Schegge di dark economy
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Osservatorio ambiente e legalità Venezia
Quaderno a cura dell’Osservatorio ambiente e legalità città di Venezia. L’Osservatorio ambiente e legalità è un progetto di Legambiente Veneto sostenuto e finanziato dall’Assessorato all’ambiente e alla città sostenibile del Comune di Venezia. www.osservatorioambientelegalitavenezia.it 2
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INDICE
4 ‘Ndrangheta, corruzione e cemento. Un Veneto da cambiare Gianni Belloni, Osservatorio ambiente e legalità Venezia
10 Mafie ed edilizia nel Veneto: caratteristiche e dinamiche di una relazione di lunga durata Francesco Trotta
15 Traffico illecito dei rifiuti ed evasione fiscale Martina Osetta 19 Veleni e biomasse: una caso che deve far riflettere Mariateresa Ariniello 22 Logistica: la «zona grigia» della sussidiarietà. Dai Magazzini Generali di Padova alla piattaforma di Parma Ernesto Milanesi, Sebastiano Canetta, Paolo Baron
27 Infiltrazioni criminali nel mercato delle rinnovabili e le misure di prevenzione Simone Grillo
36 La regolazione mancata. Traffico internazionale dei rifiuti: il caso Serenissima Mariateresa Ariniello
40 Ombre sulla commissione Via Claudia Guidorzi
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‘Ndrangheta, corruzione e cemento. Un Veneto da cambiare di Gianni Belloni, Osservatorio ambiente e legalità Venezia
Ci sono momenti in cui improvvisamente ci si rende conto di vedere davvero un oggetto che si è guardato, magari per anni, senza coglierne particolari significati. Un particolare attrae l'attenzione e il tutto viene riconsiderato e compreso in una luce nuova, più nitida e tagliente.
connesse all’effettuazione di mirate indagini finanziarie questo nucleo perveniva alla constatazione di violazioni penalmente rilevanti a carico di più soggetti che a vario titolo si sono adoperati per l’esecuzione di un preciso disegno criminoso: Papalia Antonino con il contributo di S.R. e di Urtoler Francesco, provvedeva ad occultare e negoziare assegni circolari per complessivi euro 803.825, provenienti dalla perpetrata evasione fiscale. Buona parte rientrava nelle disponibilità di Papalia».
Soveco s.p.a. è una società che gestisce appalti pubblici di enorme rilievo nel veronese. Un capitale sociale di un milione e mezzo di euro la Soveco risulta di proprietà di Sabina Colturato e di Francesco Urtoler. In realtà la società è riferibile ad Antonino Papalia, calabrese di Delianuova, in provincia di Reggio Calabria, che ne è stato dipendente, ma che secondo la Polizia Tributaria di Verona (informativa numero 6164 del 16 luglio 2009) ne sarebbe anche socio occulto, e risulta comunque amministratore e legale rappresentante di società rumene controllate da So.Ve.Co. Il bilancio al 31 dicembre 2012 riporta ricavi per 25,6 milioni di euro (e un utile netto di 706 mila), con un portafoglio ordini da 64 milioni di euro. Solo a Verona la Soveco compare nel traforo delle Torricelle (in associazione di impresa con la Mantovani), attraverso il consorzio stabile Verona infrastrutture (di cui Soveco detiene il 7,5%), il progetto esecutivo del filobus, tre impianti di biogas nel veronese, la ristrutturazione dell’ospedale di Peschiera per conto della Casa di cura Pederzoli, parcheggi e centri commerciali. Soveco partecipa alla costruzione di Gardland, parco dei divertimenti di Castelnuovo del Garda, e il parco termale di Aquardens di Pescantina. Il presidente di Aquardens è il commercialista Enrico Ghinato, già presidente di Gardaland.
