Carnage News

Page 1

NEWS

Quaderni

Numero #0 anno 1 - www.carnagenews.com - rivista di approfondimento culturale


Hélène Grimaud

e la porta socchiusa della forma-sonata

di Riccardo Gorone

G

lenn Gould fece una dichiarazione in cui disse che autori come Schoenberg e Webern avevano compiuto una svolta nel campo musicale in vista del contrappunto assoluto, una manifestazione che non si vedeva dai tempi di Bach. E con questo non intendeva certo dire che Bach fosse “avanti”rispetto alla sua epoca. Anzi, rispetto ai canoni in vigore al suo tempo, era piuttosto arretrato. Johann Sebastian Bach era semplicemente inattuale rispetto alla sua epoca. Fa pensare che tra i compositori della Seconda Scuola di Vienna ricordati da Gould non risulti l’altra personalità dello scenario viennese: Alban Berg, di cui Gould tra l’altro interpretò la Sonata per pianoforte a Stoccolma in maniera lirica e “pauperistica”- una grandissima interpretazione che si associa a quella dell’Op. 110 di Beethoven dello stesso programma. L’inserimento di Berg in un programma che comprendeva Beethoven e Brahms può sembrare come un’invasione di campo per coloro che disprezzano ciò che è stata la ricerca della scuola viennese in ambito di dodecafonia e serialità. Dovrebbe di conseguenza insospettire anche coloro che hanno avuto modo di visionare il programma di Hélène Grimaud al Teatro Manzoni di Pistoia in occasione dell’evento Leggere la città. La serata si apre con la Sonata per Pianoforte in Si minore di Franz Liszt e si chiude con la galeotta Sonata di Berg. Una scelta non audace, bensì ponderata. Entrambi le due opere sono infatti in Si minore ed entrambe hanno come struttura la forma-sonata, con tutte le differenze del caso che vedremo a breve. Se Berg non è stato messo nella schiera dei “contrappuntisti assoluti” da Gould, è perché Berg non ha certo mai sdegnato forme che potevano essere definite “tradizionaliste” dagli “avanguardisti”, come la forma-sonata unita alla forma ternaria – il lavoro Der Wein, per esempio. Nella Sonata di Berg, composta tra il 1907 e il 1908, opera giovanile, la forma-sonata si rivela come lo sviluppo e l’intrinseca conclusione dell’opera stessa. Berg infatti volle comporre più movimenti per il brano, ma dopo aver composto il primo movimen-

2

to “perse l’ispirazione”: non sapendo come continuare, si diresse dal Maestro – e non solo di pianoforte, ma di vita – Schoenberg che, trovandosi di fronte alla perplessità dell’allievo, rispose che già nell’unico movimento composto aveva detto tutto - “non vi era nient’altro da dire”. L’opera custodisce la progressione della forma-sonata (esposizione, sviluppo e ricapitolazione) che, a detta del musicologo Mosco Carver, si conferma come “la forma regale per eccellenza per elaborare la struttura musicale di variazione continua”, smentendo il parere di Debussy, il quale affermò che dopo Beethoven la forma sonata non poteva più essere ritenuta un forma di composizione valida o sensata.

delle note, trova spazio la ricerca timbrica e percussiva della tastiera. Il pianismo di Liszt presuppone sempre una dimensione più ampia rispetto a quella timbrica (le folle, la platea, l’esibizione virtuosistica) in cui si fanno strada sonorità irruenti e grossi contrasti che danno nuove possibilità espressive – come appunto la sfumata conclusiva della Sonata in cui gli accordi risuonano in lontananza dopo una narrazione ‘senza fine’ (inteso come tèlos, scopo finale, epilogo).

ethoveniana: non si tratta più del ritorno al tema dell’esposizione attraverso uno sviluppo che si conclude in una ricapitolazione. Nella Sonata in Si minore viene abbandonata l’idea del ritorno, ma viene accolta “l’azione” del costante rinnovamento, del perpetuum mobile (un’idea tipicamente “faustiana” - e ci piace pensare Franz Liszt ritratto come figura mefistofelica, che getta i guanti al pubblico durante le sue esibizioni!) che possiede certo una sua regolarità, ma non un suo ordine. Nota il musicologo Jean-Pierre Bartoli che Liszt insiste su una reinterpretazione del significato di forma-sonata: non più, come detto sopra, “la restaurazione di un ordine”, ma “la tragica insistenza di un discorso che sembra non trovare più via d’uscita”.

