Rivista Orlando N.8

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ORLANDO 8 AUTUNNO/INVERNO 2015/2016

Orlando esplorazioni COPIA OMAGGIO

ILLUSTRAZIONE DI DAVID PARENTI

www.orlandoesplorazioni.com

Orlando Esplorazioni

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Pasolini

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Poesia in forma di cosa


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Orlando esplorazioni

AUTUNNO-INVERNO 2015/2016

COLOPHON Questo numero di Orlando Esplorazioni, dedicato a Pier Paolo Pasolini, a quarant'anni dalla morte (1975-2015), è a cura di Francesca Santucci, classe 1991. La maggior parte dei contributi è affidata ad autori e studiosi nati dopo il 1985: un modo per vedere come Pasolini viene letto da chi è nato nel tardo Novecento, al riparo da schemi ideologici e formule critiche logore. (PDP)

CHI HA SCRITTO PER QUESTO NUMERO DI ORLANDO

I POETI

HANNO ILLUSTRATO QUESTO NUMERO DI ORLANDO

ANGELA BUBBA, nata a Catanzaro nel 1989, ha pubblicato i romanzi La casa (Elliot, 2009) e Malinati (Bompiani, 2012). ALEXANDRA CENSI, nata in Ungheria nel 1990, si è laureata a Roma Tre con una tesi sul maledettismo metrico, Pasolini maledettissimo, gli sventramenti romani. Ha pubblicato con Nottetempo La risata dei mostri. ALESSIO DIMARTINO (1982) ha pubblicato con Perrone i romanzi C’è posto tra gli indiani (2014) e Il professore non torna a cena (2012). CIRO GAZZOLA è nato venticinque anni fa a Bassano del Grappa. Laureato in Filologia Moderna all’Università di Padova, è stato vincitore del Premio Campiello Giovani 2010 e finalista, in Francia, del XIX° Prix de la Nouvelle. GIORGIO GHIOTTI, Roma 1994, ha pubblicato Dio giocava a pallone (Nottetempo, 2013). In uscita Estinzione dell'uomo bambino (Perrone). Scrive per l’Unità. MARGHERITA GRAVAGNA (Catania, 1989) attrice e autrice di testi poetici e teatrali. Laureata in Teoria della Letteratura presso l’Università di Siena con una tesi dal titolo Vittorio Sereni – Il teatro dell’interiorità. Vincitrice nel 2011 del Premio Renato Fucini per la sezione Sonetto. MICHELA MONFERRINI (Roma 1986) ha pubblicato per Mondadori Chiamami anche se è notte (2014). Il suo libro più recente è Grazia Cherchi (Ali&No 2015). GIULIO CARLO PANTALEI (1990) si è laureato in Italianistica all’Università di Roma Tre dopo aver vinto una borsa di ricerca alla University of Oxford. Chitarrista e cantante, ha da poco registrato una Sunday Blues Session con Carlo Verdone. JACOPO RASMI (1991) è dottorando all’Université Grenoble Alpes (teoria ed estetica dei media: cinema/letteratura). Animatore della rivista Sugli alberi, della casa di auto-edizione artigianale Ludoteca, del laboratorio video-creativo Iriderede. FRANCESCA SANTUCCI (1991) vive a Siena, dove si è appena laureata con una tesi sull’opera di Valerio Magrelli. È stata più volte finalista al Premio Campiello Giovani e al Premio Chiara Giovani. FRANCESCO ZANI (Cesena, 1991) laureato in filosofia, si sta specializzando in Editoria e Scrittura alla Sapienza. Ha scritto due libri per Italica Edizioni, è giornalista pubblicista. ALMA GATTINONI e GIORGIO MARCHINI si occupano di letteratura e arte, hanno pubblicato Il libro dipinto (Periplo 1998) e, insieme a P. Di Paolo, Piccola storia del corpo (Perrone, 2013). PAOLO TABACCHINI (1987) si è laureato in filologia moderna presso l’università di Roma “La Sapienza”. Ha lavorato nell’educazione e collabora con varie realtà locali nella promozione e nell’organizzazione di eventi culturali. FRANCESCA TOMASSINI, nata e cresciuta a Roma, da sempre appassionata di letteratura, cinema e teatro, classe 1986, è dottore di ricerca in Italianistica. Si è occupata principalmente di letteratura italiana contemporanea, con particolare attenzione al teatro in versi del Novecento e alla sperimentazione teatrale di Pasolini. MASSIMO TURTULICI vive e lavora a Roma, lettore vorace, si occupa prevalentemente di letteratura e musica, scrive febbrilmente romanzi e soprattutto racconti, alcuni inseriti in diverse raccolte della Giulio Perrone Editore, collabora assiduamente con Orlando. CATERINA MONGARDINI (Roma, 1994), studentessa di Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Roma Tre.

DINA BASSO è nata nel 1988 ed è cresciuta a Scordia (CT). La sua opera prima è la raccolta Uccalamma — Bocca dell’anima (Le Voci della Luna, 2010), premiata in vari concorsi. Nel 2013 pubblica con le edizioni Isola la silloge Cosa inutile illustrata da Elena Guidolin e nel 2015 esce nel Quadernario, a cura di Maurizio Cucchi, la silloge L’ossa muti. FABIO FRANZIN è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. È redattore della rivista di civiltà poetiche Smerilliana. Ha pubblicato tra l’altro: Il groviglio delle virgole, Stamperia dell’arancio, 2005 (premio Sandro Penna), Pare (padre) Helvetia, 2006, Canti dell’offesa, Il Vicolo, 2011, Margini e rive, Città Nuova, 2012, Bestie e stranbi, Di Felice (I poeti di Smerilliana), 2013, Fabrica e altre poesie, Ladolfi editore, 2013, Sesti/Gesti, Puntoacapo, 2015. ANDREA LONGEGA è nato a Venezia nel 1967 e vive a Murano. Ha pubblicato tra l’altro: Ponte de mèzo (Campanotto, 2002), Fiori nòvi (Lietocolle, 2004), El tempo de i basi (Edizioni d’if, 2009), Finìo de zogàr (Il ponte del sale, 2012), Caterina (come le cóe dei cardelini) (Edizioni l’Obliquo, 2013) e la plaquette Primo lustro (Nervi Edizioni, 2015). VINCENZO MASTROPIRRO (Matera 1960) è di Ruvo di Puglia (Ba), vive a Bitonto. Flautista, compositore, poeta, didatta. Ha suonato per importanti teatri e sale concertistiche in Italia e all’estero; A settembre 2015 gli è stato conferito il Premio Lerici/Pea, Sezione Poesia in dialetto “Paolo Bertolani”. Sito internet www.vincenzomastropirro.it ENRICO MELONI, laureato in Storia moderna e in Documentazione, insegna materie letterarie nelle scuole secondarie statali. Ha pubblicato il romanzo TrePadri (2002), la silloge poetica Arca allo sbando? (2004), il poemetto dialettale Er davenì (2007), il romanzo Quando gli squali mangiano vento (2012) e la raccolta di poesie in dialetto e in lingua Fratelli mia (2015). EMILIO RENTOCCHINI è nato a Sassuolo nel 1949. Ha pubblicato tra l’altro Ottave (Garzanti, 2001), Giorni in prova (Donzelli, 2005), Del perfetto amore (Donzelli, 2008), Stanze di confine (Il Fiorino, 2014). ANNALISA TEODORANI è nata Rimini nel 1978, vive a Santarcangelo di Romagna. Esordisce nel 1999 con la raccolta di versi in dialetto romagnolo Par sénza gnént, Rimini, Luisè cui fanno seguito La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004 e Sòta la guàza (Sotto la rugiada), 2010 entrambe per i tipi del Ponte Vecchio di Cesena con cui, nel 2013, dà alle stampe la seconda edizione del libro d’esordio. Nel 2014 esce per i tipi di Carta Canta editore, Forlì, La stasòun dagli amòuri biénchi (La stagione delle more bianche).

DAVID PARENTI, nato a Genova, ha lavorato su grandi figure della cultura come Fellini e Pasolini e del cinema come Marlon Brando e James Dean. Ha esposto sue opere in tutto il mondo. Sono sue le illustrazioni di p. 1, 7, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19. LUDOVICA VALENTINO per “Culturificio”. MARCO GATTA, progetto fotografico Pasolini.

Rivista quadrimestrale diretta da PAOLO DI PAOLO www.orlandoesplorazioni.com facebook.com/OrlandoEsplorazioni rivista@orlandoesplorazioni.com Art director DARIO MORGANTE

Staff editoriale GIORGIO BIFERALI OLGA CAMPOFREDA MASSIMO CASTIGLIONI MARIACARMELA LETO MICHELA MONFERRINI GIACOMO RACCIS

Prodotta da GIULIO PERRONE EDITORE

www.giulioperroneditore.com Redazione c/o Giulio Perrone Editore Via Squarcialupo 14 00162 Roma tel. 06 97605054 Stampata nel novembre 2015 presso Cimer Snc Via Marcantonio Bragadin, 12 00136 Roma

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LUDOVICA VALENTINO PER “CULTURIFICIO”

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RISVOLTI PASOLINIANI

di CIRO GAZZOLA

La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi. P.P. PASOLINI i immagini un passante – magari un nuovo arrivato a Roma, un taldei-tali che non conosce la città. Si è perso, ha ricevuto delle informazioni poco precise da un’amica che doveva incontrare dieci minuti fa e che ora lo sta aspettando un po’ preoccupata un po’ infastidita davanti i cancelli del Parco del Torrione. Ora, questo sconosciuto perso nell’immensità capitolina sta percorrendo via Fanfulla da Lodi, senza sapere che il suo obiettivo (il parco, s’intende, ma chissà, forse anche l’amica che deve incontrarvi davanti) è a poche centinaia di metri. D’improvviso, all’altezza di via Fortebraccio, sente una strana sensazione saltargli fra le scapole, come il sospetto di essere osservato da occhi indiscreti; il nostro passante si volterà, allora, e lì, in alto fra i palazzi del Pigneto, si vedrà in effetti osservato da un occhio scrutatore: l’occhio di Pasolini, per la precisione.

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Perché Pasolini, a Roma, è un po’ dappertutto. Immagini e murales sparsi come simulacri per la città e i dintorni, reinterpretazioni di quello che è stato l’uomo, l’artista, Pier Paolo Pasolini. Nicola Verlato l’ha omaggiato in via Galeazzo Alessi 215 con Hostia, un “affresco” già definito la “Cappella Sistina di Tor Pignattara”, mentre in via dell’Arco de’ Cenci si può ammirare una splendida “pietà laica” in cui il poeta – vivo – sostiene fra le braccia il suo se stesso assassinato. Ad Ostia s’ammira il Pasolini metà uomo/metà supereroe firmato da Mr. Klevra e Omino71 (già autore, fra l’altro, del murales Io so i nomi, anche questo in via Fanfulla da Lodi, anche questo raffigurante un Pasolini mascherato in stile Captain America). Anche il mondo dei fumetti, d’altronde, si è occupato di P.P. Pasolini: Davide Toffolo, cantante e chitarrista dei Tre allegri ragazzi morti nonché fumettista di valore, gli ha dedicato uno splendido volume – un’intervista tanto impossibile quanto attuale, perché le parole di Pasolini restano, in maniera quasi inquietante ma certo stupefacente, vere (anzi, forse Pasolini m’avrebbe e si sarebbe corretto, lui avrebbe detto evidenti) ancora oggi. E ancora, a pochi mesi dalle nuove dichiarazioni di Pelosi, nel maggio 2005, Gianluca Maconi gli ha dedicato un romanzo a fumetti intitolato Il delitto Pasolini in cui ricostruisce gli avvenimenti della giornata dell’omicidio, dall’intervista rilasciata a Furio Colombo passando per la cena con Ninetto

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Davoli fino ad arrivare alla tragica fine conobbe, dal sapere di chi ne ha raccontato le vicende, dalla perizia di chi ha all’Idroscalo di Ostia. raccolto e studiato le ventimila pagine INSOMMA, se Pasolini e il suo pensiero delle sue opere, o restaurato i suoi film, non smettono di essere al centro dell’at- o vagliato, cercando di smascherarle, le tenzione accademica, la sua figura pare ricostruzioni ‘ufficiali’ del suo assassiaver guadagnato un ruolo di spicco an- nio”, scrive ancora Frabotta; ed ha rache nell’immaginario popolare, tanto gione: Pasolini ha subito, più di qualunche, come giustamente scriveva Bian- que scrittore o intellettuale italiano camaria Frabotta nel novembre 2005, novecentesco, un processo di sacralizsi può ormai parlare di un “pasolinismo zazione che si è impossessato della sua di massa”. Sarebbe allora interessante immagine e l’ha trasformata in un simcapire da dove viene questo interesse, da bolo della “verità uccisa”. Tale sacralizquali semi è sbocciato, e perché, e in che zazione è stata certamente frutto non forme. Certamente alla sua base non soltanto del mistero che s’intreccia alle può che esservi una certa dose di miste- vicende pasoliniane, ma anche di un inro, quel mistero che ha circondato la vi- discusso “fascino” esercitato dal corpo ta – e la morte – del poeta bolognese. Io dell’intellettuale: il suo volto, la sua eleso, scriveva Pasolini sul Corriere del 14 ganza, i suoi occhi, tutto un insieme di novembre 1974. Un anno dopo, stesso caratteristiche fisiche che hanno avuto giorno, sull’Europeo, anche Oriana Fal- un certo peso nel suo elevarsi e fissarsi laci gridava che c’era un’altra verità sul- come “icona” del Novecento. Non è un la morte, e lei sapeva. Ed il punto, forse, caso, da questo punto di vista, che David è proprio questo: la verità. Anzi, il mi- Diavù Vecchiato lo abbia inserito in una stero che ammanta tutte le verità che serie di murales intitolata Melting icons Pasolini avrebbe conosciuto. Il mistero a fianco di Mario Monicelli, Anna Madei nomi taciuti, dei capitoli scomparsi, gnani, Sergio e Franco Citti sui muri deldegli assassini – e, forse, dei mandanti l’ex-Cinema Impero in via dell’Acqua Bullicante 121. – sconosciuti. Non è un caso, allora, che la rappresentazione pubblica di Pasolini sia spesso MA QUAL È il risultato di tale operafatta di riferimenti all’ambito sacrale. zione di sacralizzazione, che è, nel caso Dai murales che richiamano voluta- del poeta, anche un’operazione di bamente opere sacre o immagini supero- nalizzazione? “Poniamo” – dice il permistiche fino ai fumetti in cui Pasolini sonaggio Pasolini nel fumetto di Macoè trasfigurato in una sorta di agnello sa- ni – “che dopo la mia morte qualcuno scriva di me. Scriverà davvero di me, o crificale. “È come se il ‘problema Pasolini’, il va- mi utilizzerà come filtro per le sue lore della sua poesia, la sua fame di re- idee?”. Quello a cui assistiamo è in efaltà, il suo volto, la sua protesta, le sue fetti un appropriamento dell’immagine denunce, la sua morte violenta, si fos- e del corpo di Pasolini, ancor più che del sero ormai scollati dai ricordi di chi lo pensiero; ma a che pro quest’appropria-

zione? L’immagine mediata di Pasolini diventa, in fondo, un simbolo per chi ricerca la verità di questo paese, un po’ come la maschera di Guy Fawkes è divenuta un simbolo di ribellione e opposizione, seppur tale ribellione sia ben lontana sia dalla realtà storica di Fawkes che dalla graphic novel che ha creato tale simbolo, c’est-à-dire “V for Vendetta”, capolavoro a fumetti di Alan Moore e David Lloyd. Dunque, se quest’intuizione può essere almeno parzialmente esatta, dovremmo accettare che Pasolini abbia, pur in maniera mediata, lasciato alla nostra modernità qualcosa che va oltre il suo pensiero, i suoi testi, le immagini dei suoi film e i versi delle sue poesie. Ma cos’è questo qualcosa? Nient’altro che un altro modo di opporci, di accorgerci dei pericoli, di cercare – sempre e costantemente – la verità dietro le menzogne. Perché forse Pasolini è molto, troppo, per essere spiegato univocamente. E anche la sua immagine, l’immagine e la sua rappresentazione, sono una parte fondamentale per spiegarne e comprenderne, a brani e bocconi, la carica rivoluzionaria e oppositiva rispetto al sistema. Biancamaria Frabotta paragona Pasolini a Orfeo fatto a pezzi dalle Baccanti, senz’altra protezione che la propria lira. Così davvero quell’immagine che perseguitava Moravia di Pasolini che fugge “inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso” rimane ancor oggi “un’immagine che deve spingerci a migliorare questo paese come Pasolini stesso avrebbe voluto”.

Riferimenti per l’articolo di BIANCAMARIA FRABOTTA, Pasolinismo di massa: http://www.pasolini.net/notizie_pasolinismodimassa_frabotta.htm per l’intervista di FURIO COLOMBO a Pier Paolo Pasolini: http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-a-pier-paolo-pasolini/ per l’articolo di PIER PAOLO PASOLINI, Cos’è questo golpe? Io so: http://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html per l’articolo di ORIANA FALLACI, Pasolini ucciso da due motociclisti?: http://www.archivio900.it/it/articoli/art.aspx?id=5725 per il discorso di ALBERTO MORAVIA al funerale di Pier Paolo Pasolini: http://www.raistoria.rai.it/articoli/moravia-orazione-funebre-per-pasolini/11577/default.aspx per la trascrizione del discorso di ALBERTO MORAVIA: http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?sto-

ryId=4e7b5d05944c9 PER I FUMETTI CITATI: DAVIDE TOFFOLO, Intervista a Pasolini, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2002; GIANLUCA MACONI, Il delitto Pasolini, Ponte di Piave (TV), Beccogiallo Editore, 2005; PER I MURALES CITATI: MAUPAL, Lo Sguardo (Roma, via Fanfulla da Lodi): http://www.maupal.com/#!pasolini-at-via-fanfulla-da-lodi/zoom/c1goq/i129j0 MR. KLEVRA & OMINO71 (Ostia, C.F.P. Pier Paolo Pasolini, via Baffigo 143): http://www.isupportstreetart.com/wp-content/uploads/2015/05/Panoramica-Omino71-MrKlevra-Jerico-fotoby-MrKlevra.jpg

OMINO71, Io so i nomi (Roma, via Fanfulla da Lodi): http://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/08/Omino-71-Io-so-i-nomi-2014-via-Fanfulla-da-Lodi-Roma-photo-Giorgio-Benni.jpg ERNEST PIGNON-ERNEST, Pietà di Pasolini (Romi, via dell’Arco de Cenci): http://www.artribune.com/wpcontent/uploads/2015/08/La-Piet%C3%A0-di-pasolinisecondo-Ernest-Pignon-Ernest-2.jpg DAVID DIAVÙ VECCHIATO (Roma, ex-Cinema Impero, via dell’Acqua Bullicante 121): http://www.artribune.com/wpcontent/uploads/2015/08/Diav%C3%B9-Pasolini-tra-i-ritratti-allex-Cinema-Impero-2.jpg NICOLA VERLATO, Hostia (Roma, via Galeazzo Alessi): http://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/04/Nicola-Verlato-Hostia-2015-e1429889589648.jpg