Antonino Papalia è stato coinvolto nel 1989 in un’ indagine per traffico di esplosivi dal sud al nord Italia e risulta avere precedenti penali. Subirà una condanna per possesso abusivo di armi da fuoco, per alcuni fucili a pompa trovati nella sua abitazione. In Romania sta concludendo operazioni immobiliari da 700 milioni di euro con una serie di società - detiene il 70% della Soveco Romania srl Oradea, il 70% della Millenium imobiliare srl, oltre che il 20% di una cassaforte lussemburghese denominata Mag Investissemnt. Risulta inoltre socio dell'Ecodiesel tramite la quale ha acquistato, per 14,870 milioni di euro una raffineria. In Italia Papalia dichiara nel 2010 un reddito di 22.734 euro, analoghe somme negli anni precedenti. L’ex vicesindaco di Verona, Vito Giacino, dimessosi nelle scorse settimane a causa di un’indagine legata alle vicende urbanistiche del Comune di Verona, ha acquistato nel 2011, tramite la moglie Alessandra Lodi, un immobile a Verona per un valore di 1,7 milioni di euro dalla Soveco spa. Siamo certi che Giacino, come ha assicurato, dimostrerà la provenienza del denaro per l'acquisto e la ristrutturazione dell'immobile.
La Soveco è tutt'ora oggetto di un'inchiesta per frode fiscale in seguito a un controllo eseguito nel 2007 dalla guardia di finanza di Verona. Secondo un'informativa della Polizia Tributaria «a seguito di indagini di PG e PT
Malgrado 4
le
rassicurazioni
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dell'amministrazione comunale, ad oggi la Soveco Spa non è riuscita a presentare la certificazione antimafia relativamente alla realizzazione del filobus nel comune di Verona.
terra veneta rappresentavano un enigma. Scrivevano i magistrati della Direzione nazionale antimafia (Dna) nel 2010: «analizzando detti risultati, ha destato sorpresa l’assenza del nord-est d’Italia come zona di interesse di quella che ormai viene unanimemente riconosciuta come la mafia più potente che oggi esiste».
Una ditta della rilevanza della Soveco non può operare, soprattutto nel caso del settore dell'edilizia e delle opere pubbliche, senza intessere una rete solida di alleanze: pensiamo a tutti i professionisti a cui una società come questa deve ricorrere, professionisti che hanno dovuto e devono anche tutelare i delicati equilibri societari della Soveco ed affrontare i suoi guai sul fronte fiscale. Ma si dovranno anche verificare le alleanze politiche ed imprenditoriali che la società ha intrecciato per riuscire ad arrivare a quel livello. Del collegio sindacale della Soveco è Franco Puntin, socio della casa di cura Perderzoli e manager di primo piano della sanità privata.
La lettura prevalente da parte degli organi inquirenti descriveva l'operatività delle mafie a nordest essenzialmente funzionale al riciclaggio del denaro, piuttosto che a un vero e proprio insediamento e a un tentativo di controllo del territorio. Una presenza nell'economia comunque in aumento visto anche quanto riportato nel rapporto Unioncamere di quest'anno: «I dati ci dicono che negli ultimi vent’anni la penetrazione delle organizzazioni criminali nel tessuto produttivo delle regioni italiane del Nord è in costante crescita e parte dai settori economici che non richiedono particolari conoscenze tecnologiche, come il commercio al dettaglio (per mettere in circolazione i prodotti della contraffazione), i trasporti (per sfruttare le sinergie con le attività illecite spostando assieme stupefacenti e ortofrutta), l’edilizia (soprattutto nelle fasi di movimento terra e fornitura materiali), i servizi di ristorazione».
La vicenda Soveco rappresenta il particolare che ci costringe a guardare con altri occhi all'intreccio di potere tra impresa e politica in questa regione. Le inchieste sulle grandi opere – il caso Baita, Brentan e Mazzacurati – hanno svelato la tendenza ad accordi collusivi tra imprese e al rifugio sotto quelli che costituiscono veri e propri cartelli di fatto. Emerge la richiesta di essere cooptati dentro circuiti protetti, accessibili esclusivamente da parte di alcune imprese in possesso dei requisiti economici e del capitale sociale necessario e dove vengono ammorbidite, dalla logica dei favori e degli scambi occulti, le severe leggi del mercato e della concorrenza. I cartelli possono assumere una diversa configurazione e comporsi a prescindere dalla presenza dell'attore mafioso. In altri territori le mafie si sono ritagliate un ruolo regolatorio dei cartelli. In Veneto ad oggi questo ruolo non è emerso.