Questo era Liszt: il sovvertitore degli schemi tradizionali che, nel concerto di Helène Grimaud trova una conclusione nell’unico movimento di Berg che inconsapevolmente aveva già detto tutto nonostante la nuova grammatica dodecafonica. Giustamente il programma della serata apre con Liszt: eterna overture, perpetua apertura – anzi, eterna dèclosion, dis-chiusura, dato che l’Op. 21 lascia intravedere la libertà di un “oltre-l’opera”, ma che si rivela un qualcosa di inesorabilmente circolare nel suo svanire, che la Grimaud accentua nella maniera più definita possibile lasciando poco spazio all’impressionismo dedicandosi piuttosto alla struttura espressivo-timbrica. La discesa inevitabile della china nella ripetizione armonica non fa altro che confermare il dinamismo inarrestabile della Sonata come una bestia che gira su se stessa nel tentativo di passare attraverso le sbarre della sua prigione. “Si dimena / una lince vecchia d’inferno / come volpe nella trappola. / Ma state attenti! A volo / di su, di giù, di qua, di là, / e si libererà.” (Faust e gli spiriti).

Questo è un cambio di sguardo che sposa pienamente la modernità e la sua ripresa del tema tragico senza affidarsi più all’ordine provvidenzialistico, o razionale, ma, per dirlo in termini contemporanei, al loop, alla ripetitività, alla ciclicità, all’autoreferenzialità della struttura musicale che non trova mai fine. La conclusione della Sonata in Si minore sfuma nel ripetere il “tema” ieratico d’apertura. La parola tema è virgolettata poiché, più che la melodicità

LA CITTÀ CHE SUONA Fondazione Pistoiese Promusica Ore 21.30 TEATRO MANZONI SINFONICA GRANDI SOLISTI Hélène Grimaud pianoforte Ingresso a pagamento

Per Liszt la forma-sonata era la tragica insistenza di Quest’ultima affermazione un discorso che sembra andrebbe calibrata piuttosto non trovare più via per quanto riguarda Liszt che d’uscita stravolge l’idea di forma-sonata be-


urban center:

costruire partecipando di Davide Cannella

«N

on c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; [...]; se tutto ciò si verificherà, finché c’è tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.» Queste le parole del sociologo spagnolo Manuel Castells. Sua è la definizione di “quarto mondo” e sua è una prospettiva teorica utile per analizzare il fenomeno degli Urban Center. Nella trilogia “The Information Age” definisce la società attraverso la dicotomia Rete-Io. La Rete è la connessione di organizzazioni che sostituisce la gerarchia verticale della società, l’Io le pratiche che un individuo applica nel riaffermare la sua identità sociale e il Senso, in una continua metamorfosi dei panorami culturali. Urban Center non elude questa definizione: si propone come luogo pratico per l’attuazione di quest’idea democratica, centro di comunicazione dove portare proposte e discutere gli spazi urbani e territoriali. E’ un insieme di strutture, attività di servizio verso e attraverso chi è attivo o interessato a partecipare nei processi decisionali delle politiche urbane, con lo scopo di migliorare informazione, trasparenza, condivisione. E’ un allargare gli stretti confini delle vecchie amministrazioni, istituzioni da una parte e cittadini dall’altra. E’ un progetto dalla portata rivoluzionaria, per restituire la città a chi la abita. Nel corso degli ultimi anni questi temi sono diventati sempre più attuali, e non è solo l’architetto in quanto tale a farsene carico: grande merito al progetto Urban Center, ma è da Strasburgo che arrivano i segnali più positivi. L’Europarlamento ha recentemente approvato il documento “sul contributo del riassetto urbano alla crescita economica nella politica di coesione dell’UE”.