PANORAMICA OMINO71 MRKLEVRA JERICO FOTO BY MRKLEVRA

Pasolini, a Roma, è un po’ dappertutto


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RICOGNIZIONI

di GIORGIO GHIOTTI

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ui muri di molti quartieri romani sono comparsi, agli inizi di giugno, dei manifesti in bianco e nero raffiguranti Pasolini, in piedi con lo sguardo fisso su chi lo osserva, a sostenere tra le braccia un Pasolini morto, inerme, come un Cristo. La pietà di se stesso. Mi sono allora ricordato di quella scena dal romanzo Petrolio in cui Carlo vede per strada il suo corpo morto. Quell’immagine si è letteralmente moltiplicata per i quartieri romani: ce n’è una a piazza san Callisto, una a piazza Testaccio, una vicino a via Marmorata. A VIA MARMORATA ho lavorato per due mesi, la scorsa estate, come cameriere in un ristorante cinese, sono stati mesi di grande allegria. Avevo un romanzo da chiudere, ma anche pochissimo tempo per via del lavoro, così ho imparato a disciplinare quel tempo. Sono stati davvero mesi felici, ero l’unico italiano e ho fatto amicizia con quattro camerieri cinesi un giapponese e un ragazzo del Bangladesh, recitavo loro versi di Patrizia Cavalli dei quali a fatica coglievano il senso mentre pulivamo le sale (immense, dato che prima di essere un ristorante cinese era stato un deposito per barche), e versi di Pasolini. A loro piaceva molto la musica di quei versi. Una volta Mia, il ragazzo del Bangladesh che l’italiano lo intendeva benissimo, mi disse: “Forte ‘sta Cavalla! Pasolino pure, fortissimo! L’hanno mazzato, ve’?” E io non sono riuscito a trovare subito una risposta perché i suoi versi erano lì, tra noi, nell’aria fritta di springrolls, di anatra alla pechinese, vivi, e lui dov’era invece? “Sì Mia, lo hanno ammazzato”, “Poraccio”, e fraternamente mi ha chiuso in un abbraccio, “mi dispiace Ciccio, dopo ti offro sigaretta”. La sua divisa aveva un odore forte di sudore, un odore che in poche settimane imparai a riconoscere amico. Sono certo che Pasolini avrebbe amato quel ragazzo dagli occhi scuri e dalla parola sincera, le braccia forti e il fumo a riempirgli la bocca, uno sputo in terra. CON UNA PARTE dello stipendio da cameriere ho comprato in una libreria antiquaria la prima edizione Garzanti delle Poesie in forma di rosa e la prima autografa delle Acque del sabato di Spaziani nello Specchio Mondadori. È servendo nuvolette di granchio e ravioli alla piastra che ho conosciuto Daniela Rampa, poetessa e moglie del poeta Vito Riviello, con la quale sarebbe nata, proprio grazie alle poesie di Pier Paolo e di Amelia Rosselli, una sincera amicizia mesi dopo il nostro primo incontro. LA SERA DELL’ABBRACCIO di Mia, dopo il lavoro, raggiungo alcuni miei amici in un locale vicino Tiburtina, in via di Portonaccio. In motorino, attraversando

Roma, c’è un sentore di pace. Passo vicino alla Piramide con il suo cimitero acattolico dove sono sepolte le ceneri di Gramsci, la Rosselli e Dario Bellezza, “Il miglior poeta della nuova generazione” come lo definì Pasolini al suo esordio poetico con Invettive e licenze nel 1971. Venti minuti a semafori verdi, la stessa strada che percorro ogni mattina per raggiungere l’Università – Sapienza. VIA DI PORTONACCIO è stata una scoperta straordinaria e doppia. 1. Quella prima volta, di notte, ho avuto una vera e propria sindrome di Standhal; eppure questa via non è affatto bella, termina con un ponte e una rotonda. Sono rimasto colpito da questo viale non troppo largo, con alberi come invecchiati e ubriachi di buio al centro della strada e le macchine a correrci veloci come quella di Lello e dei pischelletti di Una vita violenta, auto parcheggiate da abusivi con mani piene di spiccioli e tagli per il freddo. 2. La seconda scoperta è iniziata allora e continua ogni giorno da più di un anno, ha un viso sottile da volpe e occhi piccoli quando sorride. Sorride molto, Volpe. Quella notte, tentando di non risultare troppo ridicolo mentre cerco di muovermi a ritmo di musica, chiedo a Volpe: “Di dove sei?” “Di Monteverde, hai presente?” Monteverde, il vecchio e il nuovo, è un quartiere borghese ancora oggi, lo è sempre stato, con i suoi palazzi a declinare verso il Trullo e gli elegantissimi villini dietro le mura di villa Sciarra ad arrampicarsi verso il Gianicolo; però a differenza dei Parioli, di Prati, qui la gente conserva ancora una semplicità antica, contadina, ancora ci si saluta come in un paese e si ha memoria di quando, al posto del supermercato costruito negli anni Duemila, c’era un campetto da calcio non dissimile da quelli sui quali correvano con l’allegria e il vento sotto i piedi i ragazzi di una vita che appare lontanissima, e invece è ancora presente, i ragazzi dei palazzoni popolari di via di Donna Olimpia che per cinque anni, muovendomi a piedi da Monteverde nuovo per raggiungere il liceo classico Manara a Monteverde vecchio, ho osservato col fascino delle cose autentiche rallentando il passo lungo via Ozanam per recuperare su via Abate Ugone. Non tutti sanno che via Abate Ugone e via Fonteiana non sono altro che l’una il proseguimento dell’altra. È qui che il quartiere ha dedicato a Pasolini una bellissima targa d’artista, in cui dal suo volto di profilo sembrano partire raggi di luce o piume, rendendolo più simile a un santo o a un indiano; ecco come questo indiano dalla lingua di santo ha descritto, in soli tre versi commoventi,

LA PIETà DI PASOLINI SECONDO ERNEST PIGNON ERNEST 2

Mi sono allora ricordato di quella scena dal romanzo Petrolio in cui Carlo vede per strada il suo corpo morto

la natura insieme borghese e contadina del quartiere in cui abitò per moltissimi anni: Ricco era il quartiere, ma popolana gioia ne invadeva interrati e attici con voci vaghe ma violente, canti lieti e feroci (…) I RAGAZZI DI VITA sono cambiati, a Monteverde, ora hanno zaini Eastpak sulle spalle strette e lunghe gambe da lupi, si scompigliano i capelli dal medesimo taglio seduti sul marciapiede ad aspettare il bus 44 sempre troppo pieno che li riporti a casa, davanti al liceo scientifico Morgagni o al Manara, da sempre orgogliosamente antifascisti – è il primo contatto di un adolescente con una politica surrogata, e forse per questo più autentica. Al Morgagni ci hanno studiato i miei genitori, su quei banchi si sono innamorati, terzo anno, mio padre ripetente in matematica, mia madre (nata però a Ostia) in italiano: aveva la crisi da foglio bianco e ancora oggi mi chiede di scrivere i biglietti di auguri natalizi per i medici o gli sms per confermare un appuntamento. All’università è stata tra le migliori del Castro Laurenziano, Economia, ha seguito le lezioni di Marrama, di Tarantelli e di Caffè – c’era anche il giorno in cui Tarantelli venne ucciso nel parcheggio della facoltà, e ascoltò incredula la notizia della

scomparsa di Caffè alla televisione mentre mia nonna preparava il pranzo. Era una ragazzina quando Pasolini venne ucciso a Ostia, esattamente quarant’anni fa, e di quei giorni ricorda il suo volto scavato sui giornali, i titoli in prima pagina. Pasolini fu il suo primo morto, un morto alla televisione dunque un po’ meno reale degli altri. Il suo secondo morto fu un barboncino nero di nome Birbo. Il mio primo morto fu invece mia nonna, il mare a dividerci; il secondo Amelia Rosselli quando scoprii, dopo aver letto e amato le sue poesie, che non avrei mai potuto incontrarla perché l’11 febbraio del 1996 si era lasciata cadere dalla finestra del suo appartamento in via del Corallo dietro piazza Navona. Pasolini invece la incontrò; si scrissero, lui e Amelia, delle lettere dall’aprile ’62 al gennaio ’69. Lui le apriva con ritardo perché nella sua nuova casa in via Carini passava poco tempo. PIER PAOLO si era trasferito da via Fonteiana a via Carini, sempre a Monteverde vecchio, nel 1959 ed Elsa Morante, per l’occasione, mandò un biglietto di auguri accompagnante probabilmente una confezione-dono di frutta secca e altre primizie: “Per la Signora Susanna Pasolini, Via Carini 45 – con i più affettuosi auguri per la sua nuova casa a Lei e a Pier Paolo – da – Elsa Morante”. Oggi sul portone di quel palazzo c’è una targa a memoria del

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Orlando esplorazioni poeta, quasi non si legge più. A Monteverde ci sono passati – qualcuno per poi fermarsi – molti intellettuali italiani: da Giorgio Caproni (prima in via Oreste Regnoli poi in via Pio Foà) ai Bertolucci, da Gianni Rodari a Giovanna Sicari e anche, per brevi periodi, Elsa Morante e Carlo Emilio Gadda. “Di dove sei?” chiedo a Volpe quella notte cercando di vincere la musica che copre le voci. “Monteverde, hai presente? Via ***, cancello verde sopra il bar.” CI ABITA MIA NONNA LÌ. E io trecento metri più avanti. E c’è lo studio artistico, dedicato a Pasolini, dell’ultimo ragazzo di vita citato nell’omonimo romanzo: il pittore Silvio Parrello, detto er Pecetto perché “mio padre all’epoca faceva il calzolaio, e i calzolai allora li chiamavano Pecioni per via dello spago impastato di pece col quale cucivano le suole delle scarpe.” Silvio Parrello racconta che quando lui era ragazzo a Monteverde non c’era quasi nulla, un campetto di pallone dove giocavano a calcio. D’estate facevano invece il bagno nel Tevere, dove ora c’è il ponte Marconi che porta verso l’Eur, altro quartiere oggetto d’interesse per Pasolini. Nel suo studio in via Ozanam ci sono quadri e fotografie di Pier Paolo catturato in una disarmante quotidianità, durante una partita di pallone, o seduto su un gradino a parlare con un ragazzino. Fuori dallo studio ci sono gigantografie del poeta bolognese. La mia preferita è quella che mostra Pasolini regista, la macchina da presa in spalla, di profilo mentre si ravvia i capelli, gli occhiali scuri sul naso. C’è anche l’immancabile pietà di se stesso. Un sorriso stupido e felice è tutto quello che riesco a restituire a Volpe. Vorrei dire qualcosa ma non riesco, vorrei raccontargli del Pecetto e del processo ai Ragazzi di vita, di una disperata vitalità e della vita quando qualcuno te la porta via in una notte di novembre, di lui e di me in un quartiere popolato dai fantasmi dei poeti, delle loro voci di sandalo e vento che tornano sempre a passeggiare tra i vivi un po’ meno vivi di loro, e invece ho in testa solo una domanda: qual è la forma di una poesia, quale quella di una rosa? DA ALLORA SONO TORNATO molte volte in questi quartieri che hanno il fascino desolante e per certi versi consolatorio dell’abbandono, ma mai in una discoteca. Da queste parti abitano delle persone a me care, Federico ad esempio, che lavora dietro al Colosseo e vive vicino al Forte, poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo dove abitò i primi tempi Pier Paolo Pasolini. O Angela Bubba; è una scrittrice, una mia carissima amica; ha abitato qui per alcuni anni anche lei, a Pietralata, poi si è trasferita poco più su, all’altezza della galleria di musica Cherubini. Ai tempi in cui abitava ancora qui la andavo a trovare spesso, scendevo a metro Pietralata e mi incantavo a fissare il murales dedicato da alcuni ragazzi a Olga, una anziana tossicodipendente che certi giorni siede immobile sul muretto della stazione. Nel murales Olga è vestita da astronauta e dai capelli partono incredibili disegni confusi, esplosivi. Rappresentano i suoi trip mentali, i suoi viaggi autoindotti. Con Angela ci vedevamo nella

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sua cucina al sesto piano di un palazzone ad angolo che ha la forma di un cuore rovesciato, le pareti asimmetriche, quasi soffocanti e una finestra ampia senza inferriate che dà su Pietralata, sui monti, sulle sopraelevate, sulla Tiburtina coi suoi fiorai e i camioncini della frutta aperti anche di notte, sui tetti delle case affastellate come creature vive. “Pietralata, con la sua strana luce omerica, il giorno come la notte. Mi sembra sempre di vedere poeti, di rivedere i ragazzini di Pier… tutti quanti. Disperati stanchi e felici. Hanno giocato troppo anche oggi. Hanno pianto e riso. Anche oggi.” Pietralata è esattamente come la descrive Angela Bubba, qualche strada nella polvere per i ragazzi che la percorrono a sera con il passo sventrato dell’uomo e i sogni feroci del bambino. La sensazione per chi se la lascia alle spalle risalendo verso piazzale del Verano (“Il polmone di Roma”, così lo chiamava Elsa Morante) è un riposo del corpo e dei pen-

sieri, uno sciogliersi del dolore, una gioia piccola e potente, perché dal ponte il tramonto è aperto e crudele e saluta i suoi morti e i suoi vivi con una strana durissima nostalgia: “Era sera a Pietralata: per chi era appena dopocena e per chi prima, ma tutti erano allegri e sciamannati, andando avanti e indietro per le strade della borgata. L’aria poi era dolce dolce, e bastava che si muovesse un po’ di vento perché prendesse un sapore di mele cotogne, di ruchetta bagnata di guazza” (da Una vita violenta). L’ultima volta ho sentito il suo nome sulle labbra di mia madre, mentre camminavamo in via dell’arco di san Callisto a Trastevere: “Guarda ma’”, le ho indicato il muro. “Chi?” “Pasolini.” “E dov’è Pasolini?”

ESPLORAZIONI

PASOLINI È nella mia quotidiana ricognizione in forma di rosa di questa città, una città che cambia e che certi giorni detesto con la passione dei veri innamorati, lo stesso odio miserevole e disperato di Anna Maria Ortese per Napoli, o per la Ragione messa a tacere da un’intera città. Pasolini è nelle strade che percorro da ventuno anni: è nella pioggia leggera di una domenica mattina a cercare giacche vintage al mercato di Porta Portese con Chiara Valerio, è nell’abbraccio intraducibile di Mia e nelle giornate d’agosto passate con Volpe sulla spiaggia di Sabaudia, dove Pier Paolo veniva con Alberto Moravia, Dacia Maraini e Ninetto Davoli a scrivere e mangiare pesce. È alle pareti della trattoria “Il timoniere”, a Garbatella, fotografato da Mario Dondero durante le riprese de La ricotta. È nel volto di chi ha sperato e ha fallito, di chi ha pianto e riso. Anche oggi.

di FRANCESCO ZANI

«Sai quanti canarini mi sono morti prima di PierpaoloPasolini?» ARMANDO, ma perché non vai a dormire alla Caritas?» «Ho fatto troppo casini» «Ma dove? Alla Caritas?» «No, nella vita». ARMANDO non risponde quasi mai alle domande che gli vengono poste, lui risponde a quelle appena accanto. È un maestro nella giustapposizione. Svia dal discorso e ci si piazza giusto giusto a pochi centimetri. Non mi ha mai detto perché non prova a trovare un posto letto alla Caritas e continua a dormire in Via Fanfulla Da Lodi. All’angolo del Bar Necci. Ogni giorno in cui torno dal lavoro lo trovo seduto poco più avanti con la schiena appoggiata al murales enorme in cui Pier Paolo Pasolini è disegnato come una specie di supereroe tutto blu e sulla sua fronte campeggia la scritta bianca “Io non sono stato”. Il nostro rapporto è nato per gioco, quasi per sfida. «DOVRESTI fermarti tutti i giorni a fumarti una sigaretta con me, quando torni dal lavoro» «Va bene. Io fumo e tu mi guardi» «Dovresti fermarti tutti i giorni a fumarti una sigaretta, dopo averne offerta una anche a me» «E tu in cambio cosa mi dai?» «Ti dico due segreti» «Prima dimmeli, poi decido» «Il primo è che il canarino che porto sempre con me si chiama PierpaoloPasolini, tutto attaccato. Lo ho chiamato così perché è sua re-incarnazione. E ogni giorno mi racconta qualcosa. Il secondo segreto è che mi ha detto chi lo ha ucciso veramente quella notte a Ostia. Io lo ho scritto in un foglietto che tengo sempre nella tasca posteriore dei miei pantaloni». «E chi lo ha ucciso?» «Io ti ho promesso solo due segreti. Tira fuori la prima sigaretta» IL PIGNETO visto dagli occhi di Armando, azzurri quasi trasparenti, è un diorama. Sembra un panorama colorato e illuminato appositamente per far sembrare che Pasolini sia ancora vivo. Che il suo corpo passi ancora per queste strade, faccia ancora dei sopralluoghi per il prossimo film. E poi si intrattenga al Bar Necci per una colazione. Forse ha anche sistemato Petrolio e gli ha dato la forma che ha sempre avuto nella sua testa e che nessuno ha avuto la fortuna di conoscere. Qualche giovane

speranzoso lo insegue spesso per fargli leggere un proprio manoscritto. Armando ne parla con ammirazione come se fosse l’unico scrittore italiano mai esistito. Armando non ha studiato, non credo abbia neppure la licenza media. Eppure sa benissimo chi è Pierpaolo Pasolini. Lo ha respirato, lo ha visto sui muri e nelle strade, nei ha sentito dei pettegolezzi nei bar. Non ha mai letto un suo libro e nemmeno visto un suo film. «MA TU come ti difendi?» «Da cosa, Armando?» «Anzi: tu come la difendi?» «Cosa?» «Conosco solo due cose femminile che si possono difendere. La donna e la dignità». PASOLINI non si è mai difeso. Si è mostrato sempre nella sua vera natura, nella sua essenza più nuda e cruda. Con la più selvaggia sete e la più selvaggia fame. Che fosse di parole, di immagini o di corpi. Nemmeno i suoi libri o i suoi film hanno mai avuto interesse a difendersi, sono stati spesso costretti a farlo però dentro le aule di tribunale. Pasolini e le sue opere,-raffinate e di livello culturale fra i più alti della storia italiana-, hanno sempre mantenuto quel carattere sporco e consumato. Quella scelta precisa e consapevole di voler vivere in mezzo alla strada. Mai trasandate, ma sempre vissute. Mai sciatte, ma sempre con l’odore forte della strada e delle sue difficoltà. E al Pigneto sembra spesso di ritrovare lo scrittore e le sue opere: all’angolo con un carrello della spesa ricolmo e la fronte sporca di nero, fuori da una casa con un trucco esagerato e la parrucca, con le spalle al muro fermato dalla polizia per sacchetto di erba in tasca. I suoi personaggi spaziavano dall’alta e media borghesia di Teorema fino alle ambientazioni sacre de Il Vangelo secondo Matteo passando per Tommaso e la sua Vita Violenta sulle sponde dell’Aniene. Ma le opere, quelle, abitano su Via Prenestina o sulla strada per Ostia. Sembra essere esattamente il posto in cui hanno scelto di vivere. «Sai quanti canarini mi sono morti prima di PierpaoloPasolini?» «Molti?» «Tantissimi. O per una puntura di zanzara o perché non riuscivo a trovare abbastanza soldi per dargli da mangiare. Mi impegnavo sempre, alcuni mi sono durati anni».

«E perché non smetti di andarli a comprare?» «Non ho mai smesso di fare una cosa per paura che un giorno poi potesse finire» LA MORTE, avvenuta nel mondo che tutti conoscono, di Pasolini lo ha reso ancora più celebre. Lo ha elevato dentro una nuvola di notorietà inevitabile e a volte anche fastidiosa. È un intellettuale la cui fine è entrata a far parte in modo molto invadente del suo percorso. Un’alba dentro un imbrunire. Per le strade Roma non di rado si trova una disegno murale che ritrae lo scrittore che tiene in in braccio il suo stesso corpo senza vita. Una pietà rivisitata che riassume alla perfezione l’intreccio fra vita e morte di Pasolini. Un intellettuale critico e originale con opinioni talvolta sorprendenti e spesso illuminanti. Uno scrittore spaventato dai pericoli del progresso e del capitalismo e animato da un lirismo e allo stesso tempo da un sapore corporeo di cui il Pigneto, Roma, l’Italia, il mondo non vuole liberarsi. ARMANDO non è molto alto ed ogni giorno sembra ingobbirsi sempre di più. Ha una folta barba bianca che gli copre tutto il viso, ma lascia intravedere i suoi occhi. Si è fatto rasare la testa da un suo amico barbiere prima che gli cadessero tutti i capelli. Non riusciva a sopportare la stempiatura sempre più ampia che stava iniziando a governargli la fronte. Anche quel giovedì era seduto nella solita posizione, ma teneva gli occhi chiusi. Mi ci sono seduto a fianco e ho tirato fuori una sigaretta per me e una per lui. Armando è rimasto in silenzio come era solito fare nei giorni in cui non aveva alcuna voglia di parlare. Sono rimasto immobile per quasi un’ora, senza provare quel disagio che dovrebbe essere normale avvertire vicino ad un cadavere. Ho semplicemente osservato il suo corpo. Le palpebre chiuse ed il torace immobile. Ho preso la gabbia che conteneva il suo canarino. Era silenzioso, quasi assente. Prima di chiamare qualcuno ho allungato la mia mano dentro la tasca destra dei pantaloni di Armando. Ho trovato quel biglietto di cui mi aveva parlato qualche tempo prima. Chissà se c’era scritto il nome di chi aveva ucciso davvero Pasolini. In lontananza si sono iniziate a sentire le sirene dell’ambulanza. Ho preso il biglietto e lo ho strappato. Quello era il terzo segreto. Armando me ne aveva promessi solo due.


