziato a lavorare al progetto, ho scritto la stesura del romanzo e prima di darla all’editore, l’anno scorso, ho chiesto all’editore un po’ di tempo, almeno un mese, per recarmi a Torino e perfezionare i dettagli, i particolari, girando per i bar, strade, mercati, ecc… Sono arrivato e dopo una settimana l’ho chiamato dicendogli: rimandiamo tutto, mi sono trasferito a Torino. Perché la scelta di San Salvario? Questo quartiere negli anni ’50-’60 era abitato dai meridionali e negli anni ’90 sono stati sostituiti dagli immigrati. Malfamato, riqualificato, ma anche questo argomento è discutibile e lo tratto nel libro. Gentrification, così la chiamano: quartieri che vivono nel degrado e da un momento all’altro la situazione si ribalta. È una situazione che va indagata.

dove vuole andare? Posso anche dargli fiducia, come attraverso un viaggio: ti seguo, ma devi convincermi, tentarmi, essere talmente bravo anche da ingannarmi. Un viaggio che faccia sognare. In quale momento Amara Lakhous ha pensato di voler scrivere seriamente, ha capito che scrivere fosse un’urgenza? Sono nato e cresciuto in Algeria. Durante la mia infanzia la mia famiglia non ha posseduto un televisore a casa, fino all’età di dodici anni. Ho trascorsa l’intera infanzia ascoltando storie e sognando: questo per me è stato fondamentale. Il berbero conserva una solida tradizione orale. Ricordo mia sorella maggiore che ci raccontava le storie: leggeva i romanzi di Hugo, Balzac in francese e ce le riassumeva in berbero, ogni due, tre pagine. Con le storie di orfani le ragazze di casa si commuovevano e noi maschi non potevamo piegarci a tanto. Successivamente ho iniziato a leggere e ho intravisto il mio destino di scrittore quando ho iniziato a litigare con l’autore sulla storia. Lo scrittore stabiliva un determinato esito e la mia immaginazione vedeva, costruiva tutt’altro: io avrei fatto in altro modo, quindi avevo delle storie da raccontare. Poi c’è stato l’incontro con Flaubert e la scoperta di Madame Bovary: è stato un romanzo che mi ha messo sulla buona strada, o sulla cattiva… per un adolescente arabo, musulmano, berbero, algerino trovare in un romanzo una donna al centro di una storia può rappresentare una rivoluzione. La mia infanzia e parte della mia adolescenza sono state segnate dalla domanda: a cosa servono le donne? La società, la cultura e l’educazione mandavano il messaggio

che non servissero a niente. Con la scoperta del sesso ho iniziato a comprendere e ad abbandonare una vera e propria domanda ossessiva. Madame Bovary ha come spalancato una finestra. Non solo; ho iniziato a documentarmi approfonditamente su Flaubert e su ciò che fosse stato scritto su questo romanzo. Sono venuto a conoscenza del processo subito per accusa di corruzione della moralità, assolto grazie a un eccellente avvocato, nel 1857. Uno scrittore deve prendere posizione, non avere paura, andare dritto per la propria strada: Flaubert mi ha insegnato queste cose. Amara Lakhous ha sempre affermato di dovere tantissimo a Roma. Perché il trasferimento da Roma a Torino e cosa rappresenta la città di Torino artisticamente? Una premessa: io lavoro su più progetti, circa una ventina. Faccio un incontro, parlo con una persona, mi viene un’idea: apro un file e inizio a costruire. Scelgo un titolo provvisorio; poi immagino la quarta con la sintesi della storia. Quali sono i personaggi a cui affidare la responsabilità della storia? E lo lascio lì. Se trovo uno spunto raccolgo materiale, quindi ogni tanto ci torno. Uno dei miei progetti riguarda Torino. Nel 2005 sono venuto a Torino per la prima volta e ho preso un taxi all’aeroporto – lavoravo in quel periodo all’Adnkronos – salgo, l’autista mi scambia per un italiano e inizia a parlarmi. È un piemontese doc ed inizia a raccontar e dell’arrivo dei meridionali nella città parlando degli anni ’50 e ’60 con tono

Qual è la chiave successo dello scrittore Amara Lakhous? Sono riuscito a cogliere questa Italia che sta cambiando, in modo molto veloce. Chi arriva da fuori – sono scrittore italiano ma non “italianissimo” – riesce a toccare alcuni temi con una certa tranquillità, spregiudicatezza, senza sovrastrutture. C’è tanto cinema (Così ridevano, Rocco e i suoi fratelli) ma poca letteratura. Io ci metto le mani e la faccia. Sono un grande appassionato di calcio; mi piace il calcio olandese, il calcio totale, non mi piace il difensivismo. Mi piace lo spettacolo, l’attacco. Conosci il catenaccio? Tattica basata sulla difesa e sull’impedimento all’avversario di giocare. Io non ho paura di perdere, mi piace giocare in attacco. Al mio “debutto” editoriale potevo dare l’impressione di parlare della mia storia e origini; invece parlo di napoletani, milanesi, metto le mani dappertutto: sono andato in attacco senza avere paura. Nel prossimo romanzo ancora più a fondo, toccando questa tematica dell’immigrazione meridionale. Un esempio reale di questo catenaccio, e quindi della paura degli italiani, è rappresentato dalla questione dei figli degli immigrati. Sono quasi un milione, vivono in Italia, parlano italiano, studiano italiano e invece per legge a 18 anni devono andare a chiedere il permesso di soggiorno. Molti di loro non hanno alcun rapporto con il Paese di origine. Paura di affrontare la cultura, questi ragazzi sono il futuro. C’è il gruppo G2, Generazione 2, che qualche anno fa esibiva lo slogan: Stranieri di che? Amara Lakhous (Algeri, 1970) ha pubblicato romanzi di successo come Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (e/o 2006) e Divorzio all’islamica a viale Marconi (e/o 2010).


PRIMAVERA 2013

PICCOLA STORIA ILLUSTRATA DI UN INCONTRO

S

iamo a Roma, una mattina di gennaio, così fredda, e grigia, e piovosa, che le strade del Pigneto sembrano quelle di un sobborgo londinese. Gli odori forti del cibo, di tanto in anticipo sull’ora di pranzo, abbracciano i passanti come fossero parte di un presepe abitato altrove, in un Sud indefinito. Dopo una lunga serie di messaggi, finalmente il nostro appuntamento è fissato. Igiaba ha scelto lo scenario perfetto per raccontarsi, e chissà se è stato un caso o ci ha pensato, mi domando, mentre l’aspetto al tavolino di Necci. Perché il Pigneto da qualche anno è il quartiere romano del melting pot per eccellenza. La sua isola pedonale – soprattutto nelle sere dei weekend - ha iniziato ad attirare artisti e intellettuali proprio per questa fibrillazione multiculturale che lascia ribollire l’aria di lingue e discorsi lontani, esotici, marcati però poi da termini dialettali veracemente romani. Avessero scelto il Pigneto di oggi, invece che la conservatrice Balduina, forse i genitori di Igiaba le avrebbero risparmiato un bel po’ di sofferenze, invece no. Le conseguenze negative della sua diversità culturale, Igiaba le potrebbe enumerare tutte, subite dai coetanei alle elementari, per ingenuità infantile, e dagli adulti, successivamente, per cieca stupidità e ignoranza. Igiaba Scego è nata a Roma nel 1974 da genitori somali. La madre nomade, il padre ex ministro degli esteri della Somalia, hanno scelto di vivere in Italia dopo lo scoppio della guerra civile. La loro bambina è a tutti gli effetti italiana, ma la cultura somala ce l’ha nel sangue e sulla pelle, così armonicamente dosate, le sue origini, che è impossibile distinguerne i contorni e i reciproci confini. Nel suo ultimo libro La mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010)la Scego affronta apertamente il tema dell’identità, già così forte nelle sue riflessioni degli esordi. E la risposta più sincera che è riuscita a darsi, fino ad ora, è che questa faccenda identitaria rappresenta proprio un bel pasticcio. Almeno per chi, come lei, sente di appartenere a due culture in modo del tutto intransitivo. Talvolta i Paesi e il loro patrimonio identitario si comportano come donne gelose e pretendono l’esclusiva. “In inglese casa si dice house, ma anche home. House corrisponde alle mura. Home è la casa del cuore, la nostra intimità. Non sempre la Home corrisponde alla House. Non sempre una Home ha delle mura. Sentirsi a casa è un sentimento talmente complicato...” - eppure, prosegue Igiaba Sceglo, proprio per questo “dove mi sento a casa” è una domanda che non possiamo smettere di porci. Non adesso.

Orlando esplorazioni

Igiaba Scego

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Orlando esplorazioni Quando nasce il tuo rapporto con la scrittura e quale è stata la prima lingua che ti è venuto naturale utilizzare? Io credo che il rapporto con la scrittura per ogni autore parta da quello con la lettura. Io sono sempre stata una grande lettrice, ho sempre ascoltato storie, perché mia madre è nomade, poi è diventata sedentaria, ma fino ai nove anni in Somalia viveva in boscaglie, facendo il pastore. I pastori della Somalia nordoccidentale accompagnavano la propria vita con i racconti, si raccontavano storie e favole per passare il tempo. I protagonisti erano gli animali come leoni, pecore, iene. E rappresentavano molto spesso personaggi stereotipati che simbolicamente rimandavano al mondo degli uomini. Questo, tutto questo è entrato nel mio immaginario. Prima di diventare scrittura le storie erano qualcosa che accompagnavano la vita, il sonno, la veglia. Poi si è concretizzato. A furia di leggere Verne e Stevenson, da lettrice mi sono trasformata in maniera del tutto naturale e continuativa alla scrittura. Quando mi riferisco a quelle favole, intendo più che altro “figure archetipiche”. Queste storie cambiano in base a chi le racconta. Tutt’oggi ad esempio, quando è mia zia a raccontare, (ultimamente abbiamo parlato tanto al telefono) lei abbonda di particolari splatter. Le iene sono spesso le protagoniste. La iena deve prendere il suo gregge e tu devi mettere in campo una serie di furbizie per impedirle il suo intento. A volte, per far capire che la iena è un animale veramente pericoloso, si può scegliere di raccontarne le malefatte, descrivendo persone e animali che ha ucciso in precedenza, scendendo in dettagli che piacerebbero molto a Tarantino, il regista. Se è mia madre a raccontare magari lei insiste sulla solidarietà della gente che si è messa insieme per lottare contro la iena. Dipende dal punto di vista del narratore. Ci sono poi figure particolarmente celebri, ad esempio quella di Arawelo, la donna mangia uomini. Ritorna in moltissime storie.

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Nessuno ha mai ordinato un codice di favole nomadi e l’oralità accoglie tutte le varianti insieme. La narrazione stessa diventa una sorta di gioco di ruoloin cui i dettagli, i personaggi, l’evoluzione diegetica dipende dalla voce del narratore del momento. Mia madre quando vede le iene nei documentari trema. Eravamo con mio nipote in Inghilterra, stavamo guardando un documentario su rete quattro (mia madre oramai vive un po’ in Italia, un po’ in Inghilterra). Quando è arrivata la

scena della iena che mangiava un facocero, mio nipote faceva il tifo per lei, mentre mia madre tremava. Lei quella iena l’ha incontrata davvero, mio nipote no. Era molto interessante questo sguardo di generazioni sulla stessa cosa. A quanti anni sei arrivata in Italia? Io sono nata qui. Sono stata poi in Somalia tante volte, prima della guerra civile, che dura ormai da 22 anni. Lì ho fatto la prima media in scuole italiane e ci sono tor-

nata per varie estati. Ti sei sentita a casa la prima volta che sei andata in Somalia? Sì. È stato proprio divertente. Lì c’è la gente che ti accoglie tutta, ti racconta cose, ti fa assaggiare cose che non hai visto fino a quel momento, come il latte di cammello. La prima volta avevo sette, otto anni. Fino a quel momento mi avevano solo raccontato quel mondo, quindi quando poi ci sono stata per me è stato meraviglioso: aderente al racconto, ma anche


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completamente diverso, perché c’è una magia che non si può raccontare. Adesso mi trovo spesso a pensare all’eventualità di tornare e la prospetto dura. Sono stati anni e anni di grandi cambiamenti, con la guerra civile non era proprio possibile per noi rientrare. Mio padre era ministro degli esteri del governo che è stato rovesciato. Mogadiscio è stata in buona parte distrutta, rispetto a quello che conoscevo. Nel mio libro c’è un inizio molto forte dove si vedono questi rifugiati che disegnano la città perché non se la ricordano più: recuperano con il disegno i monumenti, le moschee, le due chiese che c’erano, le scuole. Oggi, guardando su internet, vedi che stanno ricostruendo tutto davvero. Questo è positivo, ma fa molto male al cuore di chi ricorda quei luoghi come erano prima e perché non ci sono più. Pensi a Roma come alla tua casa? Allora. Questo non lo so. La casa sono io. La casa è la tua identità, e quella te la porti sempre dietro. Roma è una città sicuramente mia, ma a volte è ostile. Non solo con me ma con tutti i suoi cittadini. Da tre o quattro anni Roma è cambiata. Quando piove non si può camminare, tutto è più difficile, non c’è accoglienza né novità. C’è una certa fatica di vivere. Ma è anche una città meravigliosa per il carico di storia che porta dietro. Pensa all’Antica Roma: l’accoglienza era un concetto fon-

damentale, loro davano la cittadinanza a tutti i popoli. Ogni parte dell’impero era territorio romano. Ho visto una mostra di recente dal titolo ‘Roma Caput Mundi’. Quello che mi ha colpito di più sono stati proprio i diplomi di cittadinanza che venivano dati ai liberti, ai soldati… era qualcosa di avanzatissimo. Anche i discorsi dell’imperatore Claudio, che diceva “è importante dare la cittadinanza, ma anche creare un presupposto per l’inclusione politica e sociale dei popoli appena conquistati. Farli sentire parte della Polis.” Roma ha avuto imperatori africani, spagnoli, da tutto il mondo, ma erano comunque romani. Questo atteggiamento di apertura è stato perso. È diventata diffidente e chiusa, non all’altezza della sua storia. La grandezza dei monumenti contrasta con la pochezza che c’è intorno. Qual è il luogo a cui vuoi più bene? Come racconto nel libro, è l’elefante del Bernini, nei pressi del Pantheon. Tutta quella zona lì è meravigliosa. Ci sono poi dei luoghi in cui ti senti a casa anche se sono orrendi, come la Stazione Termini. Era il luogo d’incontro dei somali da sempre, via Magenta e tutte quelle traverse sul retro. Lo è tuttora, anche se la comunità somala si sta sempre di più assottigliando. Molti hanno lasciato l’Italia per il Nord America e il Nord Europa, molti altri stanno tornando in Somalia. È una comunità che è rimasta molto delu-

sa, scottata. Per via del colonialismo aveva visto questo luogo come un’alternativa valida alla madrepatria, in realtà poi non ha trovato accoglienza. C’è un libro invece a cui tieni particolarmente e che magari a volte hai bisogno di rileggere? In quale libro ti senti a casa? Un libro-amuleto è il Don Quijote di Cervantes, su cui ho scritto anche la mia tesi di Laurea. Questo libro è il testo europeo per eccellenza. Lì c’è tutto, è pieno di storie, pieno di personaggi, il curato, il barbiere, il ronzinante… L’ho letto molte volte anche in castigliano. È un libro che un autore dovrebbe leggere, così ricco di proverbi. Una roba così non riusciremo mai più a scriverla: è come se nell’antichità si mettessero giù veramente delle storie, adesso invece stiamo andando per sottrazione. Siamo in difetto. Bisognerebbe scrivere quando si ha qualcosa da dire, vedo molto che la scrittura in questi ultimi dieci anni sta diventando solamente merce. Questa cosa mi spaventa rispetto a quello che io voglio fare con lo strumento della parola. Uno scrittore non dovrebbe pensare oltre la parola, a tutto quello che c’è dopo la scrittura, a volte invece quello è il primo pensiero, che inibisce la materia. Io ho deciso di fare un tipo di scrittura militante, indipendente. La cosa principale è essere letti, non essere trattati come merce. Oggi ci sono così tante possibilità che basta crederci. (Olga Campofreda)

