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ORLANDO 7 PRIMAVERA/ESTATE 2015
Orlando esplorazioni COPIA OMAGGIO
www.orlandoesplorazioni.com
Orlando Esplorazioni
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ILLUSTRAZIONE FRANCESCA MARIANI
Futuri venerati maestri
PERSONE GIULIO FERRONI | CORRADO STAJANO NICOLA CHIAROMONTE | TSUNESABURO MAKIGUCHI SONDAGGIO | GLI SCRITTORI CHE CHIAMEREMO CLASSICI
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Orlando esplorazioni
PRIMAVERA-ESTATE 2015
UN SONDAGGIO
a cura di GIACOMO RACCIS e PAOLO DI PAOLO
Quelli che chiameremo Q
uesto numero della rivista “Orlando” ha al centro un sondaggio sugli scrittori italiani della generazione di mezzo, quelli che hanno fra i cinquanta e i settant’anni non compiuti, ovvero i nati fra il 1946 e il 1966. Non sono ancora “venerati maestri” e hanno smesso da un po’ di essere “brillanti promesse”, per usare le categorie di Alberto Arbasino. Una nutrita schiera di giovani autori, nata da un semplice passaparola – critici, dottorandi e blogger (fra i 20 e i 40 anni) – ha fatto i nomi su cui scommettere per un futuro anche piuttosto lontano. Nessuna pretesa di esaustività, è solo un esperimento: “quali nomi avete in mente”.
DETTO MEGLIO: chi sono quelli da
cui impareremo in futuro, quelli che chiameremo classici? Bisognava togliere di mezzo le mode e le amicizie, e fare tre nomi (i voti specifici sono anonimi; diamo solo la lista dei votanti). Uno sforzo di sincerità e di lungimiranza. Nel materiale preparatorio di una conferenza, Roberto Bolaño annotava: “Il panorama, soprattutto a guardarlo da un ponte, è promettente. Il fiume è ampio e possente e dalle sue acque spuntano le teste di almeno venticinque scrittori sotto i cinquanta, sotto i quaranta, sotto i trent’anni. Quanti di loro affogheranno? Io credo tutti”. Ecco, la domanda secca è: chi non affogherà, fra i 50-60enni di oggi? SONO STATI INTERPELLATI:
Carlo Baghetti, dottorando Filippo Maria Battaglia, giornalista Teresa Bava, editor Marco Bellardi, dottorando e critico Matteo Bianchi, dottorando Giorgio Biferali, dottorando Raoul Bruni, ricercatore e critico Domenico Calcaterra, critico Sonia Caporossi, critico Emmanuela Carbè, dottoressa di ricerca e scrittrice
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LA CLASSIFICA
“classici”
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Michele Mari
Walter Siti
Antonio Moresco
Valerio Magrelli
Erri De Luca
Aldo Busi, Stefano Benni, Alessandro Baricco, Sandro Veronesi, Elena Ferrante
7.
Eraldo Affinati, Maurizio Maggiani, Emanuele Trevi, Paolo Nori
8. 9.
Ermanno Cavazzoni, Daniele Del Giudice
Wu Ming, Antonio Pennacchi, Francesco Piccolo, Antonella Anedda, Patrizia Valduga, Franco Arminio, Giuseppe Montesano
Massimo Castiglioni, blogger Andrea Caterini, critico Andrea Chiurato, ricercatore Andrea Cirolla, critico Carolina Crespi, scrittrice e blogger Marco Cubeddu scrittore Giulio D’Antona, giornalista e scrittore Martina Daraio, dottoranda e critica Raffaella D’Elia, scrittrice e critico Alessio Di Martino, scrittore Riccardo Donati, ricercatore, insegnante e critico Giovanni Dozzini, operatore culturale Francesca Fiorletta, critica letteraria e blogger Margherita Ghetti, dottoranda Gloria Ghioni (Criticaletteraria), dottoressa di ricerca e blogger Giorgio Ghiotti, scrittore Alessandro Giammei, dottorando Francesco Leto, scrittore Francesco Longo, scrittore e giornalista Antonio Loreto, ricercatore, poeta e critico Lorenzo Marchese, dottorando e critico Giusi Marchetta, insegnante e scrittrice Francesco Marocco, scrittore Silvia Mazzucchelli, dottoressa di ricerca e critico Michela Monferrini, scrittrice Marco Mongelli, dottorando e critico Iuri Moscardi, dottorando e blogger Francesco Musolino, critico e blogger Simone Nebbia, critico e blogger Filippo Nicosia, editor e libraio Giorgio Nisini, docente universitario Raffaello Palumbo Mosca, ricercatore e critico Saverio Pazzano, insegnante e critico
Con tre o meno segnalazioni: Milo De Angelis, Antonio Franchini, Marcello Fois, Carmine Abate, Roberto Amato, Antonio Ferrara, Beatrice Masini, Sandro Onofri, Francesco Permunian, Vitaliano Trevisan, Luca Rastello, Gabriele Frasca, Laura Pariani, Tommaso Pincio, Diego De Silva, Andrea De Carlo, Gianrico Carofiglio, Mario Benedetti, Luca Doninelli, Andrej Longo, Tommaso Ottonieri, Daniele Benati, Susanna Tamaro, Andrea Molesini, Mario Fortunato, Fabio Pusterla, Pino Cacucci, Nicoletta Agnello Hornby, Margaret Mazzantini, Paolo Dal Colle, Sandra Petrignani, Milena Agus
Daniela Mazzoli, poetessa e regista Sergio Peter, scrittore Andrea Pitozzi, dottore di ricerca Matilde Quarti, critica e blogger Alessandro Raveggi, scrittore e insegnante Stéphane Resche, dottore di ricerca e insegnante Paolo Rigo, dottorando Ilaria Rossetti, scrittrice Silvia Rossi, dottoranda Marta Rovetta, studiosa Davide Saini, critico Emanuela Sebastiani, traduttrice Damiano Sinfonico, dottorando e critico Ornella Spagnulo, blogger Manuela Spinelli, dottoressa di ricerca e insegnante Nadia Terranova, scrittrice Orlando Trinchi, giornalista e blogger Michele Turazzi, editor e critico letterario Giovanni Turi, critico e blogger Davide Valtolina, critico Guido Vassallo, blogger Alberto Volpi, critico e poeta. Rivista quadrimestrale diretta da PAOLO DI PAOLO www.orlandoesplorazioni.com facebook.com/OrlandoEsplorazioni rivista@orlandoesplorazioni.com Art director DARIO MORGANTE
Staff editoriale GIORGIO BIFERALI OLGA CAMPOFREDA MASSIMO CASTIGLIONI MARIACARMELA LETO MICHELA MONFERRINI GIACOMO RACCIS
Prodotta da GIULIO PERRONE EDITORE
www.giulioperroneditore.com Redazione c/o Giulio Perrone Editore Via Squarcialupo 14 00162 Roma tel. 06 97605054 Stampata nel maggio 2015 presso Cimer Snc Via Marcantonio Bragadin, 12 00136 Roma
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Orlando esplorazioni
PRIMAVERA-ESTATE 2015
UN SONDAGGIO
di GIACOMO RACCIS
“In principio sono Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco…” Una generazione interrotta n principio sono Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco. Poi vengono Valerio Magrelli e Aldo Busi. Che in realtà arrivò tra i primi. E anzi, proprio su questo sfasamento cronologico ci sarebbe da ragionare. Perché a guardare l’esito del sondaggio condotto tra critici e lettori forti di un’età compresa tra i 20 e i 40 a proposito della generazione di scrittori che oggi di anni ne hanno invece tra i 50 e 70, un fatto emerge in maniera lampante. Sui gradini del podio non si trovano gli autori più anziani e per questo affermati unanimemente, bensì compaiono tre romanzieri che sono sì stati monumentalizzati in vita, ma pure risultano ancora al centro del dibattito letterario e latamente culturale. Moresco, Siti e Mari sono scrittori “attuali”. Ogni volta che deve uscire un loro libro la critica tutta, cartacea e su web, discute, dibatte, fa previsioni e sentenzia, replicandosi poi – per smentire o confermare – non appena i volumi escono. Che le classifiche di vendita riflettano solo in parte questo andamento non deve poi stupire troppo: per quanto unanimemente riconosciuti come Autori, con maiuscola d’obbligo, Mari-Siti-Moresco, vera e propria triade delle patrie lettere, restano comunque autori potentemente letterari, non del tutto adatti a un pubblico nazional-popolare, che arriva a loro spesso per vie traverse (un premio, una trasmissione televisiva). D’ALTRA PARTE, IL SENSO DEL SONDAGGIO
– o piuttosto del gioco – era proprio questo: sfidare il giovane critico chiedendogli di mettere in campo una serie di parametri che possano tornare utili per produrre una previsione attendibile su quali scrittori di questa macro-generazione leggeremo – o si leggeranno – ancora tra trenta o quarant’anni. C’è chi ha risposto valendosi dei principi unici e assoluti della qualità – ricordando che solo quella resiste al tempo, mentre il buon artigianato è destinato a essere rimpiazzato dall’evolversi delle mode e dagli stringenti meccanismi editoriali; c’è, chi al contrario, si è affidato esclusivamente alle leggi del mercato, nominando apocalitticamente solo autori con tirature mediamente a cinque o sei zeri; c’è infine chi ha interpellato anche parametri più specifici, che ineriscono alle diverse strade per cui si può arrivare alla canonizzazione di uno scrittore – dall’inclusione nelle antologie scolastiche all’abilità di costruirsi una figura e uno stile di scrittura imitabili ma mai pienamente sostituibili. ESITO DI QUESTA ARTICOLATA RETE DI RA-
gionamenti è allora la classifica che abbiamo riportato e che offre una fotografia
sincera, e per questo anche spietata, della percezione che la generazione più giovane della nostra critica letteraria ha di quella che è invece la generazione più matura della nostra letteratura. Ed è proprio questo cortocircuito generazionale a dare i risultati più sorprendenti e significativi. GLI SCRITTORI IN QUESTIONE, INFATTI,
vivono a quest’età una fase delicata: molto del loro percorso letterario è già stato compiuto. Il tempo delle potenzialità si è esaurito: dopo i cinquant’anni si deve piuttosto cominciare a gestire quanto già fatto di buono. Correggere, o addirittura cambiare strada ormai è impossibile. E chi si accorge di essere arrivato distante dalla traiettoria che aveva immaginato agli esordi, non può far altro che prenderne atto. Difficile è infatti, a quest’altezza, rinunciare alla propria identità letteraria, per quanto lontana dalle aspettative. È forse anche per questo che autori che hanno esordito ormai venticinque o trent’anni fa, quando i critici più giovani ancora non “vigilavano” sul panorama letterario, appaiono oggi fuori contesto, buoni per le classifiche (come De Carlo) o per un pubblico molto di nicchia – di una nicchia ancora più piccola della platea già esigua dei lettori forti (è il caso di Daniele Del Giudice). E in certi casi è un peccato, perché alcuni di questi scrittori – e penso ad esempio a Sandro Veronesi – per capacità di scrittura, stile e abilità nell’inventare storie e situazioni, hanno ancora molto da insegnare a tanti narratori di questi anni, che pure, probabilmente, non li prendono a modelli plausibili.