Il quattordicesimo punto di esso recita che viene accolta con favore “l’attribuzione del 5% almeno delle risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale per azioni integrate a favore dello sviluppo urbano sostenibile con gestione delegata alle città”. Inoltre la collettività è invitata ad essere la guida del cambiamento. Con lo stesso proposito all’Università della Sapienza di Roma è stato organizzato, nell’ambito del FORUM PA 2008, con il convegno Urban Center in Italia, un Osservatorio di ricerca per monitorare i centri nazionali, studiare le strutture altre, favorire lo scambio di esperienze tramite il contatto con quelle europee e nordamericane, attivare e sviluppare una “Urban Center Agorà” di riflessione e confronto critico, aperta a tutti, contribuire direttamente al dibattito, focalizzare punti critici e opportunità di evoluzione dei progetti, rapportandoli alle strategie di gestione dei punti di vista delle persone impegnate nelle politiche cittadine, sostenere e incentivare l’innovazione. Nordamerica dicevo. Casi interessanti made in USA sono associazioni no-profit impegnate in attività di ricerca, analisi e promozione sulle politiche pubbliche, mosse dalla cooperazione cittadino-impresa con l’obiettivo di accrescere la vivibilità della città e la sua economia (SPUR, San Francisco), o i “centri di advocacy”, sostenuti da istituzioni universitarie, con scopi come accrescere la capacità delle comunità più povere di sviluppare soluzioni innovative alle sfide socio-economiche e fisico-ambientali con cui sono chiamate a confrontarsi (PICCED, NYC, Brooklyn). Urban Center ha creato sul web lo strumento di interazione per chi lavora direttamente alla costruzione dei contenuti. Per progettisti e pubbliche amministrazioni ci sono più probabilità di raggiungere obiettivi come rilancio dello sviluppo locale, qualità ed efficienza di spazio pubblico e servizi, valorizzazione sociale e dell’identità dei luoghi, curando meglio la gestione della costruzione della città, il coordinamento delle forme di conoscenza necessarie per gestire lo spazio urbano “in divenire”, e non può che essere il web il luogo più adatto per reclutare idee.

3


Dialogo di due pistoiesi er di Roberto Beragnoli e Emanuele Nesi

È

vero, non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie. Chi gli credette sicuramente fu Rustichello da Pisa. Rimase così incantato dalle sue parole che le trascrisse una dopo l’altra. A volte è utile avere come interlocutore qualcuno che parli una lingua simile. L’importante è farsi capire. Stanotte sembra proprio il momento in cui ci si capisce. Ho bisogno di un buon interlocutore. Sono in macchina. Guido. Nel senso che sto guidando. Io per voi sarò A. Sul sedile davanti c’è un B, anche se non lo vedete perché appena salito ha buttato giù il sedile tentando di prender sonno. Passerò dalla superstrada. Sentendosi mancare l’aria per frequenti cambi di velocità, curve e sventati incidenti cui dovrò far fronte passando dal cantiere aperto da un anno, sarà costretto ad alzare il capo, quantomeno per lamentarsi. Lì ne approfitterò. Ma no... aspetta, alza la testa... Ha annusato la minaccia.

B: Passi dal cantiere dell’Ospedale? A : Sì, quando non digerisco la cena mi faccio sempre due o tre giretti Capostrada-Rotonda del Fagiolo, Rotonda del Fagiolo-Capostrada per smuovere. B : Prima qui ci facevano il circo, il lunapark, adesso le giostre ce l’hanno fatte di asfalto. Si fa prima. L’Ospedale l’hanno quasi finito. Sapevi che a Prato ne hanno fatto uno uguale? Fanno gli ospedali in franchising. Della stessa serie sono pronte le case, poi usciranno le cover per Smartphone ed il kit di freccette. A : Chissà quanto ci metterà a fare la fine della clinica di Montecatini Alto, il Quisisana... Mia nonna lavorava lì, quando ero bambino. A dire il vero, dava lavoro a molta gente del paese. Poi la gestione decise di fare il salto di qualità: acquistò attrezzature all’avanguardia. Per qualche anno andò bene, persino i calciatori venivano a farsi curare. Ma i proprietari avevano contratto troppi debiti per acquistare le attrezzature. È fallito, ha chiuso. Adesso è abbandonato. Quello che fu il parco oggi è una giungla in cui la struttura sembra sprofondare. Dentro sembra sempre un ospedale. Lettini, flebo, siringhe. Anche non usate! Pensa che proprio lì vicino, negli anni ‘60 fu costruita un’enorme struttura. Era arancione. A detta dell’architetto, doveva ricordare un castello medievale. In realtà l’edificio, ovvero il super-moderno albergo Paradiso, pare più un insieme di cubi aggregati. Ricorda tutto meno che il Castello, quello vero. Si scoprì presto che l’affare era stato finanziato con soldi sporchi. Immobile sotto sequestro. Oggi ci dormono degli extracomunitari. B : Sono luoghi di cui il potere non ha più bisogno, quindi li dimentica. Qualcosa da cui non si può ricavare estemporaneo guadagno svanisce, almeno dalle carte. Che poi, se devono fare questa fine, li dessero a me. Anche da solo, ci farei un posticino carino. Aspetta ma, dove siamo qui?