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so) Petralia Sottana (Palermo) Piacenza Piadena (Cremona) Piale (Reggio Calabria) Piana dei Greci (Palermo) Pian di Mileto (Pesaro e Urbino) Pianoro (Bologna) Piazza di Meleta Pienza (Siena) Pietrabbondante (Isernia) Pietraperzia (Enna) Pietrarubbia (Pesaro e Urbino) Pietravairano (Caserta) Pievre di Ledro (Trento) Piglio (Frosinone) Pignataro (Caserta) Piombino (Livorno) Pioppo (Palermo) Pisa Pistoia Pitignano (Perugia) Pizzighettone (Cremona) Pizzo (Catanzaro) Placanica (Reggio Calabria) Poggibonsi (Siena) Poggio Mirteto (Rieti) Polesella (Rovigo) Polesine Parmense (Parma) Pomarance (Pisa) Pompei (Napoli) Ponsacco (Pisa) Pisa Pontaccio (Milano) Ponte Caffaro (Brescia) Pontedera (Pisa) Ponte di Cimego (Trento) Ponte Lagoscuro (Ferrara) Ponte Lucano (Roma) Ponte Nomentano (Roma) Ponte San Giovanni (Perugia) Ponte San Nicola (Caserta) Ponte San Pietro (Bergamo) Pontestura (Alessandria) Pontevico (Brescia) Pontida (Bergamo) Ponticello S. Cataldo (Teano) Pontremoli (Massa Carrara) Pordenone Porto Ferraio (Elba) Porto Garibaldi (Ferrara) Porto Maurizio (Imperia) Porto San Giorgio (Ascoli Piceno) Porto S. Paolo (Sassari) Porto S. Stefano (Grosseto) Porto Tolle (Rovigo) Porto Torres (Sassari) Porto Venere (La Spezia) Pozzolengo (Brescia) Pralboino (Brescia) Prato (Firenze) Premeno (Novara) Presenzano (Caserta) Prodo (Terni)

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(Grosseto) Scheggia (Perugia) Schiantapetto Scilla (Reggio Calabria) Scorticata (Rimini) Sedico (Belluno) Seriate (Bergamo) Serravalle di chienti (Macerata) Sesto Calende (Varese) Sforzatici (Bergamo) Sgarallino (Livorno) Siena Sigillo (Perugia) Signa (Firenze) Sinalunga (Siena) Siracusa Sisi di Ravenna (Ravenna) Sogliano (Forlì) Solarolo Rainero (Cremona) Solbiate (Como) Solero (Alessandria) Solforino (Mantova) Soncino (Cremona) Sondrio Sora (Frosinone) Soragna (Parma) Sorano (Grosseto) Soresina (Cremona) Sori (Genova) Spadafora (Messina) Spezzano Albanese (Cosenza) Spinazzola (Bari) Spoleto (Perugia) Storo (Trento) Stezzana (Bergamo) Strabella (Pavia) Strabella (Piacenza) Subiaco (Roma) Telamone (Grosseto) Taormina (Messina) Taranto Tarquinia (Viterbo) Taverna Zarone (Napoli) Traviano (Lecce) Teano (Caserta) Tempio (Sassari) Terlizzi (Bari) Termini Imprese (Palermo) Ternate (Varese) Terni Terra del Sole (Forlì) Terranova (Reggio Calabria) Thiene (Vicenza) Tirano di Sotto (Trento) Tirano (Sondrio) Tiriolo (Catanzaro) Tivoli (Roma) Todi (Perugia) Tolentino (Macerata) Torino Torre Annunziata (Napoli) Torre Cavallo (Reggio Calabria) Torre del Faro (Catania)

Torre del Greco (Napoli) Torricella (Roma) Torrita (Siena) Tortora (Cosenza) Travia (Palermo) Trapani Trappetto (Palermo) Travedona (Varese) Traversa Zarone Trebbio (Forlì) Trento Tre Ponti (Brescia) Trescore Balneario (Bergamo) Treviso Trieste Udine Uggiate (Como) Usmate (Milano) Urbino (Pesaro e Urbino) Vada (Livorno) Vaiano (Firenze) Vairano Patenora (Caserta) Vairano Scalo (Caserta) Val d’Ampola (Trento) Valdobbiadene (Treviso) Valledolmo (Palermo) Valle Isola (Ferrara) Valle T. Cerfone (Perugia) Valmontone (Roma) Valsorda (Trento) Valcerde (Pavia) Varallo (Vercelli) Varese Vecchiano (Pisa) Velletri (Roma) Venafro (Campobasso) Venezia Venosa (Potenza) Verano (Milano) Vercelli Verdello (Bergamo) Verona Verucchio (Forlì) Vezza d’Oglio (Brescia) Viadana (Mantova) Vibonati (Salerno) Vicenza Vicopisano (Pisa) Vietri (Salerno) Viggiù (Varese) Vignola (Modena) Villa Adriana (Roma) Villa d’Almè (Bergamo) Villalba (Caltanissetta) Villarosa (Enna) Vimercate (Milano) Vinci (Firenze) Viterbo Vittorio Veneto (Treviso) Vivaro Romano (Roma) Voghera (Pavia) Volta Mantovana (Mantova) Volterra (Pisa) Volturno (Caserta) Zagarolo (Roma) Zula (Bologna)

In quante case ha dormito Garibaldi ILLUSTRAZIONE DI ELEONORA ANTONIONI

S

oltanto la città di Napoli può vantare una statua equestre che abbia effettivamente fatto un po’ di metri al trotto. Precisamente da piazza Municipio a piazza Bovio. Si tratta di Vittorio Emanuele II, che da cavallo scruta a mento alto in direzione della stazione, meglio conosciuta come piazza Garibaldi, per via della statua di bronzo dedicata all’eroe dell’Unità d’Italia. È successo nel 2010, al termine dei lavori della nuova fermata metro Università. Un sacco di tempo che non si vedevano, gli eroi. Che si saranno detti? Il re è arrivato luccicante, in pompa magna, planando a volo di rondine dal lato opposto di corso Umberto. Lo sosteneva un’imbra-

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catura speciale, come nei migliori trucchi da teatro. Avrà dato uno sguardo a distanza in direzione dell’altro bronzo, quello del condottiero; me lo immagino entusiasta, Sua Maestà, contenuto - il sentimento entro i confini dell’etichetta. Poi avrà strizzato gli occhi una, due volte: non è conveniente che un eroe della Patria se ne stia ricoperto di cenci e vestiti vecchi. Questo avrà pensato la testa coronata, e avrà storto il naso pure, ci scommetto. L’altro però sotto la barba rugginosa e crespa di qualche settimana - rilascia alla piazza un ghigno nascosto che sa di provocazione. Sono moltissime le città d’Italia che vantano di aver offerto ristoro a Giuseppe Ga-

ribaldi. Chi per una notte, chi per un pisolino, chi per un pasto e una pennichella digestiva: i luoghi che si contendono il passaggio dell’eroe coprono tutta la penisola in modo uniforme, dalla A di Abbiate alla Z di Zula, dal Nord al Sud e viceversa. Dal 1848 al 1868 questi luoghi hanno offerto ospitalità all’uomo più celebre di quei tempi, conosciuto in ben due continenti, interlocutore dei potenti e delle masse. Ancora oggi quelle dimore recano la targa in marmo a segnalare il passaggio. A vederle d’insieme sembra quasi che l’eroe abbia passato più tempo a dormire e ristorarsi che a combattere e unificare. A metà tra il Gesù Redentore e un hipster cosmopolita,

Garibaldi s’è conquistato l’affetto del popolo con la sua aria da alternativo carismatico. Uno a cui non si sarebbe mai chiusa la porta in faccia. Nel XXI secolo si sarebbe chiamato coach surfing, ma questo nessuno poteva saperlo. La pratica sempre più diffusa di viaggiare chiedendo ospitalità sui divani della gente che ti accoglie, rinvigorendo così il sacro e archetipico rito dell’ospitalità. Si fanno nuove conoscenze, ci si racconta storie, ci si scambia impressioni di mondi lontani come figurine su un tavolo. Garibaldi aveva capito tutto. L’ospitalità unisce le persone prima di tutto il resto. (Olga Campofreda)


PRIMAVERA 2013

ARREDI LETTERARI GABRIELE D’ANNUNZIO

Orlando esplorazioni di LUCA ALVINO

“Desidero di inventare i luoghi in cui vivo” isole, fari, monti, golfi, boschi e promontori –, il poeta si accinge a tramutarsi in una divinità panica e ad assumere un’esistenza plurale, partecipe della vastità.

«F

orma che così pura t’arrotondi, / là dalla pura falce delle reni, / e nella man che ti ricerca abbondi / avanzando in tua copia tutti i seni, / la parabola io solva della Cruna / e del Cammello, o specie della Luna!». Questi versi, che nel 1927 Gabriele d’Annunzio (nato il 12 marzo di centocinquant’anni fa) dedicò al fondoschiena di Elena Sangro, non sono solamente l’indizio di un amore appassionato, audace ed eminentemente carnale, ma anche la testimonianza di un animo perennemente stregato dalla forma, dall’aspetto puramente materiale della realtà, dalla commovente esattezza dei contorni che impongono la bellezza sulla grigia indistinzione. È ciò che la critica tradizionale definisce – in maniera un po’ troppo semplicistica – «estetismo dannunziano», ovvero l’esaltazione della forma come valore assoluto, criterio fondamentale di valutazione dell’esperienza, riferimento non soltanto artistico, ma anche etico ed esistenziale. Ma siamo certi che una personalità complessa come quella di d’Annunzio possa essere risolta con una formula così grossolanamente scolastica, che ne evidenzia solamente l’aspetto frivolo e superficiale? Forse conviene verificare di persona, andandolo a spiare nell’intimità della sua invenzione poetica più felice: il libro di Alcyone. È mezzogiorno. Ci troviamo, nella storia del libro, tra il primo e il secondo ditirambo, dopo la grande festa della mietitura e prima della metamorfosi di Glauco. Vige ancora il tempo della storia, scandito dalle ore e dalle stagioni, il tempo malinconico dei cicli e dei ritorni, nel quale l’umana condizione di caducità si staglia su un paesaggio segnato dall’asciuttezza e dall’individuazione. Il poeta si trova su una spiaggia solitaria, immerso in una natura che ancora non ha assunto la consistenza liquida del mare, il «regno amaro» che ospiterà le memorabili metamorfosi alcyonie. La fisicità delle cose appare tenuta da un singolare incantamento. Da uomo fatto di carne – silenzioso spettatore di una realtà esterna che si declina materialmente in

Si tratta, naturalmente, di Meriggio, una delle poesie più belle di Alcyone. La lirica costituisce un importante punto di snodo nella struttura del libro, perché segna il passaggio dalla dimensione umana – in cui gli individui si muovono nell’ambito di precise coordinate storiche e geografiche – a quella della metamorfosi. Dopo Meriggio, il poema entra nella stagione della più alta mitopoiesi, durante la quale l’impronta georgica della prima sezione – caratterizzata da una spiccata dominante terrestre – si alleggerisce progressivamente. Dapprima la trasformazione di Glauco in dio del mare inaugura un paesaggio di consistenza liquida, nel quale si muovono personaggi dalla forma indecisa, sottomessi all’incerta provvisorietà del divenire piuttosto che alla rigida staticità dell’essere. A seguire, con La morte del cervo e i Madrigali dell’estate, entriamo in una dimensione vaporosa, nei territori instabili della palude, esposti all’insidioso capriccio della canicola e delle divinità minori. Infine, nel quarto ditirambo, l’atmosfera di sospesa incandescenza della sezione precedente culmina nel «folle volo» di Icaro, il quale, innalzandosi con le sue ali fino al sole, ripercorre a ritroso la gerarchia alcyonia degli elementi, precipitando repentinamente dal fuoco all’aria al mare e sulla terra. È un percorso che stabilisce una scala di valori strettamente correlata agli stati di aggregazione della materia, e nella quale la poesia insegue un percorso di progressiva disgregazione della forma che mi sembra uno dei fattori più significativi del poema.

fica. Ma, in modo particolare nella sua sezione centrale, dove il linguaggio si piega alla rappresentazione delle più celebri metamorfosi, esso opera altresì un’assai importante metamorfosi del linguaggio poetico: le strofe tradizionali cedono il passo alla strofa lunga, mentre i versi classici si frangono in quelle unità minimali dal ritmo ternario da cui di lì a poco trarrà ispirazione tutta la lirica novecentesca. D’Annunzio non ha mai potuto fare a meno di lasciare la propria impronta sulle cose che ha amato. Lo ha fatto in letteratura, assimilando con disinvoltura le sue numerose fonti di ispirazione. Lo ha fatto con le sue amanti, cui aveva l’abitudine di cambiare il nome per trasformarle in creature nuove, frutto della sua incessante opera di trasfigurazione. E lo ha fatto con le sue residenze, rivestendole di stoffe, arazzi, tappeti, affollandole di candelabri, calchi di gesso, cuscini, e tutte le altre cianfrusaglie di cattivo gusto di cui amava circondarsi; dalle camere d’albergo in cui trascorreva solamente due o tre notti – e che tuttavia sentiva il bisogno di «svolgarizzare» adornandole di suppellettili – alle dimore storiche nelle quali compose le sue opere e che costituirono la sfarzosa ambientazione delle sue gesta erotiche: la Capponcina, in cui trascorse la maggior parte del suo tempo tra il 1898 e il 1910; lo chalet Saint-Dominique, ad Arcachon, dove si ritirò per sfuggire alle richieste sempre più insistenti dei creditori; e infine il Vittoriale degli Italiani, la villa monumentale nella quale abitò dal 1921 al 1938, l’anno della morte. Nel fitto carteggio inter-

corso tra il poeta e l’amico architetto Giancarlo Maroni (che ne curò l’incessante opera di edificazione), d’Annunzio definì molto chiaramente i ruoli di ciascuno: «Chiedo a te l’ossatura architettonica, ma mi riserbo l’addobbo… Desidero di inventare i luoghi dove vivo». E il Vittoriale è davvero un’invenzione pienamente dannunziana, così eccessivo, strabordante di oggetti, ostentatamente barocco; un luogo in cui ogni cosa diviene simbolo, ogni ambiente è pensato per avere una funzione esistenziale ancor prima che abitativa, custode di un senso che lotta continuamente per liberarsi dalla forma che lo tiene prigioniero, e al tempo stesso non può fare a meno di essa per essere conosciuto, espresso, goduto. Se il senso lotta con la forma che lo imprigiona per affermare la propria preminenza, dal canto suo la forma lotta con l’indistinto per liberarsi dall’informe, dalla pura potenzialità. Spronato di continuo a fissare la propria irrequietezza nella forza statica della rappresentazione, ma perennemente insoddisfatto di tale staticità, che si rivela inadeguata a rendere l’effervescenza della propria immaginazione, Gabriele d’Annunzio ha inseguito per tutta la vita una mèta inarrivabile: riuscire a esprimere in maniera conoscibile – e dunque formale – un’esigenza essenzialmente metamorfica, proteiforme, vitalistica, legata al suo instancabile divenire. Un’urgenza con cui si confrontò costantemente nel percorso singolare del suo vivere inimitabile, nell’incessante opera di trasfigurazione della realtà, nelle invenzioni più felici della sua poesia.