chi”, per anagrafe ed esordio, in questo canone generazionale, il suo nome ricorre in tanti pareri. Merito di una scrittura originale, che ha saputo imporsi rapidamente a tutti i livelli, al punto che i racconti di Bar sport o del Bar sotto il mare, oltre a essere letti dai ragazzi di tante generazioni, appaiono già oggi nelle antologie scolastiche (da dove spesso passa la “classicizzazione” di uno scrittore). PREVALE COSÌ IL CORTELLESSIANO CRITERIO
del floruit e dominano la classifica quegli autori la cui maturità letteraria è avvenuta – almeno pubblicamente – in anni in cui i lettori e critici interpellati già cominciavano a farsi un’idea del mondo attraverso i libri e i loro autori. Il discorso vale per Mari, Moresco e Siti ma, per un incrocio di ragioni, anche per il quarto classificato, Valerio Magrelli. Esordiente giovanissimo, nel 1980, in poesia, che è rimasta per vent’anni la sua prima e unica vocazione, dall’inizio degli anni duemila Magrelli ha cominciato a praticare anche la prosa, poetica e narrativa, ottenendo grandi attenzioni dalla critica. Magrelli vive così, da alcuni anni, una nuova “giovinezza” letteraria, che mostra sotto una nuova luce anche il LA LEGGE DEL TEMPO È INESORABILE. E CHI suo lavoro poetico, connotato sempre più ha esordito in anni ormai lontani già coin senso “civile”. Se oggi Magrelli sembra mincia a vedere gli esiti del proprio perpresentarsi sotto le insegne del poeta nacorso. E questo vale tanto per chi si è prozionale è anche per questo doppio profilo, gressivamente distaccato dalle ambizioni che se non lo renderà un “maestro” di doletterarie degli esordi – come Alessandro mani, senz’altro rende la sua voce molto Baricco, che “sopravvive” non tanto per la più prossima rispetto a quella di altri coebontà assoluta dei suoi libri, quanto per tanei che sembrano appartenere a un altro aver ritagliato il proprio profilo di intellettempo. tuale “pop” anche sui caratteri della propria scrittura narrativa –, quanto per chi LA PROSSIMITÀ CULTURALE E LETTERARIA ha costruito un percorso coerente e lette- tra chi scrive e chi legge, tuttavia, non è sirariamente nobile, accettando gli alti e nonimo di scontata presenza nei canoni di bassi della fama e del successo pubblico – domani. Andrà notato, infatti, che nella come nel caso di Maurizio Maggiani o dello classifica c’è chi ottiene pochi voti nonostesso Aldo Busi, che scontano, forse, ri- stante dimostri una rilevanza indiscussa spetto a questa generazione di critici, una nel panorama presente. In questo caso i “distanza” culturale. Unica eccezione del motivi sono da ricercare nella natura anpanorama: Stefano Benni, che non sembra cora in progress dei rispettivi percorsi di risentire del passare degli anni – per non scrittura, come anche a precise scelte poedire dei decenni. Pur essendo tra i più “vec- tiche o “di genere” che nella messa a di-
stanza di questo esercizio critico appaiono minoritarie – è il caso di Franco Arminio o Emanuele Trevi – oppure al fatto di inserirsi in una tradizione stilistica e narrativa di cui questi autori non sono i primi artefici – come nel caso di Paolo Nori o di Ermanno Cavazzoni, “nipotini” di Gianni Celati. UN’ULTIMA NOTA, AMARA PURTROPPO, DE-
v’essere riservata infine all’assenza delle scrittrici, dai primi posti della classifica, ma più in generale dal panorama letterario. Più di un critico, nel fare le proprie scelte, ha lamentato la mancanza di voci mature e riconoscibili tra le donne di questa generazione. Le uniche donne presenti si esprimono in poesia, dove le differenze di genere sembrano appianarsi. In prosa, non c’è autrice che sia riuscita nell’impresa di coniare un nuovo genere o stile del narrare. Chi sembra averlo fatto – almeno dalla prospettiva miope dell’oggi – come Elena Ferrante, compare nella classifica solo grazie a un cavillo di regolamento, dacché non si può stabilire la sua età anagrafica. Peraltro, parte dei motivi che hanno portato più di un critico a votarla saranno senza dubbio riconducibili all’indiscutibile interesse che in questo preciso momento la sua identità misteriosa suscita nel milieu. ETEROGENEA, SFACCETTATA, PER NON DIRE
intimamente “spezzata”, la generazione “adulta” della nostra letteratura si mostra allora, oggi, anche sbilanciata in maniera preoccupante in direzione della produzione maschile. Una famiglia problematica e moderna – e moderna perché problematica –, quella dei cinquanta-sessantenni, non c’è che dire, destinata però a crescere dei figli che, salvo rari casi di dialogo diretto (peraltro viziato da un’ammirazione spesso incondizionata ed epigonale), finiranno per cercare altrove i propri interlocutori, interrompendo quel dialogo generazionale che fonda qualsiasi tradizione letteraria.
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ILLUSTRAZIONE ELEONORA ANTONIONI
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Michele Mari
ARI, Michele (1955): figlio ed erede della genìa milanese, quella
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Walter Siti
alter Siti, dopo un lungo apprendistato di critico letterario fra la
Mdei Parini, dei Manzoni e dei Gadda, ma anche dell’ossessione av- WNormale di Pisa, la contestazione del ’68 e Nuovi argomenti dalla
venturosa dei Poe, degli Stevenson e dei Melville, Michele Mari si è rive- parte di Pier Paolo Pasolini, ha esordito col libro monstre Scuola di nudo lato un maestro a cavallo tra i secoli nonostante, o proprio per, il suo (1994): un’opera che, in conformità alle intenzioni del suo autore, può isolamento nell’agone letterario. essere interpretata come il suo ultimo romanzo, oppure come una sfida Orgogliosamente inattuale, ha trasfigurato la cultura pop e la cultura estrema lanciata all’ambiente universitario pisano del tempo e, su vasta erudita – gli Urania e le figurine, i versi epici e la filologia d’autore – in scala, a una letteratura che a quell’altezza di rado osava superare le centocinquanta pagine mettendo un io troppo volumetrico e riconoscibile materia amorosa, pulsante e necessaria. Ha attraversato atmosfere gotiche al centro. (Di bestia in bestia) e marine (La stiva e l’abisso); ha raccontato la licantropia (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti) e le torture della naja (Filo- Ciononostante, Scuola di nudo ha finito per diventare il suo primo rologia dell’anfibio); ha celebrato l’infanzia in splendidi racconti-mondo manzo, e gli è servito a mettere a punto una sua tipica mossa discorsiva, (Euridice aveva un cane e Tu, sanguinosa infanzia) e si è auscultato céli- che ricalca un antico tranello. Schematicamente: sto mentendo, quindi nianamente (Rondini sul filo); è stato pasticheur comico – ma non ironico non saprete mai quando prendermi sul serio, ma do le migliori garanzie – (Tutto il ferro della torre Eiffel) e poeta neo-epigrammatico (Cento poe- di verità perché mi crediate – quindi o mi lasciate perdere, o leggete e risie d’amore a Ladyhawke), archeologo di una memoria privata (Verdera- leggete tutto, prestando molta attenzione. Pubblica Un dolore normale, me) e di una collettiva (Rosso Floyd); infine è stato teorico di spiriti e fan- 1999, e la raccolta di racconti La magnifica merce, 2003: in quest’ultima tasmi (Fantasmagonia) e, definitivamente, scrittore settecentesco si ha una narrazione sospesa fra esposizione raffinata delle proprie mecontemporaneo (Roderick Duddle). Dalla fiaba allo pseudo-trattato eru- diocrità personali e saggismo al vetriolo sull’Italia contemporanea. Invece dito, nessuna forma letteraria gli è rimasta estranea, perché da tutte ha in Un dolore normale, pur tra pagine straordinarie sugli inconciliabili di estratto il succo vitale ed eterno, mimandone e reinventandone temi, ca- eros e amore coniugale, c’è un illusionismo troppo spesso meccanico, con l’artificio del romanzo-nel-romanzo: ma fortunatamente il passo a vuoto ratteri, linguaggi e stili. non compromette la carriera di Siti, perché negli anni ’90 Siti lo leggono Con estremo ma controllatissimo espressivismo ha plasmato la sua fertile in pochissimi. immaginazione in pagine ricche e varie perché attraversate da innumerevoli ritmi: l’epico e il solenne si mescano al lirico e all’elegiaco; il sag- È quasi un secondo esordio, dunque, il romanzo Troppi paradisi (2006), gistico e il trattastico si fondono nell’armonico cantilenante delle fila- autoritratto di un Occidente avviato a un declino complessivo. Con esso strocche. La rammemorazione dell’infanzia, spazio-tempo misterioso e Siti ottiene il plauso della critica e l’interesse del pubblico, attirato daldecisivo, passa anche per il colloquio con i morti, con il delirio onirico, l’ambiguità di questo Walter-ego, che sa da parte sua decifrare l’irrealtà in una lotta in difesa della verità delle passioni, contro la volgarità del contemporanea con una prosa fra le più potenti del secolo trascorso. A reale. Il tessuto finissimo della lingua di Michele Mari rende la sua lette- questo punto, la sua scrittura si dirama. Da una parte Siti cerca invano ratura sapiente e ricercata, senza toglierle l’essenza intima e sincera che di uscire dall’autobiografia menzognera, attraverso un romanzo destrutsempre ha avuto e sempre avrà; una letteratura senza tempo perché di un turato sul mondo delle borgate (Il contagio, 2008), un reportage (Il canto tempo solo non sa che farsene. Filtrando un’immaginario vastissimo ed del diavolo, 2009), un romanzo dove l’autore si concede il ruolo primario esaurendolo con sublime originalità, Michele Mari resta, alfine, un mae- dell’ombra spettrale (Autopsia dell’ossessione, 2010), un’inchiesta fittizia sul mondo della finanza, raccontata da un broker nato già dentro la mustro senza eredi. tazione antropologica (Resistere non serve a niente, 2012). Dall’altra, MARCO MONGELLI continua la scrittura di confessione, stavolta in cadenze di falso diario (Exit strategy, 2014) e col preciso intento dell’autore di togliersi dalla scena una volta per tutte. Per fortuna, le successive opere dell’ormai celebre e prolifico Siti ci aiutano a capire quanto di vero ci sia nella ferma intenzione di dire qualcosa su altro che non lui stesso; e quanto di falso. LORENZO MARCHESE
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Antonio Moresco Valerio Magrelli
e il nome di Antonio Moresco comparirà nei manuali di letteratura
alerio Magrelli (Roma, 1957) è un poeta riconoscibile per i suoi ca-
opere-mondo tra le più importanti della narrativa italiana (Gli esordi, Canti del Caos, Gli increati); che per scrivere questi tre “romanzi” – e quindi per arrivare alla conclusione del progetto che li vede come tessere dello stesso mosaico – abbia impiegato più di trent’anni; che è stato uno dei pionieri del web letterario – sua l’idea di Nazione Indiana prima e de Il Primo Amore poi –; che i suoi scritti spaziano tra generi e interessi tematici a dir poco eterogenei – si pensi a Zingari di merda, reportage narrativo e fotografico sui villaggi rom, oppure a testi teatrali di grandissima forza visionaria come La santa –; che la sua esistenza è stata segnata dalla lotta, sia a livello politico – lunghissima la sua militanza nella sinistra extraparlamentare – sia a livello letterario – lotta contro le due auctoritas del secondo Novecento, Calvino e Pasolini; lotta contro un mondo editoriale che per molti anni non ha riconosciuto la sua voce; lotta contro i critici che hanno precipitosamente bollato i suoi libri come “illeggibili” (a questo proposito bisognerebbe leggere la serie di lettere, in gran parte mai spedite, in cui Moresco stigmatizza vizi e falsità del mondo editoriale, Lettere a nessuno). Si potrà parlare poi del mito-Moresco; della sua fede incrollabile nella parola letteraria e della sua concezione eroica della scrittura – non è l’autore che sceglie dove condurre le parole, sono le parole che costringono l’autore a seguire una certa direzione –; della sua integrità estetica e morale; del fatto che dopo un’infinita gavetta sia finalmente arrivato il riconoscimento – è autore Mondadori, è stato ospite di Fazio, è ormai considerato alla stregua di un guru da moltissimi giovani. Si potranno dire queste e moltissime altre cose, ma quello che rimarrà sarà semplicemente la scrittura: la sensazione che ogni sua parola sia proprio dove deve stare, che non sia possibile sostituire nemmeno un singolo aggettivo a una costruzione stilistica che spesso raggiunge vertici di assoluta perfezione. L’iperrealismo talmente minuzioso da sfociare nel sogno e nell’incubo, le descrizioni di anime solitarie disperse in una metropoli fluida e sfigurata, le deformazioni fisiche e le perversioni erotiche: tutto in Moresco è soltanto Moresco. E allora che lui racconti di uomini che pestano le merde per strada, oppure la romantica storia d’amore tra un barbone e una ragazza, non c’è poi tanta differenza: il nome di Antonio Moresco comparirà nei manuali di letteratura dei nostri figli. Su questo non c’è dubbio. Bisogna soltanto capire a quale numero di pagina.
golare: porta due viti piantate nel bacino. Non solo lo afferma una poesia del secondo libro (“Porto nel corpo viti, fisse, nascoste”), ma lo attesta anche una radiografia che il Nostro ha assunto come copertina della sua prima raccolta di prose, Nel condominio di carne, intitolandola Autoritratto. Quando il mondo lo urta, risponde con eguale reazione: una volta è saltato su una stampante solo perché inceppata. Sostiene che anche da morto dovrà porre rimedio all’incuria, risistemando nella bara i chiodi imperfettamente avvitati dal becchino. Il suo epitaffio – consegnato a una geologica fatica filiale – è capzioso: “Si è spento a ventidue anni”. Ne aveva ventitré anni quando esordì, trenta quando vinse il Viareggio, trentanove quando Einaudi raccolse in volume i suoi primi tre libri di versi, quarantacinque quando l’Accademia dei Lincei gli attribuì il premio Feltrinelli, cinquantasette quando approdò in libreria con il suo sesto libro di versi, che scandiva con trionfale passione culinaria: Il sangue amaro. Però non è noto quando ha smesso di giocare a calcio: lo ha fatto senza farci caso, “dopo un’ennesima operazione”. Nato suo malgrado, ha teorizzato l’esistenza di una “vicevita” nei momenti vuoti dedicati agli spostamenti o alla “burocrazia del corpo”. Infaticabile traduttore, studioso di Paul Valéry, fabbricante di acrostici indovinelli e anagrammi, cultore della “bibliodiversità”, ha ipotizzato che le poesie vadano “lette, rilette, lette, messe in carica”, che “sono apparecchi per caricare senso”. L’origine della sua attività letteraria si colloca in un momento vago della sua infanzia: le ore trascorse a fare palleggi, “non allegro, ma assorto, pienamente consacrato al suo compito. Una buona approssimazione alla felicità. Forse per questo ha cominciato a scrivere poesie”.