A: Alla Caserma... Lassù in cima a quella collina c’è l’ex manicomio, le Ville Sbertoli. B : Tu ci sei stato, no? Dopo l’abbandono, intendo. Io non so niente su quel posto. A : Nemmeno io ne sapevo niente. C’è voluta un’amica di Rimini. Venne a trovarmi e mi convinse ad intrufolarci dentro... Che strano, non mi ricordo come si entrava. Devo pensare... Sono faccia a faccia con la villa... Da dove si passa? Finché la memoria farà cilecca dovrò ricorrere agli stereotipi: la grata della finestra è stata forzata. Appena si penetra all’interno ci si accorge di essere nell’ex-oratorio. Ci sono ancora gli inginocchiatoi caldi di salmi. Chi stava pregando deve essere andato via di fretta. Percorro il corridoio buio,

La possibilità di un urban center a pistoia di Michele Galardini Un progetto di “Urban center” a Pistoia esiste da dieci anni, da quando nel 2003 l’architetto Gianluca Giovannelli propose ai vertici dell’amministrazione comunale uno studio preliminare di fattibilità nel quale venivano individuati 10 luoghi da valutare quali possibili punti strategici per lo studio della città: dalla torreosservatorio della fortezza Santa Barbara a, guarda un po’, il plesso dell’ospedale del Ceppo. Quello stesso plesso che verso la fine di luglio avvierà il suo percorso di riadattamento in conformità con l’apertura del nuovo ospedale San Iacopo e che, ora

4

più che mai, potrebbe diventare il centro nevralgico dell’evoluzione urbana. Secondo lo stesso Giovannelli <<l’idea di urban center interviene in una fase in cui il rapporto fra cittadino, amministrazione e politica in senso lato non è molto fecondo e pertanto occorrono luoghi strutturati e riconoscibili dove poter condividere le conoscenze ed i problemi, per attivare nuove forme di partecipazione alle trasformazioni della città. Dal semplice cittadino all’operatore sociale, culturale o economico, al professionista, l’idea di poter contribuire, con la propria esperienza, alla conoscenza delle

dinamiche di sviluppo della città può anche facilitare le scelte dell’amministrazione, dentro una piattaforma comune di studio e condivisione di idee>>. Un modo per abbattere il muro di sfiducia eretto anno dopo anno dalla politica e farne una “casa di vetro” delle politiche urbane, percepibile dal cittadino come qualcosa di trasparente, al quale si può e si deve dare il proprio contributo. <<Nel caso pistoiese, da un lato interviene un processo di rigenerazione del comparto storico molto rilevante, con lo spostamento di gran parte delle funzioni sanitarie del Ceppo, e dall’altro


rranti per luoghi invisibili B : Certo che per tenermi sveglio faresti di tutto. A : Ti volevo far vedere questo posto. Se tieni gli occhi aperti si abituano al buio. B : Sì, inizio a distinguere! Ecco il salone, il piano... Mancano i tasti? A : Già! Chissà quante persone sono state qui da quando l’hanno chiuso... B : Ovvero quando hanno chiuso tutti i manicomi in Italia, no? Prima chi aveva qualche problema di troppo lo mettevano in posti del genere. A cadere a pezzi.

A : Però dai, abbiamo fatto grandi conquiste sociali: quando hanno capito che posti come questo erano solo una spesa, tutti si sono trasformati in recuperabili all’interno della società. Era meglio trattare anche i matti da consumatori, abbandonarli a se stessi ed ai soldi con cui pagheranno le medicine, gli analisti, e soprattutto i loro vizi. Il maniaco-compulsivo è il miglior tipo di consumatore... Ma cos’ho sotto i piedi? Guarda! Sono le cartelle cliniche dei malati... le hanno lasciate qua... In effetti a cosa gli servivano? Leggi la data, 1967... Questo posto cade a pezzi... Dicevi bene tu, posti così dovrebbero darli a noi!

B: Sì, io lo prenderei volentieri. Chissà cosa ci farebbero i giovani... A : Guarda che siamo noi i giovani! B : Lo so, è che da come ne parlano i media sembra si tratti di tutta un’altra cosa. Ho come la sensazione che la ricerca di mercato alla fine sia rimasta indietro. A : Scimmiottano stronzate cercando di rappresentare un’immagine imbarazzante in modo da farci apparire l’uno all’altro come dei rincoglioniti. B : Forse è vero che siamo poco autoconsapevoli. La nostra generazione è cresciuta in un mondo completamente diverso rispetto anche a quella subito precedente. Finché non apriamo gli occhi non ci renderemo conto di tutto quello che potremmo ribaltare. A : Che facciamo allora? Occupiamo? trovo una stanza. È ridotta un po’ peggio dell’oratorio. Ci sono sedie, disegni sui muri che sembrano fatti da bimbi sereni. L’intonaco è accartocciato su se stesso e tutto intorno ci sono pezzi di motorini, pizze cinematografiche. A : Se vieni nell’altra stanza ti faccio vedere il pianoforte.