Nel libro di Alcyone, dunque, d’Annunzio sembra percepire l’idea stessa di limite – che della forma è essenza e presupposto –, non più come tramite della bellezza, quanto come insoffribile costrizione. Tuttavia la poesia è anche luogo privilegiato della forma, e Alcyone, sotto questo aspetto, non fa eccezione. Il libro ricorre in molte delle sue liriche ai versi classici della poesia italiana, con ampio uso di endecasillabi, settenari, senari, novenari, e ripercorre le forme strofiche della tradizione, dal sonetto alla ballata, dalla canzone al madrigale, dalle terzine dantesche alla strofe saf-

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

ESPLORATORI ALBERTO SAVINIO

di GIORGIO BIFERALI

Paterni mobili, che non acce"ano la mobilità del tempo o visto un uomo navigare mezzo secolo di vita, per poi tornare indietro, si chiamava Alberto Savinio. Nonostante fosse apprezzato e celebrato come artista tout court, sentiva il bisogno di ritrovare l’origine, l’infanzia, le stanze e le istanze, la mer. “L’equivoco tra mer mare e mère madre”, il richiamo latente, il filo di Arianna con cui l’uomo ritrova la strada nel labirinto di se stesso. La solitudine silente del mare, però, non basta per ritrovare il cammino percorso e per ritrovarsi, è un semplice indizio, un’allusione, un monito, uno specchio monologante. Baudelaire, nei versi iniziali de L’homme et la mer, suggerisce qualcosa di analogo: Homme libre, toujours tu chériras la mer! La mer est ton miroir; tu contemples ton âme Dans le déroulement infini de sa lame, Et ton esprit n’est pas un gouffre moins amer. [Il mare, se sei libero, ti sarà sempre caro! È il tuo specchio; la tua anima contempli nell’infinito volgersi dell’onda; né il tuo cuore è un abisso meno amaro.] Il mare, nella sua “divina stupidità”, non era in grado di comprendere tormenti e sofferenze, dolori e mancanze che il tempo riserva alla vita di ogni uomo. Il mare – per Savinio – era un ricordo di Atene, il luogo natio, il teatro classico in cui è andata in scena la Tragedia dell’infanzia. L’uomo diviene – dunque – la dimora di quei ricordi, di quelle memorie, la matrioska che rivela – al suo interno – una seconda casa, abitata da una vita che non c’è più. È lì che lo scrittore ritrova l’uomo, e può cominciare a “camminare nei ricordi”. È lì che Aniceto (Casa «la Vita») torna a sentire il suono di un violino, visita una casa le cui porte sono tutte aperte, si accorge che la poltrona a dondolo “oscilla ancora”, ascolta “un immenso rumore di mare”, e – visitata la casa – capisce di aver “percorso tutta la sua vita”. È lì che Nivasio Dolcemare, figlio del com-

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mendatore Visanio (i due nomi non sono altro che anagrammi di Savinio), combatte l’indifferenza, lo sguardo vitreo dei grandi trasformandoli in mostri e dissacrando la mera parvenza, “ciò che noi chiamiamo realtà”. È lì che riemerge – cresciuto – “il signor peché” (Tragedia dell’infanzia), che affronta l’assenza del padre rivolgendogli l’ultimo, struggente, “perché”: Oggi, padre, non ti assillerei più con i miei «perché». Calmi e in silenzio, godremmo la pace delle curiosità sopite, degli spenti desideri. Perché non torni dunque? Savinio riscopre l’infanzia, l’odore del mare, le mattine assolate, la luce proveniente dal sole e dal volto radioso della madre Gemma, e capisce che Aniceto, Nivasio, Il signor peché dimorano e convivono nella sua vita, e sentono il bisogno di tornare a casa. La casa, adesso, è viva, ispirata, animata dai ricordi e dal tempo, “giocatore avido”, capace di confondere e di offrire una nuova forma agli oggetti. E così il pianoforte, cui l’autore aveva dedicato la sua adolescenza, sconvolge la vita di Fufù, la “vecchia zitella dal nomignolo a vapore e stantuffi”, che – acquistando una pianessa – rivela una tardiva, e immaginaria, fecondità, e sogna di accoppiare “pianoforti verticali con i pianoforti a coda, ossia i pianoforti maschi con i pianoforti femmine”. E Azio Bot, invano, tenta di liberare la casa dai paterni mobili, che non accettano la mobilità del tempo, la perdita dell’“aura nella quale era trascorsa la sua infanzia”, e ritornano “ai loro posti”. “Cose trasparenti, attraverso le quali balena il passato!”, direbbe Nabokov. Traslocare dalla propria memoria, anche se essa conserva un sapore triste, significherebbe separarsi dalla propria vita, e la morte diverrebbe una pura formalità: Quando l’infelicità arriva a una perfezione tale, l’infelicità diventa una forma di felicità: la più gelosa anzi, la più squisita. Cercar di rompere una siffatta forma d’infelicità, è un tradire la felicità, un tradire se stessi.

Savinio dimostra, con le sue parole, di non aver perduto quella visione fanciullesca, che ti permette di mantenere un rapporto viscerale con la natura delle cose. “Perché gli uomini”, ribadisce l’autore, “cedono alle più grosse impressioni fisiche, ma sono troppo rozzi ancora per fare attenzione a quel che di più sottile e ineffabile circonda la nostra vita”. Nivasio/Savinio, finalmente, ha imparato a dare ascolto a quell’ “insopportabile compagno di viaggio”: se stesso. Ha sentito un richiamo lontano, querulo, provenire da una stanza fino ad ora ignorata. Varcata la soglia di essa, Nivasio ha ritrovato, “ammucchiati come in un magazzino”, accumulati come i ricordi nella memoria secondo la concezione bergsoniana del tempo come durata, quelli che lui definisce “i mobili della mia storia”, e – soprat-

tutto – ritrova sua madre nelle sembianze di una “gallina piccola piccola”. Quel richiamo, quel lamento è cessato: la madre “ha ritrovato il suo pulcino”. Dove lei non è, scrisse Barthes, tentando di fuggire il dove, avendo avuto cognizione del non è. La Madre, la Terra (magna mater), la Casa, la Vita: Sorge dalla mia nostalgia inestinguibile, si leva come lo spettro dolente e crucciato della sola felicità che la vita mia ha largito. Allora io che cieco da te mi sono allontanato per sempre, tra le voci incomprensibili che mi suonano intorno e i volti senza sguardo, mando disperato a te il mio saluto da marinaio. Eccolo qui il cammino necessario da la mer a la mère.

ALBERTO SAVINIO, ANNUNCIAZIONE, 1932

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PRIMAVERA 2013

ESPLORAZIONI PICINISCO

di LAURA TULLIO

A Casa Lawrence, dove la pastorizia convive con la le"eratura tutto in quella del tempo. Romina Pacitti mi ha raccontato dell’entusiasmo e delle scelte e mi ha fatto da guida tra le storie del posto, quelle di Lawrence e la loro personale, che ha radici antiche e progetti per il futuro a lungo termine. Dopo, chiamo il professor Gerardo Vacana, poeta, studioso, ricercatore e intellettuale di riferimento della zona. Lui tra i primi ha scoperto le potenzialità di Casa Lawrence ed è l’autore delle parole scolpite sulla targa realizzata dal Gal, gruppo azione locale. E così io capisco che le cose da sapere e conoscere sono talmente tante che non mi posso improvvisare studiosa di Lawrence né esperta dei luoghi. E pertanto decido che ci vado solo come una che, una domenica, se ne parte da Roma e si fa una gita fuori porta. In sintesi, la storia del rapporto tra lo scrittore inglese e il casale ciociaro è questa: a un certo punto del 1919, da qualche parte in Inghilterra, lo scultore Thornycroft chiese a Orazio Cervi - emigrato a sedici anni da Picinisco e suo modello ospitalità per la propria figlia Rosalinda e i nipotini nella casa di sua proprietà. Orazio rispose che non era così sicuro che

gli Appeninni laziali fossero il luogo adatto a una donna accompagnata da bambini. Così Thornycroft domandò al suo amico Lawrence il favore di passare a dare un’occhiata al casale di Cervi in Ciociaria durante il suo viaggio in Italia con la moglie Frieda e di riferire a Rosalinda. Lawrence, già malato ai polmoni, restò folgorato dai luoghi, e vi trovò l’ispirazione per terminare The lost girl. A Casa Lawrence, dove la pastorizia convive con la letteratura, i progetti della famiglia Pacitti oscillano tra la bibliotecamuseo e la lavorazione dei formaggi. Il tutto in una miscela assolutamente spontanea. Nel pomeriggio, dopo un pranzo tradizionale e buonissimo accompagnato da un vino che scalda senza appesantire, arrivano amici e amici degli amici. Sono scrittori, giornalisti, artisti, guide. Arrivano – o tornano –, si conoscono – o si riconoscono –, si ritagliano uno spazio per pensare, sentire, provare. Ci sono le generazioni che si incontrano senza barriere e un forte odore di senso delle cose. Ci sono impegno, fatica, stanchezza, ma anche la consistenza delle cose reali, tangibili, delle idee che si concretizzano. Sono stata benissimo, a Casa Lawrence.

ESPLORAZIONI ROMA

di RAFFAELLA D’ELIA

Casa d’altri è diventata casa mia M

i guardo intorno, ora, e vedo i segni che mi lascio dietro in questo luogo. La scrivania con i libri e le riviste in disordine, un bicchiere, i quaderni, i diari scritti e ancora da scrivere, i film in francese, in italiano. Sulla scrivania sotto uno specchio che rimanda immagini sfuocate ci sono manoscritti, buste; sulla sedia un maglione. La grande finestra davanti a me ospita il verde: da qui, sul letto da cui scrivo, posso vedere il terrazzino con le imposte aperte, verdi anche loro, il tetto del palazzo di fronte, dalle mura di un colore ocra, gradevole, delicato. Se mi affacciassi, aprendo lentamente il vetro, riconoscerei lo stesso paesaggio che scintillava e rumoreggiava scoppiettante la notte di fine d’anno 2012. Sono tornata a vivere qualche mese in via Capodistria, nella casa che fu del grande anglista Giorgio Melchiori, un miracolo di architettura ed eleganza a un passo dalla Nomentana, incorniciata dal manto erboso di villa Paganini e annunciata dalle geometrie intrecciate agli alberi e ai rami di Villa Torlonia. L’entrata è imponente, maestosa. Sulla

destra l’edificio dell’ambasciata britannica, di fronte il Museo Storico dei Bersaglieri, la prima fermata sancisce un primo traguardo: comincerà, comincia, è già cominciata l’infilata di alberi, spettrali o fecondi a seconda delle stagioni, che in un colpo d’occhio, ogni mattina e ogni sera, segnano il mio affacciarmi nel mondo. In un certo punto della strada, ad una certa altezza, è possibile fermarsi ad ammirare le quattro costruzioni (fino alla mia, la quarta – il resto è altra storia) che si ergono alle spalle di villa Paganini. Ogni volta che cerco questa immagine - gli alberi spogli, in questo mese di febbraio inoltrato, i lampioni eleganti, l’ultimo asilo Montessori, e, dietro, fra i rami lunghi e svettanti, questi gioielli in muratura e ingegno (quello dell’architetto che negli anni 20 arredò via Capodistria come un salotto all’aperto), provo una emozione che si rinnova ogni volta. Ogni volta è come restarne ammirati come fosse la prima. La mia casa temporanea è dietro, gli alberi e le prime quattro, di case: mi piace questo essere

FOTO DI GIULIA BELLA

oi, una sera, ecco che mi viene in mente: Casa Lawrence. Mi viene in mente l’idea di Casa Lawrence, perché Casa Lawrence non l’avevo mai visitata. Se ne sta a Picinisco, in Val Comino. Mio padre è di Gallinaro, perciò quelle zone un po’ le conosco. E sono molto belle, perché selvagge. E fedeli a sé stesse da sempre. Così cerco il numero e chiamo. E Loreto Pacitti, della famiglia Pacitti che si occupa di Casa Lawrence perché le appartiene, mi dice di richiamarlo, ché prima deve finire il suo lavoro al pc e dopo dovrà occuparsi delle pecore. La famiglia Pacitti ha un’azienda agricola e ha creato un agriturismo nel casale in cui alloggiò Lawrence nonostante l’inclemenza del clima, l’asperità dei luoghi e l’assoluta mancanza di comodità, durante uno dei suoi viaggi alla ricerca di terre e persone incontaminate. Il papà di Loreto era affittuario del casale che usava per la monticazione del gregge. Con l’aiuto dell’architetto Italo Caira, i Pacitti hanno eseguito un restauro conservativo, tanto che a metter piede nelle stanze, d’un tratto si entra non solo in un luogo precisamente collocato nella geografia dello spazio ma anche e soprat-

FOTO DI FABRIZIO MARTINEZ

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dietro, fare più fatica per riuscire a vedere, ogni volta, dalla Nomentana, un pezzo di terrazzino, un’imposta, il beige chiaro del mio palazzo. Sbagliarsi, confondersi, indovinare, poi individuare l’angolo abituale, un frammento della mia vita attorcigliato come una maglietta strappata fra quei rami – un soffio di vento ed eccolo, scivola via. I pasti, qui, si consumano piano, in solitudine – i ritmi seguono il mio proprio – la qualità più apprezzabile, per me, è la bellezza, certo – di quel certo tipo declinata all’incanto, alla grazia. Quella che mi investe ogni mattina e ogni sera aprendo e chiudendo le finestre, scostando le tendine mentre cucino, affacciandomi ai davanzali cercando di capire di che tipo di piante e alberi siano quelli che aiutano, ogni mattina e ogni sera, a innescare l’incanto. C’è una certa ora del giorno, in cui uscendo dal cancello rumoroso, e girando alla mia sinistra, gli occhi in alto a salutare il grande pino sul lato destro della strada, tutto è così immobile, calmo, silenzioso – ad una certa ora della

sera, con la luce artificiale, i balconi con le imposte tutte uguali, poche persone per la strada, l’impressione è che qualcuno abbia illuminato le quinte di un palcoscenico – al mattino presto, procedendo dal cancello verso la via Nomentana si è avvolti da una nube di luce e nebbia – come dei fari puntati, delicati, a risveglio di un nuovo giorno. Qui è possibile essere lasciati in pace – il luogo da cui provengo non concede e non permette questo oblio, la località di mare in cui spero di non dover tornare più è una miscela sempre più allarmante di infelicità e disarmonia. Nella mia stanza, nella casa in cui sono cresciuta, a Fregene, se avessi accompagnato lì Clarissa Dalloway in giro per Londra, Emanuele Trevi nelle sue peregrinazioni giovanili sulle virtù, Giorgio Melchiori oltre Shakespeare e Joyce – quell’attimo in cui avrei alzato lo sguardo dai libri e ritrovato lo spazio angusto di un luogo percepito sempre più come estraneo, motivo solo di noia e sofferenza – quell’attimo non avrebbe concesso moderazione e dolcezza al mio smarrimento. Che vi sia silenzio, sia possibile l’invisibilità, la lontananza – è questa, ora, la mia casa.