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Orlando esplorazioni

ESPLORAZIONI

di ALMA GATTINONI e GIORGIO MARCHINI

Un corpo che sopravvive alle ceneri di un’epoca P

ier Paolo Pasolini, l’autore che forse più di ogni altro ha voluto fare del corpo l’oggetto privilegiato della sua ricerca, ha finito per incarnare il corpo d’artista più noto del Novecento italiano. Una voce inconfondibile di seducente dolcezza. Un corpo irrequieto, fragile e scattante, in continua tensione e movimento. Più spesso, il primo piano di un volto dalle guance scavate e dagli occhi vivaci e penetranti, sotto una fronte ampia incorniciata dal nero dei capelli. Un viso come una mappa della vita, sempre più solcato negli anni da rughe profonde, traduzione psicosomatica di una “disperata vitalità”, di una lacerazione esistenziale per una diversità vissuta con senso di colpa. Lo sguardo dietro le scure lenti da miope, solo apparente diaframma, che nulla toglie all’approccio visivo della realtà. Una canottiera insanguinata, un paio di jeans, una camicia accanto a un cadavere straziato, pronti a trasformarsi, come dice Siti, “nell’icona del poeta assassinato, se non quasi in una sindone omosessuale”. L’enigma irrisolto di un corpo martoriato. Un’immagine di intellettuale, cineasta e scrittore, che come nessuno si è insediato a netti contorni nella memoria di un pubblico che lo ha amato con passione violenta quanto detestato con odio viscerale. Riconoscibile e riconosciuto, persino da quelle generazioni post 1975 così propense a liquidare, nell’insensato gioco al massacro, le personalità letterarie determinanti della cultura italiana novecentesca. È tutto questo oggi Pier Paolo Pasolini. Uno scrittore “vivo” che con sublime autocommiserazione sorregge un se stesso “morto”, come viene suggestivamente rappresentato nella laica Pietà del XXI Secolo, apparsa nel maggio di quest’anno su alcuni muri di piazze e vie di Roma, ad opera del noto writer francese Ernest Pignon-Ernest. Il fatto che questi graffiti urbani siano stati sfregiati, dileggiati, manomessi esprime bene come la figura di Pasolini non lasci indifferenti mai, ancora adesso a quarant’anni dalla morte, come continui a suscitare amore o scandalo. MA IL DEBITO con un’icona-mito così radicata e contraddittoria non si risolve nella retorica di un anniversario. Il Pasolini con cui rifare i conti è quello che lui stesso ci ha fornito attraverso una paziente e quasi ossessiva autorappresentazione

che culmina con Petrolio, romanzo incompiuto e pubblicato postumo, nel quale avrebbe voluto includere una serie di foto del proprio corpo nudo per trasformare il testo nella celebrazione della propria immagine. In questo suo ultimo libro Pasolini, grazie agli scatti del giovane fotografo Dino Pedriali, aspira a una forma di osmosi, meglio di compenetrazione tra corpo dell’autore e opera. Dopo le inquadrature in una geometrica o ventosa Sabaudia, ecco gli interni alla scrivania, altare laico dell’intellettuale, colto nella ritualità della scrittura manuale o sui tasti di una Olivetti 22. E poi la solitaria Chia, nella dépendance-rifugio a pochi giorni dalla morte, ancora un uomo che disegna il profilo del suo maestro Roberto Longhi, che scrive, che medita, che legge, che si spoglia, che sta nudo. Un uomo solo che un altro uomo solo, dalle grandi finestre, guarda e ritrae, come nei fotogrammi di un film. Ma la nudità di Pasolini si dissolve, il suo sesso esibito diventa sempre più evanescente, quasi fantasmatico nell’inganno ottico delle vetrate. QUESTO “INGRESSO” in un’opera, l’ultima, è solo l’estremo esempio di un uso espressivo del proprio corpo offerto all’obiettivo di molti grandi fotografi a cominciare da Paolo di Paolo, che nell’estate del 1959 l’accompagna lungo le coste da Ventimiglia a Trieste in un viaggio-inchiesta sul tempo libero degli italiani e ne fissa la fisionomia sullo sfondo di Genova, all’inizio della Lunga strada di sabbia pubblicata dalla rivista “Successo”. Vengono poi, per citarne solo alcuni, Mario Dondero, Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli. E ancora la propria fisicità di testimone critico compare nell’inchiesta sui generis dei Comizi d’amore (1963-64), dove un Pasolini provocatorio percorre il paese negli anni del boom per sondare gli italiani sulle loro abitudini sessuali. E infine, per restare nella dimensione visiva, va ricordata la presenza anche come attore in Edipo re in veste di Gran sacerdote di Tebe, nel Decameron come pittore allievo di Giotto, nei Racconti di Canterbury nei panni di Geoffrey Chaucer, cui si potrebbero aggiungere gli autoritratti della narcisistica e copiosa produzione grafica. C’è in Pasolini, vero aedo contemporaneo del corpo come chiave per cogliere la realtà del suo tempo, la scelta di raccontarla attraverso un affastellarsi di corpi mostrati con sfrontata purezza che, per limitarsi all’ambito filmico, si dispiega da Accattone a Salò, passando per la Trilogia della vita. Alla base c’è sempre un’inesausta voglia di sperimentazione applicata su se stesso e aperta a ogni soluzione. Così, il 31 maggio 1975, egli non disdegna di trasformar-

si in modello di body art nella Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, seduto su una sedia, immerso nel buio, facendo da schermo con la sua camicia bianca alla proiezione del film Il Vangelo secondo Matteo. L’artista Fabio Mauri e il fotografo Antonio Masotti, creatori-spettatori dell’evento, bloccano in fotogrammi il flusso delle immagini. Memorabile la sovrapposizione del volto di Pasolini con il volto della madre, addolorata Madonna, vera nel dolore che evoca il lutto per il morto figlio, in una pietas cinematografica di commovente drammaticità. IL CORPO DI PASOLINI che tanto si è fissato nella mente di estimatori e detrattori, quasi si fosse “disappropriato” diventando di tutti, non ha potuto sottrarsi all’ambiguità di un epilogo difficile da catalogare, paradossalmente in bilico tra volontà programmata dall’artista e tragica casualità di un’oscura violenza. Estremo gesto di autoannullamento o evento delittuoso subito? Difficile dare una risposta univoca. Per l’amico Zigaina: “Pasolini faceva la corte alla morte, ha fatto della morte l’emblema della sua vita. L’ha costruita come coronamento della sua opera. Ha scelto data, giorno e luogo della sua fine - 2 novembre 1975 - con procedure a livello del sacro, il giorno dei morti e di domenica. Ostia, vicino al mare. Hostia, vittima sacrificale”. Opposta l’interpretazione di Siti: “In quell’auto a Ostia c’era un cervello che lavorava a pieno ritmo, che pensava al futuro”. I suoi occhiali, un pettine sdentato, la cartina dell’Italia, dieci Saridon, tre preservativi, il libro di Nietzsche che non poté finire di sottolineare sono tra i reperti ritrovati nella sua Alfa Romeo GT 2000, relitti di una vita troncata all’improvviso, ora accumulati in due scatoloni al Museo Criminologico di Roma. QUALUNQUE SIA l’interpretazione data a questa morte, ultimo atto di un processo artistico o traumatica conclusione di una ricerca ancora in fieri, bisogna dare pace al corpo di quest’uomo che da quarant’anni aspetta sulla riva di un inattraversabile Acheronte e riscoprire il valore fondante della sua “parola”, perché pro-

prio alla parola nella più ampia accezione (poesia, narrativa, critica, cinema, teatro, saggistica politico-sociologica) Pasolini si è affidato per il suo autodistruttivo, ma esemplare viaggio. Dall’innocenza edenica delle Poesie a Casarsa fino alla discesa agli inferi di Petrolio, il tentativo di raccontarsi ha accompagnato in parallelo l’indagine su un paese, l’Italia, dall’incontaminata infanzia contadina alla degradante senilità postindustriale. È come se la riflessione del Pasolini “corsaro”sulla inarrestabile “mutazione antropologica” in atto nella società italiana trovasse nella metamorfosi del suo volto vissuto e rappresentato nel tempo un eloquente rispecchiamento. È come se il suo eclettismo interartistico fosse il segno dell’inesauribile ricerca del linguaggio più adeguato ad avvicinarsi alla conoscenza complessa di sé e del mondo, ma anche la multiforme espressione della coincidenza tra arte e vita e, come estrema propaggine della vita, tra arte e morte. È come se il costante ritorno alla propria immagine, agli albori della società dello spettacolo, contribuisse a irrobustire, a dare corpo alle sue idee, a ricondurle saldamente a quella matrice inimitabile che le ha generate. La forza polemica di Pasolini, “urticante” come la definisce Belpoliti, che spesso si manifesta come profetica e ne assume i toni e gli ardori, si coniuga con una vocazione molto attuale alla visibilità della sua persona e del suo ruolo intellettuale. Ecco perché è impossibile reperire un sosia-interprete che nella finzione ne restituisca la credibilità iconica, come dimostrano i due film dedicati alla fine della sua vita da Giordana e Faenza. Non esiste un altro Pasolini, se non quello persistente che una “disperata/ passione di essere al mondo” ha impresso nell’immaginario collettivo. Così come non esiste una metafora più corporea ed efficace della “scomparsa delle lucciole” per sintetizzare le ceneri di un’epoca.

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FALLACI PASOLINI

di MICHELA MONFERRINI

“Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?”

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poliziesco sin dal titolo - “Pasolini un uomo scomodo” (Rizzoli) -, questo piccolo libro di Oriana Fallaci che esce a quarant’anni dalla morte del poeta mettendo insieme alcuni pezzi che lei firmò per “L’Europeo” dal 1966 alla morte di lui (e dopo la morte, in forma di inchiesta). È il diario di un’amicizia anomala e ondivaga, ma tenace, tra una donna dal pensiero integralista e un uomo fatto di contraddizioni; due modi diversi di avere coraggio, due tipi di fragilità malcelata. Quando si incontrano per la prima volta la data segna 13 ottobre 1966, siamo a New York e Pasolini è vestito, agli occhi di lei, come uno di quei tipi “che giocano a baseball e fanno l’amore nelle automobili”. C’è subito, nel racconto della Fallaci, quel presagio della fine che è lo stesso in chiunque tenti di raccontare di lui mentre ancora lui c’è, è vivo, ma come segnato; loro, gli amici, in India, in Africa, in America, lo guardano e subito pensano che un giorno gli succederà qualcosa; lo osservano e gli vedono, come in questo primo incontro la scrittrice, “ la gola tagliata”. Basta vederlo andare con la smania dell’animale in caccia verso la notte delle zone più difficili, verso le porte dei locali più scuri. In lui “non c’è posto per i grattacieli di vetro, Park Avenue, un razzo che parte, il trapianto chirurgico di un cuore vivo: l’America bella, pulita, comoda che piace a chi spera nel paradiso. Come Rimbaud (o certi martiri) lui vuol sempre tornare all’inferno, ai quartieri dove si rischia un colpo di rivoltella nel cuore, incontri tragici e magari perversi,

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la punizione, il Greenwich Village come glielo descrisse Elsa Morante”. E così quando si raccontano a vicenda l’America, di giorno, sembrano parlarsi di due Paesi diversi. Ciò che lo colpisce a New York è la miseria, il sottoproletariato, dice. La scrittrice stenta a capire: miseria? sottoproletariato? «Sì - le risponde lui -. Lo stesso tipo di miseria, o povertà, che si trova nelle ex colonie divenute indipendenti da poco. Lo stesso tipo di povertà che trovi a Calcutta, a Bombay, a Casablanca. Mi spiego? Non una miseria economica, la miseria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco, psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provvisorietà». È per questo che lui di New York si innamora subito, come si innamorerà lei ma stando tutta dalla parte opposta della ragione: mentre lui vorrebbe avere di nuovo vent’anni, ricominciare laggiù, e pensa che forse tutto sarebbe diverso, e che forse almeno adesso che vent’anni non li ha più potrebbe prendere la sua idea di un film su San Paolo e trasferirla lì. Dove finiscono i progetti incompiuti? Dove vanno le idee, quando non diventano fatti? Chissà come sarebbe stato, questo pasoliniano San Paolo newyorchese; chissà come sarebbe stata la città; una città di cui, puntualmente, si dice che non appena si arriva - già dallo spazio aereo, soltanto sorvolata - pare già conosciuta, già vista, in una vita da spettatori, e che invece a lui, ai suoi occhi, pareva irrappresentabile: “Non l’ha rappresentata la letteratura: a parte le vignette di Arcibaldo e Petronilla, su New York esistono solo le poesie di Ginsberg. Non l’ha rappresentata la pittura: non esistono quadri di New York. Non l’ha rappresentata il cinema perché... Non lo so. Forse non è cinematografabile. Da lontano è co-

me le Dolomiti, troppo fotogenica, troppo meravigliosa, e dà fastidio”. Pare di sentire ancora l’incredulità della Fallaci: “Ma come?!”, mentre si infilano in un negozio del Village perché lui vuole comprare, per Ninetto Davoli, una camicia arancione a imitazione di quelle in uso a Sing Sing, con la scritta sul taschino: “Prigione di Stato. Galeotto numero 3678”. Si erano conosciuti nel 1963, Pasolini e Fallaci, mentre lui lavorava a “Comizi d’amore”, lei aveva da poco esordito nella narrativa con “Penelope alla guerra”. Si rivedono in quei giorni a New York; l’occasione è un festival cinematografico durante il quale saranno proiettati due dei suoi film. Poi Rio de Janeiro, le spiagge di Ipanema e Copacabana, all’inizio degli anni Settanta: lei è lì per amore, accanto al corrispondente della France Presse François Pelou, che ha conosciuto in Vietnam e a cui ha dedicato “Niente e così sia”; lui è con Maria Callas, ovvero con lei e senza di lei: è storia nota. Sono di nuovo due coppie, spesso a Roma, quando Pasolini arriva accompagnato da Ninetto Davoli, e lei è la compagna di Alexandros Panagulis, il rivoluzionario che scrive poesie: Pasolini firma per lui - senza indulgenza - due prefazioni, sempre pensando che il politico, l’eroe, l’uomo, superi il poeta. Moriranno a sei mesi di distanza, Pasolini e Panagulis, il primo non sapendo mai che loro, Oriana e Alekos, si trovano a Roma la sera del I novembre e nel pomeriggio lo hanno ripetutamente cercato al telefono per un incontro, ma le linee telefoniche sono interrotte per un sabotaggio alla centralina dell’EUR; i tre non si sentiranno più. Lei, la Fallaci, ha ancora in testa la lettera che Pasolini le ha mandato di recente, in cui la aggredisce per aver scritto “Lettera a un bambino mai nato: “Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’è dentro la pancia di una donna, mi disgusta la maternità”. Lei non gli ha ancora risposto, appunto: aspetta di incontrarlo, “l’unico modo per placarti - scriverà poi - sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo”. Ad abbracciarlo non farà in tempo; quel giorno di novembre gli arriva la notizia mentre si trova in piazza Navona con Panagulis e Miriam Mafai, a un tratto si avvcina un ragazzo che vende “l’Unità” e dice “Hanno ammazzato Pasolini”. Lei reagisce come si reagisce alle notizie impossibili: “Pasolini chi?”, doman-

da, come se quella gola tagliata, quel colpo di rivoltella al cuore, non li avesse presagiti mai, come quando sai che non c’è più qualcuno che in fondo credevi immortale. Si lancia - sulle pagine dell’”Europeo” - in un’inchiesta che è una controinchiesta: non crede a una parola di quel che scrivono i giornali, scova un testimone impaurito, lo intervista promettendogli anonimato e protezione (rispetterà sempre quella promessa), viene diffamata e accusata, scrive altri due pezzi, ancora accuse che sembrano minacce, fin quando la prima sentenza del tribunale non le dà ragione: c’è stata volontarietà, e l’omicidio è avvenuto per mano di più assalitori (la pluralità dei colpevoli sarà poi smentita in appello e in Cassazione). “Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?”. È stata la sua crociata per l’amico più indifeso; ripercorrerne le tappe fa una continua tenerezza.

DIFFAMAZIONI

A Pierpaolo Pasolini Avebbe minacciato un benzinaio con la pistola carica di un proiettile d’oro. Cineasta e poeta, orafo e orco! Ma cosa contestare a quest’accusa, l’arma o la sua pallottola? Santa Romana Chiesa o l’usignolo? Quel colpo mai sparato traversa la sua opera piegandola ad un duplice ossimòro, fantastico fantasma di violenza e pietà, di sangue e alloro. VALERIO MAGRELLI Poesie e altre poesie Torino, Einaudi, 1996


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INCONTRI

Paolo Di Paolo, scrittore (1983) incontra Paolo Di Paolo, fotografo (1925)

«Di Pasolini ricordo soprattutto i silenzi» D

ice che di lui ricorda soprattutto i silenzi. Dice che non era facile essergli amici, ma che forse – se ci fosse stato più tempo – lo sarebbero diventati. Partimmo con la mia macchina, racconta, c’era qualche problema con la candela, dovevo fermarmi spesso, lui sorrideva: sei sicuro che adesso andrà bene. Le prime parole del viaggio sono nate così, superflue, intorno a questioni meccaniche. L’idea era quella di fare un reportage dalle coste italiane, negli anni in cui l’Italia scopriva le vacanze balneari. Era il 1959, il titolo che mi venne in mente era: La lunga strada di sabbia. Lui osservava, osservava per ore, restando in silenzio. Forse cercava qualcosa come un riscontro, nella realtà, di ciò che aveva già visto, immaginato, vissuto letterariamente. C’è una fotografia bellissima, forse la più bella della mia carriera di fotografo: il Gazometro al centro della scena, Pasolini seduto da un lato, pensoso, incrocia lo sguardo di un ragazzo con le mani in tasca, che sembra sul punto di andarsene via, di lasciarlo là, risentito. *** Ho incontrato a Roma un grande fotografo che ha il mio stesso nome. Paolo Di Paolo, nato nel 1925. È stato un protagonista della grande stagione del “Mondo” di Mario Pannunzio, il fotografo più pubblicato in assoluto su quelle pagine. Da ragazzo dipingeva. Poi è nata la passione per la fotografia. Poi l’ha, di colpo, abbandonata. Nel 1966. Temendo, dice, che da lì – dal punto in cui era – non avrebbe potuto che peggiorare. Sarei diventato un paparazzo, poco meno, poco più, dice, i giornali volevano questo. E io invece quasi mi vergognavo di andare in giro con la mia macchina fotografica – una Leica che tenevo nella tasca della giacca. Ha fotografato, come forse nessuno, Anna Magnani. C’è una foto di lei, stesa al sole, un cane accanto. In un’altra è in piedi, in costume da bagno intero, nero, ancora i cani. Sorride. Ha fotografato principesse e regnanti. Ha fotografato Fellini che, mentre bacia Giulietta Masina, guarda altrove. Ha fotografato Visconti, Mastroianni, Moravia, Montanelli e Oriana Fallaci sorridente come mai più l’avremmo vista. Ma gran parte di queste foto-

grafie sono rimaste sepolte dalla timidezza e dalla discrezione del loro autore. Sono venute alla luce tardi, quando il lavoro di fotografo era già lontano. Mi sono reso conto tardi di aver fatto parte di un gruppo di gente unica, di aver sfiorato i miti. *** Di Pasolini gli chiedono spesso. Anche troppo. Non gli va di unirsi al coro, di prestare queste fotografie a celebrazioni confuse. Sul set del Vangelo secondo Matteo, ne ha scattate di bellissime. Pier Paolo era anche un po’ un attore, sapeva come mettersi in posa senza risultare innaturale. *** Ho incontrato Paolo Di Paolo, fotografo, nella sua casa romana. Cercava un aggettivo per definire questo nome curioso, buffo che condividiamo. No, non imbarazzante. Fastidioso, sì, fastidioso. (PDP)