B : Magari Domani.

B : Non capisco niente con questo buio, non so quello che sto calpestando. Ho anche battuto un ginocchio, vai pianino per favore. Dove siamo? A : Dentro il manicomio!

B : Ma che ca... Come siamo arrivati qui? A : Alla fine ti sei addormentato, ti ho fatto scendere e credevi che fossimo a casa. Pochi secondi fa hai scavalcato una finestra con la grata forzata.

si innescano una serie di possibilità altre come, ad esempio, lo spostamento a fianco dell’urban center del centro di documentazione Michelucci. Quest’ultimo dovrebbe diventare uno spazio più vissuto, uno spazio di studio e ricerca non solo su Michelucci, ma anche sulle dinamiche urbane della città contemporanea >>. Uno spazio che promuova cultura, un humus di nuove attività rivolto soprattutto ai giovani dove far nascere e crescere star-up legate ai beni culturali, alle nuove tecnologie e agli studi sulle tematiche urbane, aperto anche a progetti di co-working. Un

luogo pluridimensionale dove anche la dimensione museale dovrebbe esprimersi dinamicamente di pari passo con le potenzialità di recupero del comparto del Ceppo, aprendo nuove relazioni e nuovi percorsi di collegamento fra la parte nord e il centro della città. Che il tutto sia sostenibile sotto i profili economico e ambientale è un dato implicito, anche se il termine giusto potrebbe essere “durabile”: un qualcosa che resista e si consolidi nel tempo non per la sua durezza o pesantezza, ma per il suo valore. Dovremmo solo provare di meritarlo.

LA CITTÀ INVISIBILE ATRIO PALAZZO COMUNALE ore 18.30 Apertura Mostra fotografica Associazione ‘9cento Uno sguardo oltre il muro: le ville Sbertoli e la città

VENERDI 19 APRILE FARE LA CITTÀ SAN DOMENICO ore 9.15-17.30 Rigenerare la città. Luoghi e strumenti per una nuova cultura urbana: l’esperienza degli Urban Center

5


I

l cinema ha bisogno di un luogo dove venire proiettato, la sala, e di un altro dove potersi perdere, la città. Nel disegnare un panorama di architetture urbane all’interno della lunghissima tradizione cinematografica (arte giovane eppure molto feconda), è necessario innanzitutto separare la presa diretta dallo studio, la Torre Eiffel vista da dentro una macchina in movimento (I quattrocento colpi) da quella proiettata su di un trasparente . In entrambi i casi il regista disegna traiettorie urbane, ma solo il primo ci permette di abitarle, di delinearle, di calcolarne lo spazio. Succede in Due ore ancora di Rudolph Matè, splendido e atipico noir degli anni ’50, dove il protagonista Frank Bigelow (Edmond O’Brien) attraversa San Francisco, quella vera, per fuggire dal veleno che lo sta uccidendo: “Sono venuto a denunciare un omicidio, il mio omicidio” dirà ai poliziotti assiepati attorno a lui in attesa dell’arrivo del lungo flashback chiarificatore. L’America che era stata degli studios, diventa quella delle città, Los Angeles, San Francisco e New York su tutte, gli inseguimenti hitchcockiani sul monte Rushmore (Intrigo internazionale, 1959) o sulla Statua della Libertà (Sabotatori, 1942), lasciano spazio a quartieri e città riscoperte dai giovani della New Hollywood come la Little Italy newyorkese di Chi sta bussando alla mia porta? (1969) e Mean streets (1973) di Martin Scorsese o la Tulsa che fa da involucro generazionale per I ragazzi della 56a strada (1983) di Francis Ford Coppola. L’apertura verso l’esterno imposta da un’idea di cinema indipendente e low budget che permea la produzione americana a partire dalla fine degli anni ’60, è il contrappunto perfetto della città ricostruita in studio durante il periodo d’oro del gangster movie e del noir: la città, o meglio la sua immagine, che cambia in corrispondenza dell’ascesa del boss della malavita e della sua caduta (Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy, 1931), la città che si chiude sul protagonista, proteggendolo o soffocandolo, la città, con le sue case, i vicoli, che nasconde scomode verità, avvicinando così l’immaginario cinematografico a quello letterario.