In realtà la presenza dell'ndrangheta, soprattutto nel veronese, è un dato di lunga durata e negli ultimi anni sono stati innumerevoli nella provincia veronese i segnali di un'operatività non episodica, soprattutto legata al settore delle costruzioni. Ed in effetti nell'ultima relazione disponibile della Dia – relativa al secondo semestre 2012 - si osserva che: «le attività condotte dalla Dia [...] hanno consentito di segnalare nell'ovest veronese e nel vicentino la presnenza di ditte, operanti in particolare nel settore dell'edilizia, riconducibili ad aggregati criminali di Cutro (Kr), Delianova (Rc), Filadelfia (Kr) e Africo nuovo (Rc)».
Ma il caso Soveco sembra illuminare di luce nuova, particolarmente sinistra, il panorama veneto.
Anche l'ultimo rapporto della Dna, riferito al 2012, lancia dei segnali premonitori rispetto a quello che sta, sotto i nostri occhi, emergendo in queste settimane: «Come risulterà
Fino ad oggi, la reale consistenza, operatività e modalità d'insediamento della 'ndrangheta in 5
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Garda, dove nel giugno 2012 la minoranza consiliare ha inviato al Ministero degli interni, la richiesta di commissariamento “per sospette infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali”. Richiesta che dopo quasi un anno è rimasta ancora senza risposte, con le accuse che sono state respinte con forza dalla maggioranza in consiglio. Davide Bandinelli, capogruppo della maggioranza consiliare e sindaco di Garda fino al 2010, ha replicato alla stampa che “tutto si è svolto regolarmente con procedure legittime e su cui hanno svolto indagini anche i carabinieri. È poi non è il comune che deve indagare, bensì la prefettura”. I consiglieri comunali dell’opposizione puntano comunque il dito contro “appalti assegnati dal comune di Garda in più occasioni a ditte e società legate alla ‘ndrangheta, ma sospettiamo anche a cooperative sociali infiltrate, nonché a discutibili assunzioni con concorso pubblico negli uffici comunali di personaggi calabresi”. Al consigliere comunale di opposizione di Garda, Donato Pellegrini, sono state tagliate, dopo qualche settimana dalla denuncia, le gomme dell’auto.
evidente anche dagli esiti di talune investigazioni ancora in corso, allorquando essi saranno resi noti, non può affermarsi tout court il monopolio della camorra campana in questa azione di innervamento criminale del territorio (rectius, delle attività economiche) del Veneto. Se è indubitabile che i procedimenti penali più significativi sul piano della individuazione dei reati di matrice economica riferibili alla criminalità organizzata abbiano sinora riguardato soprattutto clan del napoletano e del casertano, non deve ritenersi secondario il livello di interesse che anche le altre mafie rivolgono alla regione in esame». Come abbiamo denunciato nell'ultimo rapporto Ecomafia, «tra le diverse province, quella di Verona si segnala per una forte presenza mafiosa, soprattutto di origine calabrese». E' utile a questo proposito citare due episodi recenti – da noi citati nel Rapporto Ecomafia - e che possono esserci utili ad illuminare il quadro all'interno del quale è emerso la vicenda Soveco: a Rivoli Veronese, dove nel maggio 2012 sono state individuate e allontanate dai cantieri due ditte impegnate nella costruzione del polo scolastico, che secondo la magistratura di Crotone sarebbero in mano a presunti ‘ndranghetisti. Nella procedura di assegnazione dei lavori ha avuto un ruolo attivo anche il comune di Verona, che ha stipulato una regolare convenzione con quello di Rivoli per la conduzione degli atti amministrativi. Evidentemente qualcosa non ha funzionato all’inizio dell’iter, tanto che le due ditte sotto osservazione erano riuscite ad accaparrarsi i lavori. A chiudere la vicenda è intervenuto il comune di Rivoli, che nel gennaio 2012 ha aperto la procedura di risoluzione del contratto e, il 28 marzo 2012, vi ha posto termine allontanando definitivamente le imprese dal cantiere. Vale la pena segnalare, a margine di questa vicenda, che un mese prima del blocco dei lavori, nel vicino paese di San Giovanni Lupatoto sono stati sparati tre colpi di pistola contro la finestra di una persona coinvolta nell’appalto.