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IN MUSICA/1

di MASSIMO TURTULICI

“Ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica” N

el 1936 Pier Paolo Pasolini è a Scandiano, ennesima tappa del peregrinare della sua famiglia al seguito di suo padre, Carlo Alberto, tenente di fanteria. Una foto di quei giorni lo ritrae insolitamente paffuto, vestito con dei pantaloni alla zuava, il violino sotto il braccio destro, l’archetto nella mano, la mano sinistra appoggiata ad un fianco. Lo studio della musica occuperà un breve periodo della sua vita, ma la musica sarà il comune denominatore della sua produzione artistica. Saranno però gli anni dal 1943 al 1945, trascorsi in Friuli a Casarsa della Delizia, paese natale di sua madre Susanna Colussi, a marcare il gusto e la passione di Pasolini per la musica, complice l’amicizia con la violinista Pina Kalz sfollata anch’ella a Casarsa dalla Slovenia a causa della guerra. Più grande di Pasolini di una decina di anni, sarà lei a fargli conoscere Janàcek e poi Bach, le Sei sonate per violino solo. Lei gli impartirà lezioni di violino, raggiungendolo a casa, tra un’incursione aerea e l’altra. “LEI DEVE SPICCIARSI a insegnarmi a suonare. Bisogna che mi esprima in musica. Sento che la musica è il mio più vero modo di sentire”. Questo scrive Pasolini in Atti impuri, trasponendo in forma romanzata il contenuto dei Quaderni rossi del 1947. Immagina perfino una nuova terminologia che sostituisca alle espressioni di Adagio o Allegretto, per esempio, Straziato o Svenevole. E ancora, nuove note stonate e nuovi segni per indicarle. Non vi sarebbe caos però, “perché io mi trasporrei tutto nell’anima dell’usignolo, e non ne tradirei questa patetica dolcezza, questa ingenuità esasperante, quest’ordine della passione.” Questo teorizzare testimonia del desiderio di Pasolini di vivere interamente, non solo come fruitore, della musica. Dalle lezioni e dall’ascolto delle musiche suonate dalla Kalz, Pasolini rimane fortemente colpito. Prima di tutti da Bach, per esempio dal II movimento della I sonata per violino solo, detto “il Siciliano”. Il dialogo tra alcune note stridenti e astratte ed altre basse e calde, gli appare come una lotta tra Cielo e Carne. La stessa che, negli anni trascorsi prima a Casarsa e poi, quando anche questa sarà troppo esposta ai bombardamenti, a Versuta frazione poco distante dove riparerà con la madre, animerà i sogni ed i tormenti del giovane di cui ancora nessuno o quasi sospetta l’omosessualità, nemmeno Pina Kalz il cui sentimento per Pasolini è più di una semplice amicizia. COME PASOLINI STESSO ammette nella prefazione dello scritto, Studi sullo stile di Bach, non si può dire che conoscesse approfonditamente la musica. Ne subisce il fascino, le sue prove narrative ne vengono illuminate e la penna indugia in immagini e metafore che rivelano l’empatia con l’universo sonoro. Non sempre e non solo costituito da musica classica, ma anche da musica popolare, sia essa rappresentata dalle Villotte friulane, o dal canto a tratti sguaiato del popolo delle borgate. Ma è illuminante il fatto che ancor prima di realizzare Accattone (1961), pensando al film

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che avrebbe messo in scena, sapesse già di dover usare la musica di Bach. Il cui carattere epico, per il senso del sacro che la permea, e per il suo essere “la musica in assoluto”, gli pare la colonna sonora più adatta per fare strada al mondo di Accattone. La Passione secondo Matteo di Bach, che fa da contrappunto alla rissa di Accattone con il cognato, non solo una rissa tra due pezzenti, esalta l’epicità di una lotta degradante, attraverso la contaminazione fra la violenza della situazione e il sublime musicale che sfocia nel sacro. E lo stesso Coro finale della Passione secondo Matteo accompagna Accattone alla morte, l’unica vera libertà concessa dalla società a uomini senza dignità. LA MUSICA È per Pasolini molto più che complemento sonoro delle immagini. È la proiezione stessa del mondo interiore dell’artista, un elemento vivo. Fa da contrappunto, buca “il piatto o illusoriamente profondo delle immagini dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita”. In Poesie della cenere del 1961 scrive: “Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti/ che io vorrei essere scrittore di musica/ vivere con degli strumenti/dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare[…]e lì comporre musica/ l’unica azione espressiva/ forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.” Così come Bach per Accattone, sarà Vivaldi a dominare le scelte per Mamma Roma (1962), in cui si alterneranno motivi classici, al magistrale duello di stornelli tra la Magnani ed il suo ex pappone. Di nuovo ne La ricotta, episodio firmato da Pasolini per RoGoPaG, si alterneranno il Twist di Rustichelli e la Sinfonia dalla cantata di A. Scarlatti. ATTRAVERSO L’USO, nelle produzioni a seguire da Il Vangelo secondo Matteo, alla Trilogia della Vita (Il decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte), di musiche eterogenee, classiche e popolari rielaborate abilmente da Ennio Morricone, i suoi film diventano delle opere multimediali ante litteram. Il cui centro è nel silenzio che domina la scena. Dice Laura Betti che Pasolini era intimorito e posseduto dalla musica. La chiamava “Sua maestà!” Il suo mondo musicale era un universo sonoro ed i suoi sensi captavano la più piccola nota di violino, di flauto o la voce impegnata a raccontare vita. Quella che affiora in forma musicale anche nei primi romanzi e nelle prime raccolte di poesie con l’attenzione rivolta al dialetto friulano, alla musicalità della lingua, della parola e del suo suono. Ma anche nella sensibilità per le cosiddette canzonette, che meritano, secondo Pasolini, l’intervento di un poeta, di una musica e di un testo più belli. Egli stesso comporrà i testi per diverse canzoni musicate, da Ennio Morricone in Uccellacci e uccellini, da Domenico Modugno in Che cosa sono le nuvole, da Sergio Endrigo per Il Soldato Napoleone. Come testimoniato ancor meglio dalle scelte musicali del Vangelo secondo Matteo, compiute ben prima dell’inizio della lavorazione del film, si evidenzia in Pasolini una forma di contaminazione musicale, lui la definisce pastiche, che mescolando generi e musiche alte a umili ribadisce la tensione tragica presente già nelle sue prime composizioni. Mentre tornerà alla musica seria nell’Edipo re, Appunti per un film sul-

l’India, in Teorema, a Bach e Morricone ne La sequenza del fiore di carta, del 1969. Intervistato da Giorgio Bocca su “Il Giorno” del 19 luglio 1966, Pasolini dice: “Sa perché ho fatto del cinema? Perché non ne potevo più della lingua orale e anche di quella scritta. Perché volevo ripudiare con la lingua il Paese da cui sono stato cento volte sul punto di fuggire.” PIÙ CHE DI UNA FUGA si tratta del bisogno di creare una discontinuità nella barbarie politica, sociale e culturale che Pasolini scorge prima e meglio di altri. Una insofferenza che lo spinge ad andare ostinatamente controcorrente. Ciò lo rende affatto umano e attuale a dispetto del paludato gotha intellettuale dell’epoca da cui sfugge per vitalità di pensiero e per l’avidità di vita che lo allontana dall’immagine, non sempre precisa, dell’uomo oscuro e triste. Pasolini è sempre in tensione tra Carne e Cielo, sempre insoddisfatto di qualsiasi mezzo espressivo, della lenga furlana prima (quando a Versuta darà vita insieme con la Kalz, Nico Naldini ed altri alla Accademia della lenga furlana), come del dialetto romanesco poi, della parola, come dell’immagine, una frenesia che non è solo eclet-

tismo. È il bisogno di genuinità che forse il Vecchio Continente non sa più restituirgli. Non a caso, fallito il progetto del film africano, Il padre selvaggio, sentirà il bisogno di fissare quell’idea nel documentario, Appunti per una Orestiade Africana, omaggio all’Africa, affidato alla musica jazz di Gato Barbieri, che già era nei versi conclusivi della poesia Frammento di morte, inserita nella raccolta La religione del mio tempo (1961) in cui si legge: “Sono stato razionale e sono stato/ irrazionale: fino in fondo./E ora… ah, lo stupendo e immondo/sole dell’Africa che illumina il mondo./Africa! Unica mia/ alternativa. L’AFRICA INCARNA, quindi, le speranze non solo di tutti i popoli neri liberatisi dal colonialismo, ma anche la forza e la genuinità di cui l’Europa è ormai priva, offesa dal consumismo e dalla degenerazione morale, spirituale rappresentata nell’ultimo film, Salò, che segnerà l’ennesima collaborazione per la colonna sonora con Ennio Morricone, e che spingerà Pasolini a tornare alla parola scritta necessaria per raccontare, con Petrolio, il romanzo incompiuto di un’epoca e di un Paese vittima di troppi mostri capaci solo di divorare speranze, energie e sogni.


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IN MUSICA/2

di GIULIO CARLO PANTALEI

Musica nel cuore, musica nelle viscere La playlist di Pasolini N

el cuore, in luce, la sinfonia settecentesca è stata indubitabilmente il genere prediletto da Pier Paolo Pasolini. J. S. Bach, in primis: del compositore tedesco (1685 - 1750) troviamo traccia fin dalle prime prove letterarie - pubblicate postume -, Amado Mio e Atti Impuri, con una profusione di richiami che nel 1944 culmina in un appassionato saggio dal titolo Studi sullo stile di Bach, testimonianza dell’ottima padronanza del solfeggio e dell’interpretazione armonica da parte dell’ancor giovane poeta bolognese. L’innovazione più importante in relazione a Bach risiede tuttavia nell’impiego della “Passione secondo Matteo” in Accattone, primo film di Pasolini: Ci sono molte ragioni per cui preferisco la musica classica a quella contemporanea come commento ai miei film. La prima è stilistica: la creazione di un pastiche linguistico, fortemente accentuato “a contrasto” (il coro in tedesco della Passione secondo Matteo di Bach sul miserabile rotolarsi della polvere di Accattone), che, per accensione espressiva, serve a rappresentare con più drammaticità quello che voglio dire: un grande e tragico destino di morte che si sovrappone a una piccola, infima, sporca vicenda sottoproletaria. (P. P .Pasolini, Le Belle Bandiere, a cura di G. C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1996, pag. 233) UN’APPLICAZIONE STRANIANTE, poetica, ribelle della colonna sonora, con buona probabilità uno dei primi tentativi nella storia del cinema di mescolamento degli stili a partire da linguaggi artistici differenti. In secundis, W. A. Mozart. All’ascolto del celeberrimo compositore austriaco (1756 – 1791) Pasolini approdò per intercessione dell’amica-nemica Elsa Morante, che si mostrava stizzita per le reticenze di Pasolini ad ascoltarlo con dedizione, come puntualmente appuntato in versi: Va, canzone, in questo bel giorno di sole; nella mia stanza il giradischi è acceso; “il Mozart che lei mi ha regalato” arriva in fondo a Via Eufrate, prendi l’Ostiense (non c’è traffico a quest’ora) e poi i Lungoteveri; giungi a Via dell’Oca e chiedi ipocritamente permesso.

(P. P. Pasolini,“Canzone n.1” in Tutte le Poesie II, I Meridiani Mondadori, Milano) A COMPLETARE un’ipotetica rassegna pasoliniana a metà tra la sinfonia e l’opera, figurerebbero sicuramente Vivaldi (i cui “Larghi” sono impiegati in Mamma Roma), Donizetti, Verdi, Offenbach e Janacek, che in una poesia viene addirittura ringraziato per quelle sue opere: Dove si riconosce l’amore che si fa tra i cespugli coi calzoni sbottonati, e le foglie umide contro le cosce, con la sua tenerezza fatale, nel grigiore e la durezza d’una musica senza paura. (da Versi introduttivi al Rio della Grana) UN PARAGRAFO A PARTE richiede il rapporto tra Pasolini e Frederic Chopin (1810 - 1849), maturato negli ultimi anni di vita del poeta: l’uso dei “Preludi” e dei “Valzer” come sottofondo per le scene atroci di Salò o le 120 Giornate di Sodoma ha spesso destabilizzato critica e spettatori, nel nome di una “impossibile normalizzazione” rispetto agli eventi brutali del salotto nazifascista (basti riflettere anche sull’uso del Veris Leta Facies di Orff nell’ultima sequenza). Nelle buie viscere, invece, il canto popolare ha costituito una tra le passioni più intense di Pasolini, un legame simbiotico e dalle immancabili tinte sensuali - vitalistiche, documentate dai versi dell’omonimo poemetto contenuto nelle Ceneri di Gramsci: Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l’antica, la festiva leggerezza dei semplici. […] allegro seme in cuore al triste mondo popolare? À rebours, è ascrivibile sempre al periodo friulano l’approccio del giovane poeta con il canto popolare e titoli come “Al Ciante il Gial”, “E jo chanti, chanti, chanti”, “O se biel Ciastel di Udin” vengono sparsi lungo tutto il tragitto narrativo de Il Sogno di una Cosa. In realtà, è possibile riscontrare la presenza di canzoni popolari in tutti i romanzi, tutte le raccolte poetiche e tutte le pellicole di Pasolini: dedicò addirittura un’intera sezione dell’Antologia della Poesia Dialettale Italiana alla raccolta dei canti locali, regione per regione. LA MITOGRAFIA PASOLINIANA narra in se-

guito che, giunto a Roma, nella desolazione dei primi mesi dopo la fuga coatta da Casarsa, Pier Paolo trascorresse intere serate seduto sul ciglio della strada ad ascoltare gli stornelli e le canzoni di Giacomo Rondinella, Cesare Bixio e Roberto Murolo intonate dai “Regazzi de vita” (titolo non a caso di un brano di Bixio) al fine di cogliere il secret impénétrable del dialetto romanesco. Nei primi due romanzi del periodo capitolino sono continuamente citati i brani degli “urlatori” ed in particolare di Claudio Villa, col quale Pasolini strinse una vivace amicizia al punto tale da prendere le sue pubbliche difese durante il Festival di Sanremo del 1957: Mi piace il repertorio delle canzoni melodiche di Claudio Villa, perché mi piace il pubblico che ama questo stile popolare e verace. Approvo anche che Villa scriva, si musichi e si interpreti le sue canzoni. […] Vorrei che Villa fosse assolto perché i cantanti mi sono simpatici e io amo le canzoni. Solo mi piacerebbe che, come mezzo di espressione, fossero portate ad un livello più interessante. (intervista di P. P. Pasolini a “Sorrisi e Canzoni”, 20 Novembre 1960, n. 47) QUANTO ALLE COLONNE SONORE, inoltre, esse concedevano l’opportunità a Pasolini di realizzare veri e propri compendi etnomusicologici delle sue amate tradizioni folkloriche: lo sfondo del Decameron è costellato dei canti popolari del Meridione italiano; Accattone e Mamma Roma restituiscono le lascive atmosfere trasteverine con gli stornelli e le canzoni in romanesco; Edipo Re, Medea e Il Fiore delle Mille e una Notte raccolgono motivi popolari rumeni, arabi ed iraniani; l’allucinata allegoria di Porcile evapora tra le arie bulgare e spagnole; I Racconti di Canterbury, la cui colonna sonora fu elaborata e studiata per mesi insieme ad Ennio Morricone, stupisce con oltre quaranta brani tratti dal serbatoio medievale popolare anglosassone ed è capace di rievocare icasticamente ambienti e rituali del’antica Albione. LA MUSICA DUNQUE – colta o popolare che fosse – cooperava in Pasolini alla rappresentazione lirica e genuina della realtà, tanto entro la comédie humaine del mondo, quanto entro i confini del dérèglement e dell’epifania interiore, traducendo in suono la mutevolezza del senso.

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IN MUSICA/3

di CATERINA MONGARDINI

Roberto De Simone

“Il mio Requiem per Pasolini” N

apoli, Via Benedetto Croce: un muro divide il complesso Munumentale di Santa Chiara, pacifico luogo di preghiera, dal caotico arrembaggio dei palazzi del centro storico che la soffocano da ogni lato. Passeggiavo lungo questo muro e, proprio - o non a caso - su di esso, una Pietà scomoda dagli occhi fissi riportò alla mia mente ciò che poco prima aveva detto il Maestro: “Pasolini è morto affermando che l’Italia del suo tempo era ancora ferma al momento di transizione alla fine dell’ultimo conflitto bellico in cui si aspettava una rivoluzione, un qualcosa: cosa che non è avvenuta. Io dico di più: oggi passati 40 anni siamo ancora fermi, in Italia, allo stesso punto.” Pasolini morì nel 1975 e l’Italia - o meglio, una parte di essa - questo “qualcosa” lo aspettò invano; negli anni ’80 il “riflusso” fece ritirare la marea montante degli anni precedenti, lasciando sulle sponde del nostro paese illusioni e disillusioni che si incarnano nel corpo esanime tra le braccia del Poeta su un muro tra i vicoli di Napoli. Il Maestro Roberto De Simone - musicologo, registra teatrale e illustre compositore - nel 1985 scrisse il Requiem in memoria dello scrittore Pier Paolo Pasolini. Quale è stato il suo rapporto con Pasolini? “IO UN VERO RAPPORTO PERSONALE CON LO SCRITTORE NON L’HO AVUTO; avevo da poco fatto pubblicare l’opera “Chi è devoto” (1975) sulle feste popolari e lo scrittore Pasolini mi fece sapere che sarebbe stato contento di incontrarmi. E così nel mese di Ottobre ci sentimmo telefonicamente e avremo dovuto incontrarci nella settimana di novembre… poi l’incontro non avvenne perché ci fu la morte dello scrittore.”

sto Requiem? “MOLTO POCO, IN REALTÀ, DELLA PRODUZIONE SCRITTA; solo dei versi di Pasolini tradotti in inglese, perché quando c’è la musica non bisogna mai riferirsi a testi da un punto di vista ideologico: la musica è musica, un altro linguaggio. Qualche frammento è presente soprattutto nel “Dies Irae” ma ciò che rimane di Pasolini sono le idee musicali che sono diverse ovviamente. Di quello che era stato Pasolini c’è nell’incipit del Requiem l’accordo iniziale, dissonantissimo, proprio in relazione alla morte violenta del poeta; immediatamente dopo un riferimento al Requiem tratto dalla “Missa Defuntorum” di Pierluigi da Palestrina perché Pasolini, nell’ideare il film “Vangelo Secondo Matteo”, si era ispirato a un fatto, importante per la storia della musica, che risale all’apertura di un Concilio all’indomani della Controriforma. Figura di spicco di questo evento fu il compositore Palestrina che propose un nuovo modo di scrivere musiche polifoniche da chiesa in un modo più semplificato di quello che era stato utilizzato per scrivere il contrappunto in epoche precedenti. Prodotto di questa proposta fu la “Missa Papae Marcelli”, scritta per questo papa che durò in carica pochissimi giorni, che rappresenta un modello per un rinnovamento della musica sacra; il riferimento a Palestrina è proprio un riferimento ai presupposti che Pasolini aveva stabilito quando aveva pensato di girare il film “Vangelo Secondo Matteo”, ossia il concetto di un rinnovamento del Cattolicesimo.

Poi successivamente nel brano “Kyrie” si fa proprio riferimento ai tre personaggi della Santissima Trinità: il padre, rappresentato dal coro accademico, il figlio, Cosa l’ha spinta a scrivere il Requiem rappresentato da Senese e dai cantanti di tradizione orale, e lo Spirito Santo che è in memoria di Pasolini? “PER ME QUEST’OPERA RAPPRE- simboleggiato dalle voci angeliche dei SENTA SPERANZE DISATTESE DI bambini. UNA RIVOLUZIONE IN UN CERTO Per la figura del Cristo fa il suo ingresso SENSO APERTA A SINISTRA E POI il cantante sassofonista James Senese che VANIFICATA, dalla stessa sinistra, si annunzia con il suono del suo sassoquando si è insediata al potere omolo- fono prima di cantare, come se fosse un gandosi addirittura con i sistemi prece- richiamo: “Arrriva il figlio, questo è il fidenti anche se in apparenza riferiti ad glio “. Non a caso James Senese è il Criuna cultura laica. Dal punto di vista ideo- sto, perché è un diverso in tutti i sensi; logico erano quelli che Pasolini chiamava infatti Pasolini pensava che Cristo fosse “i chierici di sinistra” cioè vale dire per- un diverso, come persona, come pensiesone con formazioni chiuse riguardo alle ro. ideologie ecc… che quando si mostrano Comunque il Requiem è tutto rappresencosì rigorose non hanno la caratteristica tativo della personalità di Pasolini, per culturale di essere aperte alle innovazioni esempio nel brano “Tuba Mirum”: la e alle idee che mutano di giorno in gior- tromba del giudizio è proprio rappresenno.” tata dal sassofono di James Senese con

’40, come se il Giudizio fosse ancora fer- scrisse: “I napoletani hanno deciso mo storicamente all’avvento del capita- di estinguersi restando fino all’ultimo napoletani”, “rifiutando il potelismo industriale. Successivamente il brano “Recordare”, re, la storia, la modernità”: è vero? che si riferisce quasi ad un inno militaresco di carattere hitleriano, simboleggia il Dio degli eserciti; invece il Dio della giustizia è simboleggiato dallo “Jesu Pie”, il buon Gesù che perdona. Proprio nel brano del “Recordare” ci sono dei versi scanditi da un baritono basso presi da un passo del Mein Kampf di Hitler, però tradotti in latino.” Lei ha parlato spesso dell’ “unione di oralità e scrittura”. Secondo lei quando quest’unione viene raggiunta? Pasolini l’ha raggiunta con le sue opere? “IO CREDO CHE NON SI POSSA MAI PARLARE DI UN RAGGIUNGIMENTO DI QUALCOSA SE NON DOPO ANNI, queste osmosi fra due versanti opposti di cultura sono difficili da raggiungere. A me sembra che Pasolini abbia raggiunto dei buoni risultati in quel cortometraggio “Cosa sono le nuvole”, in certi utilizzi musicali che ha fatto di musiche di Vivaldi in “Mamma Roma” oppure di quartetti di Heyden nel “Fiore delle Mille e una Notte” oppure di musiche raccolte nel “Decameron” prese dal Carnevale tradizionale e raccolte da Carpitella. In questo c’è la tendenza a stabilire un ponte tra l’oralità della Campania degli anni ’50 e il tempo di Boccaccio, che è un Medioevo. Ecco mi sembra che in queste dimostrazioni di creatività e di utilizzo di materiali apparentemente opposti, Pasolini l’abbia raggiunta.”