La città europea è diversa, meno dispersiva, più legata alla tipicità dei singoli quartieri: la borgata di Pietralata dove opera L’onorevole Angelina (1947) interpretata da Anna Magnani e diretta da Luigi Zampa sembra lontana anni luce dal deserto lunare dell’Eur, location prediletta da registi onirici come Fellini (Le tentazioni del dottor Antonio), fantascientifici come Ubaldo Ragona e Sidney Salkow e del loro L’ultimo uomo della terra (1964) primo adattamento del romanzo Io sono leggenda, o distopici come Elio Petri che con un Mastroianni ossigenato getta lo sguardo in avanti nel tempo fino ad incontrare un mondo dove l’omicidio è ammesso, pur nei limiti delle regole imposte dal governo (La decima vittima, 1965). Salendo verso nord, oltrepassando le Alpi, incontriamo qualcosa di ancora diverso, come gli arrondissement parigini, protagonisti di film corali come Paris je t’aime (2006) che spazia fra i generi e i luoghi facendosi carico di un racconto urbano globale, o del cortometraggio Il palloncino rosso (1956) nel

6

La città nel cinema: sinfonia di uno spazio mutevole di Michele Galardini

quale Albert Lamorisse parte dai cunicoli abitati dai ragazzini per poi spiccare il volo, assieme al giovane protagonista, sopra le case, i monumenti, l’invidia e, permettetemi, la Storia. La Parigi dinamica ma senza parole di quel capolavoro che è Playtime di Jacques Tati (1967) che 44 anni dopo diventa involucro di sogni retrò in Midnight in Paris di Woody Allen. Dobbiamo spazzare via l’abitudine alla visione di una città organizzata, tipicamente Occidentale, se ci si vuole avvicinare a realtà più anguste come quella di Teheran, emblema dell’Iran artistico e sovversivo: le cantine, i tetti, le stalle, location atipiche che i musicisti de I gatti persiani (Bahman Ghobadi, 2009) occupano per cantare un disagio enorme che è diventa poesia delle piccole cose nel cinema di Jafar Panahi, nei capolavori come nelle opere minori, per lunghezza e non certo per importanza, come L’accordéon (2010). Quando pensiamo al cinema immaginiamo sempre una città, anche sotto forma di insieme di connessioni sociali, come in Re della terra selvaggia di Behn Zeitlin (2012), che rappresentano comunque il collante sia delle mura antiche che dei moderni edifici in cartongesso e cemento. Qualche volta la

pensiamo come un insieme pulsante e musicale, in Berlino: sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) o nei corti Berliner looping mosaic e Berlin 7 steps of meditation realizzati rispettivamente da Cristian Polato e Marco Zaccaria: due piccole possibilità di ritmo urbano, uniche nel loro genere. Se il cinema ha da sempre considerato la città come il palcoscenico privilegiato per mettere in scena la sua finzione è perché essa rappresenta per le persone, prima che per i personaggi, un interlocutore intimo al quale confidare paure e desideri, lo psicologo capace di accogliere il nostro transfert emotivo senza farsi, e farci, domande. Sarà interessante da qui in poi vedere come le città cambieranno il proprio volto, chi togliendosi un po’ di cerone e chi, al contrario, truccandosi un po’, assecondando un’idea di mondo che ci vede in ritardo di decine e decine di anni. Quando questo processo sarà avviato su scala globale allora potremmo anche vedere in che modo il cinema, nel frattempo, si sarà attrezzato per registrare il cambiamento, forse abbandonando le metropoli, forse abbattendo le città come avviene già in un filone post-moderno, quello “catastrofista”, nel quale la città è la prima vittima dell’umana omertà o del colonialismo alieno. Presagi o semplice zeitgeist?