Sdei nostri figli, di lui si potranno dire molte cose: che ha dato vita a Vpelli rossi. Un altro segno, più intimo, lo rende definitivamente sin-
DAMIANO SINFONICO
MICHELE TURAZZI
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Erri De Luca
Aldo Busi
e sono piaciuti gli scrittori, pure io le sono piaciuto come scrittore.
asterebbe considerare un romanzo per dire di Busi: è un maestro. Si
Aro’ si’ asciuto? , da dove sei uscito. Intendeva: non certo da me. Nessun apprezzamento per me potrà pareggiare questo». Intorno alla metà di I pesci non chiudono gli occhi (2011), Erri De Luca o la voce narrante ricorda questa domanda della madre. È la domanda giusta per lui, a questo punto: «Aro’ si’ asciuto?», da dove è uscito questo scrittore senza parenti né reperibili ascendenze? Diventa sempre più largo per numero di lettori e per riconoscibilità lo spazio-De Luca: e vi accadono cose che solo lì possono accadere. Solo a lui è capitato, o meglio, solo a lui è riuscito di traghettare in un tempo di romanzi fatti di trame precise e catturanti raccontate in lingua standard una fortissima «letterarietà», una prosa lirica, dove ogni frase gira come un verso di poesia, presso un pubblico vasto. I suoi detrattori anche tra i critici più avveduti gli rimproverano la maniera e in effetti questo scrittore la sfiora, sta lì sull’orlo, in bilico. Ma quando, in un suo libro, confessa di non ricordare il nome della ragazzina di cui racconta e aggiunge: «Potrei piazzargliene uno, magari anche appropriato, un nome della mitologia greca, ma diventerei uno del mestiere, uno che inventa», quando spiega questo, è sincero. Se è maniera, è maniera di essere: l’impossibilità e il rifiuto di scrivere storie e vite che non siano la parola è sua «racimolate» dall’esperienza. Perciò vissute, sentite raccontare. Quasi che i suoi smilzi libri non fossero che tasselli di uno stesso, ininterrotto libro in cui le cose possono tornare, precisarsi, congiungersi. I pesci non chiudono gli occhi viene tredici anni dopo Tu, mio (1998) e tuttavia sta prima: la storia del ragazzino nato a metà del secolo scorso si completa, acquista particolari in un regime che non è mai diaristico, quindi ignora le cronologie e asseconda le intermittenze del cuore. I due libri hanno una epigrafe che viene dallo stesso autore, Itzik Manger, un grande poeta Yiddish e anche questo è un segno. E le fotografie paterne di cui si narra nel bellissimo esordio di Non ora, non qui (1989) riappaiono vent’anni dopo: sono le stesse ma sono anche diverse, perché ci sono molte stagioni in mezzo e i ricordi non sono mai uguali.
1984 dopo vent’anni di riscritture e salvataggi da improvvidi roghi. Il Seminario, che usciva nei patinati anni Ottanta a rimorchio dei sommovimenti tondelliniani, ma che trasportava quelle scritture su un piano alto, eburneo. Come dimenticare uno degli incipit più belli della recente letteratura italiana, con il suo attacco retorico e letterarissimo. Busi riusciva a pubblicare un romanzo d’esordio intriso di umanistica grandezza, la sua lingua rutilante brillava degli inchiostri di ferite mentali e carnali, su un fondale letterario disegnato dalle algide scritture dell’ultimo Calvino e del primo De Carlo. Una scrittura altamente erotizzata, dove la problematica omosessuale si rivelava attraverso una parola riecheggiante innanzitutto le lezioni stilistiche di Gadda e Pasolini.
«LQuando qualcosa di mio le andava proprio a genio mi diceva: Btratta, naturalmente, di quel Seminario sulla gioventù che uscì nel
Dall’infanzia difficile Busi trarrà il sostrato psicologico da scandagliare nelle sue peregrinazioni. Lille e Parigi, Londra, Monaco di Baviera, Barcellona e New York, appresso ai lavori più disparati e all’umanità dei suoi amori, prima di tornare in Italia con un bagaglio di esperienze e di competenze linguistiche che gli daranno un primo accesso a dei lavori come traduttore. Il successivo Vita standard di un venditore provvisorio di collant (1985), più autobiografico del romanzo d’esordio, ripercorre questo itinerario. Con Sodomie in corpo 11, libro di “non viaggio, non sesso e scrittura”, Busi riprende e sviluppa i temi già suoi attraverso il resoconto del viaggiatore, quasi un pretesto per il mosaico di scritture che invece vi trovano accoglienza. Incorrerà anche in un processo per oscenità, da cui verrà assolto. La vasta produzione successiva, sempre polemica e sopra le righe, si divide dunque in romanzi e prose più afferenti alle scritture saggistico-diaristiche, con l’importante aggiunta della produzione di manuali “per una perfetta umanità” e delle numerose traduzioni specialmente dall’inglese e dal tedesco, fino all’ultimo romanzo El especialista de Barcelona (2012), con la polemica nei confronti di Walter Siti. Oggi Busi è quasi più noto come personaggio à épater. Ma delle apparizioni televisive si può metter conto di tralasciare: lui, l’Aldissimo, ci piace quando scrive. (PDP) MARCO BELLARDI
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Stefano Benni
Alessandro Baricco
uando penso a Stefano Benni, uno degli autori italiani più amati e
ecentemente, di fronte a una classe liceale di Torino, Alessandro Ba-
mente due libri, in particolare, forse non proprio fra i più noti: Le Beatrici, Monologhi teatrali e poesie varie, edito da Feltrinelli nel 2011, e Blues in sedici, Ballata della città dolente, pubblicato per la prima volta nel 1998, sempre per Feltrinelli, e ormai giunto alla terza edizione.
Nessun dorma pucciniano in tre momenti diversi della sua storia: nella versione originale; interpretato da Luciano Pavarotti qualche decennio fa; ai giorni nostri, presentato durante un talent show americano da un aspirante cantante. Baricco torna spesso sulla sua passione musicale (ha iniziato pubblicando saggi di critica musicale, ha collaborato come critico musicale con «La Repubblica» e «La Stampa», e all’inizio degli anni Novanta ha condotto trasmissioni televisive dedicate alla musica, prima che alla letteratura). Ma nel caso del liceo torinese più che la vastissima cultura musicale, è stata ancora una volta la capacità di raccontare la "storia di una storia" a illuminare la lezione, quella capacità di trovare in ogni trama minima la sua parte di epica. Basta pensare a quella sorta di tributo alla grande letteratura di mare della tradizione che è Oceano mare (1993), o ancora per restare all'acqua, il monologo Novecento(1994). Tutto, anche l’aver fondato, ancora a Torino, la Scuola Holden, dove si tengono corsi sulle diverse tecniche della narrazione e sui diversi linguaggi da un punto di vista multidisciplinare, riporta a questo rincorrere le storie, inseguirle, illuminarle al massimo grado (una lampadina, è l’oggetto simbolo di Mr Gwyn, il romanzo pubblicato nel 2011). Come fa uno dei suoi ultimi personaggi, l’aspirante giornalista Rachel del testo teatrale Smith&Wesson (2014), cui serve la storia giusta da raccontare per potercela fare, diventare semplicemente una che scrive su un giornale (ma senza una storia, come si fa?), e sarà una vicenda folle, pericolosa, un’impresa epica, appunto. Tutto, tutto va nella stessa direzione: il più recente pezzo firmato da Baricco su «Repubblica» è la cronaca in due puntate della partita di calcio argentina Boca Juniors - River Plate, il derby più derby del mondo: potete anche non amare il calcio, ma dopo averlo letto partireste immediatamente per Buenos Aires, cercando di far parte di quella storia.
Qletti e prolifici, anche, degli ultimi vent’anni, mi vengono subito in Rricco ha tenuto una lezione sullo storytelling prendendo in esame il Lo stile ibrido, sempre sul filo della narrazione poetico-teatrale, non è l’unica peculiarità che li accomuna: entrambi i testi riecheggiano su un coro di otto voci, otto sibili che si chiamano in affanno e che a specchio si rispondono, quasi incatenati in un perpetuo movimento, colti esattamente nell’atto di riflettere sulla caducità della vita e sull’ironia della morte, sulla ricerca dell’amore e sulla paura del suo eterno riconoscimento. Le Beatrici sono donne ansiose, bozzettistiche, sono animi preoccupati, sfioriti, sono animali vogliosi, sagaci, pieni di mistero; e inquietante e misterioso è il Blues della città dolente, lo scenario spopolato di un brutale assassinio che sconquassa una famiglia (peraltro, l’opera s’ispira a un fatto realmente accaduto, triste oltraggio della cronaca) e che ancora una volta riesce a far riflettere sullo spettro sempre acceso della precarietà, della pluralità di prospettive, dell’ineffabilità dell’esistenza, tutta, e quindi, di conseguenza, della scrittura stessa. “Io non ho paura delle molte voci”, ama ripetere L’indovino, figura mistica e trasognata che ritorna costante, lungo tutta la Ballata. Questa mi sembra la cifra stilistica che ha fatto di questo scrittore un “classico”. Ecco, quando penso a Stefano Benni, e alle popolarissime, vivaci e composite avventure del suo Bar Sport, (Mondadori 1976, Feltrinelli 1997) penso esattamente a quell’indovino. FRANCESCA FIORLETTA
MICHELA MONFERRINI
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Sandro Veronesi Elena Ferrante
o scrittore che, quando si scorda di esserlo, è il migliore di tutti.
lena Ferrante, che ci piaccia o meno, è ormai diventata una presenza
primo suo libro che ho letto è stato La forza del passato. Avevo vent’anni e pensavo che il futuro fosse una cosa radiosa completamente nelle mie mani. Quel romanzo, per fortuna, iniziò a istillarmi dei dubbi in merito. L’ultimo, Baci scagliati altrove. Ormai avevo capito che il futuro era una cosa abbastanza grigia che mi ero persa dietro le spalle. Quella raccolta di racconti, per fortuna, iniziò a istillarmi qualche dubbio in merito. Due libri enormi, comunque. Le ultime dieci pagine de La forza del passato. Il racconto Quel che è stato sarà di Baci scagliati altrove. Roba forte. Fortissima. Roba da prostrarsi ai piedi dello scrittore. Roba dove Sandro Veronesi non sapeva di essere LO SCRITTORE Sandro Veronesi. O forse non voleva saperlo. Perché poi ho letto anche qualcuno degli altri libri che ha pubblicato, tipo Caos Calmo, Brucia Troia, XY,Terre rare. E ho capito che quando Sandro Veronesi si ricorda di esserlo troppo, LO SCRITTORE Sandro Veronesi non va. O meglio, no. Non è un disastro. È sempre roba di alto livello. Ma una roba di alto livello scritta da LO SCRITTORE che è in giuria. E la giuria non è mai un buon affare.
carne ed ossa, o nom de plume – in mezzo ai maestri dei nostri tempi, maestra. Dal 2011, anno di pubblicazione dell’Amica geniale – titolo di testa dell’omonima quadrilogia, seguito da Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014) – i suoi romanzi, più un titolo di non fiction (La frantumaglia, 2003), hanno fatto parlare. Scrittura “femminile”, la sua, in debito con le atmosfere e i temi di Sibilla Aleramo: storie di donne – madri, figlie, amiche – che si muovono per Napoli affidate a una mano narrativa esperta, che alterna momenti introspettivi a bozzetti vividi di quell’italianità tipica che fa impazzire gli americani. È oltreoceano, infatti, che la Ferrante ha conquistato applausi unanimi, e uno scaffale d’onore nelle librerie, con la sua prosa controllata tradotta in un inglese casual, accattivante, condita con copertine sgargianti. È diventata un prodotto tipico italiano, un souvenir.