“QUESTA È UN’INTUIZIONE FELICE DI PASOLINI ANCHE SE BISOGNA FARE ATTENZIONE A COSA SI INTENDE PER NAPOLETANI: QUALI NAPOLETANI? C’è una vecchia classe di napoletani per i quali questa affermazione può essere valida e c’è n’è una diversa di napoletani, anche più giovani, per i quali questa affermazione non è valida. Molti giovani si sono omologati al consumismo industriale, per cui si sono identificati i giovani napoletani proletari e i figli di papà: non si distinguono più nemmeno per abbigliamento. Portano gli stessi abiti strappati, hanno gli stessi tatuaggi, frequentano le stesse discoteche, ma non sono poi omologati realisticamente perché i figli di papà rimangono figli di papà, con i loro soldi e le loro posizioni sociali che gli garantiscono un impiego sicuro; i giovani appartenenti alle classi basse non hanno alcuna rassicurazione sul futuro, sono degli sprovveduti anche se le scarpe che portano sono uguali apparentemente a quelle dei ricchi in realtà la firma di questi prodotti li distingue e li discrimina subito.” Nel 2015 le viene assegnato il Premio Nonino che lei ha dedicato proprio alla scomparsa di Pasolini: pensa che l’avrebbero mai assegnato allo scrittore friulano?

“MAGARI L’AVESSERO FATTO! Guardi devo dire la verità: poche persone ancora pensano alla pregnanza artistica ed etica che ha avuto Pasolini, perché il Pasolini, quando venne a Napoli per personaggio culturalmente rimane scoQuanto e cosa c’è di Pasolini in que- un motivo da musica leggera degli anni girare delle scene del Decameron, modo.”

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TEATRO/1

di FRANCESCA TOMASSINI

La diversità fatta carne I

l 1959 e l’anno in cui Vittorio Gassman commissiona a Pier Paolo Pasolini la traduzione dell’Orestea di Eschilo per metterla in scena con la compagnia del teatro Popolare Italiano al Teatro Greco di Siracusa. Pasolini segue un procedimento non conforme alla filologia classica, non accademico, giustificando così una traduzione che si presta ad una lettura contemporanea, soprattutto dal punto di vista linguistico e tematico esaltando il significato politico implicito nelle tragedie greche. Pilade, tragedia scritta nel 1966, nasce come una sorta di quarto capitolo della trilogia di Eschilo, come fosse una continuazione dei fatti già narrati ed e composta da un prologo e da nove episodi. Accanto ai due fratelli, Oreste ed Elettra, figure centrali anche nelle tragedie eschilee e nei tragici greci, Pasolini sceglie come protagonista per il suo dramma Pilade: fedele, inseparabile e silenzioso compagno del figlio di Agamennone che nell’Orestea rimaneva una figura più che marginale nel testo greco e che invece in Pasolini assume un raro e indimenticabile spessore umano. Il protagonista ci viene presentato nel terzo episodio dell’opera pasoliniana con le seguenti parole: CORO: È lui la diversità fatta carne venuta a fondare nella citta una matrice di tradimenti e di nuove realtà? A mettere in dubbio l’ordine, ormai santo, in cui viviamo nel segno della più pura divinità? VECCHIO: Oh, un Diverso, certo. [...] La Diversità, appunto. Ma la vera Diversità Quella che noi non comprendiamo, come una natura non comprende un’altra natura. Una diversità che da scandalo. Pilade è, quindi, il diverso per eccellenza all’interno della galleria dei personaggi pasoliniani, perennemente incompresi e dannati e questa sua diversità si rintraccia in una misteriosa grazia che risiede nella sua sete di giustizia e nel suo essere fedele ai propri ideali. Pilade possiede doti come la lealtà, la fedeltà, il disinteresse e la passione, doti che tutti gli uomini conoscono ma che non applicano. Per questo la comunità lo esilia,

allontanandolo dalla città, luogo del potere e relegandolo sulle montagne, dove può contare sulle uniche armi che possiede: la convinzione nelle proprie idee di giustizia e di rivoluzione. In lui possiamo riconoscere alcune caratteristiche dell’antieroe pasoliniano, nel quale si condensano il conflitto, la difficolta e il malessere che albergano nel singolo individuo schiacciato dal consumismo dettato dalla società di massa che dilaga alla fine degli anni Sessanta. Ma ciò che colpisce l’attenzione e l’anima del lettore è la sorte, anch’essa diversa, che l’autore ha in serbo per il suo protagonista. Infatti, mentre Pilade durante il suo esilio forzato sulle montagne prepara la sua guerra potendo contare su una schiera di contadini (con un chiaro riferimento all’esercito partigiano e all’esperienza della Resistenza), nei palazzi del Potere i suoi due antagonisti, Oreste ed Elettra, possono stringere il loro patto di alleanza. Oreste, in preda all’ansia di possesso propria del concetto capitalistico di frenetico accumulo (principale bersaglio di Pasolini), decide di scendere a compromessi pur di mantenere il potere e, per fronteggiare la minaccia dell’esercito di Pilade, chiede l’alleanza della reazionaria e conservatrice sorella. Due mondi inconciliabili, due fazioni opposte che non potrebbero mai avvicinarsi, si alleano. Davanti al compromesso politico e umano, davanti alla caduta di ogni ideale, davanti alla semplice e banale vittoria della frenesia del progresso sulla libertà della diversità ecco che dovrebbe compiersi la tragedia. E invece no. Pilade è l’unica tragedia pasoliniana che non si chiude con un atto tragico: il mondo verso cui il protagonista diverso nutre rabbia e odio, l’ordine sociale che intende sovvertire, in realtà non esiste più e il coraggioso Pilade diventa l’ingenuo Pilade. La società lo lascia disarmato, privandolo della sua stessa rivolta destinata a fallire ancor prima di cominciare. Per questo possiamo definire Pilade come un mancato eroe, più che un antieroe, perché costretto a trattenere il suo urlo che rimane soffocato. E quindi cosa resta dell’odio, della passione, della rabbia di Pilade dopo che vede svanire i suoi progetti rivoluzionari? Nel IX episodio lo ritroviamo, completamente svuotato di ogni ideale, a domandarsi cosa ne è stato della sua pulsione e della sua sete di giustizia: E così dovrei ora chiedermi Qual è la novità

Alla fine di tutta questa mia storia. Dovrei chiedermi come mai, se era una tragedia, non si chiude con nuovo sangue. Dovrei chiedermi il senso per cui l’intrigo di un’esistenza che ha tanto cercato qualche verità può ora sciogliersi in una pura e semplice incertezza. È vero: tutto ciò che non finisce, finisce secondo verità. Ma io non so capire questa fine sospesa della mia storia; né i nuovi sentimenti in cui, bene o male, senza conclusione, io continuo a vivere.

il poeta politico delle Ceneri di Gramsci, dell’impegno civile, della lotta e dell’opposizione, la rinuncia ad ogni tipo di rivolta sembra profilarsi come una delle poche vie possibili. Pilade e un personaggio emblematico: e lo sconfitto che non sa crearsi alleanze, che non sa mettere a fuoco un obiettivo convincente, è l’intellettuale fiero ma rimasto prigioniero di progetti irrealistici, mitizzando una ragione che non esiste. Egli contesta la realtà che lo circonda, ma non riesce a capire e a controbattere le mosse di chi e ai vertici della gerarchia sociale e la forza del potere gestita da Oreste gli rimane intangibile. E infine quasi si sottrae al confronto, maledicendo i principi che lui stesso si era costruito e in cui aveva creduto, approdando, dunque, ad una Il tentativo di Pilade di sovvertire l’ordi- condizione di dubbio assoluto che lascia ne del mondo è fallito e in lui non resta nel cuore del lettore una sensazione di che un sentimento latente ma perpetuo angoscia straziante. di spaesamento e confusione dovuto all’impossibilità di esprimere la propria Provare a percepire il dolore provato da reale volontà. Vengono a mancare in Pi- Pilade spaventa, perché ci fa sentire dilade alcuni aspetti peculiari dell’eroe sarmate marionette nelle mani di famegreco come la devozione al sacrificio, la lici burattinai che manipolano i nostri scelta della morte ponendosi come ca- movimenti e intaccano la nostre idee pro espiatorio in favore della tutela degli ancor prima che noi ce ne accorgiamo. equilibri della società. Così l’autore lancia la sua allerta attraCiò che rende Pilade un unicum nel- verso un personaggio indimenticabile l’opera pasoliniana e proprio la sua nella sua complessità, allo stesso tempo mancata reazione davanti alla disfatta sensibile e iracondo, in grado di muoe queste domande senza punto interro- vere in noi un sentimento in bilico tra gativo che il protagonista continua a ri- rabbia e compassione che ci permette di petere a se stesso suonano come una li- riflettere sul rapporto tra passione e tania disperata e straziante. ideologia, sull’unicità dell’individuo e In questa tragedia mancata, anche per sull’importanza dell’azione.

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TEATRO/2

di PAOLO TABACCHINI

La tragedia come critica L

a sera del 25 novembre 1968, alla Teatro Stabile di Torino, va in scena (una scena estremamente scarna, crudelmente essenziale) Orgia di Pier Paolo Pasolini. È un doppio esordio per lui, come autore e come regista teatrale. Ed è l’ennesimo scandalo con conseguente guaio giudiziario. È un nuovo fiotto di sangue, come quello che lo portò alla scrittura teatrale. Era infatti il marzo di due anni prima quando, mentre stava cenando con Alberto Moravia e Dacia Maraini, un grave attacco di ulcera gli causò un’emorragia. Durante la lunga degenza rilesse i tragici greci e con loro un altro maestro del dialogo: Platone. QUELL’ULCERA È LA SPINTA A MUTARE PROSPETTIVA. Pasolini deve superare un’impasse che lo costringe al silenzio come scrittore da alcuni anni durante i quali si è occupato di cinema. Quasi di getto stende, tra il ’66 e il ’67, sei tragedie (Calderón, Affabulazione, Pilade, Orgia, Porcile, Bestia da stile), pur continuando a lavorarci negli anni successivi e a volte modificandole notevolmente. Ma lo spirito è già lì, con intenzioni e fini, in quell’ulcera. SONO TRAGEDIE, IN SENSO STRETTO. Esse rientreranno in un progetto che appunto in quella sera del ’68 ha la sua realizzazione. Pasolini, come spiega nel Manifesto per un nuovo teatro che pubblica su «Nuovi argomenti» poco tempo prima della messinscena, vuole fondare, attraverso il suo impegno teatrale, un «teatro di Parola» che si contrapponga al «teatro della Chiacchiera» (il Dramma borghese) e al «teatro del Gesto o dell’Urlo» (le sperimentazioni teatrali). Questo teatro si rifà direttamente al «teatro della democrazia ateniese», ossia la tragedia classica. È dunque un teatro in versi dove la parola e il discorso dei personaggi hanno il primato sul gesto, sulla scenografia e sulla musica. È la rappresentazione dell’azione delle idee, è un teatro dialettico. TUTTAVIA IL SUO INTERESSE VERSO IL TEATRO NON INIZIA LÌ, né finisce con la stesura delle opere dette. Lo scrittore, in sedi giornalistiche e saggistiche, già dai primi anni ’60 riflette, indaga, medita. Il tema fondamentale è la natura della crisi del teatro italiano, una crisi atavica e dalle origini incerte. La causa è per lui l’assenza di una «lingua media parlata italiana» che ha portato i registi e gli attori teatrali, poco interessati alle questioni linguistiche, a ripiegare verso una lingua inesistente, artificiosa, «accademica», la quale ha reso il teatro stesso fatuo e finto. Per questo uno scrittore, che è portato per sua natura a riflettere sulla lingua e averne una profonda coscienza, non può che provare avversione per il teatro. A FRONTE DI QUESTA PREMESSA SI PUÒ COMPRENDERE LA SUA FATICA TEATRALE. Essa è al contempo una critica e una riforma del teatro stesso. Egli adotta l’unica «lingua media italia-

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na» esistente: quella della tradizione letteraria, in quanto raffinamento di una lingua «reale», vale a dire il dialetto fiorentino. Nei contenuti invece due elementi hanno il primato assoluto: il mito e la politica. Pur se apparentemente antitetici (l’astoricità del mito e la storicità della politica), nel teatro pasoliniano questi due elementi convivono e traggono forza espressiva l’uno dall’altro. Per superare il paradosso si affida a quei valori eterni e assoluti della forma dei quali, in quanto poeta, è garante. Allora il mito si mostra attraverso la sua reiterazione nel particolare, manifestando la sua, per così dire, eterna immanenza; mentre la politica, intesa profondamente come rapporto / scontro tra l’individuo e il Potere, diventa la condizione propria dello stare al mondo. Dunque nelle sei tragedie Pasolini prende nuovamente e con maggiore forza una posizione netta nei confronti della situazione sia culturale e artistica, che sociale e politica. QUEST’ULTIMO ASPETTO INAUGURA IL DISTACCO DELL’INTELLETTUALE dai moti che di lì a poco lo isolerà dalla scena politica. È nota infatti la polemica con Adriano Sofri, leader di «Lotta Continua», proprio riguardo al «peso politico», nullo per quest’ultimo, che avrebbe il Calderón. In questa tragedia la protagonista Rosaura si risveglia per tre volte in vesti diverse (come aristocratica, come proletaria e poi come borghese) ma ogni volta subisce, anche se in maniera differente, il destino di soprusi e violenze perpetrato da parte del Potere con il suo rappresentante mutevole ma con il nome costante di Basilio (Basileus). È quindi una profonda riflessione sul Potere stesso, al di là delle illusioni ideologiche e delle convenzioni culturali. Rosaura rappre-

senta coloro che vivono non adattandosi LA SUA MITOLOGIA PERSONALE, o adattandosi male alla dimensione aber- intima, entra vigorosamente in Affaburante del Potere. lazione e Orgia. Nella prima, una particolare declinazione del mito di Edipo visto IN PILADE, PROSEGUENDO L’OREdalla parte del padre, il poeta rielabora il STIADE ESCHILEA (della quale fu trasuo rapporto con il genitore trasformanduttore per la messinscena dell’opera indo il suo vissuto in un’esperienza simboterpretata da Vittorio Gassman), la lica (come accade nella sua versione cidimensione politico-sociale è calata nel nematografica dell’Edipo re di Sofocle). contesto italiano. Nell’Argo mitica, OreNella seconda indaga il rapporto tra uoste torna realizzando la rivoluzione della mo e donna facendo di una pigra domeRagione (Atena), mentre il compagno Pinica borghese un momento essenziale ed lade ben presto diventa capo di una briesemplare dell’esistenza di una coppia di gata misteriosa che ha l’intenzione di roconiugi. Anche in questi casi, comunque, vesciare il nuovo governo. È una rilettura la dimensione del Potere influenza fordella storia politica italiana post-fascista. temente il tenore del racconto e il destino Nel prologo, i cadaveri appesi di Egisto e e l’azione dei personaggi. Clitennestra che il Coro evoca ricordano Benito Mussolini e Claretta Petacci in BESTIA DA STILE, APRENDOSI A quel bagno di sangue e crudeltà della loro UN ORIZZONTE EUROPEO dipinge esposizione pubblica. Oreste è l’uomo criticamente il sistema politico dell’Est nuovo, liberale e democratico che porta sovietico. Mentre Porcile rappresenta il progresso, la ricchezza e il benessere nel l’istinto fagocitante della borghesia mitpaese (il nuovo assetto politico di stampo teleuropea, risentendo molto della visiorepubblicano-democratico). A Pilade, un ne pittorica di George Grosz. altro «capro espiatorio» della società (coDUNQUE, NEL TEATRO TRAGICO DI me Rosaura) insofferente nei confronti PASOLINI BIOGRAFIA, storia e mito della nuova forma di Potere-Sopruso, convergono generando un universo dal non resta che esercitare il «diritto / a perprofondo senso esistenziale. All’interno dersi, a morire», istaurando una lotta ridel flusso della storia riesce a cogliere l’esvoluzionario-partigiana contro il nuovo senza esemplare, archetipica, simbolica Basileus. In quest’opera è ben riuscito il che è incisa in ogni esperienza umana e processo di mitizzazione della storia e stoche non può far altro che manifestarsi atricizzazione del mito. L’esperienza politica traverso di essa. italiana si fa racconto esemplare che educa sulla natura del contrasto io-Potere. La LE SEI TRAGEDIE SONO UN ULTEfigura di Pilade, un personaggio estrema- RIORE ESEMPIO della straordinaria mente tragico, adombra in parte, nello forza innovativa e attualizzante del classpirito, lo stesso autore. Pilade, come Pa- sicismo pasoliniano e un ultimo esempio solini, è la pietra dello scandalo, un reiet- delle singolari potenzialità ermeneutiche to escluso dalla società poiché ne ha una del poema tragico che, fin dal suo primo profonda coscienza; è un moderno Pro- apparire nella Grecia classica, ha saputo meteo in balia del proprio destino solita- mostrare profondamente il destino e il rio e dolente. senso dell’uomo e dell’umanità intera.


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CINEMA

di JACOPO RASMI

Un documentarista in incognito ROSSELLINI, UN MAESTRO INCONTRATO NELLA PENOMBRA DEI CINEMA ROMANI ANNI ‘50, AFFERMAVA (com’è noto a taluni): “Le cose sono lì, perché modificarle?” E con questa affermazione, elementare e fulminante, pareva riassumere il senso etico e metodologico del proprio cinema. Ovvero di un cinema dalla spiccata vocazione documentaria in cui la messa in scena, la macchina spettacolare, i clichés di genere (che il cinema hollywoodiano aveva già contribuito ad imporre) lasciavano spazio a un’esplorazione audiovisiva del reale (delle cose, del territorio, dei corpi...). Quel reale qualunque, impellente e tragico, che il dopoguerra consegnava in eredità all’impegno esistenziale ed al lavoro culturale, senza ammettere tante deroghe fantasiose o ideologiche. Le cose sono lì: non si tratta di acconciarle, di inventarle ad arte, di sostituirle. Si tratta di documentarle queste cose, tali e quali, cinepresa alla mano, rivelandone la loro presenza espressiva, storica e pregnante. Paradossalmente poetica. Ebbene, questo cinema francescano, vissuto e materico, il fiore del Neorealismo, fatto di esterni, di comparse, d’accenti vernacolari, di vita quotidiana sembra nutrire nel profondo lo sguardo registico di Pasolini. FORSE NIENTE PIÙ DI UN ANEDDOTO VAGHEGGIATO DAL PASOLINI SAGGISTA ci restituisce il senso e l’ambizione dell’opzione cinematografica nel suo percorso artistico. Si tratta della famosa “discussione del facchino”, tra vecchi compagni romani: Pasolini, Moravia e Bertolucci. Lo statuto del cinema si testa, in tale occasione (accaduta o immaginata, poco importa), sull’ipotesi filmica di un facchino. Tale facchino per Moravia sarebbe, irrimediabilmente, “immagine”, ovvero rappresentazione finzionale in odore di “naturalismo”. Per Bertolucci questo nostro facchino dovrebbe pronunciare inattese “parole filosofiche”. Tacciando entrambi di borghesia, Pasolini rimprovera al facchino di Moravia di essere un’insipida “idea estetica” e a quello di Bertolucci d’essere un “apocrifo e pretestuale” facchino che scimiotta “Hegel”. Come lo concepisce questo facchino lui stesso (e come concepisce dunque il cinema in generale)? Se voglio esprimere un facchino, argomenta Pasolini, “prendo un facchino vero e lo riproduco con la sua faccia, la sua carne e la lingua con cui si esprime”. È di capitale importanza sancire nella disputa questo principio: “il facchino del cinema è lo stesso facchino della realtà”.