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PRIMAVERA 2013

ESPLORAZIONI GARMISCH

di SAVERIO SIMONELLI

Quando Richard Strauss rischiava di essere sfra"ato “Filosofia è a rigore nostalgia. Desiderio di essere ovunque come a casa propria”

(Novalis, Frammenti)

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a sorpresa dell’uomo fu qualcosa di memorabile. Anche se in quegli ultimi anni situazioni simili le aveva già vissute. Particolarmente in quelle due tre settimane in cui aveva dovuto approfondire l’alfabeto muto degli uomini, gestirne l’imprevedibilità, decodificare le reazioni sommesse, il fuoco sotto la cenere. Come per il tedesco non era stata un’impresa semplice e, del resto, era sempre aggiornabile. Ma quella cosa lì proprio non se la sarebbe mai aspettata. E pensare che aveva anche affinato un tipo particolare di sguardo. Quello di chi ha vinto la guerra. Un misto di istinto predatorio, soddisfazione viscerale, corporea, appagamento di chi è uscito dal tunnel della paura e gusta alla curva successiva la sottomissione altrui. Con un fondo, esiguo, di compassione umana, preferibilmente alla sera. La villa era splendida. La posizione anzitutto. Per quello non c’era bisogno di una vista particolare. Isolata, maestosa, con quella montagna a incoronarla. La montagna, la più alta della Germania. Per riconoscerla gli era bastato poco. Qualche anno prima suo padre, appassionato di sci, gli aveva fatto vedere ogni giorno sul giornale i reportage delle Olimpiadi. Lì gli americani avevano vinto l’oro e il bronzo nella gara di Bob, ma a lui era rimasto impresso il trampolino da sci, tutto innevato, che ora, in quel giorno di primavera, pareva una braccio scheletrico venuto alla luce da uno scavo archeologico. Lui, il ragazzo cresciuto in mezzo ai campi di mais, non riusciva a rendersi conto che i suoi antenati venivano da quelle terre, anche se più a Nord dove le montagne finivano e la terra doveva essere strappata alla furia del mare. Loro la casa se l’erano dovuta guadagnare zolla dopo zolla. Per questo ora la guardava, la assaporava quella villa così arrogante e lussuosa giusto sotto lo splendore della montagna, lo Zugspitze, solenne come un rapace che sta per dischiudere le ali ma indugia a guardarsi intorno. Quella doveva essere, anche se solo per qualche tempo, la sua casa, la casa dei suoi ragazzi, le truppe del maggiore Kra-

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mers, soldato americano di origine olandese, imparentato quindi col vecchio continente, mai come ora prostrato eppure fiero e coriaceo. Come quel vecchio barbogio. Incurvato. Di una nobiltà ora remissiva, orgoglio latente ma sconfitto dalle cose, con quel frugoletto attaccato alla piega dei suoi pantaloni come un francobollo. “Noi non ce ne andiamo di qua – strillava - vero nonno? Noi vogliamo rimanere qui. È la nostra casa”. La vecchia, doveva essere la moglie del tipo, lo aveva guardato con degnazione e si era subito infilata in casa per fare due valigie. Glielo avrebbe permesso, anche se l’ordine era stato tassativo. Avevano quindici minuti di tempo. Proprio per questo il vecchio era entrato in garage e si era messo ad armeggiare attorno a una Mercedes anni ’30, arrugginita non al punto di mascherare una sua nobiltà. Sì, il vecchio doveva essere stato un tipo importante. Fu in quel momento che la cosa avvenne. Quel metro e trenta di energia e spudoratezza tornò indietro dalla porta del garage che aveva tenuto aperta fino all’uscita della vettura. Richard si chiamava il moccioso. Pestava i piedi sul selciato come uno stantuffo e digrignava i denti. Consumò quel breve spazio in un battibaleno e poi piantò gli occhietti chiari in faccia al maggiore, ancora stravaccato sul sedile posteriore della jeep e i due soldati di fronte a gustarsi divertiti la scena . “Voi non sapete chi è mio nonno, quello lì! Voi non lo sapete. Ma lui ha scritto Il cavaliere della Rosa e Salomè”. Dieci minuti dopo il maggiore commosso era seduto nel salotto di casa Strauss: la montagna solo un’ombra quieta dietro le finestre sormontate da una bella parata di trofei di caccia. Nella sala di fronte la collezione di oggetti di cristallo, reliquie inestimabili per il maestro, custodite dentro nicchie e armadi a muro, e poi il pianoforte, la vetrata art déco sulla destra, vicino alla porta di ingresso, a raffigurare il mito di Dafne. Il maestro lo aveva accompagnato poi nella saletta riservata, ancora intrisa di fumo. Quello era il sancta sanctorum dove Strauss giocava lo skat con gli amici più intimi, una specie di bridge teutonico, prese da dichiarare, intelligenza di un gioco da costruire come un’architettura, o forse una partitura. E ‘lo spazio del gioco in cui la vita è sospesa: la casa dell’immaginazione. “Lo diceva Schiller - gli ri-

peteva il maestro - e nella mente del maggiore tornava a formarsi un ricordo scolastico”. No che non l’avrebbe sbattuto fuori il signor Richard. Lui, il soldato Kramers, quelle musiche le aveva amate al di là dell’Oceano. Saranno state le origini continentali, ma quanto gli era piaciuto quel delicato bon ton europeo, così demodée, quegli intrighi, quei giochi di seduzione e ritrosie! Quanto gli era piaciuto in teatro pavoneggiarsene con la fidanzatina, tutta occhi e orecchie. Per cui il convoglio fece dietro front un paio d’ore dopo. Il quartiere della guarnigione sarebbe rimasto vicino alla stazione sfigurata dalle bombe. In fondo da lì la città si controllava meglio. Sì, era stata comunque una giornata memorabile. Lo avevano capito anche i

suoi soldati. Alla maniera loro, inevitabilmente yankee. Qualcuno lo raccontò ai commilitoni rimasti in attesa. A parole sue. E così si diffuse la voce che in quella cittadina ammutolita viveva il grande Strauss, quello che, secondo le loro ineccepibili informazioni, aveva scritto Il valzer di Vienna, il Bel Danubio blu. “E certo - commentò un altro beninformato – sarà scappato qui dopo che gli abbiamo buttato giù il teatro di casa sua, il mese scorso.“ Il 12 marzo 1945 la Wiener Staatsoper era diventata un cumulo di macerie fumanti e Richard Strauss a Garmisch, dove abitava da oltre trent’anni, finiva di scrivere le Metamorfosi, elegia di un mondo che non poteva più essere il suo. Non era più casa. Solo nostalgia.


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PRIMAVERA 2013

ESPLORAZIONI PARIGI

testo e foto di LUIGI LA ROSA

Gustave Moreau

La clausura del perfezionista al riparo dagli oltraggi della vita Musée National Gustave Moreau 14 rue de La Rochefoucauld (métro Trinité – d’Estienne d’Ovres)

Q

uando nelle ultime ore mattutine di un martedì della tarda primavera del 1840 l’arcigno direttore del Collège Rollin bussa insistentemente alla porta dell’aula scolastica, per il piccolo Gustave, figlio di Louis Moreau – stimato architetto parigino non privo di velleità artistiche e letterarie – è la fine della più spensierata stagione della vita, l’orrendo limite di demarcazione che segnerà la cacciata dai paradisi dell’infanzia. La notizia che scotta nella voce del messaggero è un fulmine a ciel sereno, e sembra indugiare un attimo prima di abbattersi con la furia di un tornado sulla vita del povero scolaro. Riguarda Camille, la sua unica sorella ammalata, e lo si prega di abbandonare la lezione e correre a casa, perché il male che da mesi attentava alla salute dell’infelice ha avuto la meglio. La poveretta non è più tra i vivi. Il diligente Gustave è accecato dalla fretta del rientro, non riesce a respirare, la strada sembra non finire, e quando finalmente supera il pesante portone oltre il quale i suoi lo aspettano ha il cuore sul punto di spaccarsi. Stenta a credere che l’orribile fagotto biancastro e coperto di bende, quell’oscena bambola inerte le cui labbra hanno assunto lo smorto colorito d’un idolo d’ebano possa essere la creatura piena d’entusiasmo con cui ha diviso i suoi primi anni, le corse in giardino, i giochi presuntuosi del passato. Non sopporta l’olezzo disgustoso dei fiori marci, il tanfo di cera bruciata delle candele che invade la camera della morta come una pestilenza. E l’offende che suo padre e sua madre non diano segno d’accorgersi del suo ritorno, che non lo abbraccino e non lo stringano a loro come fanno con tutti gli ospiti, una fiumana di gente che continua ad andare e venire, genuflettendosi più volte davanti al catafalco. Nel musée allestito dallo stesso artista all’interno dell’hôtel particulier acquistatogli dal padre, e che raduna tra le memorie il letto Impero, la scacchiera coi modellini di legno smangiucchiati dall’uso, e la serie dei meditabondi ritratti di casa Moreau,

Camille mi fissa con la rabbia inespressa della sua giovinezza ingiustamente falciata. È una creatura dall’aria vispa, gli occhi sono quelli dolci e mansueti dei maschi di famiglia – gli occhi di Louis, quelli inquieti di Gustave -, mentre dalla madre ha ereditato la leggiadria dei lineamenti, la pacata nitidezza del taglio delle labbra. Lo sguardo manifesta stupore, incredulità, strazio per la sorte assurda che le è toccato subire: Camille è un fantasma, uno spiritello costretto a dileguarsi alla luce del risveglio. Per il fratello questa morte rappresenta l’inevitabile disgregarsi di tutto un mondo: quello degli affetti condivisi, delle gioie di una casa mediamente benestante, della trinità felice che lui e Camille formavano con una madre non ancora cresciuta, le volte in cui il marito erano fuori per lavoro e lei li chiamava a sé, sul lettone da principessa, inventando per loro i più inverosimili racconti. La bara che condurrà il cadavere della figlia minore di Louis e Pauline Moreau fino al cimitero di Saint-Jean a Orléans seppellirà pure la serenità interiore su cui erano poggiate fino a quel momento le sopravvalutate speranze nel futuro. Le vecchie stanze di sempre sono ormai un luogo irrespirabile, l’aria stessa è intorpidita dai vapori del lutto, e ogni luce s’è spenta – dentro e fuori dai loro occhi -: chi oserebbe macchiarsi dell’irrispettoso gesto di riaccenderla? Un nume infingardo ha soffiato sui fuochi morenti e fermato le lancette di tutti gli orologi. Gustave viene ritirato da scuola nel timore che pure lui possa ammalarsi come la sorella: gli si accorderà solo di frequentare le lezioni del pittore François-Édouard Picot, a patto che non si allontani troppo da casa. È il figlio su cui finiscono inevitabilmente per convergere le attenzioni apprensive dei due genitori, le loro paure esagerate, asfissianti, rafforzate dal trauma della morte di Camille e mirate a salvaguardare con ogni precauzione l’unico erede scampato agli strali della sventura. Una tristezza leggera aleggia ancora nelle sale del museo, rimasto, secondo la testimonianza di Robert de Montesquiou – unico ad avere accesso alle sale più interne della dimora -, fedele all’antico appartamento del pittore e

curato nel 1895 dall’architetto Albert Lafon: nella biblioteca piuttosto buia coi libri e le antichità collezionate tra gli scaffali; nella salle à manger, arredata col garbo un po’ artefatto delle maioliche del Sei e del Settecento; nella salle à coucher, che riunisce insieme a molti disegni di David D’Angers, qualche opera di Degas, al quale l’artista fu parecchio legato nel corso del suo soggiorno italiano e che illustra, nella maniera caotica degli spazi ristretti e un po’ claustrofobici, quella che dovette essere la dinamica paciosa degli abitanti della casa, tra il primo e i due piani superiori, adattati ad atelier e contenenti la maggior parte dei capolavori di Gustave. Tra i dipinti m’incuriosisce l’eloquente ritratto del pittore: gli occhi di un individuo complesso, che chiamano a una muta interrogazione chi li osserva, i baffi curati, la barba sensualmente virile, disposta a celare nell’apparente mitezza del colore la verità di un dolore irraccontabile. Moreau edificherà con la cura del perfezionista le pareti invalicabili della propria clausura, scegliendo l’arte come sola alternativa al reale e come sublimazione per l’eccesso tracimante

delle proprie manie. Marcel Proust si innamorerà a tal punto di questo primo eccezionale nevrotico della modernità da ritrarlo nella figura di Eltsir, l’esteta del sogno che incontriamo tra le pagine della Recherche. Nel corso dei suoi soggiorni parigini e poi, durante l’ultima più drammatica fase della sua vita Oscar Wilde farà più d’una puntata alla pace un po’ pensierosa di queste sale, che danno l’impressione di un universo a parte, staccato dalle frenesie, un’isola di dolente meraviglia che ancora simbolisti e surrealisti, da André Breton a Salvator Dalì eleggeranno a meta incontaminata in una dimensione urbana altrimenti misera, prosaica, troppo spesso insidiata dagli oltraggi del quotidiano.