LQuesta è la definizione che mi sento di dare a Sandro Veronesi. Il Ericorrente del bel mondo letterario nostrano, e resterà – scrittrice in
Ok, ecco la storia: a me Sandro Veronesi piace quando non fa LO SCRITTORE che è in giuria. Per un semplice motivo: quando Sandro Veronesi non fa LO SCRITTORE che è in giuria, è il migliore di tutti. Spero di esser stato chiaro. ALESSIO DIMARTINO
Dall’opera prima, L’amore molesto (1992), al più recente I giorni dell’abbandono (2002), entrambi portati sul grande schermo, Elena Ferrante si prende i tempi di scrittura lunghi di chi lascia depositare le parole nel silenzio, e propone di pensare l’atto della lettura come una riposta al caos e alla frammentarietà del multitasking. Come nei quattro volumi dell’Amica geniale, che dipanano i fili di un’amicizia durata sessant’anni, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, ricomposta sulla pagina dal lavorio della memoria. Ed è così che i suoi personaggi – geniali e perduti – i suoi amori – molesti e decennali – rimarranno nel tempo. Perché conquistano chi legge, ma lasciano, da buoni amici, lo spazio per ritrovarsi nel presente della lettura, ma anche per rivedersi bambine o immaginarsi adulte, e rivelano i meccanismi ben oliati e silenziosi – il loro mistero – dei legami umani. Continuerà ad affascinare quanto forse a lasciarci interdetti, Elena Ferrante, come il mistero sulla sua identità, che smette di importare solo se, come ci esorta l’autrice stessa, ci rassegniamo a pensare i libri come “organismi autosufficienti”, per cui l’autrice, strizzando l’occhio a Roland Barthes, non conta più, ma conta il nostro sguardo di lettrice o lettore a passeggio tra i panorami e i bassifondi del golfo di Napoli. MARGHERITA GHETTI
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DIALOGHI GIULIO FERRONI
di GIORGIO BIFERALI
“I maestri autentici sono coloro che sanno aprire territori sconosciuti, che ci fanno desiderare ciò che non siamo” Giulio Ferroni, vista anche la sua lunga esperienza come professore di letteratura italiana alla Sapienza, cos’è un maestro? Cosa dovrebbe rappresentare per gli altri? E quali sono stati i suoi maestri? Strano il fatto che con maestro si designano sia il primo livello di rapporto didattico (scuola primaria e dell’infanzia) sia i massimi livelli della cultura, quelle che vengono considerate le vette supreme della sapienza e dell’esperienza. In ogni modo maestro è chi è dotato di particolare autorità culturale e umana: e maestri autentici sono coloro a cui questa autorità viene riconosciuta spontaneamente, senza nessuno strumento coercitivo, e si trasmette generosamente senza voler nulla in cambio. I maestri autentici sono coloro che sanno aprire territori sconosciuti, che ci fanno desiderare ciò che non siamo, ciò che non abbiamo e non sappiamo: ci rendono nostro ciò che credevamo estraneo; in loro il sapere è divenuto corpo. I maestri ci avvicinano a ciò che ci era ignoto, facendoci capire che possiamo riconoscere tutto questo “altro” come nostro, parte di noi. Quello del maestro è un parlare vicino, vicinissimo, che viene anche da lontano; non tanto e non soltanto trasmette sapere, pratiche, competenze, quanto fa avvertire la distanza del sapere stesso, la complessità dell’esperienza, la difficoltà della conquista e la sua insufficienza, la necessità di correggersi, l’impossibilità del compimento. Non so se maestri del genere esistano ancora: la mia generazione ha avuto a che fare con alcuni grandi indimenticabili maestri; oltre al mio più diretto maestro universitario, Walter Binni, ne ho conosciuto e amato tanti altri. Mi piace ricordare almeno Carlo Dionisotti e Gianfranco Folena, ma anche il mio professore di italiano e latino al romano Liceo Visconti, Alberto Puntoni. In Dopo la fine (Einaudi, 1996), lei parlava di “condizione postuma” della letteratura, di ogni inizio che «è già dopo» e di ogni fine che non potrà mai essere «compimento». Ed è una condizione che riguarda tutti coloro che hanno a che fare con la letteratura, dagli studenti ai critici
scorso è stato per il Roderick Duddle di Michele Mari e per La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro: ma certo non si tratta di “giovani scrittori”. Tra quelli della generazione intermedia mi pare di notevole interesse Giorgio (anche per la sua capacità di interrogare il senso dei luoghi); mentre tra i più giovani mi è sembrata molto originale Viola Di Grado. Ma il mio è un punto di vista inevitabilmente limitato: e del resto oggi non mi pare che ci sia la possibilità di dominare davvero l’intero orizzonte.
Scritture a perdere, Laterza, 2010). Dal «successo planetario» di Baricco, da prendere come un «trionfo del made in Italy e dell’azienda Italia» e non come un «trionfo della letteratura», alle proposte narrative di Giordano e Mazzantini, prevedibili, piatte, votate all’autocompiacimento, a un «narrare sciatto». Il suo, però, non era un pregiudizio cieco nei confronti del nuovo, di tutte quelle che sarebbero state le prossime uscite. Salvava Gomorra, per esempio, perché secondo lei indicava un «orizzonte di possibilità della letteratura, una sua marcata disponibilità civile». Quali sono, per lei, le proposte più interessanti degli ultimi tempi? C’è qualcuno, tra quelli che l’anagrafe ha voluto ventenni o trentenni e che i più definirebbero con l’appellativo di “giovani”, che lei salverebbe dal “banco dei cattivi”? Devo dire che non riesco più tanto a seguire la produzione letteraria: siamo trascinati da un mercato saturo, che si riavvolge su se stesso, che sforna anche prodotti di buona qualità, ma che difficilmente ci vengono incontro con delle parole davvero essenziali. Se c’è qualche esperienza davvero nuova, viene come schiacciata dal flusso della comunicazione che tutto ingloba. Non si fanno scoperte: anche l’orizzonte di una possibile letteratura “civile” sembra che abbia segnato il passo, finisca per rientrare nei modelli precostituiti. E del resto Saviano finisce da Maria De Filippi. Preferisco tornare alla lettura dei classici. Ma poi non mancano liLei, in passato, si è occupato anche bri che mi impongono attenzione: e dei cosiddetti scrittori alla moda (Sul mi trovo comunque spinto a leggerli banco dei cattivi, Donzelli, 2006; non senza soddisfazione. Così l’anno
letterari, dai professori agli aspiranti scrittori. Un invito a non dimenticare mai la dimensione temporale e storica delle opere d’arte. La scrittura di quel libro nasceva da qualche sua preoccupazione? Percepiva, intorno a sé, una leggerezza meno “pensosa” e più votata al fascino di un eterno presente? Quel libro è nato dalla suggestione di tante opere postume pubblicate in quegli anni (come Petrolio di Pasolini) e dal fastidio che provavo verso certo troppo disinvolto parlare di postmoderno: ma poi, mentre lo scrivevo, mi sono sempre più reso conto della condizione davvero postuma in cui la letteratura si trova nella situazione attuale. Da allora le cose si sono complicate, ingigantite; siamo in una postumità al quadrato, resa ancor più radicale dal fatto che ben pochi se ne rendono conto; mentre c’è perfino chi crede che la letteratura riceva nuova vita dai trionfi delle rete, dalle condivisioni dei social network, dalle diversioni della viralità, ecc. Tutto ciò ci imprigiona in un eterno presente, sostenuto da illusorie immagini di futuro, sotto il dominio del mercato dell’apparenza che cancella ogni autentica memoria. La letteratura dovrebbe cercare di rompere questo cerchio dell’apparenza, di ritrovare l’essenziale, ciò che ci sfugge: e può farlo solo se non perde il legame con ciò che è stato, con la vita e con le parole di coloro che ci hanno preceduto, se sa far valere il suo essere “dopo”.
Nel 1997, quasi vent’anni fa, lei pubblicava con Einaudi La scuola sospesa. «La scuola – scriveva – si pone comunque come luogo separato, sospensione del tempo normale e creazione di un tempo particolare che non coincide con quello del lavoro e della lotta quotidiana per la sussistenza». L’attività della scuola intesa come «esercizio di libertà dai vincoli esterni, coltivazione del tempo interno». Oggi è cambiata la sua visione della scuola? Come descriverebbe il passaggio da una “scuola sospesa” a una “scuola impossibile”? Il titolo del mio nuovo libro La scuola impossibile fa riferimento al fatto che nella difficile situazione attuale ci sarebbe il bisogno di una scuola “forte”, problematica, critica, capace di formare persone in grado di affrontare i grandi problemi che si profilano all’orizzonte e che l’attuale classe dirigente non riesce nemmeno a definire, intestardita com’è a rispondere all’emergenza inseguendo immagini di sviluppo che non sono in realtà più praticabili. Serve una scuola capace di ricostruire un senso autentico di cittadinanza, di far riconoscere valori comuni, di salvaguardare la memoria storica e l’habitat naturale. Ma mi sembra che le politiche scolastiche vanno invece in tutt’altra direzione: verso un generale alleggerimento, in una corsa a trasformare la scuola in una sorta di social network senza spessore, rivolto ad inseguire l’illusione di un mondo in perpetuo sviluppo e accrescimento. Di fronte a tutto ciò la scuola che serve davvero mi pare proprio impossibile: eppure bisogna cercarla con ostinazione, difenderne la possibilità.
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ESPLORAZIONI
di ALMA GATTINONI e GIORGIO MARCHINI
Tempo di imparare, tempo di insegnare I libri che raccontano la scuola na fotografia di Doisneau. Lo scuola borgatara e impegnata (Un anno a Pietralata di Albino Bernarmentari rivolto all’orologio a parete dini, 1968). La scuola sgarrupata e di un’aula del 1956. È un tempo an- sorridente (Io speriamo che me la noiato o innamorato? O è sempli- cavo di Marcello D’Orta, 1990). La cemente il tempo che passa, un me- scuola della normalizzazione e del tronomo narrativo sempre in azione riflusso anni ’80-’90, nell’ottica sache offre alla letteratura una co- tirica del degrado e dell’immobilismo stante necessaria con cui fare i conti (Ex Cattedra e Fuori registro di Doe i racconti? menico Starnone) o nella sperimenProprio perché si misura con il tempo, tazione linguistico-sentimentale (Jack il “romanzo storico” della scuola ri- Frusciante è uscito dal gruppo di produce in miniatura la complessità Enrico Brizzi). La scuola militante sociale, ne sintetizza le differenze di di periferia (Registro di classe di Sanclasse, ne stigmatizza le mode, ne parla dro Onofri, 2000). La scuola della i linguaggi, ne disegna i confini labili. “fabbrica di pena” del carcere di ReSoprattutto vede interagire con gerar- bibbia (Maggio selvaggio di Edoardo chie e dinamiche di potere un sistema Albinati, 2001). La scuola antiomodi personaggi che si risolve nel basilare logante e ironica di inizio millennio confronto tra figli e padri (putativi), (La gallina volante e Una barca nel una palestra di relazioni umane, un bosco di Paola Mastrocola). La scuola laboratorio di conflitti generazionali violenta e paradossale (Il sopravvissuto di Antonio Scurati, 2005). La e di trasmissione di valori. Le realtà scolastiche delle varie epoche scuola multietnica e globalizzata tra a cui la letteratura italiana ha saputo Roma e Marocco (La città dei ragazzi dare forma si dispongono in sequenza di Eraldo Affinati, 2008). La scuola cronologica, come l’ideale diario di struggente e memorabile di una granuna istituzione e di una nazione. La de assente (Questa lontananza così scuola del maestro Perboni, patriot- vicina di Paolo Di Paolo, 2009). La tica e fondante (Cuore di Edmondo scuola dolorosa e consolatoria (BianDe Amicis). La scuola tetra e per- ca come il latte rossa come il sangue turbante di un liceale ebreo fine anni di Alessandro D’Avenia, 2010). La ’20 (Giorgio Bassani, Dietro la por- scuola oppressiva ed emarginante ta). La scuola irreggimentata e reto- (La solitudine dei numeri primi di rica d’epoca fascista (Fiori italiani Paolo Giordano, 2008 e Io e te di di Luigi Meneghello). La scuola de- Niccolò Ammaniti, 2010). La scuola mocratico-televisiva del maestro erotica e divergente (L’ora di lezione Manzi di Non è mai troppo tardi o di Massimo Recalcati, 2014), saggio egualitaria e antidogmatica di Don più che racconto, ma spunto motore Milani nella Barbiana degli anni ’60 di storie da cui forse ripartire.