STRAMPALATA, a Pasolini interessa innanzitutto sostenere che il cinema non si esprima rappresentando la realtà, ma registrando la realtà. È realtà che si incide: dunque, in quanto “lingua scritta della realtà”, è irreversibile inscrizione di un evento materiale e vivente, non testo “arbitrario” o “simbolico”. Sempre era andato cercando una forma espressiva che lo avvicinasse il più possibile - fino ad un’allucinante coincidenza - alla realtà, alla vita. Poeta ovunque e comunque, Pasolini si prefiggeva nel cinema di dare finalmente manifestazione (oltre i confini del poetico, del poetabile, del poetato...) al polmone della “poeticità naturale della vita.” SOPRATTUTTO DI UNA COSA SI PREOCCUPAVA PASOLINI, FINO ALLA PARANOIA: DI NON ESSERE BORGHESE. Celebrare il reale contro/nonostante la stretta soffocante dello spirito borghese. Ed il reale è innanzitutto, secondo il poeta, esperienza dell’alterità, della contaminazione, del divenire, del molteplice: una realtà di materia e desiderio in cui il soggetto si batte, si genera, si consuma, si disperde. Ed in quanto tale le cose del reale sono “naturalmente” poetiche. E la borghesia sarebbe, all’opposto, una funzione omologante, che tende ad assorbire ogni cosa nel suo sistema d’ordine, lavorando alacremente per astrazione, annessione e universalizzazione. Per dirlo con le sue parole: “La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non sapere riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali a una sostanziale analogia con la propria.” Laddove l’altro, il diverso, l’ignoto è smarrito nell’abbacinante luce della cultura dominante, il reale vivente e la sua poeticità sembrano estinguersi.

audio-visiva del circostante, ecco che un’inedita, selvaggia ed esaltante armonia con la vita sembra proporsi. Nel cinema, come espressione de “la realtà con la realtà”, Pasolini vive il sollievo di un’evasione da un codice astratto e autoreferenziale. FINALMENTE PUÒ SOTTRARSI AL RICATTO DELLE “COSE DELLA POESIA” (ovvero l’ingombrante imposta di regole, autorità, confronti che il sistema letterario sempre riscuote), per immergersi fino allo stordimento nella “poesia delle cose”. Perché fare cinema, significa per Pasolini scrivere con la vita stessa (in un’euforica ed utopica indistinzione). Significa attraversare territori, incontrare visi, osservare corpi, esplorare paesaggi, ascoltare parlate - in compagnia d’una cinepresa... Ama filmare, perché filmare significa vivere, sperimentare il reale. Come era stato nella sua scrittura (l’esperienza del Friuli rurale, poi della borgata romana...): eppure c’era ancora uno scarto, una dissociazione che, per quanto forse insignificante, diveniva intollerabile. Mentre il cinema, al suo ideale quanto meno, è vita, esperienza vivente che si fa opera. Il reale diventa testo, pare cogliersi “questo senso delle cose” che dimora, originario, “al di là del loro significato”. Così Pasolini soddisfa la sua ambizione, estetica e politica, più inconfessabile - ma scandalosamente confessata di continuo.

E DUNQUE PASOLINI, IN QUESTA SUA BATTAGLIA PER “NON RASSEGNARSI A ESSERE OMOLOGHI NELLA PROPRIA OPERA ALLA SOCIETÀ PICCOLO BORGHESE”, è alla ricerca di una tecnica per esprimere la vita, nella sua materia altra e pertanto splendidamente resistente, senza trasfigurarla secondo le proiezioni della propria coscienza, dei presupposti sociali, della sovrastrutture culturali. In quanto poeta non c’era tanto bisogno di spiegare, di significare (“significar per verba non poria”), ma piuttosto di rivelare la bellezza e nella bellezza un senso. E la bellezza non pare essere programma, ma dono avventizio: la bellezza accade, giunge, figlia di una “certa inattingibile grazia”. Nelle parole sembra esserci ancora troppa TRAENDO QUALCHE INDICAZIONE astrazione, troppa costruzione, troppo COME, DUNQUE, DOVREMMO NOI DI QUESTA DISQUISIZIONE UN PO’ sé. Ma nelle immagini, nella registrazione COMPRENDERE IL CINEMA PASO-

LINIANO? Questa cinema di field-work, il cui momento decisivo diviene registrare il reale nella sua alterità, la vita nel suo processo, la materia nella sua resistenza storica e sensibile? Proporrei: come un cinema “documentario”, liricamente documentario beninteso. Un cinema che tende a rifuggire la scena dello studio, la professionalità attoriale, l’apparato scenografico (tutti caratteri del cinema finzionale, “di prosa”). Si tratta di film che abitano luoghi, incontrano genti, volti e accenti, intrisi di meteo e di paesaggio, che affrontano un tempo (storico) senza rifuggire in altrove fantastici. Talvolta veri e propri documentari (da Comizi d’amore a Le mura di Sana’a), talvolta “fiction” ma dal senso comunque, innegabilmente, documentario. Il vangelo, più che storia di Cristo, pare documento di Matera, delle voci meridionali, dei corpi del popolo, degli amici intellettuali, del vento assolato che spazza l’entroterra del sud... Sono le cose che si rivelano evangeliche. Non la storia di Cristo che imbelletta gli oggetti e le genti. Le Mille e una notte è forse meno la ricostruzione dei racconti, che non un innamorato documento degli orizzonti desertici, dei architetture fiabesche e dei profili arabi del mediooriente (yemenita). Osservateli bene, questi film, oltre le superficie finzionale che talvolta strega il nostro sguardo. Forse ovunque ci sia Pasolini alla macchina da presa pulsa il cuore (poetico) di un documentarista, in incognito.

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AUTUNNO-INVERNO 2015/2016 di ANGELA BUBBA

Anna e Ettore “Devi vedere quel film di Pasolini. Devi vedere Mamma Roma.” “Va bene.” “C’è quella frase poi, a un certo punto, così potente…” “Quale frase?” “Capirai.” Rilessi un paio di volte quella conversazione via e-mail con Massimiliano Governi, il mio migliore amico, grande editor e grande scrittore, e l’indomani cercai di recuperare il film. Alla fine lo trovai su Youtube. Lo guardai col cuore spaccato dalla tenerezza e quasi trattenendo il fiato. Ogni immagine era un dono. Le occhiaie fonde di Anna Magnani, la voce pietrosa di Ettore Garofalo, la città primitiva e fragile nella sua bellezza. Nonostante il bianco e nero, riuscì a rintracciare una luminosità accecante e che doveva racchiudere tutti i colori. Le inquadrature li tenevano in serbo per aumentare la mia attenzione: così mi sembrava. Rividi la pellicola più volte. Andando indietro, avanti, poi di nuovo indietro e poi ancora avanti. Non riuscivo a capacitarmi di quella maternità stralunata, della debolezza fortissima di ogni gesto, dell’amore che può spezzare anche la vita. Piansi mentre Anna abbracciava Ettore nella scena del motorino. I loro corpi come angeli lungo la strada. Le parole tanti cocci di sangue. La loro purezza un tumore, che tatuava tutte le scene. Anna che chiudeva gli occhi con sereno dolore. Ettore che rideva insensibile all’infelicità. Anna con la camicia a quadri. Ettore con una casacca chiara. Andai indietro col cursore un’ultima volta, poco oltre l’inizio, e seguii Anna richiamare Ettore dal suo gruppo di amici. Gli disse che l’avrebbe condotto a Roma e si sorprese per la mancanza d’entusiasmo, l’ammonì per la sua ingratitudine. In meno di un minuto gli buttò addosso tutti i sacrifici e le rinunce, le difficoltà tremende affrontate finora. E per cosa? Solo per lui, solo per difenderlo. Anna guardò Ettore. “Te ancora n’ha a sai tutta la cattiveria der monno”. Riascoltai quella frase per tutto il giorno. Erano quelle le parole di cui parlava Massimiliano, sì. Dovevano essere quelle. Da allora un quadretto campeggia nella mia stanza romana. Anna e Ettore, che viaggiano per sempre in questa città.

UN MONOLOGO DI MARGHERITA GRAVAGNA

Risposta di un ragazzo del 2000 a Pasolini E io. Come posso andare là, adesso. Come posso. Sono stanco. Sono già stanco. E non è la stanchezza fiera, la stanchezza viva nutriente, quella del dopo corsa dopo una partita con gli amici dopo il sesso la stanchezza soddisfatta dopo un lavoro fatto bene, che puoi avere il fiatone è permesso. Puoi respirare forte. Sono stanco immobile. Perché già lo so come andrà. Cioè io non lo so, perché ancora dovrei cominciare tutto è ancora tutto da scrivere avrebbero detto in altri tempi – invece ora è tutto scritto, già tutto fatto, tutto provato, tutto solo da peggiorare. Lo dicono loro. Da che ho ricordi l’hanno sempre detto a me e a tutti quelli giovani come me. Alla mia generazione lo dicono tutti: sono tempi bui. Tempi bui. E io come posso andare là adesso. A propormi a sembrare vincente, a mentire dicendo che ho in mente grandi cose non è vero, non ce la faccio. Io vorrei. Io vorrei, io potrei e sarei anche bravo se solo Ma sono stanco. Sono stanco e la colpa è vostra, è vostra è tutta colpa vostra. Pentitevi. M’avete messo addosso tutta la vostra merda, il cinismo, la disillusione che non era mia ma adesso m’appartiene e come posso andare là sapendo già che non c’è luce, non c’è vita vera come quella di una volta per me non c’è più non può esserci più. A volte mi dico, che stiano mentendo, che tutti voi mi stiate mentendo, che c’è un posto invece anche per me un posto caldo, sicuro, giusto, meritato – che importanza ha adesso. Io vi vedo. Vedo solo voi. Padri. Padri dei Padri. Padri dei Padri dei Padri – io vi vedo – Stronzi. Bravi e Stronzi con le vostre colpe le piogge di colpe che dovrò pagare Io. Crepate. E state zitti finalmente. Crepate coi vostri culi sulle sedie che spetterebbero a me. Crepate con le lezioncine disilluse. Io mi voglio illudere. Voglio illudermi che voi possiate morire presto. E liberare quelle cazzo di sedie che spetterebbero a me. Perché io adesso sono stanco. Sono stanco. Sono molto stanco.

*Frammento espistolare di P. P. Pasolini (Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964) Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci, ma non aspettarti nulla da questo incontro. Se mai, una nuova delusione, un nuovo vuoto: di quelli che fanno bene alla dignità narcissica, come un dolore. A quarant’anni io sono come a diciassette. Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne si possono, certo incontrare, balbettando idee convergenti, su problemi tra cui si aprono due decenni, un’intera vita, e che pure apparentemente sono gli stessi. Finché una parola, uscita dalle gole incerte, inaridita di pianto e voglia d’esser soli – ne rivela l’immedicabile disparità. E, insieme, dovrò pure fare il poeta padre, e allora ripiegherò sull’ironia – che t’imbarazzerà: essendo il quarantenne più allegro e giovane del diciassettenne, lui, ormai padrone della vita. Oltre a questa apparenza, a questa parvenza, non ho niente altro da dirti. Sono avaro, quel poco che possiedo me lo tengo stretto al cuore diabolico. E i due palmi di pelle tra zigomo e mento, sotto la bocca distorta a furia di sorrisi di timidezza, e l’occhio che ha perso il suo dolce, come un fico inacidito, ti apparirebbero il ritratto proprio di quella maturità che ti fa male, maturità non fraterna. A che può servirti un coetaneo – semplicemente intristito nella magrezza che gli divora la carne? Ciò ch’egli ha dato ha dato, il resto è arida pietà.


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ANTICHE POLEMICHE

di FRANCESCA SANTUCCI

Teorema si ritira dallo Strega Due domande a Walter Siti

«È

un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno/ o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo./ È un urlo che vuol far sapere,/ in questo luogo disabitato, che io esisto,/ oppure, che non soltanto esisto,/ ma che so». Paolo cammina nel deserto, è confuso, si interroga e continua ad arrampicarsi sulla sabbia, a scrutare l’orizzonte sempre uguale, come calato in una visione. All’improvviso, urla; il volto si sfigura e i lineamenti si spezzano, urla e gli sembra di essere tornato bambino, è pieno di gioia. UN URLO DISPERATO, che fa eco al protagonista di Teorema, scalzo, nel deserto, è quell’articolo che Pasolini pubblica su Il Giorno il 24 giugno 1968: In nome della cultura mi ritiro dallo Strega. Poco prima della seconda votazione, l’autore di Teorema, in lizza per il prestigioso premio di casa Bellonci, ritira il suo romanzo dalla gara. I risultati della prima votazione lo hanno visto secondo (62 voti), dopo L’occhio del gatto di Bevilacqua (103 voti), in una cinquina composta ancora da Cattaneo (56 voti), Barolini (52 voti) e Zavattini (37 voti). Scendere a patti con le dinamiche recondite che hanno generato questa classifica, per Pasolini è inaccettabile: «sono venuto a conoscenza di fatti (di cui purtroppo non posso né, credo, potrò mai produrre prove) che mi hanno convinto che il Premio Strega è completamente e irreparabilmente nelle mani dell’arbitrio neocapitalistico», scrive su Il Giorno. Non era ancora così, però, quando partecipò al premio negli anni Cinquanta: se a quel tempo frequentare il salotto Bellonci era come andare a «giocare a tombola coi vicini di casa», nel ‘68 lo Strega si trova al culmine di una parabola degenerativa che lo ha reso parte integrante di un’ «industria culturale», prodotto ultimo della nuova Italia borghese. Gli interessi individuali degli editori, secondo Pasolini, hanno pervertito l’assetto morale dell’intero agone, adulterandone il momento ludico. È per «protesta contro l’ingerenza dell’editore industriale» in un circuito considerato ancora profondamente culturale, allora, che Pasolini volge le spalle al compromesso degradante, ignorando le garanzie di Maria Bellonci su una imminente riforma all’interno del Premio. Il ritiro di Teorema, comunque, per regolamento non è effettivo: è un atto puramente formale. Ecco perché, in un altro articolo su Il Giorno del 4 luglio, continua la polemica con un appello: Votate scheda bianca e vincerà la cultura. È una cultura, quella di cui Paso-

lini parla, che sembra vieppiù arrancare con fatica: gli intellettuali sono stati scalzati da imprenditori non più umanisti, non più umani: «altro che guide spirituali. Ci siamo ridotti, ancora una volta, al grado di buffoni». Astenersi dal voto lasciando la scheda bianca, allora, sarebbe la «prima protesta collettiva della società letteraria italiana». EPPURE, LONTANO DALLA TEORETICA solenne e giudicante dei suoi articoli, Pasolini cede ad atti di umana debolezza: colui che in una lettera indirizzata a Leonardo Sciascia sembra elemosinare un voto per Teorema, non ci sembra l’intellettuale sprezzante e severo che qualche mese dopo condannerà il Premio. «Non vedo particolari “ambiguità” nell’atteggiamento di Pasolini in occasione dello Strega 1968», commenta Walter Siti (curatore dell’intera opera pasoliniana per la collana dei Meridiani Mondadori e vincitore del Premio Strega nel 2013) quando gli chiedo cosa pensa del Pasolini che taccia lo Strega di corruzione e insieme scrive a colleghi e amici in cerca di sostegno. «Pasolini», continua, «come è facilmente riscontrabile dalle sue lettere, è sempre stato sensibile al successo letterario, e ha regolarmente fatto tutte le trafile per i premi letterari, almeno fino appunto al Sessantotto. Nel 1955 partecipò allo Strega con Ragazzi di vita, piazzandosi quarto nell’edizione vinta da Comisso. Nel 1959 vi partecipò con Una vita violenta, arrivando terzo nell’edizione vinta dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. (E’ stata forse questa la delusione più forte, anche perché in quello stesso anno perse il Viareggio, piazzandosi dietro il vecchio Marino Moretti). Nel 1968 si sottopose come tutti, e come tutti con un po’ di vergogna, al dovere di postulante di voti: scrisse a Leonetti, Sciascia, Anceschi, Caretti, Bonsanti, Bodini e forse ad altri. Comprensibilmente, ci teneva. Arrivò secondo alla prima votazione ma capì che non c’erano possibilità per la vittoria, ormai destinata a Bevilacqua. Il vincitore designato dev’essergli apparso meno indiscutibile di Comisso e Tomasi, ci si è arrabbiato. Intanto il suo incontroscontro col Sessantotto, con gli studenti e con la contestazione, andava avanti tra ripulse e bisogno di solidarizzare, come si verificò anche al Festival di Venezia. Gli parve più dignitoso ritirare il libro prima dell’ultima votazione, approfittandone per denunciare l’ingresso dell’industria culturale in un settore che (“arcaicamente”, come lui stesso ammette) considera ancora “non industriale”. Tutto molto umano e non eroico, ma comprensibile.» TUTTO MOLTO UMANO: è con questa umanità che Pasolini dichiarerà di aver partecipato alla competizione così come

si partecipa ad un gioco, con la leggerezza e il candore degli incoscienti, con quella vanità di Pier Paolo bambino che salutava la madre affacciata alla finestra, di ritorno da scuola, la medaglia di primo della classe appuntata sul petto. «Ho bisogno di voti non tanto per vincere, quanto per non venire a sapere che sono completamente isolato e abbandonato», scrive Pasolini a Sciascia nel ’68, prima del ritiro del romanzo dalla gara. Tutto molto umano. LA POLEMICA LASCIA INTRASENTIRE, in germe, la verve tutta caustica degli Scritti corsari, raccolti nel ’75: la mutazione antropologica generata dal nuovo Potere dei consumi e dello spettacolo ha raggiunto, secondo l’autore di Teorema, anche l’umanesimo letterario: il libro non dice più nulla sul suo autore; i lettori sono stati sostituiti dagli acquirenti. Quarant’anni dopo, la mercificazione del prodotto libro è ancora (e con più violenza) una problematica attuale. «Penso che il processo di industrializzazione è andato molto più avanti, seguendo l’indirizzo economico generale di passaggio dalle imprese alla finanza, come si è visto anche in recenti fenomeni di

acquisizione e concentrazione» risponde Siti, quando gli domando cosa pensa dell’editoria contemporanea. «Penso che si sta andando verso un doppio regime: da una parte gruppi editoriali sempre più enormi, che si occupano dei grandi numeri a livello mondiale, e dall’altra piccoli editori “di nicchia”. Penso che la qualità della letteratura non sia in pericolo, ma penso anche che gli scrittori, gli editori e gli intellettuali in genere debbano tenere gli occhi bene aperti sui mutamenti che inevitabilmente il cambiare della struttura economica provocherà sulle gerarchie di valori nella testa del pubblico (e degli “operatori” stessi del settore). Per esempio, nel rapporto tra la letteratura cosiddetta “alta”, o “letteratura in senso forte” come forma ineliminabile di conoscenza, e la letteratura cosiddetta “di consumo”. (Penso al fenomeno, che mi pare inedito, della letteratura “forte” che stilisticamente si modella reattivamente rispetto a quella “di consumo”: con formazioni iper-stilistiche rispetto alla riduzione dello stile al grado zero della facilità, e col rifiuto della “trama” rispetto al diluvio di storie stereotipe e convenzionali).»