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PRIMAVERA 2013

ESPLORATORI ALFONSO GATTO

di MARCO ONOFRIO

Vive, lavora, smania, si arrabbia, tace, nella ci"à eterna scelta come casa

ILLUSTRAZIONE DI DOMENICO LAPOLLA

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ra le città elettive del poeta di Morto ai paesi si annoverano Milano, Firenze, Venezia, Torino e –definitivo approdo – Roma. Il primo soggiorno romano risale al 1947. Alfonso Gatto (1909-1976) viene chiamato a dirigere «Pattuglia», quindicinale pensato dal PCI per un pubblico di giovani lettori. Il poeta salernitano alloggia nella foresteria che il partito gestisce a Via Nazionale. L’esperienza è breve e poco fortunata: Gatto viene sostituito da Gillo Pontecorvo. Il secondo soggiorno, dieci anni dopo, nasce dalla profonda inquietudine che lo spinge a rompere con «Epoca» e a lasciare l’amata Milano. Gatto dapprima alloggia all’Albergo d’Inghilterra, poi in Viale Tirreno e, dall’agosto 1957, in Via degli Artisti. L’anno successivo si trasferisce a Firenze. Quattro anni più tardi è di nuovo a Roma, dove alloggia ancora presso un albergo, per seguire le vicende cronachistiche del processo Fenaroli. È a partire dall’autunno del ’61 che si trasferisce definitivamente nella Città Eterna, prima in Viale delle Medaglie d’Oro, poi in Viale Carso. Scrive Bigiaretti che, a Roma, Gatto «vive, lavora, smania, si arrabbia, tace. Una Roma che non gli assomiglia, nel quartiere borghese di Piazza Mazzini, a due passi dalla casa dove abita Moravia. Ma dentro l’appartamento di Gatto troviamo ciò che gli assomiglia: i libri, i quadri degli amici pittori, i quadri freschi e rigorosi di Graziana Pentich, e i quadri di lui, Gatto, che ha sempre coltivato la pittura come qualche cosa di più di un hobby». Nel maggio ’69 trasloca in Via Flaminia, nei pressi di Ponte Milvio. Nei primi anni ’70 si sistema in uno studio di Via Margutta, dove passa gran parte delle giornate a dipingere. Gatto si innamora di Roma, ci si sente subito “a casa”: e la vive perdutamente, come un prodigio rivelatore dello sguardo, un continente sepolto della coscienza, un arcano inesauribile. La città gli riserva anzitutto una tragedia (nell’agosto del ’62, al Policlinico, muore il figlioletto Teodoro, di un mese appena), ma anche parecchie gioie segrete, infuse nell’ascolto dei suoi silenzi, nella lettura attenta dei suoi anfratti, nella visione schizomorfica – e al contempo misteriosamente armonica – delle sue “scene” di esistenza quotidiana. Una Roma di analisi e sintesi, che

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procede per quadri staccati, pennellate aeree, raccordi fulminanti. Poesie che sembrano acquarelli: parole che vibrano atmosfere. Il modo che Gatto ha di vedere e interpretare Roma riflette per certi versi la strategia secondo cui la sua poesia chiede di essere letta: con uno sguardo trapassante e universale, capace però di agganciarsi – senza mai prescinderne – dalle “epifanie” del singolo dettaglio. Le sue numerose composizioni di pertinenza romana ci mostrano proprio questo: un uomo attento a ogni sussurro che la vita possa esprimere attraverso Roma; ovvero, in termini equivalenti, un poeta attento a ogni sussurro che Roma possa esprimere attraverso la vita. Difatti, sussiste una perfetta complementarità, ai limiti dell’identificazione, fra l’uomo che vive Roma e il poeta che ne scrive. La visione o la percezione della città procede, in genere, soprattutto per il tramite fuggevole di uno “squarcio” del presente che si incunea come un gancio nella coscienza, depositandovi il suo portato di ricchezza simbolica, di rivelazione. Può essere, ad esempio, un crepuscolo fiammeggiante di riflessi, contemplato dalle altezze del Gianicolo (“Dal Gianicolo”), o il passaggio di una ragazza “che può dire d’essere il mondo” (“La ragazza di Ro-

ma”), o la mattina di un giorno qualunque attraverso lo schermo “sofisticato” del Caffè Greco, dove de Chirico “stira il suo panciotto” (“Mattina al Caffè Greco”), o la natura spontanea dei bambini che hanno l’inverno di Roma negli occhi (“Inverno a Roma”). E ancora, la città-finestra, davanzale del suo scenario nel ricordo, tradotta nella risultante simbolica di un odore che sboccia dall’interno la visione (a Trinità dei Monti con gli odori / d’aprile spunta l’erba delle capre – “Per me stesso a Trinità dei Monti”), oppure colta nella sua componente liquida e oscura, torbida di nodi irrisolti (“Notturno sul Tevere”), o percepita come “scogliera del tempo”, scarnificante veicolo di meditazione sull’essere e la morte (“Vecchie tombe al Verano”). Nei suoi versi romani coesistono organicamente l’aerea e immateriale levità del tocco appena accennato, sublimato ai limiti dell’astrazione, della ricreazione analogica, della sinestesia, e la corposa pastosità della mano mediterranea, dell’uomo solare, gioioso, aperto agli orizzonti della vita. Così era, Alfonso Gatto: un uomo passionale, capace di concretezza ma anche, per intima natura, di stralunata astrazione; un uomo dolcissimo, un sognatore armato dei propri sguardi. E questi sguardi raccolgono suoni

improvvisi, presenze, meteore, presagi, silenzi temporanei scavati nel mistero dell’eternità (Roma racchiude dentro attimi millenni): segni baluginanti che creano la veritiera evanescenza della rivelazione. Per cui Gatto, interpretando il “sempre” entro il “qui e ora” della città, non resiste alla tentazione di definirla: “Qui la grande scala notturna / vivida d’oscura gioia / e noi soli nel cielo vasto / della pioggia che verrà. / Parole presàghe, l’avvenimento, / questo è Roma, / una superbia che ogni volta impara” (“Ara coeli”). Questa interpretazione metafisica e metastorica (talvolta sepolcrale) di Roma prelude fatalmente, per Gatto, alla sua predestinazione di beffardo, ultimo approdo. Tornava a Roma quando, partendo da Grosseto, si mise in viaggio su un’utilitaria guidata dalla sua nuova compagna, la giovane Maria Minucci. Nei pressi della Torba di Capalbio l’auto, a causa di un guasto tecnico, finì fuori strada e Gatto, malconcio, venne portato d’urgenza all’Ospedale di Orbetello. Lì, viste le sue gravi condizioni, si decise di trasferirlo all’ospedale di Grosseto, ma spirò a bordo dell’autoambulanza. Erano le 16.10 dell’8 marzo 1976. Moriva improvvisamente, diretto alla “sua” Roma d’adozione, uno dei poeti più autentici del Novecento.


PRIMAVERA 2013

FOTORACCONTO PRAGA, I TRASLOCHI DI KAFKA

Orlando esplorazioni

testo di DINO BUZZATI foto di PAOLO DI PAOLO e MICHELA MONFERRINI

FOTO 1 - Casa alla Torre, Námˇestí Franze Kafky, 5

D

i passaggio a Praga, mi venne la curiosità di vedere i luoghi di Franz Kafka. Qui a Praga sarebbe stata una viltà di fronte a me stesso se non avessi cercato la sua ombra. “Per lei avevo preparato un piccolo itinerario speciale... Sa? i luoghi, le case, i ritrovi dove è vissuto Kafka...” “In quella casa, al primo piano, è nato Kafka”. Non sorrideva. Nella voce non ombra di ironia. Io tacqui. La casa, di gusto barocco, è a tre piani, più un coronamento di elaborati abbaini. Forma angolo tra la via Kaprova e la via Maislova, e porta il numero 5. (foto1)

FOTO 2 - Casa Al Minuto, Malé námˇ estí, 2/3

FOTO 3 - Casa Al Vicolo d’Oro, Zlatá uliˇ cka, 22

ba?”. L’ultima sua casa. Il cancello del cimitero ebraico di Praga Staschnitz era spalancato, alle undici del mattino. (foto5) La tomba di Kafka è diversa dalle altre. Dinanzi alla stele c’è un piccolo spazio quadrato chiuso da una cordonatura. In questo spazio, un vasetto di vetro rotto, infossato di sbieco nella terra, tre vecchi fiori apparentemente finti e alcune frasche di abete appiattite dalla neve che ormai non c’era più. Silenzio grande. E solitudine. Sul bordo, tanti sassetti. “È l’omaggio degli ebrei ai loro morti”. (foto6)

“In quella casa, se mai le interessasse, Testo di Dino Buzzati, da “Le case di dicono che abbia abitato Kafka...”. Kafka”, Corriere della Sera, 31 marzo Così di fianco alla chiesa di Tyn, in via 1965 Tynska, dove sorge una vecchia graziosissima bicocca che porta il numero 7, così di fianco al Municipio dove sorge un antico palazzo con strisce di graffiti a soggetto mitologico. (foto2) Così nella Bilekstrasse, così nella Langengasse, così nell’incredibile strada d’Oro o degli Alchimisti, dietro la cattedrale, fatta di abitazioni giocattolo altre due tre metri, uscite dal sogno di un bambino (foto3)

FOTO 4 - Casa Sixt, Casa AI Tre Re Magi, merceria Kafka, via Celetná, 2/553 - 3/602

A un certo punto chiesi: “Ma aveva il dono dell’ubiquità, questo Kafka? Possibile che in quarant’anni di vita abbia abitato tante case?” ...dove Kafka era nato, dove Kafka aveva studiato, dove Kafka aveva passato l’adolescenza, dove Kafka era solito passeggiare, dove Kafka aveva lavorato come impiegato delle assicurazioni, dove Kafka si ritirava a meditare e scrivere, dove Kafka qui dove Kafka lì, non so più quante case (foto4) “Vuole che andiamo a vedere la tom- FOTO 5/6 - Cimitero Ebraico di Straˇsnice, via Izraelská, 1

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EPIFANIE UN RACCONTO PER TAPPE/2

di SIMONE NEBBIA

Ci sono posti dove in poco tempo sembra già di esserci da sempre F

u in una sera ventosa di fine dicembre che gli uccelli si lanciarono in volo militare sulle grigie tangenziali, a sovrastare le antenne scheletriche e la ferrovia. Fu come vedersi materializzare una folata, quella schiera minacciosa che attraversava di una lama sanguinante i dubbi del cielo. Reginella se ne stava infagottata, fianco a un angolo dove i palazzi inchiodano alla terra il loro peso; come da una prigione spingeva gli occhi tra le fessure delle ciglia, liberava timorosa lo sguardo e, diseguale alla misura del cielo, in un sogno dell’iride ne tentava le vette. Dalla spalla lungo il braccio si sentiva incidere di un male non capito, continuo, che si scioglieva in un focolaio del polso e le lasciava le mani come inerti, appena coperte da una lana che al freddo non bastava e scopriva pertugi tra le maglie a tagliarle la punta delle dita. Quando un’ala puntuta si arrampicò a sfiorare una crespatura tra le nubi, la mano tesa di Reginella si piegò come un fiore malinconico, mentre nell’ombra della città bassa si affacciò, spietata, una promessa di temporale. Non avrebbe saputo dire, da quanto era lì. Pochi minuti, o forse anni. Ci sono posti dove in poco tempo sembra già di esserci da sempre. E restarci. Si alzò che ormai si stava facendo buio, stese lentamente le gambe a riattivare il passo, arruffò confusamente la sciarpa coprente in cui nascondeva parte del viso. Fu un gesto inconsapevole a tradirla, una mano intirizzita si fece calda a contatto con il ventre, avvertì lieve un accenno d’appartenenza, poi silenzio. Ma la città, rabbiosa, non smetteva di strepitare.

Si mosse a fatica verso l’angolo opposto dove il fascio luminoso di un lampione la colpì sul volto, svelando nel pallore una sottile venatura rugosa. Sotto quegli abiti coprenti il gonfiore alla pancia iniziava a mostrarsi, erano passati ormai mesi, fuggita da quella casa e da suo padre s’era impossessata della vita che aveva perduto, proprio mentre un’altra vita, in grembo, batteva la sua urgenza. Morta, e altrove rinata. Per un corpo altrui. Questo pensava della sua gravidanza, mentre nel silenzio del tempo che passa il peso del delitto si mescolava ancora di più, a quello della colpa. Una musica, il suono di una viola, si disperse lungo una sciatteria di quartiere e sembrava insinuarsi come sospinta per i vicoli dal vento; Reginella sentì nella vibrazione delle corde un suono che ricordava, e che la atterrì: i passi di suo padre, nei corridoi del palazzo, rintoccavano come una cadenza di campana a morto nell’anima che le aveva insozzato. Fu in quell’inatteso stridìo di una musica prima gentile che una contrazione la colse e la lasciò senza fiato. Era fuggita di notte, mentre la pioggia furente non sapeva purificare una terra avvelenata: tutti ne conoscevano il disonore ma non uno si mantenne alla promessa di rivelare. Si mosse nel buio, durante il banchetto di quella festa macabra, lasciò le sue stanze con i denti forzati dal graffio dello smalto e con il coltello affilato sotto la porpora di un cuscino. Trovò suo padre che rideva beato, con una coppa di vino le faceva segno di raggiungerlo e che ne fosse versato anche per lei, non fece caso a quell’espressione diversa della figlia che aveva pro-

fanato, ma quando allungò il braccio per afferrarla e stringere una colpa ancora, non si accorse nemmeno all’ultimo ch’era stato imperdonabile, azzardato, avere scoperto il fianco. Il coltello tornò nella porpora da cui era venuto, bagnato d’altro rosso che alla stoffa si confuse. Non vide, sua figlia, il volto impassibile, complice degli uomini di guardia, e non vide quello di suo padre farsi vetro sotto il bosco diradato della barba, le sue pupille afferrare l’ultima sfida al destino e dirla perduta. Non vide altro che l’ultimo corridoio scuro in cui era stata bambina, i desideri scolpiti in un’infanzia ripudiata: nulla portò con sé, nulla degli averi, nessun avanzo della nobiltà maledetta. La porta dell’auto si aprì al suo arrivo, un odore di pece e cuoio la strappava a ciò che era stata e che avrebbe per sempre cercato, insieme, di ricordare e dimenticare. La macchina scivolò via, lasciando un’impronta sul fango che la pioggia, erodendo, lentamente cancellava. I sacchi grandi dei rifiuti, poggiati tra il muro e i cassoni strapieni, sembravano come tanti manichini di principi e marchesi, convitati del suo banchetto disadorno. Reginella si mise ad aprirne cercando di usare solo la punta delle dita, come incosciente tenesse fede a un antico residuo dell’educazione ricevuta, preservando il più possibile dal contatto sudicio. In alto il cielo aveva coperto l’insidia promessa delle nubi con l’oscurità più fitta, degli uccelli si sentivano solo le grida per la prossima tempesta, come volessero dire: siamo noi, la tempesta. Fu allora che il suono delle campane riprese a battere, forte e nell’anima di Reginella,

tornò assordante il rumore di passi: si voltò di scatto e vide una bestia feroce venirle incontro e soffiava e ringhiava e le mostrava i denti, Reginella impaurì e una contrazione ancora le tolse un respiro, cercò di arretrare e sfuggire alla furia ansimante di quella belva che in quel momento saltò verso di lei ma di colpo, come non avesse mai minacciato di aggredirla, si fermò nel mezzo a scavare rabbiosa tra le foglie e il fango che erano in terra, Reginella vide la belva trarre da sotto il ciarpame un piccolo libro, sporco e inumidito, quando lo prese tra i denti smise di abbaiare, si appressò verso di lei, lo fece cadere ai sui piedi e lesta com’era venuta, scantonando se ne andò. Lei sospirò del pericolo scampato, poi lo raccolse e sentì un’incisione al contatto con la punta delle dita, come premesse quelle piaghe lasciate dal freddo; un silenzio improvviso si fece d’intorno, poi la musica di nuovo riprese a vibrare le corde della viola: tra le dita ed il taglio, il suo segreto a sé stessa svelato: I Cenci, era scritto sul corpo di un libro ferito. Reginella lo tenne tra le mani, alzò gli occhi ad un cielo che sembrava piombarle sul capo, Il giorno è al tramonto, pensò, mentre il battito d’ali nel vento a quella musica struggente si mescolava. L’ultima luce le rinnovò la venatura del volto, poi più nulla si vide nel buio sovrano. Aria, ti confido i miei pensieri. Le ultime parole, nella sospensione del tempo. Esce. Sipario. Fu solo allora, nel crepitare di mani, che dal buio si riebbe la luce e lento, poi in un applauso sempre più forte, s’avvertì tutto intorno il rumore della pioggia.