Usguardo di un bambino delle ele-
(Lettera a una professoressa). La scuola caricaturale e dolente degli anni del boom economico (Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi). La scuola atroce e umoristica prima del ‘68 (La scuola si diverte di Virgilio Budini). La scuola della contestazione antiautoritaria e della liberazione sessuale (Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice). La
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È un catalogo sommario di titoli, affidato a pochi aggettivi, ma anche lo spaccato di oltre un secolo di scuola italiana espresso per sineddoche. Nella quotidianità di tante aule scolastiche prendono corpo figure mitiche da manuale di letteratura: l’eroe, l’inetto, la vittima, il carnefice, l’escluso, il genio, il ribelle. Nella prassi scandita dal suono di una campanella, si sostanziano con un insospettato tasso di letterarietà archetipi e astratti concetti: l’infanzia, la giovinezza, la maturità; la libertà,
la giustizia, il sopruso. Eventi minimi e accadimenti traumatici, nati in un contesto pedagogico, costituiscono un nuovo sistema di luoghi letterari, destinato ad arricchire il già vasto orizzonte del romanzo di formazione: il primo e l’ultimo giorno di scuola, la notte prima degli esami, la gita scolastica, l’interrogazione, la valutazione, la trasgressione e la punizione, ma anche il suicidio e la morte. I registri si alternano, dal cronachistico all’elegiaco, dall’ironico al satirico, dal comico al tragico, con una tendenza a esasperare gli estremi. Ecco perché nell’immaginario collettivo sul tema scuola in chiave cinematografica spiccano da un lato il carosello parodistico di professori del ginnasio di Titta nel felliniano Amarcord, grottesco nella gestualità, nei rituali, nei tic di una polverosa e repressiva scuola fascista; dall’altro il modello seduttivo e anticonformista del professor Keating dell’Attimo fuggente, un docente così illuminato da alimentare i sogni degli studenti repressi di un liceo del Vermont nel 1959 e intercettare insieme aspirazioni e frustrazioni degli alunni ingrigiti e dei docenti ingessati nell’Italia di fine anni ’80. Ridicolizzare o idealizzare, ecco due modi diversi di arrivare al medesimo centro della questione, che è l’interazione tra chi insegna e chi impara. In narrazioni in cui la costante è un gap generazionale sempre più marcato, al limite dell’incomunicabilità, l’amore gratuito per la cultura nasce prodigiosamente dall’apparizione epifanica di un maestro che accende una scintilla: “Mi emozionava già come entrava in classe, con quel suo modo sbadato, la testa occupata da altri pensieri, l’aria di chi si trovava lì per caso e quasi controvoglia. Poi si girava verso di noi e apriva quel suo sorriso bellissimo. Come va? Domandava, non si sa a chi, a tutti e a nessuno, e non aspettava la risposta, cominciava subito a parlare di un film che aveva visto la sera prima o di una mostra, o di un libro
che stava leggendo. Era entusiasta o indignato, indifferente mai. In piedi davanti a noi come un direttore d’orchestra, apriva una rivista sconosciuta e iniziava a leggere un articolo di qualche filosofo o artista che io non avevo mai sentito nominare. […] Nessuno di noi capiva niente ma io stavo con le ali aperte trasportato dal vento della sua passione” (Marco Lodoli, Un maestro, in I professori e altri professori, 2003). Si può colmare la distanza con il contagio della fiducia, ma non tutti hanno il privilegio di sollevarsi dalla pesantezza delle scelte utilitaristiche che la realtà prosaica sembra imporre: “Insomma, a quanto ne so dovrei studiare per strappare un titolo di studio che a sua volta mi permetta di strappare un buon lavoro che a sua volta mi consenta di strappare abbastanza soldi per strappare una qualche cavolo di serenità. Cioè uno dei fini ultimi è questa cavolo di serenità martoriata. E allora perché dovrei sacrificare i momenti di serenità che mi vengono incontro spontaneamente lungo la strada? La realtà è che mi trovo costretto a sacrificare il me diciassettenne felice di oggi pomeriggio a un eventuale me stesso calvo e sovrappeso, cinquantenne soddisfatto” (Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, 1994). Un altro studente dà questo lapidario giudizio su una scuola allo sfascio, simile a una prigione da cui evadere: “La mia scuola porta il nome di un
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ANTONIO MANCINI, LO STUDIO
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personaggio di Topolino: Orazio. Ha i muri scrostati, le aule incrostate, lavagne più grigie che nere e cartine geografiche sfilacciate con continenti e nazioni ormai sbiaditi e alla deriva. Non c’è niente di dolce a scuola: solo la campanella di fine giornata che, quando s’incanta, sembra voglia urlarti: - Hai buttato un’altra mattinata tra queste mura bicolori. Scappa!” (Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte rossa come il sangue, 2010). Ma il Sognatore, come lui chiama il suo prof, alla domanda “come si fa a trovare il proprio sogno?” dà questa risposta: “Leggi, guarda, interessati… tutto con grande slancio, passione e studio. Poni una domanda a ognuna delle cose che ti colpiscono e appassionano, chiedi a ciascuna perché ti appassiona. Lì è la risposta al tuo sogno. Non sono i nostri umori che contano, ma i entrato per la prima volta da insegnante in una classe […] Osservavo nostri amori”. i miei studenti, intuivo istintivamente Come antidoto che salva in un dela fortuna esistenziale di frequentare serto di disamore e di apatia, le azioni grazie a loro due tempi diversi, perché dell’imparare e dell’insegnare si fondono in uno scambio proficuo di ogni adolescente contiene fisiologiruoli. È la scuola avamposto che re- camente l’eternità e d’altronde è siste come via del riscatto sociale una spugna che si imbeve dell’acqua nella romana Città dei ragazzi: “In limpida o sudicia del presente”. Il classe abbiamo una bella carta geo- passaggio determinante, quasi un grafica. Molti miei alunni, slavi, imprinting per il futuro destino di arabi, africani e asiatici, possono docente, sta in una virtuosa staffetta: considerarsi esperti viaggiatori. Han- “In fondo se la mia vita è stata seno mangiato la polvere dei deserti, gnata dall’amore per i libri, la musica, il catrame delle autostrade. Cono- l’arte, gran merito ce l’ha il mio inscono la vernice scrostata delle sbarre segnante di lettere del liceo, che ci doganali, i sonni persi con la testa parlava di Beckett, Camus, Coltrane, appoggiata al finestrino dell’autobus, senza per altro trascurare Poliziano i documenti stropicciati fra le mani. e Parini”. Ma il punto di approdo è Adesso sono loro a spiegarmi, con un disincantato confronto tra aspetpazienza e lungimiranza, lasciando tative e realtà: “Quando anch’io scorrere il dito sulla mappa, le scal- sono diventato insegnante ho visto cinate periferie di Addis Abeba, la cosa il mondo, anno dopo anno, foresta pluviale poco distante da La- scaricava in classe. È stata una lenta gos, i mercati galleggianti di Dacca. discesa agli inferi […] i miei studenti Ed io compio davvero insieme a loro, si sono smarriti. La scuola ripete la senza pagare il biglietto, il giro del solita lezione, una storia fatta di samondo in aula” (Eraldo Affinati, crifici, solitudine, concentrazione, fatica, ma chi vuole più dare retta a Viaggiare con il cuore, 2005). Chi la scuola l’ha vissuta solo al di queste parole quando dall’altra parte qua della barricata, ne ha un ricordo scintilla l’oro di Eldorado?”. Eppure più o meno lontano nel tempo, più nella coscienza di come tutto è camo meno nostalgico o risentito. Lo biato e di come insegnare sia divenscrittore-insegnante, invece, porta tato sempre più difficile, non c’è in sé il duplice punto di vista dell’al- senso di disfatta, ma voglia di resilievo che è stato e del docente che è stenza: “Sembra di seminare nel vendiventato, in una scuola fatalmente to, nel nulla, nell’indifferenza, ma cambiata. Così ancora Marco Lodoli in fondo sappiamo che non è vero. in Il rosso e il blu (2009) sintetizza Sepolta sotto tonnellate di immagini la sua esperienza: “Sono passati esat- bugiarde e seducenti, una zolla nella tamente trent’anni da quando sono mente dei ragazzi accoglie, incamera, trasforma segretamente”.
PROMEMORIA di Alberto Garlini
Forse succederà qualcosa di nuovo orse succederà qualcosa di nuovo, forse alle parole seguiranno i fatti, e forse ai giovani di adesso verrà data qualche possibilità di vivere una vita decente. Forse. Ma intanto una generazione, quella di coloro che stanno tra i trenta e i quaranta l’abbiamo persa, o la stiamo perdendo, socialmente e creativamente. I poeti, poi, sono nell’ultimo posto in fondo. Il posto della rabbia e della rinuncia. Sì, ma fino a quanto possono rinunciare? Forse Made in Italy di Simone Cattaneo, il poeta di Saronno tragicamente scomparso nel 2009, testimonia senza compiacimenti, e con una certa durezza, questa impossibilità radicale. Il libro è uscito nel 2008 per Atelier, bella rivista di poesia recentemente rinnovata, e oltre ad alcuni sparuti cultori è dimenticato in una misura che dà la nausea. Si tratta di un libro importante. Ti colpisce in fronte, sfacciatamente, come un diretto ben assestato, senza alcuna strategia di voluto fraintendimento, con una realtà, venata di surreale, che mette in dubbio l’etica comune. Questa raccolta non vuole pace, ma cerca dolcezza, la cerca come può cercare un ergastolano il ricongiungimento con la figlia abbandonata. Cerca il sobbalzo, cerca l’ipotesi di uno stupore, evita il poetico come la peste, non è mistica ma a volte provoca un involontario misticismo. Ha la maschera cruda di una durezza teatrale. È la maschera di chi non c’ha nemmeno mai creduto, di chi era già oltre le promesse, oltre le illusioni. La poesia di uno spellato, che sente la vita senza protezioni. Personaggi sbiaditi, devastati, di una periferia senza speranze che al meglio di sé possono tagliare gli indici e metterseli nel naso per fare ridere i bambini del palazzo. Cosa è la poesia adesso? Cosa è la poesia di un trentenne, adesso? Forse solo questo urlo, questa impossibilità, questo essere comunque sconfitti, e mostrare la pelle nuda, senza versare una lacrima di compassione né per sé, né per gli altri. Non è strano quindi che questa opera circoli, come un veleno segreto, o un farmaco segreto, tra amici poeti, e che quasi nessuno sappia che quella vita c’è stata, che quel dolore è esistito. Fa parte dell’occultamento emotivo messo in atto verso una generazione che consideriamo già perduta.
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mani senta come eredità culturale “questa lontananza così vicina”, che si convinca che “è difficile, a sedici anni, misurare l’entità di un cambiamento”, ma che “c’entriamo ancora con quel tempo”, che “c’entriamo qualcosa con il nostro passato”, “con i quaderni su cui abbiamo imparato a scrivere”, che non “esiste un confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle” (Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, 2011).
Una insegnante ti in-segna per la vita intera. Per dirlo con la giusta forza, Massimo Recalcati (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, 2014) lascia che al saggista subentri il narratore: “Sei stata un amore tra i più grandi della mia vita. […] Seguivo la tua parola che veniva scandita da una voce leggera che mi ispirava. Mi precipitavo a leggere ogni libro che citavi e mi sembrava di camminarti vicino, di fare insieme a te una strada che già conoscevi e che per me era invece nuova”. E se poi non bastasse neppure l’amore di chi impara e di chi insegna, il segreto che rende la scuola così unica e durevole, capace di metabolizzare anche la perdita di prestigio o l’accerchiamento della tecnologia, è la sua cifra temporale. Difficile pensare a un banco senza associargli l’idea stessa di giovinezza. Ma anche una cattedra può riproporre in una suggestiva variante il mito letterario di Dorian Gray e far dire a un vecchio professore che “se non invecchiavano quelle facce dietro ai banchi, poteva non invecchiare anche lui”. Forse è Perché tanto insegnare, tanto im- solo la letteratura il ritratto che inparare non si disperdano serve che vecchia, ma la scuola, il corpo, quello resti una traccia, che l’adulto di do- resta giovane, sempre.
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A BOTTEGA
di CARLO BAGHETTI, foto di DAVID DE LA CRUZ
“Amleto mi è apparso come il portatore, stanco ma fiero, di una consapevolezza del proprio sapere artigianale” apoli ha la caratteristica unica sumata dai napoletani convinto, nel fondo, che possedessero una carattaglio, non mostra mai il lato positivo teristica genetica in grado di immudietro il quale, si sa, nasconde quello nizzarli dagli effetti più spiacevoli di negativo, ma si dà in modo già am- questa sostanza, più o meno la stessa bivalente e misterioso, forse più one- risposta che mi do guardando i fransto, nella sua totalità, in quella sintesi cesi divorare quantità di formaggio dolce-amara di perfezione e tragedia senza morire d’infarto davanti agli che la abita nel profondo. Da sempre. occhi dei commensali. Ebbene, questa Da napoletano fuoriuscito è difficile modifica genetica del popolo napovedere la città nel suo insieme, im- letano ha negli artigiani, o in quamedesimarsi con un punto di vista lunque altro lavoratore che abbia un generico e collettivo. Come parte- contatto quotidiano e immediato nopeo peregrino provo sentimenti con i clienti, la punta più avanzata: contrapposti, l’amore per la bellezza la sua avanguardia genetica. Grazie eterna della città e l’odio per i suoi a questa caratteristica, il caffè si è lati più aspri, che mi hanno respinto imposto in città come mezzo di scamfin oltre i confini dell’Italia. Non so bio simbolico per i lavori che non rimai quale di questi due aspetti sia chiedono molta abilità e tempo, ma prevalente nell’opinione comune, allo stesso modo sono necessari: il nell’immagine che la città offre di sé caffè è il segno di riconoscimento a chi non la conosce, a chi non l’ha che l’inabile tributa all’abile in mavissuta sulla propria pelle. Tra i segreti niera spontanea e riconoscente.
Andreuccio da Perugia. Trovare un personaggio del calibro di Amleto non è stato facile, sebbene la sua fama lo precedesse almeno fino al portone dove si nasconde il suo antro.
Chiedendo informazioni sono giunto all’interno di un palazzo, anzi, all’interno di un cortile minore di un palazzo, quasi come se tale personaggio, fuoriuscito dal testo shakespeariano, si dovesse nascondere da agenti che cercano di riportarlo tra le pagine polverose, tra zie e madri e parenti uno peggio d’un altro, tutti mezzi pazzi e che alla fine l’hanno fatto uscire pazzo anche a lui.