In sintesi il quadro che sta emergendo cambia in modo radicale il modo di leggere l'operatività delle mafie in Veneto: non solo un azione “silente” impegnata al riciclo di capitali in attività economiche e finanziarie o il servizio – operazioni finanziarie, truffe, evasione fiscale, bancarotte fraudolente, smaltimento di rifiuti, somministrazione di manodopera - prestato alle imprese venete – spesso con l'aiuto di una rete di professionisti locali -, ma un insediamento stabile e continuativo capace di attivare contatti e complicità con settori del mondo politico e imprenditoriale . Uno scenario già visto in Lombardia, ma fino ad adesso non emerso in Veneto. Quello che ci si sta profilando è un salto - già ampiamente emerso in Piemonte e Lombardia - da un'attività delle mafie occasionale e concorrenziale o collaborativa con altri soggetti criminali operanti nell'area veneta, a quello di un sostanziale dominio all'interno di
Il secondo episodio riguarda il comune di 6
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alcune nicchie ambientali, di alcuni settori economici, sviluppando forte capacità di interlocuzione con settori sociali diversificati [imprenditoria, finanza, professioni, politica].
sembrano dunque derivare, e non in parte, dal mondo criminale, ma piuttosto da malformazioni, disfunzioni o incrinature delle istituzioni e delle regole del gioco». La criminalità economica – di matrice mafiosa o meno – non è un fenomeno «deviante», ma un indicatore preciso di una patologia estesa del sistema politico ed economico. Un esempio: non si possono, a nostro avviso, comprendere fenomeni macroeconomici come il boom dell'edilizia degli scorsi anni senza tenere presente fenomeni corruttivi o di riciclaggio del denaro. «Ci si preoccupa soprattutto della penetrazione dell'impresa criminale su mercati legali – scrive Carlo Donolo -, e dell'inquinamento che ne deriva per tutti gli attori. Però in questa visione delle cose sembra che la minaccia provenga dal mondo del crimine, quando la questione istituzionalmente più rilevante al contrario è sapere cosa fanno e come operano norme e istituzioni, amministrazione, politica, controllori, ispettori e anche giudici».
Le mafie non si accontentano di dominare il mondo criminale, ma si prefiggono, anche l'obiettivo di entrare a far parte dell'élite sociale, allontanandosi dai margini della società per poter accedere al cuore del sistema legale. Le mafie tentano d'imporre il loro modello: quello dell'economia mafiosa, una mutazione che non può essere ridotta a una semplice economia criminale illegale e/o informale, “si tratta piuttosto di una specie mutante, ibrida, meticcia, - scrive il criminologo Jean - Francois Gayraud - che sfuma il confine tra l'economia sana e criminale: un nuovo sistema economico, un'economia grigia, intermedia, che opera una saldatura tra l'universo legale e quello illegale». Questo dato deve indurci a guardare in modo ancor meno indulgente, se possibile, ai fattori di contesto che hanno garantito la possibilità per le organizzazioni mafiose di radicarsi, superando l'occasionalità di alleanze per affari, esplicitando così la potenzialità politica – il dominio del territorio - propria delle mafie. Le mafie sono nello stesso tempo un potente rilevatore e uno specchio che deforma e ingrandisce i caratteri negativi della nostro tempo e del nostro territorio e segnalano, in controluce, i cambiamenti avvenuti nella società in cui si radicano. In definitiva le mafie possono essere utilizzate come sensori della qualità sociale: la loro presenza e pervasività dicono molto dello stato di salute della nostra convivenza. Questo rovesciamento di visuale permetterebbe di ridefinire il problema: non tanto l'«assalto» di una forza esterna [la piovra], ma l'incontro e il radicamento di un modus operandi che riguarda anche noi [società veneta] il nostro rapporto con i beni comuni, con gli altri e con la società. D'altronde, sottolinea la studiosa Ada Becchi, «i fattori che consentono la formazione della criminalità organizzata non