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MADRI

di GIORGIO BIFERALI

“Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore” Q

uello di Susanna Colussi è uno di quei casi in cui una madre sopravvive alla morte del proprio figlio. Lei, morta a Udine nel 1981. Il figlio, Pier Paolo Pasolini, ammazzato all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975. «Perché non sono morta io?», non faceva che chiedersi Susanna, «sarebbe stato più giusto. Sono vecchia, che ci sto a fare qui?». DI SUSANNA COLUSSI, che di mestiere faceva la maestra alle scuole elementari, Enzo Siciliano ricordava «l’asciuttezza del corpo, e lo sguardo acuto, un’allegria leggermente spiritata». Pasolini la sentiva parlare, ascoltava fin da piccolo il dialetto friulano, quella lingua parlata e mai scritta. Il suo amore per i dialetti nasce da lì, da quell’oralità anonima e incontaminata, e anche la sua vena narrativa, la stessa di cui parlava Benjamin in quel celebre saggio dedicato alla figura del narratore: «L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi» (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov). I «narratori anonimi» delle prime poesie pasoliniane, oltre alla madre, sono gli abitanti di Casarsa. In quel piccolo comune del Friuli, Pasolini comincia a dedicarsi anche all’insegnamento, in una scuola privata che apre insieme alla madre. Ma nel 1950, dopo essere stato denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, espulso dal PCI (al quale si era iscritto nel ’47) e sospeso dall’insegnamento, Pasolini fugge a Roma e porta con sé la madre: Arrivammo a Roma, aiutati da un mio dolce zio, che mi ha dato un po’ del suo sangue: io vivevo come può vivere un condannato a morte sempre con quel pensiero come una cosa addosso, - disonore, disoccupazione, miseria. Mia madre si ridusse per qualche tempo a fare la serva. E io non guarirò più di questo male. Perché io sono un piccolo borghese, e non so sorridere… come Mozart… (Poeta della ceneri, 1966-1967)

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I PRIMI TEMPI abitano a casa di Gino Colussi, fratello di Susanna e zio di Pier Paolo, in via di Porta Pinciana 34. Pasolini si sente sperduto, preoccupato, inquieto, pensa che Roma sia una delle tante città di passaggio, uno dei tanti luoghi nel mondo in cui portare in salvo la madre dalle crisi isteriche del padre. Ancora non sa che Roma diventerà la sua vita, una seconda mamma che lo abbraccerà così forte da levargli il respiro. Cerca lavoro come «salariato» alla direzione delle Belle Arti, e intanto fa qualche piccola comparsata a cinecittà. «Qui cielo azzurro e kafkiana primavera», scrive al cugino Nico Naldini, «io sono di gesso». Nel 1961, l’anno di Accattone, dopo aver pubblicato i versi de La meglio gioventù (1954) e de Le ceneri di Gramsci (1957), e i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), esce La religione del mio tempo. La madre si nasconde nella poesia A un figlio non nato, dietro a una bambina di nome Franca, venuta da Viterbo, «già madre» anche lei, «che fu la più svelta». Franca lavora per strada, su uno dei ponti che sorvegliano il Tevere, e aspetta «i clienti al sole». Pasolini la

osserva, la fa salire come fosse uno dei suoi tanti clienti, come fosse interessato a dare un prezzo al suo corpo. Non è altro che un’occasione per conoscerla, per farsi raccontare la sua storia. Come se volesse proteggerla, almeno per un po’. Il poeta si accorge che il mondo sta cambiando, non gli piace più, e il suo pensiero va al «primo e unico figlio non nato»: Eppure, primo e unico figlio non nato, non ho dolore che tu non possa mai esser qui, in questo mondo. COME SE VOLESSE SMENTIRE quello che scriverà qualche anno più tardi sul Corriere della sera, il 12 gennaio 1975, definendo l’aborto una «legalizzazione dell’omicidio»: «io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente». Nel 1964, Susanna Colussi interpreta la Madonna ne Il Vangelo secondo Matteo. Nello stesso anno, esce anche Poesia in forma di rosa. Si va dalla Ballata delle madri, che apre la raccolta e che

è un’unica grande domanda che il poeta rivolge ai figli, ai suoi contemporanei aridi, crudeli, cattivi, che non conoscono il sentimento della pietà, che sono sempre pronti al compromesso, che non accettano la diversità, a una delle poesie più belle e più toccanti dell’opera pasoliniana, Supplica a mia madre: È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senz’anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile… LA MADRE, CONOSCENDO fin dal principio e prima degli altri la vera natura del figlio, il suo segreto più profondo, la sua diversità, e avendolo amato senza condizioni e senza mai giudicarlo, non ha fatto altro che illuderlo e condannarlo a una vita infelice. Quando il figlio scopre il mondo di fuori, la madre che gli ha riempito la vita d’amore diventa colpevole. Ma diventa anche l’unico luogo in cui riconoscersi, in cui sopravvivere «fuori dalla ragione».


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RILETTURE

di MASSIMO CASTIGLIONI

Pasolini picaresco

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n uno degli articoli raccolti in Descrizioni di descrizioni, Pasolini dice che «Lazarillo è un “ragazzo di vita”»; ma chi è questa persona e perché Pasolini la accosta ai “suoi” ragazzi di vita? Lazarillo, o semplicemente Lázaro, è il protagonista del Lazarillo de tormes, primo romanzo picaresco della storia della letteratura, pubblicato da un anonimo nella Spagna del 1554. A occupare la narrazione è l’ironico resoconto, in prima persona, di un ormai adulto Lázaro in merito alla sua vita e alle enormi difficoltà che ne hanno accompagnato lo svolgimento, tra povertà, genitori criminali, costanti spostamenti, padroni dagli atteggiamenti discutibili e necessità di guadagnarsi da vivere mettendo in pratica truffe e beffe di ogni tipo. Al Lazarillo seguiranno molti altri romanzi picareschi lungo il Seicento, dal Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán al Buscón di Quevedo, dalla Pícara Justina di Úbeda a La vida y hechos de Estebanillo González di autore ignoto (solo per citarne alcuni), e tutti, confermando o ampliando i caratteri della figura originaria di Lazarillo, contribuiranno a definire le costanti di questa forma letteraria in prosa alla base del romanzo borghese moderno.

AL DI LÀ DELL’OSSERVAZIONE della realtà e della difficile situazione in cui versano le classi più basse della società spagnola, la costruzione della figura del picaro da parte degli scrittori avviene attraverso un’attualizzazione dell’archetipo del furfante, presente nella tradizione letteraria fin dai tempi più remoti, mantenendone i caratteri buffoneschi e arricchendolo con alcuni particolari non secondari: il picaro spagnolo è strettamente legato all’ambiente sociale che lo ha prodotto, dal quale cerca di uscire in ogni modo. A questo desiderio di promozione sociale si unisce la grande novità della formazione del protagonista: nel duro scontro con la realtà il picaro cresce e matura, impara a stare al mondo, e se anche alla fine di alcuni romanzi le sue prospettive future saranno tutt’altro che rosee, o se perfino lui stesso, narrando le sue avventure, si condannerà moralisticamente per i suoi trascorsi (ma in fondo con un sentimento di attrazione e nostalgia per il passato da furfante), niente può annullare quel movimento di maturazione del personaggio che porterà il romanzo picaresco, nel corso della storia della letteratura, a trasformarsi e ad assumere i connotati del romanzo di for-

mazione. Lazarillo muterà luogo di azione e nome, dalla Spagna si sposterà in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Italia e in molte altre zone; si chiamerà Tom Jones, Huckleberry Finn o Pinocchio, e andando un po’ più avanti nel tempo si chiamerà Riccetto, Amerigo, Marcello e vestirà gli abiti dei sottoproletari delle borgate romane ritratti da Pasolini. ECCO SVELATO, DUNQUE, il senso dell’accostamento ricordato all’inizio. Il Riccetto (e con lui i suoi compagni di avventure) è parente alla lontana di Lazarillo, e, più in generale, Ragazzi di vita (1955) è una declinazione novecentesca del romanzo picaresco, chiaramente adattata alle esigenze, alle ossessioni e alla poetica dell’autore. Non è solo a partire dalla diretta conoscenza del mondo delle borgate che Pasolini scrive il suo romanzo: questa esperienza è riversata all’interno di una struttura letteraria ben determinata. Anche i ragazzi di vita pasoliniani, come i picari secenteschi, provengono dagli strati più bassi della società, devono spesso fare i conti con genitori poco raccomandabili, sono in continuo movimento per le sconfinate strade della città, e per non soccombere alla povertà vivono di espedienti temprando il loro

carattere all’insegna di crimini vari («in quei due anni il Riccetto s’era fatto un fijo de na mignotta completo»). LA NOVITÀ DI PASOLINI nei confronti del modello sta in alcune discontinuità rilevabili soprattutto nel ruolo della voce narrante e nell’assenza quasi totale di ironia nella storia. Se il romanzo picaresco preferisce un resoconto dei fatti in prima persona, con il narratore che ambiguamente critica e invidia il se stesso più giovane, in Pasolini, che scrive in terza persona, non c’è ombra di giudizio, semmai prevale una fortissima attrazione per la vitalità dei ragazzi delle borgate, ancora pervasi da quella purezza che il Riccetto, il personaggio principale, andrà perdendo nel corso del romanzo inserendosi sempre più nel mondo del lavoro. E per quanto questi ragazzi di vita sappiano ridere e scherzare (pur scemando nel macabro e nella violenza), la loro comicità (molto diversa da quella buffonesca dei picari) è marchiata da qualcosa di angosciante, da un’onnipresente atmosfera di morte che annulla ogni ironia in tragedia, soprattutto nelle ultime pagine del libro, «e ggià la Commaraccia secca de Strada-Ggiulia arza er rampino».

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BORGATE IERI E OGGI

di ALEXANDRA CENSI

Per una Roma africana C

erte ragazzette, anni fa, in un’era completamente diversa da questa, erano capaci di tenere tutto il Trullo tra i denti. Ma questo poteva succedere solo in certe periferie di certe città, solo la sera, solo quando la notte si squarciava su Roma e il grigio di certi vestitini da due soldi era la cosa più bella alla vita: “Si vede dagli zigomi sporgenti e tesi, e dai denti che spingono in fuori la poca carne intorno alle labbra, che viene qui a lavorare da qualche borgata lontana, il Trullo, o la Magliana, o Primavalle...”. AL TRULLO TUTTO SI SQUARCIA, tranne le coscienze. Nelle vie periferiche nessuno può avere una coscienza cristiana, sono tutti pagani e nati prima di Cristo. “Le borgate sono nate dagli sventramenti fascisti” ha scritto Pasolini, e sia così. Narrare delle borgate vuol dire subire il fascino di uno sventramento, come quando si entra nel retro di una macelleria e i ventri aperti dei vitelli vietano allo sguardo di allontanarsi. La Roma di D’Annunzio, allora, è finalmente lontana, la Roma di Stendhal può smettere di farla da padrona. Era una Roma di nobili e stranieri, con una plebe ancorata ad una tradizione troppo vicina alla Storia. Anche Moravia lo ricorda: la realtà sociale della capitale era rimasta immobile per circa due secoli. IL PRIMO SQUARCIO è stato sferrato dal fascismo, e Pasolini lo sapeva, il mondo può cambiare con “gli sventramenti e gli isolamenti retorici dei monumenti classici e con la costruzione di interi nuovi quartieri per impiegati dello Stato e di cosiddette borgate per la povera gente”. Ed ecco perché la borgata romana è più africana che mai, a Roma è possibile andare avanti e indietro nel tempo solo con la forza di una bestemmia. In Campo di concentramento, Pasolini scrive: “Ogni città italiana, anche nel Nord, ha, alla periferia, dietro gli ultimi orti, i suoi piccoli campi di concentramento per miserabili: sono per lo più capannoni, casermette, baracche. Ma in nessuna città italiana il fatto presenta aspetti così impressionanti, complessi, direi grandiosi, come a Roma. La borgata è un fenomeno tipicamente romano, in quanto Roma fu capitale dello Stato fascista”. SONO I VILLAGGI BEDUINI, in cui lo sventramento permette la conoscenza della realtà sottostante, del sottomondo. E nel sottomondo si muovono ferini certi ragazzi, sotto un sole eternamente velato da ombre di zanzare e disinfettante; ragazzi che si prestano al tradimento di ogni cosa, della volontà e della Storia, con un’innocenza che li perdona all’istante. D’altronde, al Trullo l’amore sta tutto nella forza di un anvedi!, che vuol dire stupirsi e scoprirsi nudi, vulnerabili e fortissimi, in un mondo in cui lo stupore sembra impossibilitato da un’ironia di distacco. IN CERTI TESTI di Pasolini sulle borgate non si può fare altro se non subire la fascinazione romana, in una limpidezza che può ammazzare: “Ti ho dato un bacio solo, ieri sera, ma ho baciato tutta Roma”, “L’attesa di una notte e di un giorno, per l’appuntamento sul lungotevere, mi ha ucciso. Da te stasera verrà soltanto la mia ombra, a medicare un po’ di carne”, “Non lo sospetti, ma ogni boccone, ogni sorsata e ogni boccata di fumo, nel primo bar, ti scolpiva nel marmo della tua bellezza ancora non creata. E poi, non parlavi?”,

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BACIARE QUALCUNO al Trullo vuol dire baciare tutto il Trullo, baciare un ragazzo degeneratamente biondo di Trastevere vuol dire baciare tutti i lungoteveri della città. Ci si confonde e non si capisce più dove finisce il ragazzo e dove inizia la pietra delle spallette, dove finisce la carne incatramata da quel sole cattivo che sa di cavoli mal cotti e dove inizia la statua infangata, incrostata. E’ tutto uguale. La stessa dolce maledizione. Gli Squarci delle notti romane suonano in questo modo. E via del Trullo è la stessa da sempre, è qui che il tempo si è fermato, i secoli di Stendhal sono dimenticati. Via del Trullo è per Pasolini la via dell’innocenza. Ed è qui che ha deciso di girare Uccellacci e uccellini. Anni fa, tagliando per una stradina sormontata da una scuola abbandonata ed ora occupata da profughi sempre dediti alla stenditura dei panni, si poteva arrivare, e forse si può ancora oggi, al rudere in cui Pasolini girò quelle scene. C’è un grande vento, là sopra, e a scavare tra le spighe si possono trovare delle chiavi o un pezzo di intonaco blu, a ricordo del bianco e nero di un Cinema che di nero aveva ben poco. Ci si può arrampicare sulle torri, e vedere tutta la Magliana e tutto l’Eur, e la terra su cui, tra una ripresa e l’altra, si giocava a calcio in certe partite feroci, nell’amore consolidato per certi ragazzetti, e Ninetto consacrato ad angelo innocente dai capelli ricciuti. In quel resto mangiucchiato di campagna romana è stato possibile girare l’unico film pasoliniano che abbia il senso della favola. VIA DEL TRULLO È INNOCENTE perché totalmente pre-cristiana. Le borgate sono il Terzo Mondo. E’ qui, e in certe favolette marxiste, che le abitazioni hanno il colore del legno marcio, di catrame, di spazzatura capace, solo con l’odore, di scoperchiare i crani. Le strade hanno la rugosità del fango vecchio, e anche i bambini hanno un viso di animale grigio, “i villaggi hanno queste forme compatte e selvagge, questa intensità di sfondo di quadro dipinto nei mondi preindustriali”. L’AFRICA PASOLINIANA è il preciso riflesso di quello che è la Roma degli anni Cinquanta. La Roma degli anni Cinquanta è più africana che mai. In entrambi i luoghi ci si addentra in un mondo scurrile e religioso, tra creature cattive e dolcissime, che si muovono grazie ad una brutale innocenza che è la forza alla vita. Dai borghi settentrionali, dai focolari friulani, dal nitore contadino alla seducente e tragica realtà delle borgate, fino all’Africa. Sempre più giù. Il Terzo Mondo, d’altronde, inizia proprio “oltre i cancelli di casa Davoli”. Il padre selvaggio è una sceneggiatura mai finita che analizza il rapporto tra la storia e la preistoria, quel rapporto che appare in tutti gli scritti pasoliniani inerenti le borgate. Ambientazione africana per fatti che potrebbero benissimo accadere a Roma, e viceversa. È LA STORIA DI UN RAGAZZO di colore, Davidson ‘Ngibuini, “un fosco ragazzo nero, dagli occhi tormentati”, adolescente di tribù che vive presso le baracche-dormitorio della scuola di Kado. Anche a Roma certe abitazioni sono solamente dei dormitori: “Mi spoglio in una delle mille stanze / dove a via Fonteiana si dorme”. E questo ragazzo è più vicino ai malandrini romani di quanto si sospetti, quei ragazzetti capaci di cambiare l’architettura della città con la forza di un vaffanculo gridato da un lato all’altro del Tevere. E nell’intervista contenuta in Storie della città di Dio leggiamo che se Pasolini dovesse antropomorfizzare la città di Roma, le darebbe un sesso né di maschio né di femmina, “ma quello speciale sesso che è il sesso dei ragazzi” nel-

l’età dell’adolescenza, con sembianze “di un tipico ragazzo di borgata: cioè bruno, olivastro, con l’occhio nero”, aitante come lo sono gli arabi, gli africani, gli indiani. Sono, ne più né meno, tutti ragazzi di vita, così felici di essere cattivi. E l’attrazione viene sempre fuori dalla cattiveria, e allora l’orrore della sterilità diventa beatitudine, e i ragazzi si possono guardare come “degli insetti che stanno dentro una specie di vetrino”, e si può scrivere di un popolo sventrato, mai sano, e amarlo, amarlo tanto. IL POPOLO RIMANE, sempre e comunque, un grande selvaggio nel seno della società. Torniamo alla narrazione della sceneggiatura. Per ogni classe c’è un insegnante, e anche Davidson e i suoi compagni ne hanno uno. Gran parte del racconto si intreccia proprio sul difficile rapporto tra il professore bianco e i suoi scolari, mentre fuori dalla baracche passa l’ombra del neo-colonialismo, delle truppe mercenarie, dei campi di concentramento. Un grande decadentismo, senz’altro. Dopo un periodo di vacanze, che introducono nuovamente e bruscamente il ragazzo nella contraddizione della sua gente, nulla è più come prima. Si apre una ferita, e “la ferita è il prodotto del contrasto tra storia e preistoria, tra natura e civiltà”. Ma è questa ferita che rende il ragazzo, o Pasolini, dotato di “un duro sentimento di passione razionale”: il “fosco, innocente sorriso” ne è la risposta. Tornando alla prima scena, “Strada scuola Kado. Esterno giorno”, si nota già che non è cambiato niente rispetto alla capitale, i ragazzi giocano a pallone “in un prato funebremente rosa davanti alle baracche della scuola”, come in Una vita violenta, dove si attende giocando l’entrata in classe, “fra capanne e mogani”. QUESTE RIGHE, “21. Strada Kado. Esterno giorno”, spiegano cos’è la poesia, semplicemente e tenacemente. Ubriachi di birra, dopo un rapido sesso con ragazzette africane, quasi obbligato per una sorta di rito, in una “allegria grata” alla pace, il ragazzo e l’insegnante riescono ad unire la storia alla preistoria: “Sono di nuovo tutti e tre per la strada dove si sono incontrati. Deplorevolmente allegri per la birra e le ore passate insieme, nella sordida birreria. L’alcool ha sciolto i pudori, le timidezze. Davidson osa fare una domanda un po’ assurda che altrimenti non avrebbe mai fatto. Chiede all’insegnate: -Che cos’è la poesia, signore? E qui un lungo discorso assurdo di ubriachi sulla poesia, camminando per la strada calcinante, cimiteriale di Kado. -Ma tu lo sai!- dice il professore. -No, non lo so!- protesta il ragazzo scuotendo la testa ricciuta. -Sì, lo sai! -No, non lo so! Idris, di concerto, ride. -Sì, lo sai! -No, non lo so! -Sei un africano, sei immerso nella poesia! -No, la poesia è una cosa dei bianchi. -Canta una canzone del tuo villaggio! Davidson si mette a cantare uno dei canti del suo villaggio. Ma il canto è nella sua testa strettamente unito alla danza. E allora cantando si mette a danzare. Un lungo canto, una lunga danza. -Ecco, questa è la poesia! -No, no!- fa Davidson ostinato. - Questa non è la poesia.

-Sì, è la poesia. -No, no, no! -È la poesia! -No, non è la poesia! Sono sotto il muretto che acceca di bianchezza, dal cui orlo pende un festone di buganvilles, un fuoco d’un rosso così furente da sbavare in un macabro viola”. ANCHE IN AFRICA le teste sono “ricciute”, come nel sottoproletariato romano. L’ossessione per i capelli si nota anche qualche pagina più avanti, dove invece i ragazzi europei del campo Onu hanno “ciuffi barbarici”. Tutto Il padre selvaggio è basato su queste inversioni di civiltà. La poesia di Pasolini è questo, d’altronde: inversione di civiltà. E, come in Accattone, torna Bach. E torna per riportare l’Africa alla civiltà europea: “Lì ascoltano Bach. Un sublime motivo che, con la sua dolce potenza, pare cancellare tutto lì intorno, la realtà dell’Africa. Risucchiarla indietro nei secoli, là dove l’Europa è cristiana, supremamente civile” E ancora: «Esploderà, qui, dolcissima, la musica di Bach»,ce si conclude, pare, il rimbalzo dei secoli. È la musica a trascinare Roma in Africa, l’Africa a Roma. Lo vediamo benissimo in certe scene di Accattone, dove la religiosità cristiana viene scavalcata dalla forza del rito. Brani tratti dalla Passione secondo Matteo (guarda il caso) risuonano mentre su di uno sterrato di borgata, bianchissimo, Vittorio e l’altro uomo si picchiano abbracciati. CENTRALE NELLA NARRAZIONE è la strage umana che si svolge durante le vacanze scolastiche e che cambierà radicalmente Davidson. Allora la distinzione di civiltà diventa realtà. Cosa fanno i pagani, cosa fanno gli arabi, e i bianchi cosa ricordano del mondo dei bianchi? “È una questione di magia... Ah, ‘Ngomu; povero, sperduto, pagano, non è magia, è una malattia che gli uomini conoscono bene ma chissà a che cosa è dovuta...”. Prima, quando bisognava usare le latrine, si osservava solo per un attimo la distinzione tra bianchi, negri e arabi, e poi si entrava tutti insieme, ubriachi di conoscenza, di possibilità. Ma poi: “Le inimmaginabili situazioni africane, l’anima spezzata tra storia e preistoria, la solitudine, l’impotenza, la dolcezza...” impediscono la rinascita, e quella latrina diventa, in una delle immagini più belle del libro, “una e trina”. E i chierichetti del Padre cristiano, nudi dietro di lui, confondono, nella testa di chi li ascolta, i canti religiosi: “Coi bambinelli negri dietro, che in fila cantano, cantano il kirieleison come fosse una loro vecchia nenia selvaggia”. Nelle parole del professore a Davidson, in chiusura del racconto, una spiegazione del sottoproletariato e dei suoi riti termina con una pugnalata e con urli di bestia: “Poi, la preistoria avrà le sue rivincite, ci umilierà con la sua terribile, trionfante incomprensibilità...[...] Sei tornato indietro nei secoli, hai ceduto. Ti sei drogato, hai partecipato a dei riti che non sono più i tuoi, e quindi sono colpevoli. Hai ucciso, hai torturato, hai partecipato ai massacri dei tuoi amici, i ragazzi dell’Onu! E, col tuo villaggio, hai partecipato a un rito...” e si ritorna al principio, il rito della borgata, la favola al Trullo.