Una scrittura per tappe

FOTO DI MARIANNA MASSELLI

Su Orlando n. 1 Simone Nebbia ha cominciato un viaggio di parole. Comporrà, numero dopo numero, tessera dopo tessera, un ampio racconto “in fieri”, che accoglierà le suggestioni tematiche della rivista in modo imprevedibile, sotterraneo. L’uomo che dice io, in una città battuta dalla pioggia, indifferente e rabbiosa che è Roma, nella prima tappa ha vagabondato fra libri usati, ingialliti, smangiucchiati, fino a scoprire - in un paio di versi qualcosa che riguarda una giovane donna, Reginella, entrata nella sua vita: “E tu non sei più che un ricordo. Sei trapassata nella mia memoria. / Ora sì, posso dire / che m’appartieni”. In questa seconda tessera, è Reginella a invadere la scena, come in un teatro; e sono i ricordi di lei - lividi, allarmati - a irrompere nella vita di lui. Che per caso trova un libro, per la strada: Artaud, I Cenci. Contiene di nuovo segni, epifanie, connessioni con il già vissuto e con il tempo da vivere. Con uno straziato desiderio di sentirsi a casa, da qualche parte.

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I LIBRI ALTROVE

di DANIELA DI SORA

…della Russia di oggi, dei ragazzi

lasciati soli di fronte al potere corro"o, dei mille lavori, dei nonni, delle campagne abbandonate

A

voler ricercare una data di inizio a questo discorso si può partire dal 1 agosto del 1990, giorno in cui entrò in vigore una delle ultime importanti leggi firmate da Gorbacev: quella sull’eliminazione della censura dai mezzi di informazione. Ma tutti gli avvenimenti hanno in quegli anni un ritmo incalzante, la Storia del presente si scrive allora, e il paese cambia radicalmente in meno di un biennio: il fallito golpe dell’agosto 1991, l’ascesa di El’cin, la fine dell’URSS e la nascita della Federazione Russa nel dicembre del 1991. E’ allora che si struttura l’oggi, nella vita letteraria e non solo. La prima impressione è di assistere in questo campo a un rimescolarsi delle carte; in un istante si ricompongono i tre filoni “classici”: la letteratura ufficiale, la letteratura clandestina (il samizdat) e la letteratura dell’emigrazione tornano a essere una cosa sola, la letteratura russa. Nascono intanto case editrici non statali, negli scantinati e nei sottoscala, nascono giornali, gruppi musicali, teatri. Nasce il mercato, insieme alla benefica convinzione che tutto regoli e tutto risolva. Il russo però non è più la lingua ufficiale di oltre 290 milioni di abitanti dislocati in 15 repubbliche, e anche a voler tentare un bilancio letterario, le cose non sembrano necessariamente procedere verso una semplificazione. Dei molti che erano emigrati, pochi sono gli scrittori che rientrano stabilmente in patria. Per un Aleksandr Solženicyn, un Vladimir Vojnovi un Eduard Limonv che tornano in Russia, ce ne sono molti che scelgono di rimanere all’estero, e sono di generazioni diverse, come Juz Aleškovskij, Saša Sokolov, Marina Palej, Mikhail Shishkin. Alcuni poi, e sempre più numerosi, scelgono di scrivere nella lingua del paese che li ospita, dando luogo a un fenomeno di “meticciato linguistico”, come è stato definito, che vanta ovviamente precedenti illustri, basta pensare a Vladimir Nabokov e Josif Brodskij. I primi che vengono in mente di

questa pattuglia di migranti linguistici, come pure sono stati definiti, sono il francese/russo Andrei Makin e il tedesco/russo Vladimir Kaminer, tradotti e apprezzati anche in Iitalia. Ma forse oggi il nome più noto ai nostri lettori è quello di Nikolai Lilin che ostenta non meglio precisate origini siberiane, e scrive in italiano. Dal suo controverso romanzo Educazione siberiana il regista Gabriele Salvatores ha appena tratto un film, che magari servirà a sollecitare presso il pigro lettore nostrano la curiosità per una Russia improbabile, come a suo tempo il poco verosimile Omar Sharif nei panni del dottor Zivago. Ma oggi qual è la situazione in Russia? I nomi da fare sono tanti, fra passate, nuove e nuovissime generazioni. Una scelta ovviamente si impone, per non trasformare questa pagina in un arido elenco irto di consonanti e segni diacritici di incerta decifrazione. E se scelta deve essere, non posso trascurare almeno due fra gli scrittori non più giovani ma a me più cari: Vladimir Makanin e Ljudmila Ulickaja, solidi autori entrambi di impianto classico, di lingua avvolgente e sensuale. In particolare per quanto riguarda Makanin sono felice che Jaca Book abbia trovato il co-

raggio di proporre il monumentale, epico affresco della Russia contemporanea, Underground. Quante volte mi è stato proposto, quante volte ho riflettuto non sul valore del romanzo, che è indubbio, ma sulle possibilità di vendita, e mi è mancato il coraggio di pubblicarlo. Nei confronti di Mikhail Shishkin invece non ho avuto esitazioni. Non sono poi tantissime le volte in cui un editore ha l’esatta percezione di trovarsi di fronte a un libro che deve essere pubblicato, a un autore che non può lasciarsi sfuggire, e persino il ragionamento su quante copie potrà venderne diventa secondario. Con Shishkin è andata così. Quando un amico russo me l’ha portato in redazione, ormai quasi dieci anni fa, e abbiamo cominciato a parlare, il suo mondo mi ha catturato e ho firmato il contratto per La presa di Izmail senza esitazioni. E quando, con il libro già in fase di traduzione, l’autore mi ha chiesto di pubblicare per primo il suo terzo romanzo, Capelvenere, e me l’ha dato in lettura dicendomi che non era ancora uscito in russo, di nuovo non ho avuto esitazioni, e ho fatto come voleva lui. In effetti credo che questo sia uno dei romanzi più belli (e complessi) che ho avuto la fortuna di pubblicare e, per eliminare qualun-

que sospetto di partigianeria, uso per parlarne le parole di Mario Caramitti, in Letteratura russa contemporanea: “In Capelvenere il coro delle voci dei personaggi si fa radioso, il verbo diventa autentico strumento di salvezza e istanza di resurrezione…. Ritorna il groviglio d’intrecci dalla cristallina e lapidaria essenza…” Il primo romanzo di Zachar Prilepin, Patologie, mi raggiunge invece per email, come proposta di traduzione. Un romanzo duro, sulla guerra in Cecenia, ma anche sull’amore, sul possesso, sulla paura di perdere le cose che si amano. In realtà un libro contro ogni guerra, contro la violenza. Quando scrive questo primo romanzo l’autore non ha nemmeno trent’anni, e con Patologie e con i romanzi successivi, San’kja e Il peccato, vince in pratica tutti i premi letterari che si possono vincere in Russia. In una prosa compatta e limpida, dove ogni frase si dipana per svelarci immagini e paesaggi consueti come fossero nuovi, ci parla della Russia di oggi, dei ragazzi lasciati soli di fronte al potere corrotto, dei mille lavori, dei nonni, delle campagne abbandonate. E quando per quasi due pagine il protagonista di Patologie smonta, pulisce e rimonta il suo kalashnikov, al lettore tornano in mente Gogol’, Le anime morte e la valigetta di i ikov. Vorrei avere più coraggio (e più soldi). Vorrei aver pubblicato Saša Sokolov, Vladimir Sorokin, Evgenij Popov, qualcosa di Viktor Pelevin (non tutto, non amo le sue derive troppo mistiche). Mi piacerebbe poter fare un discorso coerente e dimostrare all’apatico lettore la ricchezza anche attuale di una letteratura che ha dato al mondo capolavori senza pari, e non solo nell’Ottocento. E che invece continua a suscitare molta diffidenza e scarsa curiosità, nei non specialisti. Daniela Di Sora, studiosa, traduttrice, docente di letterature slave, ha fondato e dirige dal 1994 la casa editrice Voland.

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PROFILI SCRITTORI NEGLI ANNI Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente (G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani)

T

utto deve partire da una considerazione semplice quanto assiomatica: Giorgio Vasta (1970) è tra i migliori scrittori della sua generazione. Si tratta di una dato (quasi) unanimemente riconosciuto. E la cosa è tanto più sorprendente se si considera la produzione narrativa al suo attivo. Molti racconti sparsi in antologie e riviste hanno anticipato il sorprendente esordio romanzesco, Il tempo materiale (minimum fax 2008), che ha riscosso notevoli apprezzamenti e una candidatura al Premio Strega - che di questi tempi è tutta da interpretare! A quel romanzo però sono seguiti due “organismi testuali ibridi”, che solo in parte possono soddisfare i lettori che erano rimasti folgorati dalla straordinaria abilità di Vasta nel coniugare una sapiente calibratura stilistica con la coerente architettura narrativa: Spaesamento (Laterza 2010) si può considerare, infatti, una sorta di spin-off di quel primo romanzo (di cui riprende l’ambientazione e “aggiorna” alcune considerazioni), vincolato per di più a esigenze di coerenza editoriale (la vocazione “topografica” della collana Contromano); Presente (Einaudi 2012), invece, scritto a quattro mani con Andrea Bajani, Michela Murgia e Paolo Nori, è il risultato del progetto «Diario in Circolo», ideato e curato da Vasta per il Circolo dei Lettori di Torino. Due prove che permettono sicuramente di ritrovare la potenza mitopoietica e l’etica severa della scrittura di Vasta, ma che risultano eccessivamente condizionate da una progettualità esterna per poter essere messe sullo stesso piano di quella prima opera d’autore. Tuttavia, se così “debole” risulta la bibliografia narrativa di Vasta, si deve anche dire che altre sono le prove e le forme di scrittura che completano il suo profilo intellettuale, rendendolo una delle figu-

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Giorgio Vasta La militanza del linguaggio

re di riferimento nel panorama culturale italiano. Quella che abitualmente viene considerata la produzione “collaterale” nell’attività di uno scrittore - consulenze editoriali (Einaudi, Chiarelettere, :duepunti), collaborazioni con i giornali («il manifesto», «la Repubblica»), scrittura in rete (dalla fondazione di «Nazione Indiana» all’attuale collaborazione a «minima&moralia»), curatela di volumi (come Anteprima nazionale, minimum fax 2009) -, nell’opera di Vasta diventa parte integrante di una militanza culturale più ampia, che trova un’ulteriore declinazione nell’organizzazione materiale della cultura: a lungo insegnante alla Scuola Holden di Torino, Vasta è ideatore e collaboratore di manifestazioni come Torino Spiritualità, Scrittorincittà a Cuneo e Roland Macchine & Animali a Milano, dalla primavera del 2011 è tra i principali animatori del movimento TQ e negli ultimi due anni ha tenuto presso l’Università di Bergamo un laboratorio sugli Strumenti per interpretare il presente. L’attivismo di Vasta si distingue per il suo essere pervasivo eppure silenzioso, mai fuori dalle righe, animato com’è da un progetto preciso che trascende i specifici contesti e le diverse contingenze. Comprendere, spiegare e prendere posizione: questi sono i capisaldi di una militanza intellettuale che trova nell’intervento culturale la naturale prosecuzione della scrittura. E non è un caso che proprio il concetto di militanza sia centrale nella poetica di Vasta. Il tempo materiale racconta la vicenda di tre ragazzini palermitani che rifiutano la realtà che li circonda: l’irresponsabile banalità affettiva dei genitori, l’inerte spirito emulativo dei coetanei, l’enfasi vacua del linguaggio dello spettacolo e l’indignazione altrettanto vacua del discorso politico nei giorni del sequestro Moro sono i contrassegni di un mondo - Palermo, l’Italia - verso il quale i tre ragazzini covano un odio sordo, che li spinge a maturare una coscienza critica e ideologica sorprendente - per non dire inverosimile - per la loro età. Da questo odio nasce una spropositata reazione: Nimbo, Volo e Raggio - questi i nomi che i tre si danno per sancire l’ingresso nella

militanza - fondano il “NOI”, Nucleo Osceno Italiano, cellula brigatista che prova a farsi carico di tutto ciò che il resto della comunità evita ed esorcizza: la responsabilità. A partire da questa consapevolezza prende forma una rivolta metodica e intransigente, che deve necessariamente passare per la colpa, unica alternativa all’ignavia, all’ignara complicità di cui tutti si macchiano nel momento in cui nascono al mondo: perché «essere colpevoli è una responsabilità» (74). Lo scontro si radicalizza e sfocia nella violenza (il sequestro e l’uccisione di un compagno di classe), unico modo per infierire sul corpo di un paese «tiepido», assuefatto a tutto e incapace di reazione (come gli animali agonizzanti per i vicoli di Palermo). Il loro progetto tuttavia è senza fine, destinato a fallire: se proprio la sconfitta viene invocata a sancire, in un rigurgito di titanismo romantico, la tragica necessità della loro azione, qualcosa nel finale sembra evadere dai rigidi schemi con cui i tre brigatisti avevano pensato di poter “esaurire” il mondo. In Spaesamento e Presente, testi rubricabili sotto l’ambigua etichetta dell’autofiction, quel senso di responsabilità disciplinata e severa cambia forme, trova motivazioni diverse, ma rimane immutata nella sostanza. Nel primo testo, per tre giorni, l’io autoriale si trasforma in «sonda umana» e attraversa Palermo e i suoi dintorni in un esercizio di metodica flânerie: esplorando e raccontando luoghi, persone e percezioni, cerca di trovare una spiegazione alla «malinconia fisiologica» (95) che lo affligge. Quell’interrogazione prosegue in Presente, scandita dallo scorrere dei giorni sulle pagine del diario: per un anno la vicenda dello scrittore si intreccia con la storia quotidiana di un paese, l’Italia, che ha perso il senso del tempo e vive immerso in un eterno presente, sempre uguale a se stesso. In questi racconti alla verticalità terroristica dei ragazzini ideologici si sostituisce l’orizzontalità esplorativa dei due narratori: un paragonabile grado di violenza viene raggiunto perforando la superficie delle cose e sprofondandovi dentro, fino ad arrivare a scuoterne le stratificazioni di senso, le concrezioni

di GIACOMO RACCIS simboliche. Viene meno una forte impalcatura narrativa - quella che rende Il tempo materiale un bel romanzo, oltre che un libro imprescindibile - e il «carotaggio» della realtà diventa ragione autosufficiente della scrittura. La precisione lessicale - consolidata da un’impressionante padronanza delle più distanti terminologie -, l’intensità figurale, il rigore sintattico, la profondità analitica diventano le armi e le pratiche di un nuovo terrorismo. All’azione fisica degli attentati, dei sequestri, delle torture, si sostituiscono il rigore percettivo e la disciplina linguistica. Questo carotaggio si spinge fino al livello microscopico, dove scopre una realtà organica e magmatica, composta da un flusso di materia in continua trasformazione. Quella di Vasta è una concezione “fisiologica” del mondo, che riconosce anche nella più avanzata modernità, il regno di una Natura leopardiana, che attraversa il tempo e resta indifferente ai significati che l’uomo attribuisce alle sue momentanee conformazioni. All’origine è la materia, verso la quale ogni uomo avverte un istintivo desiderio di ritorno: contro il demone dell’indistinzione, tuttavia, la civiltà ha elaborato una strategia, la costruzione di un palinsesto che dia al mondo una struttura, un senso, un fine. Strumento di questa sfida che l’uomo lancia alla Natura è il linguaggio. Attraverso la parola la realtà viene minuziosamente cartografata; l’occhio vi si muove per riconoscere nei simboli dei segni concreti. Occhio e parola collaborano allo scopo di «conficcare nello spazio più tempo possibile» (Presente, 263). Alla lettera, recuperare il “tempo materiale”. È su questo piano che la militanza di Vasta trova traduzione sulla pagina, tanto a livello tematico, quanto a livello metaletterario. Nel linguaggio si svolge il primo apprendistato dei ragazzini ideologici del Tempo materiale: la costruzione delle frasi diventa il loro modo di distinguersi da una civiltà che ha reso sterile la lingua attraverso l’ironia e la retorica. Il linguaggio è anche il tema centrale delle riflessioni dei “Giorgio Vasta” che parlano in Presente e Spaesamento: l’attento riconoscimento dei cortocircuiti tra politica, cultura di massa e costume nazionale, che hanno prodotto l’immaginario moderno, si associa sempre alla consapevolezza che è il linguaggio il mezzo attraverso cui questo immaginario si trasmette. E non si tratta di uno strumento imparziale: al contrario esso dice sempre la posizione morale di chi lo adotta. «Non è vero che la metafora è uno spazio neutro, strutturalmente innocente. Il linguaggio non è mai innocente. La metafora descrive di riflesso chi la inventa e la usa, ne fa un ritratto fedele» (Presente, 75). Il linguaggio è infine, nella vita “reale”, il «denominatore comune» dei lavoratori della conoscenza che hanno dato vita a TQ, che provano a dare alle parole una