Per questo occorre andare aldilà dei protocolli – che quando vengono firmati devono essere resi operativi! - ed individuare, e cambiare radicalmente, le politiche che oggi costruiscono il contesto più favorevole per l'insediamento delle mafie. Siamo infatti di fronte a delle vere e proprie politiche criminogene davanti alle quali e poi – quando è già tardi - inutile invocare la magistratura e la polizia. E' ora di mettere in campo “l'antimafia del giorno prima” non strillare, a volte ipocritamente, quando le cose sono già acclarate. La politica può fare molto se riconsidera le politiche messe in campo in questi anni che hanno, oggettivamente, reso fertile il terreno per l'incontro tra pezzi di imprenditoria, della politica e delle professioni a vantaggio di ristretti circuiti di potere facendo a pezzi l'ambiente, i beni comuni e la democrazia. Proposte per un'antimafia del giorno prima 7
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bisogni reali. Per chi si pone il problema della lotta alle mafie in questi territori è fondamentale uscire dalla «sindrome dell'autore» pensando cioè che arrestando gli autori si possa ridurre la criminalità, concentrando l'attenzione sulla propensione degli individui invece che sulla cura dei luoghi e dei contesti dove i crimini attecchiscono. Per questo concludiamo con l'esplicitazione di alcune proposte concrete su cui chiediamo il confronto con la Regione e i soggetti politici e sociali interessati.
3) Introduzione di un sistema di auditing sui benefici prodotti dalla realizzata opera pubblica, a fronte dei costi sostenuti, al fine di promuovere un confronto rispetto alle previsioni formulate in sede di programmazione e di progettazione. 4) Avviare procedure di partecipazione vincolanti, incisive e reali sui destini territoriali attraverso la consultazione ed il coinvolgimento degli Enti locali, prendendo in considerazione le potenzialità di sviluppo del territorio, le politiche per la tutela dell’ambiente ed i processi di inclusione dei portatori di interessi.
1) Chiudere con la stagione dell'emergenza e delle procedure straordinarie nella conduzione delle opere pubbliche [Pedemonata Veneta, Valsugana, Tav in primis]. Procedure che, come denunciato dalla Corte dei conti, hanno provocato una «mutazione – per così dire “genetica” - delle ordinanze di protezione civile [...], provocando una marginalizzazione dei procedimenti di affidamento normativamente previsti [codice dei contratti] e l’esclusione degli organi di controllo come la Corte dei conti o l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici». Ricordiamo anche, a questo proposito, che l’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici nel 2009 sottolineava: «Si rappresenta il timore che il sistematico ricorso a provvedimenti di natura emergenziale, celando l’assenza di adeguate strategie di intervento per la soluzione radicale del problema, si risolva in una sistematica ed allarmante disapplicazione delle norme del codice degli appalti».