In qualsiasi altra città non è possibile presentarsi in un negozio imponendo la propria urgenza ma a Napoli, che con spirito nobile accetta e asseconda i peggiori soprusi da secoli, è possibile farlo. Solitamente si ricorre a due armi bianche: il sorriso e il caffè.
Le due prime missioni sono state affrontate all’arma bianca, sorriso e caffè (oltre ovviamente il prezzo della batteria), adesso mancava l’ultima: la sostituzione della fibbia. Alla ricerca di un conciatore che possedesse il pezzo mi rivolgo a un artigiano che fabbrica sandali a mano e il cui negozio a partire da marzo è sempre colmo di gente. L’uomo, impegnatissimo anche a novembre, mi dice: “Giovano’, io non ti posso aiutare, tu devi andare da Amleto!”, al che rimango un po’ stupito, e chiedo: “Da chi, mi scusi?”. Turbato quasi dalla mia ignoranza, insiste: “Ma come? Tu non conosci Amleto?”, e io: “Be’ sì, penso che lo conosciamo un po’ tutti ma non credevo che aggiustasse cinture...”, e il fabbricatore di sandali, cogliendo l’antifona, mi guarda sottecchi e con tono di rimprovero mi dice: “Vai ja, la sua bottega si trova in via Bisignano”.
Prima di continuare mi sia concesso di spendere due parole sul caffè come merce di scambio. Da quando ho abbandonato Napoli per Parigi, Roma e Marsiglia mi sono sempre interrogato sulla quantità di caffeina con-
Via Bisignano è una delle molte stradine che si trovano a Chiaia dove la più famosa è senz’altro quel Vicoletto Belle Donne nel quale Boccaccio faceva passeggiare e amare e finire nei peggiori guai il giovane commerciante
Ndi offrirsi come una medaglia di
che la città nasconde nel suo ventre c’è quello d’un artigiano dal nome ingombrate, che lavora tutti i giorni, anche il 6 gennaio, nei vicoletti del centro. LE TRE MISSIONI
Avendo un treno da prendere in non molto tempo, ho deciso di sfidare la proverbiale lentezza disorganizzazione e inerzia di Napoli, incastrando tre piccole missioni (obiettivi minimi e difficilissimi: rifare alcune cuciture ad un cappotto, cambiare la batteria d’un orologio, aggiustare la fibbia di una cintura).
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“Siete voi, Amleto?” “In persona”, risponde puntando lento i piedi e alzando il mento, sfoderando così uno sguardo puntuto da sotto il berretto.
“Ma vi chiamate proprio così? Amleto, Amleto? Come il principe?” “Sì, perché, voi come vi chiamate?” “Eh, non ho un nome così celebre
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Orlando esplorazioni
PRIMAVERA-ESTATE 2015
da competere col vostro, ma ho qual- volge a me senza preavviso, solo piecosa per voi...”, e mostro la cintura gando il capo da una parte: con la fibbia rotta. “Passate domani, su.” Le sue mani lente e salde afferrano “Domani? Ma io domani sono in la cintura, la esaminano e la rivoltano un altro stato...” come se l’analizzassero al tatto, come E qui comincia una conversazione se i polpastrelli possedessero un’in- tangenziale fatta di “e perché?”, “e telligenza propria indipendente dal come mai?”, improvvise confessioni resto del corpo. Scorrendo le dita “mio figlio anche è migrante. Negli sulla cucitura, tastando la fibbia rotta USA”, acuti saltellanti che tradiscono non ha smesso di guardarmi. Con una voce roca e anziana, simulata gli occhi piantati nel mio viso ris- dalla lentezza del passo. pondeva alle domande della sua as- Così parlando e con la cintura serrata sistente circa l’ordine da rispettare tra le dita si volta verso il tavolo da per le consegne giornaliere, poi si ri- lavoro accettando la mia richiesta
d’urgenza. Anche l’ultima missione la confidenza con strumenti di preera archiviata, ma il treno era per- cisione (rastrelli, badili, mastelli, seduto. tacci, ganci, rulli, bulbi) disposti qua e là nel laboratorio. Ci sono anche una serie di strumenti che Amleto NELLA BOTTEGA DEL MAESTRO definisce “antichi”, appartenenti allo Amleto lavora con una lentezza esa- zio, al nonno e poi chissà a chi altro sperante, una lentezza che mi è semnei secoli passati, e che egli conserva brato di vedere solo alle casse dei sucome un cimelio in una cassettina permercati parigini, dove dive dei sotto il tavolo e tira fuori solo quando raggi infrarossi esercitano la loro in“gli prende la nostalgia”. fluenza sul tasso di stress accumulabile da un unico individuo di razza Il suo bagaglio di storie, la sua forumana. La lentezza di Amleto però mazione nella bottega del nonno e non ha nulla di esacerbato o gratuito, poi dello zio, i suoi settantatré anni al contrario, è una garanzia di cura e di lavoro in confronto agli ottanta di autoconservazione che il Maestro vissuti, l’aver attraversato un’Italia trascina con sé dal mondo antico da del dopoguerra e poi del Boom e poi della crisi petrolifera e poi rampante, cui proviene. da bere, e poi ancora, inesorabile, la Il treno era perso mentre vedevo dicrisi d’oggi. Lui è sempre stato lì, fernanzi a me un uomo carico di anni mo, quasi incastonato, tra pelli proricurvo su una cintura, il martello venienti da tutto il mondo. E interin una mano e un sacchetto di fibbie rogato, da sotto queste pelli, Amleto nell’altra, che mi parlava e snocciolava disseppellisce il suo museo personale la storia della mia famiglia anno per con la foga e la gioia d’un bambino anno (anche loro commercianti della alla ricerca del tesoro da lui nascosto zona fino agli inizi degli anni Ottanta!): il trasferimento del primo nel giardino paterno. Liberando il negozio in un locale più grande a tavolo dai lavori dei clienti, che contiVia dei Mille, poi via via il racconto nuano ad arrivare e ripartire con le procedeva lungo gli anni sorpren- mani vuote, Amleto fa mostra di foto dentemente simile a quello ascoltato in bianco e nero in cui appaiono i dai miei nonni e genitori, fino al suoi lavori più pregiati (borse, valigie, momento della chiusura. Per un at- macchine fotografiche rivestite di timo Amleto solleva lo sguardo dalla pelli rare, preziosi beauty-case) e lui cintura e mi domanda serrando gli giovanissimo ma sempre uguale. Forse occhi e sporgendo le labbra, come è rimasto identico ed è cambiata solo seguendo il percorso della domanda la velocità con cui si muove all’interno dalla mente fino in cima alle labbra: della bottega, con cui sposta gli oggetti “Ma perché ha chiuso quel negozio?”, o posiziona le mani, è diminuita solo rimanendo poi con lo sguardo sospeso l’intensità del dialogo con le sue pelli nell’interrogazione. In quel momento (a volte tra le labbra ho colto qualche ho capito che Amleto possiede una parolina di troppo, ma solo accennata straordinaria memoria a cui cerca e che tradiva l’affetto profondo che sempre di aggiungere i pezzi mancanti, lega due vecchi coniugi). completare la topografia storica del quartiere al quale appartiene e di cui è deposito. Egli ne cura l’integrità riallacciando i fili sparsi, completando storie mancanti e ogni tanto inventando di sana pianta. Ciò che quella bottega ha di sorprendente è la compresenza di vita, operosità e morte, una sintesi napoletana tra ciò che resiste e l’immenso vuoto vorace che tutto inesorabilmente divora. Amleto mi è apparso come il portatore, stanco ma fiero, di una consapevolezza del proprio sapere artigianale, indossato con fierezza come fosse un abito d’epoca. È da questa sicurezza che deriva l’atteggiamento del Maestro, la nettezza dei suoi gesti diluita nella precisione della sua arte,
Quante icone possiede la città di Napoli? Quante anime? La produzione di simboli di cui è capace la città mi ha sempre stupito, per la sua reattività, per la velocità con cui crea il mito e poi lo distrugge, la generosità con cui ama e il disprezzo con cui abbandona. Amleto dal suo antro è un simbolo ambivalente e nascosto di Napoli, prodotto pregiato del ventre cittadino, del suo corpo sempre gravido e poco materno. Amleto è proprio come quella medaglia che si dà sempre di taglio, quell’insieme di magnificenza principesca e incipiente tragedia, lusso nel gestire il proprio tempo e rincorsa affannata alla modernità. È il sorriso, il gesto nobile e il labbro curvato nella smorfia irriverente.
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Orlando esplorazioni MAESTRI DI IERI/1
PRIMAVERA-ESTATE 2015 di MATTEO LO PRESTI
Nicola Chiaromonte “Io
credo fermamente che un uomo non ha diritto di essere un angelo, ma un uomo, un uomo, un uomo”.
Con queste parole Nicola Chiaromonte intellettuale solitario e maestro della cultura italiana del ‘900 scriveva ai genitori con la consueta, onesta chiarezza, la disapprovazione per la scelta del fratello Mauro di farsi prete e di entrare, ancor peggio, nell’ordine, dei gesuiti. Con un impegno ostinato Nicola Chiaromonte, contro tutto e contro tutti, ha difeso questa vocazione ad essere tutore della giusta luminosità interpretativa e filosoficamente ragionevole che ogni singolo uomo deve possedere’per attraversare le oscurità della storia. L’anno scorso ricorreva il quarantesimo anniversario della morte avvenuta a Roma (in ascensore, colpito da infarto) il 18 gennaio 1972. Era nato a Rapolla (Potenza) il 12 luglio 1905. Ma essendo stato Chiaromonte uomo libero e sorprendentemente estraneo a qualsiasi “chiesa”, nessun partito, nessuna ”fondazione politica”, nessun teatro si è sentito in dovere di promuovere una qualche celebrazione commemorativa. Diplomato al liceo Tasso di Roma e laureato in giurisprudenza nel ’27, in rapporti con l’antifascismo militante, Chiaromonte aveva peregrinato per il mondo, prima esule in Francia come aderente al movimento di Giustizia e Libertà, poi combattente coraggioso come aviatore nella guerra civile di Spagna nella squadriglia aerea di Malraux (lo ricorderà nel romanzo L’Espoir, col personaggio Scali), poi a Casablanca e in Algeria dove incontrò Albert Camus al quale si legherà di forte amicizia, infine negli Stati Uniti a New York in stretto sodalizio con Phlip Rahv direttore di Partisan Rewiew, Lionel Abel, Hanna Harendt, Meyer Shapiro. Mary Mac Carthy che di quel gruppo di amici era protagonista disse ”Nicola era un maestro, ha cambiato la mia vita in molte cose”. Tornato in Italia nel 1948 aveva iniziato la sua collaborazione al “Mondo” diretto da Mario Pannunzio, poi fondatore con Ignazio Silone della rivista “Tempo Presente” e temibile critico teatrale per “l’Espresso”. Volava alto Chiaromonte per sfuggire a certo dogmatico provincialismo italiano, abituato come era a porsi a confronto con le migliori voci della cultura europea e mondiale: da Sartre a Pasternak, da Simon Weil a Solzenicyn, da Mallarmè a Tolstoj a Gandhi lontano dalle prospettive esibizionistiche e per non essere mai “di moda”. Se si deve restringere il suo lavorio politico in una formula utilizzabile si potrebbe dire che era un socialista libertario, che poneva le sue radici non nel marxismo e nello storicismo, ma nell’opera di Proudhon, Stuart Mill, Herzen, Andrea Caffi. Ma non fece mai militanza politica atterrito dalla possibilità di subire strumentalizzazioni da qualsivoglia ideologia. Era guardato con diffidenza perché misuratore inesorabile dei trasformismi degli uomini di cultura. Ebbe a scrivere: «Una certa tendenza a farsi “infiltrare” gli intellettuali italiani l’avevano già prima che arrivasse il PCI. Il quale poi offriva l’incomparabile attrattiva di un’ideologia di protesta e di rifiuto combinata con una pratica di compromesso, di tutela corporativa e di rispetto del quieto vivere. Quindi nel dopoguerra furono rivoluzionari in massa, i nostri intellettuali, todos caballeros» (Tempo presente, dicembre 1964). Un poderoso accumulo di nemici fece finta di ignorarlo. Lo preoccupavano le degradanti svalutazioni della vita interiore e gli orrori che il potere politico aveva compiuto sulla psicologia delle masse, lo preoccupava la scomparsa della ragione dall’arte moderna del governo. “Democrazia è quel regime di convivenza nel quale è dato al cittadino di nutrire speranza ragionevole di poter influire sul destino comune, di contare nella collettività come presenza attiva e non come una cifra” (Le verità inutili, ed. Ancora, p.88). Nella sua critica teatrale non faceva sconti a nessuno. Non a al Galileo di Brecht-Strehler accusando l’autore di parlare del problema della chiesa comunista invece che di quella di Roma, incapace di gestire la polemica antiborghese: «bensì di avere mescolato l’oca al forno e l’idealizzazione della scienza: miscuglio quanto mai gradito ai borghesi». Né si tirò indietro per stroncare lo spettacolo le “Baccanti” di Euripide messo in scena da Luigi Squarzina e tradotto da Edoardo Sanguineti. “Che cosa va cercando questo Dioniso vestito di plastica argentea come un qualsiasi Superman?” (Scritti di teatro, Einaudi). Il teatro per lui era azione umana per considerare l’uomo rigorosamente attraverso il suo agire quale si manifesta nei labirinti della storia. A teatro, era convinto Chiaromonte, si parla dell’uomo che affronta il proprio destino. ”Agire non significa cercare di vincere, ma accettare di perdere a un gioco le cui regole non sono state stabilite da noi, in un mondo che non ha bisogno di noi per esistere…” (“Il Mondo”, 22 dicembre 1959). Purtroppo, sapeva che gli uomini amano solo l’azione che riesce e troppo spesso sono spettatori di un mondo che cresce stolto davanti all’inerzia di troppi. Guido Ceronetti (“La Stampa”, 26/4/1978) scrisse: «Chiaromonte, uno scrittore che ci tratta da naufraghi intelligenti, è un veggente che per vedere non va per la via del sogno e del fuori di sé, ma applica la ragione accettando che al di là del suo potere di stringerla, l’immobile realtà resti insoluta... Forse il termine esatto per lui è una parola perduta: veditore». Chiaromonte conosceva il ruolo che giocava. “C’è posto per il Fanatico e per il Cinico. Solo chi vuole essere se stesso ne resta escluso: l’eretico. O no?”. (Il tarlo della coscienza, Il Mulino, p. 83). Ergo niente celebrazioni. Inquietante. È giusto così?