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LUIGI RICCA, IL TEMPO MATERIALE, TUNUÈ

presenza fisica, che dia significato alla comune esperienza del presente. Quando Andrea Cortellessa, introducendo la sezione a dedicata a Vasta nel recente Narratori degli anni Zero (Ponte Sisto 2012), lo definisce «instancabile demiurgo delle nostre giovani lettere», non intende riferirsi solo alla sua attività di organizzatore culturale, di cui sopra s’è detto, bensì, e soprattutto, alla sua capacità di trasformare la pagina scritta nel luogo di un incontro e di uno scontro, di un’azione politica, a un tempo individuale ed esemplare. Nella scrittura la lingua del discorso analizzato, decostruito e interpretato si confronta con la lingua utilizzata per analizzare, decostruire e interpretare. Chi scrive, mentre

descrive i comportamenti linguistici, le deformazioni, le mistificazioni e le censure che il discorso contemporaneo implicitamente impone, avanza parallelamente il proprio modello. Alla devastante ironia con cui Berlusconi rende inutilizzabile il linguaggio, affermando al tempo stesso una cosa e il suo contrario (la politica delle battute e delle smentite), Vasta contrappone uno stile che tende alla distinzione, alla demarcazione degli spazi, alla definizione univoca dei significati. Tuttavia, di fronte a questa operazione di depurazione cartesiana si staglia un limite. I tre piccoli brigatisti elaborano un linguaggio gestuale che permetta loro di liberarsi dalla lingua abusata e fiacca della

comunicazione comune: l’alfamuto, alfabeto gestuale che risemantizza le pose più note della cultura mediatica, sembra poter incarnare il loro sogno di una nuova espressione, priva di ambiguità e capace di agire sulla realtà. E invece questo sogno si deve scontrare con i suoi corti orizzonti: mancano dei vocaboli, ci sono dei concetti che non si possono tradurre in segno. Allo stesso modo, in Presente e Spaesamento, la spietata analisi del linguaggio quotidiano, la nitida consapevolezza della reciproca, devastate influenza che esercitano pensiero “dialettale” e vulgata massmediatica, non rende l’io capace di intervenire, di contraddire. “Giorgio Vasta” rimane isolato e muto: ha distrutto il mondo

Orlando esplorazioni

verbale che detesta, ma non trova i termini per rifondarne un altro. «Io sono ciò che resta quando qualcosa finisce, quando non si trova il fiato, quando la scrittura sparisce» (Presente 78). Non è un caso se su tutti questi testi aleggia il senso di una sconfitta non rassegnata, ma inevitabile. È la sconfitta dei personaggi, di Nimbo, dei suoi compagni brigatisti, ma è soprattutto la sconfitta dell’autore e della figura che egli sa di incarnare: l’intellettuale. È proprio l’intellettuale il protagonista implicito di ogni discorso, di ogni riflessione, e compare in tutta la sterilità a cui lo condanna questo asfittico presente. L’intellettuale è come un padre putativo, desideroso di imporre la sua paternità al mondo eppure drammaticamente infecondo. Agogna una rivoluzione che gli restituisca la capacità di generare, di produrre, in primo luogo conseguenze. L’esplorazione narrativa di Vasta arriva a spiegare il motivo di questa drammatica sterilità e svela una paradossale complicità che questo intellettuale ha con il mondo: «siamo indistinguibili da ciò che pensiamo di contrastare» (Spaesamento 91). Egli ha riconsegnato un senso delle parole, ha recuperato la consapevolezza del linguaggio, ma continua a esprimersi nello stesso idioma della civiltà che vorrebbe zittire: «mi faccio complice silenzioso perché anche il silenzio, questo mio silenzio, fa parte del discorso» (100). L’esibita facoltà di comprensione si rivela un semplice alibi, tanto più dannoso quanto più appare credibile. S’impone un senso di colpevolezza e di impotenza: «questa intelligenza fa parte della resa» (107). Resta, tuttavia, lo spazio per la speranza di un’intelligenza «utile», che arrivi a riscattare l’attuale infecondità dell’uomo. E sono, inaspettatamente, delle bambine a farsene carico: c’è Wimbow, la ragazzina muta che nel Tempo materiale mette Nimbo di fronte alla violenza espressiva di un silenzio capace di dire ciò che le parole non riescono a dire; c’è la Stefi, bambina dialettale che riduce il mondo, con il suo ordine e il suo caos, in un semplice gesto; e c’è Marta, la «treenne» che in Presente insegna a “Giorgio Vasta”, con il suo italiano traballante, che le storie sono oggetti malleabili, forme mobili e mai definitive. Su di loro si dirige l’ultimo sguardo dello scrittore. Ammirato e disorientato, egli trova in queste bambine il luogo in cui il linguaggio viene sospeso e l’uomo riesce a ricostruire dei legami, evadendo dal proprio isolamento. Riconosce l’ingenuità e la delicatezza della loro azione rivoluzionaria, sa quanto poco basti a corromperle definitivamente. Ma decide ugualmente di investirle di «una fiducia incoerente e infondata… qui, nel cosciente disincanto» (118). Dalla loro capacità di violare ogni paradigma s’innesca una nuova tensione di cui investire la propria militanza. Nella loro capacità di continuare a generare storie Giorgio Vasta riesce finalmente a scrivere la possibilità di un futuro.

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PRIMAVERA 2013

RUBRICA MECCANICA E POESIA

a cura di LETIZIA LEONE

Leggere, smontare, pulire gli ingranaggi della lingua... Una rubrica dove, di volta in volta, i testi saranno il punto di partenza per una anomala “lezione” di poesia. Contatti: letizia.leone@fastwebnet.it

Chi nella no"e abita solo... C

onsideriamo un “io” radicato nell’oscurità, catapultato sul palcoscenico dell’età dell’indigenza da un endecasillabo dichiarativo: ...perch’io, che nella notte abito solo. Oscurità e solitudine, la condizione è questa: ...perch’io, che nella notte abito solo anch’io, di notte, strusciando un cerino sul muro, accendo cauto una candela bianca nella mia mente - apro una vela timida nella tenebra, e il pennino strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto che mi bagna la mente... Questo breve testo di Giorgio Caproni da “Il seme del piangere” (19501958), e comunque estrapolato da una lunga ed ininterrotta elegia dell’angoscia, basta già ad identificarlo quale poeta dell’orfanità e dell’esilio, di una condizione di spaesamento o del “non-

sentirsi-a-casa-propria.” La condizione è questa: abitare una stanza metrica di endecasillabi chiusi da un settenario e disegnarne il perimetro con cesure ed enjambements: una stanza infera di risonanze dantesche, dove si tocca il muro perimetrale della terra strusciando un cerino, cerino che due versi dopo rima con pennino, (perchè la rima instaura una complicità tra le parole), e nella ridondanza del segnale semantico lo “strusciare un pennino”, e cioè scrivere, significa accendere uno zolfanello nel nulla. Così prosegue l’enumerazione delle azioni esistenziali di questo malinconico che dimora nella notte: “accendere una candela” rima con l’aprire “una vela”, il tutto rotto dal singhiozzo del ritmo che spezza le frasi, si ferma, ci fa indugiare in un sospiro: apro una vela / timida. Ora il gesto è lento, quasi una violazione del silenzio e della tenebra, il gesto è cauto, con-

centra il suono in quella vocale a che sembra sprigionare chiarore. Inoltre ci vuole prudenza nel portare chiarità nell’abisso, il luogo umido e freddo dove il pennino scricchiola, scrive e riscrive in climax, e ancora in silenzio e a lungo per dire l’essenziale in una lingua semplice e colloquiale. Versi che si prestano ad una meditazione filosofica e ci pongono al centro di un pensare coinvolgente come quello di Heidegger, così prossimo alla modalità del fare poetico. Ecco, un filosofo o un poeta li troviamo in una posizione di ascolto, gravati dalla percezione della miseria di un’epoca che non riconosce più nessuna sopravvivenza storica allo Stupore. Se Heidegger nel suo incontro con l’angoscia, mette in scena un’ontologia dell’Essere, Caproni nel suo esibito distacco concettuale, sa mettere in versi di alta poesia questa condizione esistenziale dominante.

RUBRICA CAPITOLO IX

Deli"o e Castigo Scelto un po’ per caso, un po’ per coincidenza e un po’ per affetto, il Capitolo IX che dà il titolo a questa rubrica è un modo per entrare nello spazio letterario da una porta imprevista.

I

l celebre romanzo di Dostoevskij fu pubblicato per la prima volta nel 1866 e narra gli eventi che coinvolgono Rodjon Romanovic Ralskol’nikov, ex studente di legge che vive a Pietroburgo in condizioni di estrema povertà, in una stanzetta d’affitto che “rassomigliava a un armadio più che a una dimora”. È qui che lo troviamo al Capitolo IX; si tratta, in realtà, del capitolo II della seconda parte (il romanzo è composto da sei parti, ognuna contenente tra i cinque e gli otto capitoli, mentre l’epilogo ne ha due): l’ex studente, ora assassino e ladro, si sente braccato e, in preda alla febbre, esce precipitosamente per liberarsi della refurtiva rimediata in casa dell’usuraia che ha massacrato a colpi d’accetta, dimentico del suo proposito di utilizzarla per fini nobili; del resto, nemmeno guar-

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da di cosa si tratti, limitandosi a nascondere sotto un grosso masso gli astucci e il borsellino rubati. Bisognoso di distrarsi dal continuo monologo interiore che lo tormenta, insofferente alla folla e incapace di qualsiasi gesto coerente, si reca dal suo amico Razumichin, il quale, vedendolo stravolto e febbricitante, cerca di offrirgli aiuto; lui, però, dopo pochi minuti va via, senza fornire spiegazioni. Tornato a casa, o meglio, nella sua misera stanzuccia, crede di sentire la padrona che, sulle scale, viene picchiata; dal successivo dialogo con la serva Nastas’ja emerge tuttavia come si sia trattato di sue allucinazioni; e, alla fine del capitolo, perde conoscenza. Raskol’nikov compie il delitto del titolo non perché è malvagio, ma perché la sofferenza che l’ingiustizia della condizione umana gli procura è talmente grande da fargli desiderare di provare a porvi un rimedio. Nei primi capitoli, infatti, l’autore descrive l’esasperazione crescente del suo protagonista: conosce, in una bettola, l’ubriacone Marmeladov, la cui

L‘attimo autentico della “situazione emotiva” che dischiude alla consapevolezza dell’ “esser gettati nel mondo”, è esperienza che può anche investire un’epoca e una collettività, tanto che il filosofo dell’esistenzialismo individua tre situazioni emotive fondamentali nel mondo moderno: angoscia, sgomento, noia. Ombre pesanti che da sempre abitano la terra della poesia e ci fanno riconoscere, al contempo, Giorgio Caproni quale poeta necessario della modernità. Egli mette l’Essere al centro della notte, orfano della Storia, e in balia di quell’angoscia autentica che “isola e apre”, ma che sorprende anche e offre, quale unico strumento (o limite?) il linguaggio, nel gesto estremo della scrittura. Se l’ala della parola poetica, questa vela timida infine “guarisce le ferite inferte dall’intelletto”, come afferma Novalis, e avanza nell’ignoto di una mente al buio, allora schiude le sorgenti e può toccare i primi attimi dell’avvento della parola; per continuare a scavare e scrutare con occhio asciutto fino a raggiungere le fondamenta dell’Essere o il seme delle lacrime.

a cura di ILARIA MAZZEO figlia, Sonja, è costretta a prostituirsi per poter dare da mangiare ai suoi familiari; tornato a casa riceve una lettera dalla madre, in cui, tra le altre cose, gli viene comunicato che la sorella Dunja è stata promessa in sposa al ricco Luzin. Raskol’nikov, consapevole dell’amore incondizionato della madre e della sorella per lui, capisce che l’unico vero motivo del fidanzamento è da ricercare nella volontà di aiutarlo e, in generale, di risollevare la famiglia dalle difficoltà economiche in cui si trova; e questo non fa che alimentare la sua rabbia. Infierire a colpi d’accetta su una vecchia e malvagia usuraia (si tratta, in realtà, di un duplice omicidio: oltre ad Alëna Ivanovna, lo sventurato si trova a dover eliminare la mite sorella di lei, Lizaveta, rientrata a casa prima del previsto), derubandola e utilizzando quel denaro per realizzare obiettivi grandiosi, gli sembra allora, paradossalmente, un atto di giustizia, che lui è legittimato a compiere in quanto uomo superiore, che si eleva rispetto alla massa e può perciò infrangere le regole. L’esperimento di Raskol’nikov, però, non riesce: da subito il senso di colpa, che Dostoevskij è maestro a descrivere e scandagliare ben prima di Freud, è talmente forte da provocargli una feb-

bre che lo costringe a letto per diversi giorni, per poi spingerlo a comportarsi in maniera irrazionale e sconclusionata; così facendo, attira su di sé l’attenzione della polizia, iniziando ad essere sospettato. Dostoevskij ci trascina quindi nella spirale di crescente paranoia che affligge il suo protagonista, ormai conscio di non poter essere, come invece avrebbe voluto, un uomo superiore alle leggi valevoli per le persone comuni: l’angoscia lo devasta moralmente e fisicamente, portandolo a vagare senza alcun costrutto per una città che, specchio del suo essere, appare claustrofobica e opprimente. Raskol’nikov è impossibilitato a sentirsi a casa perfino dentro sé stesso e la via d’uscita dall’incubo che lui da solo si è costruito intorno è rappresentata dall’amore, in una duplice accezione: quello terreno per Sonja Marmeladova, che, pur costretta a prostituirsi, ha conservato un animo puro e una fede autentica; e, sempre attraverso di lei, l’amore per Dio, l’unico, nella visione dostoevskijana, a poter permettere una vera redenzione e, finalmente, la riconciliazione con il resto dell’umanità. A seguito della sua confessione, il ragazzo verrà condannato a otto anni di lavori forzati in Siberia, dove Sonja lo seguirà.