5) Disboscare la giungla di società partecipate della Regione che hanno avuto un ruolo rilevante, da quello che apprendiamo dai risultati delle inchieste in corso sulla nuova tangentopoli veneta, come «bancomat» senza controlli pubblici ma utilizzando denaro di tutti noi - delle società «cartiere». 6) Decretare una moratoria su tutte le opere in project financing finché non verrà rivisto il sistema di finanziamento e verificata l'utilità pubblica: le società interessate hanno sempre nuove grandi opere in cassetto da proporre al sistema. Le grandi opere sono tutte prioritarie ed indispensabili? 7) Elaborazione e prescrizione di standard chiari e vincolanti in materia di conflitto di interessi applicabili a tutti i soggetti che esercitano funzioni in seno alla pubblica amministrazione o nelle commissioni (con l’introduzione o il rafforzamento di un sistema di pubblicità dei patrimoni dei titolari delle funzioni pubbliche più esposte ai rischi di conflitti di interesse, la previsione di restrizioni appropriate concernenti i conflitti di interesse che possono prodursi in caso di passaggio di soggetti titolari di funzioni pubbliche da o verso il settore privato)
2) Predisporre strumenti sensati di programmazione [cave, energia, paesaggio, rifiuti speciali...] che contengano gli indirizzi, gli obiettivi strategici, le indicazioni concrete, gli strumenti disponibili, i riferimenti legislativi e normativi, le opportunità finanziarie, i vincoli, gli obblighi e i diritti per i soggetti economici operatori di settore, per i cittadini. Sarebbe indispensabile che il Consiglio Regionale affronti questa questione in modo chiaro e trasparente, definisca le priorità infrastrutturali, la pianificazione territoriale in accordo con le amministrazioni locali regionali e le parti sociali, selezioni i
8) L’introduzione di un sistema di protezione per i soggetti che, in buona fede, segnalano casi sospetti di corruzione all’interno della pubblica amministrazione (whistleblowers, suonatori di fischietto). 9) Una drastica riduzione delle stazioni 8
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appaltanti. Sfruttando il modello dell’associazione tra enti locali, la stazione territoriale unica, per ambito territoriale ottimale, si potrebbe configurare quale organo comune ad una pluralità di enti per le gare di appalto, a cui ciascuno di essi destina propri uffici e personale qualificato, adeguatamente selezionato e formato, oppure come ente delegato, tra quelli già esistenti. Questo assicurerebbe la presenza di personale competente e qualificato, destinato allo svolgimento di tali compiti, può rappresentare un deciso deterrente alla diffusione del fenomeno corruttivo.
un ordine del giorno del consiglio regionale del Veneto, alle società fiduciarie, alla cui reale proprietà è impossibile per un ente locale risalire, di partecipare ad appalti pubblici banditi dalla Regione e sensibilizzare comuni, province ed altri enti pubblici a fare altrettanto. 11) L'adozione della Carta di Pisa: una serie di misure precise di contrasto alla corruzione messe a punto da Avviso Pubblico, il coordinamento degli enti locali e delle Regioni contro le mafie. Ricordiamo che la Regione Veneto ha aderito ad Avviso Pubblico.
10) Divieto, secondo quanto già approvato da
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Mafie ed edilizia nel Veneto: caratteristiche e operatività di una relazione di lunga durata di Francesco Trotta – criminologo
Attraverso quali tipologie d'imprese e con che modalità operano le mafie nell'edilizia? Un'analisi dell'azione delle organizzazioni criminali nella filiera del mattone. Organizzazioni che, in Veneto, nel settore, sono attive da trentanni
«Gli appalti anziché strumento di realizzazione sociale sono diventati spesso il mezzo per riciclare denaro sporco attraverso società fantasma che acquisiscono l'appalto e poi operano in regime di subappalto, con tutte le conseguenze: lavoro nero, evasione fiscale e contributiva, incidenti. […] Qualche esempio? Il centro congressi di Venezia, l'area commerciale di Albignasego o quelle del Terraglio e Zelarino. […] Queste spa sono le teste di ponte per inserirsi in altre attività che hanno come obbiettivo sempre l'acquisizione di appalti pubblici: imprese di pulizie, unità sanitarie locali, ditte informatiche o di progettazione». La denuncia di Paola Battaglia, della segretaria regionale della Fillea-Cgil, il sindacato degli edili veneti, è del 1991. Ventidue anni fa. Non c'è dubbio, quando parliamo di mafie in Veneto, e in particolare nel settore dell'edilizia, siamo di fronte ad un processo di lunga durata: un dato da tenere ben presente.