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MAESTRI DI IERI/2
di PAOLO TABACCHINI
Tsunesaburo Makiguchi C’
è crisi. C’è crisi e si sente. La crisi che ha investito e investe a più riprese l’Europa e il mondo globalizzato dagli anni postboom economico è ogni volta più intensa e devastante. E non si tratta soltanto di una crisi economica. È una crisi profonda, radicata, che tocca istanze più importanti. Il problema forse risiede nel fatto che non si riesce a cogliere quell’aspetto positivo che c’è anche nella crisi. In cinese l’ideogramma che significa “crisi” può essere interpretato anche con il significato di “opportunità”. E questa doppia natura del concetto, pur se non presente nella lingua, è intuibile nei fatti in ogni luogo e in ogni tempo poiché, storia insegna, sono proprio i momenti critici (sia individuali che sociali) quelli in cui l’uomo manifesta il suo straordinario potenziale. Ma il punto sta qui. È necessario, nel momento in cui un paradigma entra in crisi, avare il coraggio di cambiare. E cambiare radicalmente.
Questa riflessione da ragione al fatto che in questi tempi ci si stia guardando intorno, proprio alla ricerca di qualcosa di nuovo. E non è un caso che in questi tempi la maggior parte delle persone si apra all’altro nella ricerca di uno scambio rivitalizzante. In virtù di questo possiamo comprendere la straordinaria “fortuna” di un movimento, divenuto ormai internazionale, che sta radicalmente cambiando le esistenze di molti individui: la Soka Gakkai, ossia l’ “Associazione per la Creazione di Valore”. Chi ne ha sentito parlare la collega subito alla propagazione della filosofia-religione buddista nella declinazione di Nichiren Daishonin, il monaco giapponese vissuto nel XIII secolo che fondò la “Scuola del Loto”. Ma un aspetto è sorprendente: l’insistenza posta dai suoi membri sulla laicità. E di laicità si parla anche nella lezione di vita e di etica di Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore e primo presidente della Soka Gakkai. Nel Giappone di allora laicità era (ma sembra che ora torni ad esserlo) sinonimo di antidispotismo. Era l’antidoto al delirio nazionalista e militarista che intossicava la sua patria negli anni precedenti alla guerra e della guerra, quella sanguinosa del secondo conflitto mondiale. Makiguchi fu per tutta la vita un educatore, prima come maestro elementare poi come preside d’istituto. La sua azione e riflessione, manifestata nelle sue opere pedagogiche (la principale è L’educazione creativa del 1930), furono volte alla decostruzione della ideologia politica e alla formazione di individui pacifici e cooperanti a livello internazionale. Contro la chiusura nazionalistica prebellica proponeva la necessità, divenuta a suo avviso impellente nella società moderna, di formare dei cittadini globali, cioè persone in grado di integrare la loro cultura di appartenenza all’interno del contesto internazionale. Contro il dogmatismo religioso di stampo scintoista invitava a fare di tutto per ispirare un sano sentimento spirituale nei giovani, necessario a comprendere il mistero umano. Contro la deriva militarista e interventista della politica giapponese dell’epoca Makiguchi sottolineava l’importanza fondamentale della lotta pacifista e nonviolenta, non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello politico. Credeva nell’urgenza di sostituire l’oggetto del contendere internazionale, sostenendo che il primato politico di una nazione si misurasse non sulla potenza militare del suo esercito, né sulla ricchezza delle sue produzioni, bensì sul piano dei diritti civile. In breve per Makiguchi la società “migliore” era quella nella quale gli individui sono più felici, vale a dire che possono essere liberi in senso profondo, grazie alle conquiste umanitarie. Il suo metodo si riassume nel neologismo da lui coniato: Soka, ossia “Creazione di Valore”. Partendo dal presupposto che ogni individuo è dotato di un valore utile a se stesso, alla società e all’ambiente, l’obiettivo dell’insegnate e quello di destare nell’allievo la forza creatrice di cui è dotato per natura al fine di rendere manifesto il suo Valore specifico. Questa manifestazione è allo stesso tempo la realizzazione del sé, dunque un’inesauribile fonte di felicità. In questi termini l’insegnate ha lo straordinario fine di fare del suo allievo un adulto felice. Solo un adulto felice, utile e sereno, può costruire una società libera dall’odio e dalla violenza e integrata nell’ambiente naturale. Per queste sue idee subì gravi persecuzioni che gli costarono molto. Prima fu sciolto dagli incarichi di preside e gli fu impedito di insegnare. Ciononostante Makiguchi continuò a svolgere la sua attività di educatore in altri modi, principalmente con la sua attività giornalistica sulla rivista della associazione da lui fondata e con pubbliche discussioni. Per questo furono presi provvedimenti più coercitivi. Fu arrestato e ridotto in carcere. Dopo 500 giorni di dure vessazioni si spense. La sua lezione è tuttora viva e attiva in 192 paesi del mondo e li sta cambiando profondamente.
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Orlando esplorazioni
PRIMAVERA-ESTATE 2015
RACCONTO SU COMMISSIONE
di MASSIMO TURTULICI
Che cosa si impara da un genio E
ra stato due anni lontano, di lui molti avevano perso le tracce, di lui e della sua chitarra con cui straziava anche i più pazienti dei suoi ascoltatori, e non solo gli altri musicisti. Ma cosa avesse fatto Robert Johnson, il grande bluesman degli anni trenta del secolo scorso, durante quegli anni oltre a vagabondare nella zona del delta del Mississipi, per suonare dove lo sopportassero, scappare al ricordo della moglie molto amata e morta troppo giovane, e ai mariti o fidanzati delle tante donne che gli si concedevano, rimaneva un mistero. Che presto finì per alimentare il mito che aleggiava attorno alla sua improvvisa bravura tecnica. Una autentica meraviglia per chi lo aveva conosciuto prima, prima che vendesse l’anima al diavolo in cambio di quell’immenso talento musicale. Era stato sufficiente, dicevano, fermarsi ad un quadrivio poco prima della mezzanotte ed aspettare che arrivasse un grosso uomo nero che gli avrebbe preso la chitarra, gliel’avrebbe accordata, avrebbe suonato un pezzo ed infine gliel’avrebbe restituita trasformandolo, forse, nel musicista blues più importante di tutti. Non è il solo musicista a cui il diavolo avrebbe concesso i propri favori in cambio dell’anima. Si diceva anche di Niccolò Paganini il cui virtuosismo al violino era tale da far svenire gli spettatori che lo vedevano esibirsi, e accanto al quale qualcuno asseriva di avere visto il demonio in persona.
Del resto, persino il Lombroso, parlando del genio, lo descrive come un alienato. Al culmine dello slancio creativo, il genio, non necessariamente artistico, gli sembra pencolante, come Paganini con il suo violino, oppure Van Gogh e le sue tele, tra la pazzia e la ragione. Numerosi gli esempi che si potrebbero portare a dimostrazione di questo equilibrio, tante volte estremamente precario, tra genio e sregolatezza. La storia dell’arte, di qualsiasi arte, ne è piena. Rimanendo in ambito musicale, basterebbe fare il nome di Charlie Parker, di Jimi Hendrix la cui biografia è davvero paradigmatica di quel che si può intendere per genio.
vi accorgeste che il vostro talento non sarebbe nulla davanti al genio. Perché un conto è parlarne, rimanerne esaltati finché se ne è lontani, ma quando il genio ci siede accanto, e magari è un amico o un compagno di studi, cosa fareste? Potreste cedere e ritirarvi nel silenzio, abbandonare una carriera artistica, il sogno, come appunto i compagni di studio di Glenn Gould. Oppure rimanere estasiati dinanzi al talento come Haydn quando riconobbe il genio del giovanissimo Mozart. Molto più umana e calorosa è la profonda invidia per la musica di cui era “affetto” Giorgio Manganelli. Che è l’invidia dello scrittore per il musicista o meglio ancora, l’invidia per una condizione più libera. Ha ragione Manganelli, nessuno ha la possibilità di librarsi con la leggerezza del musicista sulle tristezze umane. Che pochi musicisti come Beethoven hanno vissuto sulla propria pelle, direttamente, trovando consolazione alle sventure fisiche solo nella musica, nella propria creazione, visionaria e, come avrebbe detto Kant, quasi senza sapere dove lo stava portando. Come spiegare infatti la sonata per pianoforte numero 32 opera 111 dove all’insaputa e assolutamente in maniera preveggente, nell’arietta, sembra di sentire il vagito di quel ragtime, che solo cento anni più tardi contribuirà alla nascita del jazz.
Difficile infatti definire il genio se non in termini diretti, come dire esemplari, e se la distinzione in latino tra genium, acutezza di intelletto, e studium, capacità acquisita attraverso un impegno lungo, sembra essere sufficiente, in realtà si perderebbe la prospettiva più vasta che per esempio il Rinascimento ha definendo il multiforme ingegno, il cui superbo modello è certamente Leonardo, dell’uomo di genio. O stero della creazione artistica, al genio inat- l’apertura che fa Kant quando considera teso e per lo più misconosciuto, o peggio, l’arte geniale libera di vincoli di metodo o non riconosciuto. Penso al film A propo- regole. sito di Davis dei fratelli Coen, al pluripre- Ma sfugge ancora qualcosa, forse una domiato Birdman di Inarritu. In fondo la domanda, piuttosto che una definizione, a manda è sempre la stessa, cos’è il talento, cosa serva o a chi giovi infine il genio, o il genio, e dove si trova, e soprattutto sappiamo riconoscerlo o ne proviamo, al co- l’opera di genio. Perché al di là delle espespetto, un misto di gioia ed invidia, quando rienze dirette, delle definizioni più o meno precise, c’è qualcosa che forse solo la mente non si tratta di rabbia e gelosia? di un altro genio, poteva sentire tanto forte Quanti musicisti come Dave Van Ronk, il e pervasiva. “Le opere di genio, dice Leomusicista folk cui si sono ispirati i fratelli Coen, pure nella totale ignoranza delle tec- pardi nello Zibaldone, quando anche rapniche scolastiche, nell’incapacità di leg- presentino al vivo la nullità delle cose, gere uno spartito, hanno tentato chi con quando anche dimostrano evidentemente successo chi miseramente, di tirare fuori e facciano sentire l’inevitabile infelicità magia dalla propria musica malgrado i sa- della vita, quando anche esprimano le più crifici, la lotta con se stessi, il disinteresse terribili disperazioni, tuttavia, ad un animo dei produttori e spesso anche del pubblico, grande che si trovi anche in uno stato di la voracità del mercato che presto chiede estremo abbattimento, servono sempre di nuovi eroi, nuovi genii. E di contro quel consolazione.” percorso iniziatico che conduce Neiman, Un fiore nel deserto, appunto, il profumo il protagonista di Whiplash, con il profesdi ginestra che si spande sopra la cenere sor Fletcher, alla padronanza di sé e dello che ammanta il Vesuvio, e per esteso, il strumento, la batteria, attraverso una lunmondo sottostante. L’unico fiore capace ghissima battaglia psicologica fra i due che vedrà trionfare né l’uno né l’altro, né tan- di crescere nella desolazione del deserto, il tomeno l’idea di successo, ma semmai la cui profumo, senza pretesa di trasformarsi musica, severa e indifferente, del sacrificio in preghiera, così come il genio e la sua umano, madre e matrigna che elargisce il opera sono legati all’essere umano che l’ha dono del divertimento. Perché è questo creata, non è che consolazione per l’uomo che il professor Fletcher dice alla sua band che al nulla deve inevitabilmente tornare. prima di salire sul palco, andiamo a divertirci.