“Organografia” di una città di Riccardo Gorone

Pistoia

e il Superstudio

Q

di Jacopo golisano

uando mi è stato proposto di scrivere a proposito di “Leggere la città”, mi sono trovato di fronte varie opzioni. Decidersi non sembrava facile, quando mi sono ricordato che, tempo fa, mi ero imbattuto nel Superstudio, gruppo di architettura radicale attivo dal 1966 al 1978. È stato un sollievo e una soddisfazione – le piccole gioie di chi scrive, quando ritiene di aver trovato la conferma che il proprio lavoro è adeguato allo scopo – man mano che il programma veniva a definirsi, leggervi il nome di Adolfo Natalini, uno dei fondatori del suddetto movimento, con Cristiano Toraldo di Francia; si aggiunsero poi Gian Piero Frassinelli, Alessandro e Roberto Magris e Alessandro Poli. Si dà il caso, infatti, che i due più celebri gruppi delle avanguardie italiane – Superstudio e Archizoom – furono fondati, in occasione di una mostra intitolata “Superachitettura” e tenutasi dal 4 al 17 dicembre alla Galleria d’arte Jolly 2, proprio qui a Pistoia. L’architettura citata nel titolo era super in quanto “della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super”. I lavori del gruppo erano caratterizzati da un linguaggio grafico debitore delle coeve arti figurative, come

dimostra l’ingresso cuneiforme alla mostra, ideato da Natalini, nelle cui decorazioni Pop è possibile rinvenire l’influenza di Roy Lichtenstein e degli allestimenti della XIII Triennale di Milano. Attraverso tali mezzi espressivi, si esprimeva una contestazione al funzionalismo e al tecnologismo e le opere “Monumento continuo” (1969), “Un viaggio da A a B” (1969) e “5 storie” (1971-73), per citarne alcune, ruotavano intorno a visioni utopiche, caratterizzate da immensi spazi artificiali. Avessimo lo spazio, potremmo dilungarci sulla vicenda del Superstudio, delle sue produzioni nel campo del design, fra sperimentazione e prodotti che hanno ricoperto anche un importante ruolo commerciale, e su vari altri aspetti. Vorrei, dunque, concludere con una piccola riflessione. Da pistoiese, mi viene da pensare come troppo spesso sopravvivano in noi categorie mutuate da generazioni passate. Ad esempio, si tende a collocare le esperienze intellettuali, artistiche, financo emotive, esclusivamente lontano da noi, in realtà e orizzonti altri. Così facendo, però, non diamo il giusto peso alle ricchezze a noi vicine. Parafrasando l’assunto di Claude Lévi-Strauss secondo il quale “Le barbare, c’est d’abord l’homme qui croit à la barbarie”, potremmo affermare che il provinciale è colui che crede nel provincialismo.

Ricordate la vicenda borgesiana dei due Don Chisciotte? C’era il Don Chisciotte di Cervantes, e poi c’era il Don Chisciotte di Pierre Menard: un’opera incompiuta che “consta dei capitoli IX e XXXVI della prima parte del Don Chisciotte [di Cervantes]”. Egli infatti non volle scrivere un altro Chisciotte ma il Chisciotte. Quest’opera non fa parte della cronologia delle opere visibili dell’autore, ma di quella “sotterranea”. Questo discorso potrebbe essere trasposto nel contesto che riguarda la musica d’organo a Pistoia. “Pistoia, la città degli organi! Quest’affermazione è una leggenda, poiché la città va ricordata per la fruibilità e varietà di organi. Non per la quantità. Non c’è infatti un organo che sia uguale ad un altro.” Parla Umberto Pineschi, organista e fondatore dell’Accademia di Musica Italiana per Organo nel 1975, che ha ottenuto un’onorificenza del Governo Giapponese, dell’Ordine del Sol Levante – di cui è stato insignito anche Clint Eastwood. Tornando alla vicenda borgesiana, osserviamo un parallelismo all’interno della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola. Nella chiesa troviamo due organi posti alla medesima altezza, uno di fronte all’altro: un organo è a destra e l’altro è a sinistra. A sinistra troviamo l’organo Hermans, costruito nel 1664 dall’organaro fiammingo Willem Hermans (quando arrivò in Italia si fece chiamare Guglielmo Ermanni); a destra ne troviamo un altro apparentemente identico ma, si sa, le apparenze ingannano. Clemente IX Rospigliosi lo commissionò nella seconda metà del XVII secolo, di fronte al primo, ma i lavori non vennero conclusi e l’organo non venne mai realizzato. Il progetto venne portato a termine nel 2007 da Glauco Ghilardi, che si ispirò agli organi barocchi tedeschi. Ciò che all’apparenza risulta senza differenza, oltre l’occhio si evidenzia l’enorme distanza di registro che separa i due organi. La vicenda dell’Accademia è dovuta crescere in maniera “sotterranea”, rispetto al rumore delle istituzioni pubbliche, e i lati positivi si vedono dalle collaborazioni internazionali del calibro di Ludger Lohmann e Guy Bovet che, giovedì 4 aprile 2013 ha suonato la sua opera Don Chisciotte (composta nel 2011) – sarà un caso?