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AUTUNNO-INVERNO 2015/2016

Poesia in forma di cosa Sette poeti “traducono” Pasolini Nel novembre 2005, Bianca Maria Frabotta scriveva un articolo amaro coniando una formula vertiginosa: «pasolinismo di massa». Un fenomeno diffuso soprattutto tra i giovani, che rende quell’intellettuale in perenne conflitto con la società di massa niente più che un prodotto di massa, appunto. Le diverse forme assunte in vita dall’autore e quelle acquisite post mortem ci sembrano sbilanciate, restituiscono un’immagine che smette di significare o adultera il senso. È in Teorema che Pasolini scrive: «il simbolo della realtà ha qualcosa che la realtà non ha: esso ne rappresenta ogni significato, eppure vi aggiunge per la stessa sua natura rappresentativa un significato nuovo». Questo numero di Orlando Esplorazioni nasce, allora, attraverso riflessioni sulle forme e sui significati; nasce con l’idea di restituire un discorso su Pasolini a una comunicazione immediata, mobile e diretta, scongiurando il feticcio e declinando l’autore per mezzo di codici semplici: i murales

DINA BASSO traduce alcuni versi di «Ché qualcos’altro, ancora, brucia il cuore», vv. 1-6 (P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti,1961) nel dialetto di Scordia (CT) «CA COCCA COS’AUTRU, ANCORA, ABBRUCIA O CORI» Ca cocca cos’autru, ancora, abbrucia o cori: focu, macari chissu, di cui ju, vili, nun vulissa parrari: comu d’on duluri troppu ‘nteriori e miseru, ppi diri l’interiori e misera rannizza ca havi ogni nostru duluri. «CHÉ QUALCOS’ALTRO, ANCORA, BRUCIA IL CUORE» Ché qualcos’altro, ancora, brucia il cuore:/ fuoco, anche questo, di cui io, vile,/ non vorrei parlare:/ come di un dolore/ troppo interiore e misero, per dire/ l’interiore e misera grandezza/ che pure ha in sé ogni nostro dolore. ———————————————————— FABIO FRANZIN traduce Canto civile (P. P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti,1971) nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense CANZÓN CIVÌE ‘E só galte ‘e iera fresche e tendre, forse basàdhe pa’a prima volta. Ociàdhi da drio, co’ i se voltéa pa’ tornàr daa compagnia, i paréa squasi òmeni, coi paltò sora ‘e braghe lidhière. ‘A só miseria sa e no’ sa che l’é el crudo de l’inverno. ‘E ganbe storte a forcassèa e i cóeti frugàdhi, come i só fradhèi pì grandi, za paesani segnàdhi a deo. Lori, ‘ncora pa’ calche àno, no’ si ‘i cronpa: e no’ l’é altro che fae rabia come un ancora net. Par quant che i sie cussì stranbi, lori i ‘é vèrti aa vita; e ‘a vita li ciama. E no’ i ‘é niancora pronti! I dà indrìo i basi, gustandose ‘sto dolzh. Po’ i va via, ciavàndosene come co’ i ‘é ‘rivàdhi.

d’aura mitica sui palazzi, le passeggiate per le strade e le periferie di Roma, la musica e le note di un Requiem, la necessità di una cinepresa in mezzo alle cose reali, l’essenziale espressione del monologo, la difesa commossa di una letteratura ancora umanista, la spontaneità degli «ingenui» e «squisiti» dialetti. Un verso di Poesia in forma di rosa, nella raccolta omonima del 1964, recita: “e buonanotte ai dialetti”. È pensando a questa buonanotte che nasce la rubrica Sette poeti traducono Pasolini, per la quale sette poeti dialettali italiani hanno tradotto una poesia di Pasolini nel proprio dialetto d’origine. Un omaggio a quel poeta che, nel 1942, aveva esordito con le friulane Poesie a Casarsa e che, del resto, iniziò per primo questo esercizio di traduzione, riscrivendo proprio nel dialetto friulano poesie di Ungaretti, Eliot e Rimbaud, tra gli altri. Dalla rosa a tante cose diverse, una forma che non si può cristallizzare: forma di cosa? (FRANCESCA SANTUCCI)

Ma visto che ancora i ghe crede aa vita che li vol, i fa grande promesse, i sogna un domàn pièn de basi e amicizia. Chi ‘o che podaràe ribeàrse – se mai servisse – sinò? Diségheo: i ‘é pronti, tuti conpagni, cussì come che i se basa e i se ‘brazha e co’ l’istesso parfùn tee galte. Ma no’ sarà ‘a só fede tel mondo a vinzhér. ‘A deve èsser desmentegàdha là te un cantón del mondo. CANTO CIVILE Le loro guance erano fresche e tenere/ e forse erano baciate per la prima volta./ Visti di spalle, quando le voltavano/ per tornare nel tenero gruppo, erano più adulti,/ coi cappotti sopra i calzoni leggeri. La loro povertà/ dimentica che è il freddo inverno. Le gambe un po’ arcuate/ e i colletti consunti, come i fratelli maggiori,/ già screditati cittadini. Essi sono ancora per qualche anno/ senza prezzo: e non ci può essere niente che umilia/ in chi non si può giudicare. Per quanto lo facciano/ con tanta, incredibile naturalezza, essi si offrono alla vita;/e la vita a sua volta li richiede. Ne sono così pronti!/ Restituiscono i baci, saggiando la novità./Poi se ne vanno imperturbati come sono venuti./ Ma poiché sono ancora pieni di fiducia in quella vita che li ama,/ fanno sincere promesse, progettano un promettente futuro/ di abbracci e anche di baci. Chi farebbe la rivoluzione -/ se mai la si dovesse fare - se non loro? Diteglielo: sono pronti,/ tutti allo stesso modo, così come abbracciano e baciano/ e con lo stesso odore nelle guance./ Ma non sarà la loro fiducia nel mondo a trionfare./ Essa deve essere trascurata dal mondo.

Ah, ladri tuti do! No gèra scuro sul prà? No rubàvimo a le piòpe l ombra nel to saco? I cunìci xe restài sensa erba stasera, e i to labri robài basa la prima stéla... LARIS Rivat dongia to mari/ sintiratu enciamò/ i me bussons tal lavri/ ch’ì ti ài dat coma un lari?// Ah, laris/ duciu doi!/ No èria scur tal prat ?/ Na robàvinu ai poj/ la ombrena tal to sac?// I cunìns son restàs/ sensa erba stasera,/ e i to lavris robàs/ bùssin la prima stela... LADRI Arrivato da tua madre/ sentirai ancora/ sulle labbra i baci/ che ti ho dato come un ladro?// Ah, ladri/ tutti e due!/ Non era buio nel prato?/ Non rubavamo ai pioppi/ l’ombra nel tuo sacco?// I conigli sono restati/ senza erba stasera,/ e i tuoi labbri rubati/ baciano la prima stella… ———————————————————— VINCENZO MASTROPIRRO traduce Alla bandiera rossa (P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti,1961) nel dialetto di Ruvo di Puglia (BA)

ALLA BANDÌRA RÙOSSE Pe’ ci caùosce assaliute u chelàure tiue, bandìra rùosse, ANDREA LONGEGA traduce Laris (P. P. Pasolini, tiue ada ésìste réalmìénde, pecchè idde pote ésìste: Poesie dimenticate, in Id. Bestemmia, Milano, ci ère cuvirte da cruoste è arrevegghiòte da Garzanti, 1993) nel dialetto veneziano chioghe, u bracciante devìénde méndecànde, LADRI u napuletone calabrèse, u calabrèse afrecone, Rivà da to mama u analfabète na bufele o nu cone. ti sentirà ncora Ci canesciàje appène appène u chelaure tiue, i mii basi su i labri bandìra rùosse, che te go dà come un ladro? stè pe’ nan recanuoscete cchjue, manghe cu le ————————————————————

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Orlando esplorazioni sinze: tiue ca già si stote gloriose cu le bénéstànde e l’opéràje devinde arrète pìézze, e fatte libérò au vinde da u cchjù poveridde. ALLA BANDIERA ROSSA Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,/ tu devi realmente esistere, perché lui esista:/ chi era coperto di croste è coperto di piaghe,/ il bracciante diventa mendicante,/ il napoletano calabrese, il calabrese africano,/ l’analfabeta una bufala o un cane./ Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,/ sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:/ tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,/ ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli. ———————————————————— ENRICO MELONI traduce Versi del testamento (P. P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti,1971) nel dialetto romanesco VERZI DER LASCITO A solitudo: tòcca esse gajjardi e fforti pe amà sta solitudo; tòcca avecce gamme d’acciaro e na resistenza che nun te la ’nsogni; nun hai da rischià rifreddore, ’nfruenza o mar de gola; nun ce devi avé strizza de ladracci o ttajagole; si hai da camminà pe ttutto er pommeriggio o mmagara la serata tocca sapello fà senza accorgese; da sedesse nun ce sta specie d’inverno; cor vento che sputa sull’erba de guazza, co li pietroni tra le monnezze fraciche de fanga; nun c’è propio gnisun conforto, su questo ’n ce piove, ortre a quello d’avecce davanti tutto longo ggiorno e notte senz’obbrighi o llimiti de quarzivoja natura. Er sesso è ’n aggrappo. Pe cquanti ne pòi ’ncontrà - e ppuro d’inverno, pe le strade in preda ar vento fra ddistese de monnezze contro palazzi de sfonno, sò na caterva – nun sò che momenti de solitudo; ppiù ccallo e vivvo è cquer corpo ggentile che ugne de seme e smamma, ppiù rriggido de morte se fa attorno er diletto deserto; è questo che tt’abbotta de ggioja, Ponentino de miracoli, nun è ttorbida propotenza o soriso ’nnocente

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de chi ppoi se ne va e sse porta via un montarozzo immenzo de giovinezza; in questo è na carogna, perché nun lassa tracce, o mejo, una sortanto sempre uguale pe ttutte le staggioni. Un pischello all’arba de’ primi amori antro nun è che er seme der monno. Er monno che ccosì ariva co llui; fa capoccella, come na forma che mmuta. Resteno vergine tutte le cose, e tu ppòi camminà mezza metropoli che ppiù nu lo ritrovi; l’atto è compiuto, aripetelo è na cerimonia. Quinni a solitudo se fa ancora più granne se na folla intera attenne er turno suo: cresce defatti er nummero de scomparze – l’annassene è scappà – e quello doppo incombe sur mo come na croce, sagrifizzio da tribbutà a la voja d’annassene. ’Nvecchianno però la stracchezza principia a fasse forte, specie quanno l’ora de cenà se n’è ita appena, e ppe tte gnente è mmutato; allora pe un soffio nun urli o ppiagni; e questo fusse enorme si nun sarebbe ggiusto ’n po’ de stracchezza, e ppoesse de fame. Enorme, perché vorebbe dì ch’er desiderio tuo de solitudo, nun poterai ppiù appagallo, e allora che tt’aspetta, si cquer che ttu nun chiami solitudo è invece quella vera, quella che ttu non pòi accettà? Nun c’è ccena o ppranzo o soddisfazzione der monno, che tte vale na camminata senza fine pe le vie ciorcinate dove hai da esse disgrazziato e fforte, fratello de li cani. VERSI DEL TESTAMENTO La solitudine: bisogna essere molto forti/ per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe/ e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare/ raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere/ rapinatori o assassini; se tocca camminare/ per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera/ bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;/ specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,/ e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;/ non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,/ oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte/ senza doveri o limiti di qualsiasi genere./ Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri/ – e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,/ tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,/ essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;/ più caldo e vivo è il corpo gentile/ che unge

di seme e se ne va,/ più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;/ è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,/ non il sorriso innocente o la torbida prepotenza/ di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza/ enormemente giovane; e in questo è disumano,/ perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia/ che è sempre la stessa in tutte le stagioni./ Un ragazzo ai suoi primi amori/ altro non è che la fecondità del mondo./ È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare,/ come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,/ e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;/ l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque/ la solitudine è ancora più grande se una folla intera/ attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –/ l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente/ come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte./ Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,/ specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,/ e per te non è mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi;/ e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,/ e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire/ che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più soddisfatto,/ e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine/ è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?/ Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,/ che valga una camminata senza fine per le strade povere,/ dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

polverone, lontano dalla città// e dalla campagna, stretto ogni giorno/ in un autobus rantolante:/ e ogni andata, ogni ritorno// era un calvario di sudore e di ansie./ Lunghe camminate in una calda caligine,/ lunghi crepuscoli davanti alle carte// ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,/ muriccioli, casette bagnate di calce/ e senza infissi, con tende per porte… ———————————————————— ANNALISA TEODORANI traduce «Senza di te tornavo, come ebbro» (P. P. Pasolini, Raccolte minori e inedite, in Id. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2003) nel dialetto di Santarcangelo di Romagna (RN) SENZA AD TE A TURNÈVA CUMÈ IMBARIÉGH Senza ad te a turnèva cumè imbariégh no piò bon da stè da par me, la saira quant al nóvvli strachi a l s nu n va te schéur. Tènt vólti a so stè acsè da par me da pu quant ch’na so nèd e tenti sàiri a l m’à fat zigh l’érba, al muntàgni la campàgna, al nóvvli. Da par me te dè, e pu te silénzi dla sàira. E adès, imbariégh, a tòurni senza ad te e aquè d’un chènt u i è snò l’òmbra.

———————————————————— EMILIO RENTOCCHINI traduce alcuni versi de Il pianto della scavatrice, II, vv. 1-12 (P. P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957) nel dialetto di Sassuolo (MO)

E ta m staré dalòngh tènt volti, e pu par sèmpra. Me a n sò tnoi bèda ste magòun ch’u m mòunta dròinta a so da par me.

«SENZA DI TE TORNAVO, COME Puvrètt damànd i gat dal Coloseo, EBBRO» a stèva in na burghèda tra calsèina Senza di te tornavo, come ebbro/ non e spulvràs, luntàn da la sitê, più capace d’esser solo, a sera/ quando le stanche nuvole dileguano/ nel buio da la campagna, strichê ogni dè incerto.// Mille volte son stato così su n’autobus sfiatê: solo/ dacché son vivo, e mille uguali e sia ch’andèva o ch’a turnèva sere/ m’hanno oscurato agli occhi l’era un calvari pin d’sudòur e d’ànsi. l’erba, i monti/ le campagne, le nuvole.// Solo nel giorno, e poi dentro A caminèva ed lèngh in na calé na il silenzio/ della fatale sera. Ed ora, tèvda, e chi odsira lèngh davanti al chèrt ebbro,/ torno senza di te, e al mio fianco/ c’è solo l’ombra.// E mi sarai mucèdi su la tèvla, tra strèd ed lontano mille volte,/ e poi, per sempre. smèlta, Io non so frenare/ quest’angoscia che murètt, ca lèini pucèdi in la calsèina monta dentro al seno;/ essere solo. e sèinsa inféss, na tènda al pòst di óss… Povero come un gatto del Colosseo,/ vivevo in una borgata tutta calce/ e


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VARIAZIONI POETICHE

di ALESSIO DIMARTINO

La religione del suo tempo Ero in Francia a vedere se riuscivo a recuperare gli occhi di una donna che amavo. Metà novembre, Parigi era grigia e fredda. La bellezza, almeno per me, rimaneva parecchio in disparte. La chiamo sul cellulare, le dico ‘ciao, sono qui’. Dopo una sospensione che non suonava per niente bene, (tra una domanda e una risposta al telefono esistono due tipi di sospensioni, le neutre non sono previste. Sospensioni dove il rispondente respira forte = sospensione che suona bene. Sospensioni dove si ha l’impressione che del rispondente sia fulmineamente rimasto integro solo il telefono = sospensione che non suona bene) rispose ‘ah, ok’. Ci accordammo per vederci nel pomeriggio in un bistrot a Monmartre. Fino a quell’ora lei era impegnata a scrivere una roba per il suo vecchio lavoro (si era licenziata da un’importante agenzia pubblicitaria, però le era stato chiesto di apportare delle modifiche dell’ultimo minuto a una campagna ideata da lei). Si era trasferita un mese a Parigi nell’attesa di iniziare col nuovo. Avevo cinque ore da passare in quella città imperiale che non mi piaceva più (notavo solo la marcescenza dell’impero, ormai, mi entrava quasi nel naso) e mi ficcai in una piccola libreria dell’usato trovata casualmente in fondo a rue Mouffetard. L’unica volta in vita mia in cui sono partito senza un libro addosso. Le uniche volte sono pericolose. Diedi in giro un’occhiata lenta, una specie di panoramica cinematografica a bassissimo costo. Notai uno scaffale di libri in lingua italiana. Qualcosa di Calvino. Qualcosa di Pasolini. Gomorra di Saviano. Stop. Optai per qualcosa di Pasolini. Comprai ‘La religione del mio tempo’. Presi il metrò e andai a leggere ai giardini di Luxemburg, come faceva Cioran. Mioddìo, Pasolini. Quante cazzate ha detto. Quante cazzate hanno detto su di lui e la sua opera. Però, ecco, sentite qua. Ma noi? Ah certo c’è in ogni errore un lievito di verità: può essere libero e limpido ogni occhio più servo e opaco, a ricevere la vita esterna, non solo per gli istinti stupenda perché esiste, ma anche per il pensiero, che ne assiste – vinto, sia pure, e impotente – l’esaltante pluralità, la magica stranezza vivace, le misteriose mescolanze di grande e povero, l’abbietta

luce e l’eletta incoscienza. Pietà per la creatura! Era un poeta enorme Pasolini. Era un poeta che nella poesia non ci metteva dentro gli insegnamenti sulla vita, sterco del demonio da mandare giù per essere considerati autentici intellettuali in un paese che di intellettuali autentici ne ha avuti tre al massimo, ma la vita stessa. La vita per quello che è. Al bando le cazzate da opinionista demiurgo, le pose da star del cinema, gli smoccolamenti da genio fin troppo compreso. Al bando tutto, rimane la vita. E quanto sapeva scrivere bene di Roma. Ne coglieva gli aspetti più oscuri e più luminosi con lo stesso battito di ciglia. Me ne accorgevo lì, seduto su una panchina al freddo, lontano tremila chilometri da quei luoghi, dai suoi luoghi, dai miei luoghi.

PROGETTO FOTOGRAFICO DI MARCO GATTA

Due ragazze si baciano sulla panchina di fronte. Hanno berretti di lana grezza, guance rosse, labbra un po’ blu. Sono bellissime. Mi viene da piangere. Ma che cazzo ci faccio qui? Arrivo a place du Tertre e la vedo subito. È poggiata con la schiena al tronco di un albero, le braccia incrociate davanti. L’espressione del viso non riesco a inquadrarla bene, sono troppo distante. Vorrei avesse il labbro superiore sporgente su quello inferiore e gli occhi stupiti, come quando riceve un regalo inaspettato, come quando facevamo l’amore. Però, nonostante la distanza, sono certo di un fatto: non sta aspettando me. Non so chi o cosa stia aspettando, ma di sicuro non me. E ne sono certo perché nello zaino tengo la religione del suo tempo, che non è più quella del mio. La religione del mio tempo è sciatta, iperconnessa, farabutta, costituita, sin dalle fondamenta, da cose fatte male e fatte in fretta da amori che non si recuperano da lavori che non vogliamo fare da città che non vogliamo visitare da tutto quello che abbiamo buttato nel cesso e ora torna su spurgando rapido e scintillante, ridipinto di fresco. La guardo un’ultima volta da lontano. Spengo il cellulare. Me ne vado. Le ultime volte sono meno pericolose, ma fanno più male.

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