PRIMAVERA 2013

IL LESSICO DELL’APPUNTAMENTO

Franco Cordelli

Imparare dalle finestre D

a una larga finestra orizzontale si vede la città, più in basso, sotto i tetti diseguali di un quartiere riservato. Ma nelle ore del giorno fino al buio, in una sorta di veranda obliqua che concede allo sguardo due pareti a vetri, c’è una classe di studenti seduti ai banchi e una maestra intorno, diversa ognuna: quella che resta seduta in cattedra e non muove che i muscoli del viso per parlare, quella dinamica e svagata che passa avanti e indietro tra le file composte, quella volitiva alla lavagna che parla con il gessetto in mano, un po’ per leziosità, un po’ perché forse la maestra conosce il potere della forma negli ingranaggi dell’intelletto, compone immagine concreta perché l’immagine evocata s’imprima sulla superficie intatta dell’attenzione. «Ecco vedi, qui ci imparo un sacco di cose – mi dice lo scrittore Franco Cordelli raggiungendomi alle spalle, affacciato alla finestra di casa sua – sulle donne, una delle grandi passioni della vita», aggiunge ed è forse tardivo il vezzo di sarcasmo con cui s’accompagna, ma tanto basta ad accompagnare me fino alla stanza deputata all’accoglienza. Impara in finestra, Cordelli. Chi avrebbe detto non fosse dai libri. Eppure i libri, i libri sono una moltitudine seriale incastonata alle pareti, sembra siano come parte delle stesse, fondamenta portanti della casa in cui, quasi da sempre, egli vive. E scrive. Ed è quasi lo stesso. In un suo articolo di pochi giorni prima avevo letto, a proposito del Limonov di Emmanuel Carrère: «il punto è che scrittore, ovvero che uomo egli sia»; non mi stupì questa concordanza che riconosce nella scrittura una prossimità all’esistenza, la rivedo in questa casa in cui m’ero introdotto già una volta, animato allora da una deferenza più titubante, scoperta nel tempo affinità, dove è tutto come lo ricordavo: il panno verde da giocatore d’azzardo sul tavolo quadrato, gli occhiali da vista lasciati in equilibrio di fianco a un libro, uno dei tanti, un carattere di sobrietà investe le tinte e gli accessi di luce. Mi dice Io non vivo come uno scrittore, non so come

vive uno scrittore, ed è allora che diventa chiara quella contiguità: non si vive da scrittore, si scrive come si desidera vivere. O come non si è stati in grado, di vivere. «Appena laureato nell’estate del ‘69 – racconta – Elio Pagliarani che era il mio capo a Paese Sera mi invitò a Procida. Andammo in macchina fino alla nave, io Pagliarani e Toti Scialoia che fece tutto il viaggio recitandoci le poesie di Sandro Penna. Dovevamo starci una decina di giorni ma dopo tre mi sentivo costretto, come fossi al militare e io ho sempre avuto terrore degli ordini e della burocrazia. Così tornai subito a Roma. Ma quei giorni sono stati importanti al punto che, non avendolo progettato e sentitomi finalmente libero dalla costrizione, iniziai a scrivere Procida, il mio primo libro, inventando di esserci andato in viaggio per ritirarmi dal mondo, per non sentire più quella costrizione degli altri: la stessa cosa e il contrario della realtà». Eppure i libri, i libri scritti sono quasi sicuro non li tenga in mezzo a quelli degli altri ma di là, nella “stanza delle cose morte”, la chiama, quella dove c’è la macchina da scrivere che non usa se non per articoli su materie con cui non ha intimità, cui non è interessato. Il resto lo scrive a mano, velocemente. Mezz’ora per un articolo. Neanche un mese, per un primo manoscritto. Poi per correggere, riscrivere possono passare anche anni, ma la prima stesura arriva da una sedimentazione lentissima e quasi in-

cosciente, una materia fredda che si appressa all’espressione: «La scrittura è per me un fenomeno geologico – mi dice – che nasce da un accumulo insensibile e poi erompe in materia incandescente; la cosa difficile è saperla controllare e dargli una direzione». Ma nonostante questo la scrittura resta un processo di durata che continua anche oltre il tratto della penna, quando arriva il momento della consapevolezza in cui l’informe arriva al compimento della forma. Forse è quello il tempo in cui davvero si scrivono libri, quando a farlo non è un artista – «parola che mi dà molta noia», mi dice – ma uno scrittore, uno che pone a disciplina la sua vita per una regola intima che corrisponda alla propria idea di libertà, la misuri alle parole come proiezione di sé oltre sé, sul foglio, scritta a penna che è come farla sanguinare in un carattere griffato, di pura appartenenza. In quella regola sono passati otto romanzi, ognuno senza coscienza di averne mai scritti altri, prima, ma tutti figli di quell’eruzione spontanea che fatalmente s’aggrega. Eppure i libri, i libri furono prima sui banchi di scuola, quella Coscienza di Zeno letta per uno sfrontato rifiuto durante le lezioni del Liceo Tasso, poi in una libreria ventosa e fredda nel sottopassaggio di Piazza del Popolo, di fronte al caffè di cui ricorda più che della libreria: «Era il posto in cui soggiornavo, dove ricevevo gli amici.

Orlando esplorazioni di SIMONE NEBBIA

Potevo farlo perché il libraio con cui lavorare era il più amico dei miei amici». Ci sono finiti quasi tutti, poi, sugli scaffali che ora circondano le parole, i pensieri di cui sono già intrisi. «Ma non sono un collezionista – mi dice – ho maturato nel tempo un particolare approccio: ad esempio se tu adesso mi nomini un libro e mi dici che l’hai letto ieri, se io non l’ho letto e non ce l’ho mi stresso, lo voglio subito leggere anch’io: sono un imitatore, forse bulimico, che vuole impossessarsi di tutto, sapere tutto. Allora esco e me lo vado a comprare, se non lo trovo divento pazzo. Ho bisogno di toccare con mano, possedere. Ma può essere che poi non me ne frega più niente». Conquista, e riconquista. Come se tutti i libri lì attorno non fossero i suoi ma lo diventassero nel momento in cui qualcuno, soltanto leggendolo inconsapevolmente il giorno prima, tenta di sottrargli il suo strato più intimo. «In realtà questa imitazione è un atto primitivo – aggiunge – arcaico: tu vuoi fare come hanno fatto i tuoi avi, il vero atto di lettura è per capire com’è il mondo, per capire nel modo più sintetico dove sei e chi c’è intorno a te, chi prima e chi dopo», ma non per semplice atto di possesso, per avere «l’essenza spirituale posseduta da un altro, la stessa imitazione che appartiene alla scrittura». Conquista, e riconquista. Uscendo ritorno verso la finestra da cui Cordelli “impara”: una maestra in piedi di fianco alla lavagna sta parlando agli scolari, tramanda loro un atto primitivo, instilla nella loro conoscenza un’essenza spirituale, traccia ai loro occhi com’è fatto il mondo. Oltre il vetro di una finestra orizzontale, le grandi passioni della sua vita. Franco Cordelli ha appena compiuto settant’anni. Nato a Roma nel 1943, è una firma storica del “Corriere della Sera”, per cui si occupa di critica teatrale e letteraria. Tra i suoi libri, Procida (1973), Partenze eroiche (1980; Gaffi 2013), Pinkerton (1986), L’Italia di mattina (1990; Perrone 2009), Il duca di Mantova (2004), La marea umana (2010). Di Cordelli, Simone Nebbia ha curato insieme ad Andrea Cortellessa Declino del teatro di regia (ebook Doppiozero.com).

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Orlando esplorazioni

PRIMAVERA 2013

C’ERANO UNA VOLTA (LE RIVISTE)

Periodo Ipotetico G

rande Rosso, l’opera di Alberto Burri, è del 1964. Qualche anno dopo, nel 1968, per Feltrinelli viene pubblicata la Lezione di Fisica e Fecaloro di Elio Pagliarani, una raccolta di poesie “fuori formato”, dalla copertina rosso scuro. Nel 1977, per le edizioni della Cooperativa scrittori, Pagliarani pubblica Rosso corpo lingua oro pope papa scienza. Ecco se si dovesse cercare un colore per descrivere gli anni Settanta e l’aura che li precede fino a spingersi in quelli del Boom conclamato, questo colore è indubbiamente il rosso, vessillifero di lotta e speranza, di passione e di impegno, non solo politico. E rossa, di un bel rosso brillante, è la copertina del primo numero di Periodo ipotetico, rivista oramai rarissima nel mercato dell’antiquariato – ancora più raro il numero uno, “in attesa di registrazione” – dal formato tascabile e snello, caratteri da stampa quotidiana e impaginazione e colonne, titoli e parole strillate, fotografie in bianco e nero. Le riviste certo raccontano la storia. Alcune di più e altre meno. Periodo ipotetico è fra quelle che più la raccontano; racconta, cioè, cos’è che volevano, facevano, pensavano ed agivano gli scrittori e gli intellettuali italiani degli Anni Settanta non tutti organicamente legati all’azione politica, quello che pensavano “ipoteticamente” nella sottile linea di confine fra l’avanguardia letteraria, già esplosa ed epigonicamente esaurita, e il fare, fra l’esperienza di Quindici e quella di Che fare. Per avere un’idea di chi fosse il suo direttore, Elio Pagliarani (1927-2012), basta andare a pagina 45-46, alla rubrica Pastone: quattro argomenti di attualità economica, storica e sociale, trattati con la solita penna giornalisticamente incisiva e graffiante, Svalutazione della lira?, Postelettorale, Il Secondo bollettino della Vittoria, Visitatore apostolico, Lo strega a Piovene. Non solo poesia o scrittura: l’economia, la quotidianità politica e partitica, la Chiesa come una delle organizzazioni protagoniste sulla scena mondiale. Il compito di parlare del genere rivista è lasciato a Gianni Celati che lo affronta in modo splendido e ancora drammaticamente attuale rinviando ad una struttura aperta, de-gerarchizzata, precaria, provvisoria e in continua discussione, basata sulla “priorità dell’invenzione strategica momentanea sulle strutture permanenti, e infine sulla scarsa drammaticità di tutto questo” Rivista come opera aperta? Rivista di informazione dissacrazione? Sicuramente di un’informazione diversa e senza limiti, basta scorrere le firme e gli argomenti

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trattati in questo primo numero, si va da Carlos Franqui con Cultura borghesia e rivoluzione a Jacquelin Risset, sul lavoro di Tel Quel e il feticismo del testopassando per i Carmina priapea di Nino Massari all’industria militare italiana di Gian Luca Devoto e non possono mancare né Angelo e Guido Guglielmi (rispettivamente con Folla alla mostra di Klee e Letteratura e/o rivoluzione). Rivista coraggiosa che pubblica nel secondo numero gli Atti del Tribunale di Milano relativi alla morte di Pinelli insieme a recensioni di film e teatrali di Alberto Abruzzese e Franco Cordelli, testi creativi di autori come Giulia Niccolai e Michele Perriera in quella ricercata rottura di ambiti e di spazi che, da sempre, contraddistingue

la militanza culturale delle avanguardie. Dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, nel 1972, con un massimo di anticonformismo e di pragmatismo socialista Pagliarani così parla dell’attualità politica e movimentista nel suo editoriale di apertura: “Ma non pochi continuano a intendere l’azione politica come rivolta al conseguimento della palingenesi, la quale non solo non è mai esistita e non esiste, ma viceversa funziona in negativo, fa da Fata Morgana, abbacina i viandanti, facilita ai fascisti l’esplosione di Segrate; Feltrinelli ci perde la vita; il senso della sua vita assume un rigore una tensione massima: ma rimane autolesionistico e non esemplare. Una tragedia autentica, coi piani che pure non incontrandosi producono attrito , e sanguinosamente”. Nei numeri successivi l’attenzione è rivolta ad Umberto Eco, a Roland Barthes, alla letteratura fantastica (Giorgio Pa-

di CETTA PETROLLO PAGLIARANI trizi, A proposito della letteratura fantastica) a Hausmann e Dada (Carlo Alberto Sitta su Jean Francois Bory, Prolegomenes à une monographie de Raoul Hausmann) con pubblicazione di testi creativi importanti, dello stesso Pagliarani (Dalla Ballata di Rudi, Ipotesi sul nostro) a esordienti eccellenti come Valentino Zeichen ( Delle acque minerali) pur senza trascurare argomenti politici e sociali (Ellis Donda, Ciò che resta di Trento, Milton Leitemberg, Vietnam: statistiche di una guerra) L’ultimo numero, il 10/11 del gennaio 1977, si apre con un intenso editoriale in cui Pagliarani afferma e sostiene il ritorno della poesia. Sono gli anni dei suoi primi Laboratori ma anche quelli delle librerie specializzate sulla poesia, dei fogli volanti venduti nelle strade limitrofe alla romana Città universitaria della Sapienza mentre gli indiani Metropolitani, emuli del Sessantotto, occupano aule e Facoltà. Tutto, quindi, solo nelle mani del Movimento? No, Pagliarani ipotizza un certo spazio, uno spazio che “permette una qualche attenzione al farsi poetico”. Sullo specifico poetico, sulla capacità della lingua poetica di farsi etica del coraggio vitalizzando e attivando, col corpo della lingua, anche lo stesso corpo umano si addensano i contenuti di quest’ultimo della rivista che si apre con lo straordinario Emilio Villa di “O lombard, corp lombard”. Seguono poi, in una carrellata dei tutti i più significativi poeti contemporanei, anche esordienti, uno straordinario Adriano Spatola (Per Jean – Clarence Lambert, La macchina cufica), un Corrado Costa altrettanto vitale (Il Titolo lo mettiamo dopo, Dove va, Differenze fra due disegni uguali, Facciamo i conti), Luigi Ballerini (Frammenti dell’onomaremalogos), Nanni Cagnone, Tommaso Kemeny, Franco Rella, Renato Aymone, Sergio Derisio, Milo de Angelis, Michelangelo Coviello, Gregorio Scalise, Dario Capello, Gino Scartaghiande, Tommaso Di Francesco, Antonio Valentini, Carlo Bordini, Luciano Testa, Fernando Mottola, Antonio De Rose, Guido Galeno, Danilo Plateo, Chiare Scalesse e Valerio Magrelli. Se uno dei valori che può dare una rivista è quello di fare sentire il colore e la dimensione della storia passata, così com’essa è stata vissuta e agita dai suoi protagonisti, ecco questo Periodo Ipotetico in bilico fra l’ostentazione del rosso politico e l’orgoglio dei linguaggi – non solo poetici ma anche politici ed economici e filosofici - rappresenta in modo palpabile un momento della storia di quegli intellettuali italiani che furono disorganici ai partiti della Sinistra pur sempre rimanendo consapevoli delle potenzialità del movimento e soprattutto di quelle dell’azione rivoluzionaria e vitale del mestiere “poesia”.


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