7


Immaginiamo la città come un testo articolato e denso a più strati, sedimentati dalla storia e dalle vicende umane, che nel tempo ne hanno modificato i tratti e i confini. Un testo palpitante, una lettura in fieri che parte dal passato e, senza mai perdere di vista il suo cuore antico, di giorno in giorno cambia volto, per la nascita di nuovi quartieri, di nuove strade, di nuove case, di nuovi arredi urbani, di nuove mode, di nuove generazioni. Un testo straordinariamente ricco e vivo, dove il progettare diventa necessario al proprio mantenimento, allo sviluppo futuro e alla collocazione nella sconfinata biblioteca del mondo. Dentro le mura, la città protegge e si protegge. Dalle mura, la città guarda i territori circostanti nel continuo urbanizzato della “schiuma metropolitana”, dove si producono economie dettate da regole inedite, dove a ritmo vertiginoso cambiano gli scenari e si creano nuovi equilibri sociali, emergono bisogni e nasce inevitabile l’esigenza di un ponte invisibile ma a forte tenuta con la città antica. La madre, insomma. A dare il senso del radicamento e dell’appartenenza. Così è auspicabile che le mura aprano le loro porte reali o invisibile, in una sorta di osmosi che è nuova linfa per la città senza per questo snaturarne i confini. Ma anzi, portando nell’altrove le proprie radici e il proprio humus. Dunque ci piace pensare una città che cresce senza perdere la propria identità e il proprio pro-

filo, che impari di nuovo a riconoscere se stessa e, quindi, gli altri preservando il proprio limes, il proprio confine, accettando nel contempo il proprio limite. Immaginiamo che i cittadini, per i quali la città è stata pensata, imparino di nuovo a leggere questo straordinario libro di pietra. Riconosceranno se stessi e torneranno a incontrarsi nei suoi luoghi, magari con uno sguardo amoroso verso i piccoli dettagli, ricominciando a rispettarla e ad amarla come ciò che di più proprio hanno in comune, e li rende cittadini di cuore e di fatto. Ci sono vari modi di leggere la città, gli occhi non bastano. Ci sono gli odori, i profumi, i rumori, i suoni. I silenzi. Ci sono l’alto, il basso e il sottosuolo. Ci sono i colori. E ognuno li interpreta da sé. Leggere la città è un appuntamento annuale che si svolge a Pistoia dal 18 al ventuno del mese di aprile, nato dal fortunato incontro con il Salone del Libro di Torino, che ha trovato nella nostra città la sede ideale per un festival , unico in Italia, dedicato allo studio, alle riflessioni e alla progettazione del futuro delle città e dunque delle città future. Durante questa intensa quattro giorni, che va dal diciannove al ventuno aprile, Pistoia ospita nei suoi luoghi più belli, importanti e nascosti, spettacoli, convegni e incontri con personaggi del mondo delle lettere, dell’arte, dell’architettura, della musica coinvolgendo il pubblico su argomenti

info: Pistoia Informa 800 012 146

www.leggerelacitta.it

che ruotano intorno al tema della città nelle sue molteplici accezioni e sfaccettature, in una sorta di immaginario tavolo di lavoro che ci auspichiamo aperto a tutti coloro che vogliano intervenire. Leggere la città è dunque uno sguardo appassionato e attento alle piccole e medie città d’Europa, centro dei processi più significativi della contemporaneità. Casa di nuove opportunità, di creatività, di innovazione. Termometro dei sentimenti contrastanti del vivere contemporaneo, dove gli assetti, all’interno delle comunità private e pubbliche subiscono piccoli e talvolta grandi terremoti che solo solide e antiche fondamenta sono in grado di sostenere. Davvero Pistoia è la sede ideale per ospitare questa Casa dei pensieri urbani. Una tranquilla città di provincia profondamente radicata alle tradizioni e al territorio ma al tempo stesso aperta al mondo, capace di parlare e di ascoltare linguaggi diversi, culla di iniziative, luogo scelto e amato da artisti che qui hanno trovato ispirazione e pace. Per rodare i grandi spettacoli teatrali in America si usa debuttare in provincia, dove il pubblico è appassionato e meno distratto. Allo stesso modo, Leggere la città debutta a Pistoia, dove non c’è dispersione, dove sarà possibile ascoltare le storie e le proposte dei relatori nelle antiche sale di chiese e palazzi che da tempo aspettano di offrire accoglienza.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.