Eppure, questo tema del genio è assai ricorrente e non è solo della musica. Vengo- Un tratto che per esempio era presente in no in mente alcuni film degli ultimi anni Mozart, e come lui in tanti altri musicisti, che girano attorno a questo mistero, al mi-
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ILLUSTRAZIONE ADRIANO TURTULICI
Eppure deve esserci un metodo decisamente meno oneroso per apprendere la tecnica musicale. Sicuramente quello che si impara nei conservatori, o presso maestri privati. Certo il percorso ufficiale che prepara sicuramente ottimi musicisti. Perché se è fuori di dubbio che poco c’entri il diavolo nell’apprendere il linguaggio della musica, è altrettanto vero che esistono decine di musicisti, non importa se di successo o meno, che del conservatorio, o di maestri privati hanno fatto decisamente a meno. E tuttavia credere che il genio, perché di questo andiamo parlando, possa materializzarsi in totale assenza di un metodo, magari del tutto personale, quasi che il talento sia da solo capace di regalare bellezza ed estasi, attraverso la musica, o qualsiasi forma d’arte, sarebbe davvero ingenuo. Certo, del genio si potrebbe dire che è quanto di meno democratico si possa pensare, quanto di meno codificato, normalizzato si possa aver in un essere umano. E per tanto, in un’epoca che non vuole altro che normalizzare, omologare, catalogare sì che possa chiunque rientrare in una categoria commerciale, la presenza del genio e già di se perturbante. Uso questo termine non a caso, ripensando alla penna di un genio, ma della parola scritta. Thomas Bernhard che del genio ha lungamente scritto in uno dei suoi romanzi più riusciti. Solo che lui nel Soccombente, non si mette ad osservare il mondo dalla parte del genio, ma degli amici, compagni di studio che lo guardano, che lo vedono crescere ben oltre le loro pur non indifferenti virtù di “suonatori di pianoforte”. Proviamo ad immaginare cosa accadrebbe se improvvisamente, o peggio ancora, lentamente quasi fosse una tortura,
l’assoluta apparente mancanza di fatica, l’apparente facilità di tutto quel che le sue dita sapevano tirare fuori dal pianoforte. Staccarlo da quella tastiera non era cosa facile. Ed è lì che finirà i suoi giorni componendo il Requiem. Nell’arte, nell’artista, gioia e dolore, angoscia e gioco, gioco e morte coesistono continuamente, ricorda Giorgio Manganelli in una delle interviste rilasciate a Paolo Terni su Radio3 nel 1980 (e meritoriamente ripubblicate lo scorso anno appunto con il titolo di Una profonda invidia per la musica edito da L’Orma), sono inseparabili ed auspicabili.
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Orlando esplorazioni
PRIMAVERA-ESTATE 2015
VIAGGIO DENTRO UN LIBRO
di GIANANDREA PICCIOLI
Stajano Una storia di maestri e di fantasmi L
a stanza dei fantasmi di Corrado Stajano (2013) è un “oggetto librario non identificato”, un “manufatto librario” apparentemente anomalo: non è un saggio, non è un’autobiografia, non è un romanzo. L’autore comincia enumerando una serie di oggetti e immagini nel suo studio milanese, li descrive, ne ricostruisce la storia o si lascia sollecitare a dipanare il filo delle memorie personali e degli eventi collettivi che questi oggetti e immagini richiamano. Così i ricordi personali e privati si intrecciano continuamente con la grande storia del Novecento, narrata come un romanzo. Questo espediente permette all’autore di essere sempre e completamente dentro la storia (questo libro insegna come pochi altri che non si può sfuggire alla storia, che siamo fatti di storia, che la subiamo e la agiamo) e nello stesso tempo gli consente di far percepire e trasmettere le sue reazioni soggettive, il suo vissuto. A prima vista, quindi, questo strano manufatto potrebbe essere un po’ tutt’e tre le cose appena negate: autobiografia, romanzo, saggio. Quello che importa, in un testo come questo, è la riuscita letteraria, cioè la messa in forma della realtà e quindi il suo effetto di verità. Non è la verità storica elaborata letterariamente che conta, non la rappresentazione della realtà, ma un’immagine della realtà conseguita attraverso la forma. Max Frisch nelle sue lezioni sulla letteratura tenute in un’università americana (Quadrato nero, Gaffi) scrive: “Comunicativa è solo l’immagine, escogitata, cambiata, trasformata, plasmata. La verità non si può descrivere, solo inventare. Ritengo che non esista finzione che non sia fondata sull’esperienza.” L’ esperienza si esprime attraverso la finzione, come l’attore a teatro si esprime celandosi nel personaggio. E così la realtà diventa realtà significativa per noi. “La stanza è popolata di fantasmi. Lievi come farfalle, grevi come rocce. Si sciolgono nelle vene della memoria dove uomini e donne si incontrano ai crocicchi.” (p.7) Sono le prime parole del libro di Corrado Stajano, che nell’ultima pagina, poche righe prima della fine, scrive una frase di tre parole: “Nessuna nostalgia, affetti”. In questi due estremi, all’ingresso e all’uscita, ci sono il nucleo generatore e la tonalità di tutto il libro: come in un pezzo musicale in cui le prime battute avviano lo sviluppo tematico e dopo una lunga peripezia la conclusione torna al motivo iniziale, arricchito però di tutto ciò che ha incontrato lungo il percorso. I fantasmi di una storia personale e generale, che affonda le radici all’inizio del secolo scorso e si conclude provvisoriamente ai giorni nostri, questi fantasmi che hanno l’affascinante, fragile leggerezza di una farfalla e la pesantezza di vite grevi come pietre (ma la roccia, nella vicenda millenaria dell’universo, è solo energia bloccata; e così certi ricordi). I fantasmi che fluiscono in una memoria che si fa realtà vissuta di esistenze concrete, vita e destino, per citare un grande libro, forse il più grande della seconda metà del secolo scorso. Fantasmi che suscitano affetti, cioè passioni. Ma anche cura del passato, senza nostalgia, anzi operativamente: il passato ha bisogno di noi posteri. Dobbiamo aver cura di un passato che deve essere portato a compimento, come nel volo dell’ Angelus novus di Klee secondo Benjamin: la direzione del volo è verso l’avvenire, ma l’angelo si volge all’indietro, verso un paesaggio di rovine.
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Questa esigenza di compimento è dunque anche volontà di salvataggio del passato, dei morti, del dolore degli innocenti, partecipazione alle vicende del mondo. Da questa esigenza, suppongo, nasce in Stajano la disposizione narrativa, qui dispiegata con discrezione, come è suo costume, ma anche con esiti di assoluta rilevanza. Cose e persone emergono nella loro finitezza e nella loro storicità, addirittura nella loro genealogia, per usare un termine nietzschiano; ma le informazioni acquisite e accertate sono come grucce vuote (“scheletri che vanno nutriti di carne” dice l’autore) se manca l’ausilio dell’immaginazione che esplora quell’alone di possibilità inespresse che circonda ogni realtà effettuale. In altre parole quella che noi chiamiamo “realtà” è sempre il prodotto finale di un processo di costruzione. Il narratore autentico sceglie nell’immenso campo del percepibile, mette a fuoco certi particolari e ne trascura altri: ma quel particolare scelto e ricordato illumina l’intero e se lo trascina dietro. E il libro di Stajano, a prima vista così referenziale, è ricchissimo di queste “epifanie”. Circuendo con l’immaginazione un mazzetto di fotografie ingiallite, scrive [pp.47-48]: L’ultima fotografia del mazzetto, più ingiallita delle altre, sembra un patetico addio. Un bambino contadino tiene le mani, scostando il viso, sul muso di un cavallino che tira un minuscolo calesse dove siedono accucciate, intimidite, le mie sorelline di pochi anni. Sulla destra, ritto, davvero padronale, un signore col colletto duro, la cravatta, il fazzoletto nel taschino, il cappello, vicino a una donna piccina e rotonda che dev’ essere la nonna. […] Il non poter più sapere dà una triste impotenza. I documenti sono soltanto scheletri che vanno nutriti di carne. Come possono delle carte far riascoltare voci, rivedere gesti, captare sguardi, far capire lo spirito del tempo? A chi chiedere di quegli anni perduti e dimenticati se i protagonisti sono tutti morti? I genitori, le amiche sorridenti di mia madre, il tenente dei bersaglieri [sono tutti riferimenti a foto descritte nelle pagine precedenti], le sorelline sul calesse, forse anche il bambino che tiene le briglie del pony non ci sono più. Grava il silenzio persino sulla pietà dovuta a destini falcidiati dalle guerre, dalle disgrazie, dalle ingiustizie, ammorbiditi da qualche intervallo di serenità. Piccole verità trascurabili un tempo sembrano diventate ora essenziali per capire quei mondi. Il muro della morte non è soltanto corporale. Quali sono stati gli amori, gli affetti, i tormenti, come si snodò l’esistenza di quegli uomini, donne, bambini? Il libro di Stajano è scritto in prima persona, ma è tutto salvo che autobiografico. È un “io” personale, cioè soggettivo, che racconta i fatti attraverso quella lente degli “affetti” che ho già evocato più volte, e non l’ego autoreferenziale, fosse pure per doveroso compito di conoscersi, che spesso prevale in un’autobiografia. Il suo narrare è quello di Ivan Sever’jani Fljagin, il “viaggiatore incantato” di Leskov, non quello oggi tanto in voga, di chi, magari fraintendendo completamente la grande lezione di Proust, mette a nudo le pieghe segrete della propria interiorità, sciorina le proprie bu-
delle sul tavolo, come diceva Cesare Garboli, paragonando lo scrittore a un macellaio che espone sul banco, e mette in vendita, le carni sanguinanti. L’io narrante non è qui un personaggio e arriverei a dire nemmeno un io reale: è una funzione della scrittura, che riflette il mondo esterno nello specchio di una soggettività reattiva, emotivamente e razionalmente. È una funzione narrativa che segnala da un lato una testimonianza diretta ma dall’altro consente anche di prendere una distanza dagli eventi e dai personaggi narrati. E la distanza consente l’apertura di uno spazio prospettico entro cui può nascere la narratività. A questo proposito trovo significativo il ricordo della madre, una figura che è addirittura intima all’autore, ovviamente. [pp.111-112] Mia madre in una cornicina dorata. Deve avere vent’ anni quando sposò mio padre e all’uscita dalla chiesa passò sotto l’arco di sciabole degli ufficiali del reggimento. È bella, con i capelli raccolti sulla nuca, un vestito chiaro chiuso su una spalla da una fila di bottoncini, una rosa appuntata sul petto. Un’immagine di dolcezza ottocentesca. Se penso alla furia con cui difese i suoi figli la notte in cui gli uomini della Wehrmacht vennero a perquisire la nostra casa. […] Sono infiniti i ricordi che un figlio può avere della propria madre, a partire dall’infanzia, ma il cuore di mia madre lo sento battere soprattutto nel cuore della guerra, forse l’evento più dolorante della vita. L’8 settembre aveva svestito della divisa e rivestito di abiti borghesi un bel po’ di soldati dello scalcinato esercito italiano in fuga, facendoli entrare da un portone della casa sul corso e scappare da un altro portone in fondo a un cortile che dava su un vicoletto. La sua memoria di donna mite, salda nei principi, indifesa davanti alle brutture del mondo, è legata alla sua coraggiosa fermezza di quella notte di guerra che forse intimidì persino l’ufficiale nazista. Non le servivano le parole. Levò una muraglia con il suo modo di porsi e di far fronte. Fu davvero l’anello forte. Qui la madre, che in un altro capitolo è caratterizzata con un aggettivo dal sapore omerico (“dolceridente”), è ritratta con tutta la possibile tenerezza filiale ma nello stesso tempo con precisione analitica, come a tenere a freno l’emotività, e subito immersa nel flusso della storia, però con la concitazione narrativa di un thriller. Ma la narrazione senza lo stile non può nulla, o quasi. Lo stile è la voce personale dello scrittore, la manifestazione linguistica della sua personalità. E la scrittura di Stajano non è mai stata così precisa, pacata e dolente, con il passo del montanaro che riconosce ogni elemento del proprio ambiente vitale. Stajano, anche nella sua vita quotidiana, coltiva testardamente una grande virtù, ormai scomparsa: l’attenzione, quindi anche il rispetto, che ne è il succedaneo. Stajano osserva tutto, i sensi all’erta in un organismo apparentemente rilassato: si guarda intorno con lentezza, con occhio apparentemente distratto, poi trascrive ciò che ha visto con guizzi stilistici che fanno respirare la pagina, ma senza clamore, se così si può dire: piuttosto suggellando un’impressione.