confermato la presenza di uomini appartenenti ad organizzazioni criminali, che operavano e operano nella regione, favoriti da una serie di elementi: prestanome, status di latitanti, aiuto di incensurati conterranei residenti nelle provincie venete, colletti bianchi e connivenze create nella gestione degli affari. Stando ai rapporti del 2012 della Dia e della Dna, numerosi e diversi sono gli interessi criminali già attivi nel territorio, ad opera soprattutto della 'ndrangheta e di affiliati alla camorra. La mafia calabrese è quella che cerca di radicarsi sul territorio, di mescolarsi con la comunità locale e rifarsi una reputazione positiva; mentre l'organizzazione criminale campana appare più propensa alla razzia della ricchezza regionale, attraverso usura, truffe (anche alimentari), frodi finanziarie e fallimento pilotato di aziende. Sicuramente strategico per la malavita organizzata è il settore dell'edilizia, uan filiera economica che si presta a più opportunità criminali. Essa si lega infatti ad altri settori, come il movimento terra e il traffico di rifiuti, che coinvolgono anche essi le cosche.
Malgrado ciò, tra le regioni del nord Italia, il Veneto è quella in cui si è fatta fatica ad approfondire gli studi sulla presenza delle mafie. Infatti, diversamente da quanto è avvenuto in Lombardia e in Piemonte, in Veneto, alle infiltrazioni di Cosa nostra, 'Ndrangheta e Camorra parrebbe non esser seguito un radicamento endemico nel territorio di strutture organizzate di stampo mafioso.
Un esempio è la storia vicentina, svoltasi negli anni '80, dei fratelli Antonio e Vincenzo Agizza. Di loro non si sapeva nulla, si diceva che frequentassero ambienti pericolosi. In realtà erano gli uomini di punta del clan Nuvoletta, insieme ai fratelli Romano,
Contemporaneamente, varie operazioni di polizia ed indagini della magistratura hanno 10
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Domenico e Luigi, di cui erano parenti. Molte loro aziende, di costruzione e di pulizia, ottennero appalti pubblici anche se non erano iscritte all'albo dei costruttori e vari istituti di credito finanziarono questi personaggi, senza chiedere alcuna garanzia. Vincenzo Agizza era socio di Luigi Romano nella ditta “Bitum-Beton”, rifornitrice di calcestruzzi, che ebbe il monopolio di tal settore, grazie agli atti intimidatori e alla nomea acquisita. Gli Agizza risultavano essere titolari dell'omonima impresa di pulizia che era in grado di ottenere lavori miliardari dalle “Ferrovie dello Stato” e lavorava a Venezia, Mestre, San Donà di Piave, oltre che a Bari e Roma. Inoltre gli Agizza possedevano una discarica a San Pietro di Rosà. L'ex sindaco del comune Lorenzo Signori ha raccontato: «Erano camorristi ricercati dalla polizia in tutta Italia, latitanti da anni. Nessuno di noi sapeva chi fossero, nessuno di noi aveva mai visto una loro fotografia sul giornale. Io ai tempi ero sindaco e l'allora ministro Enzo Scotti me li raccomandò dicendo che lavoravano bene. In seguito prese le distanze dicendo che non sapeva che fossero ricercati. Li aveva visti all'opera e gli erano sembrati scrupolosi e veloci. Io non diedi loro l'incarico perché avevo già altre ditte sottomano, ma non ebbi alcun sospetto sulla loro identità. La gente di qui li incontrava al bar, qualcuno ci scambiava quattro chiacchiere. […] Dopo il loro arresto tutto è finito lì. Nessuno ha mai fatto indagini per scoprire le loro aderenze con il potere locale. Nella discarica degli Agizza furono trovati rifiuti tossici. Fu la provincia a bonificare il terreno. Venivano scaricati bidoni tossici provenienti da Marghera. Per me è ancora una bomba ecologica. É stato messo un coperchio, ecco tutto».
attivamente sul mercato (si escludono quindi quelle imprese usate solo come schermo e di fatto inattive) possono contare su una serie di fattori che le rendono più competitive: oltre ad una certa capacità imprenditoriale, (data dall'integrazione con le società legali, da cui hanno assimilato le stesse prerogative – specializzazione settoriale, crescita aziendale, espansione nazionale e reciprocità di interessi con altre realtà, sia di imprese che di istituzioni), un notevole capitale sociale di base, frutto delle attività illegali; l'utilizzo di metodi coercitivi per imporsi sui concorrenti, alternati ad altri ugualmente efficaci, come la corruzione e i rapporti di contiguità che si vengono a creare tramite esse, con funzionari pubblici; infine l'abbattimento dei costi del lavoro visto l'alto tasso di manodopera di cui dispongono. Tali ditte solitamente hanno una struttura mediopiccola almeno inizialmente e si costituiscono per lo più in S.r.l. Queste proprietà hanno un grande potenziale distruttivo perché consentono alle imprese edili mafiose di penetrare con più facilità e creare una fitta rete di legami con il resto della società, con la compromissione del settore edile e del mercato del lavoro, l'estromissione delle aziende pulite e l'assorbimento delle risorse pubbliche. L'infiltrazione delle mafie nel circuito degli appalti è avvenuta anche attraverso lo sfruttamento della deregolamentazione e delle debolezze della normativa inerenti la regolazione urbanistica – quindi appalti, lottizzazioni e licenze di costruzione. Infatti i provvedimenti di semplificazione che non siano accompagnati da un'adeguata dotazione - strumentale e di personale - degli uffici pubblici, deputati alla verifica e al controllo, creano varchi enormi nei quali si può infiltrare la criminalità o anche solo soggetti con scarsa professionalità. Alcuni esempi recenti sono le modifiche apportate dal Decreto legislativo 218/2012 al codice antimafia (Decreto legislativo 159/2011) in cui le Camere di commercio non possono sono più rilasciare la certificazione antimafia e non hanno più accesso alla relativa banca dati, o il Decreto legge 69/2013, con cui si
L'edilizia, in particolare quella che riguarda le opere pubbliche, si associa al tema degli appalti, oggetto di interesse per una serie di altri motivi, tra cui quello di moltiplicare i già ingenti introiti illegali riciclandoli e la possibilità di radicarsi sul territorio (e di acquisire una “buona reputazione”). Le imprese edili mafiose che operano 11
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modificano delle norme sulla gestione delle terre e rocce da scavo, come quelle dei cantieri edilizi, che risultano non essere più soggette a procedure di autorizzazione esplicita ma solo a sistemi di autocertificazione (esattamente come accade per l'edilizia privata) con eventuale rinvio agli organi di controllo. Inoltre, per quei regimi in autocertificazione, non c'è alcun termine di attesa: in sostanza, dopo l'avvenuta autodichiarazione, si può procedere con i lavori e l'accertamento di eventuali violazioni diviene così il più delle volte impossibile. Da un lato, infatti, non si possono controllare tutti i cantieri. Dall'altro, anche in caso di controllo, la prova del reato diviene complicatissima. Inoltre, non è mai stato sufficiente il controllo preventivo nei confronti della criminalità, anche quando era svolto dalla pubblica amministrazione. Solitamente, infatti, gli uffici tecnici, a parte negli ultimi tempi in cui era prevista la richiesta del certificato al casellario giudiziario o simili, avevano pochi strumenti e informazioni a disposizione. E in ogni caso pochi margini ci sono anche oggi per escludere le ditte mafiose, se non ci si trova davanti a reati sanzionati in via definitiva e per crimini particolarmente gravi.
trovare importanti spazi d'azione, ne sono un esempio alcune recenti operazioni: la «Dirty Investements» del 2009, condotta dalla polizia di Crotone, ha fatto porre i sigilli a beni immobili, del valore complessivo di 35 milioni di euro, nella parte della provincia scaligera che guarda al Lago di Garda, dove diventa un attività assai redditizia investire nell'edilizia, con la costruzione di ville, fabbricati e villaggi turistici, e nel traffico di cocaina. Sono state sequestrate tutte le quote di un'impresa di costruzioni, la Ru. Gi. Srl, con sede legale in via Biasoli a San Giovanni Lupatoto, che faceva capo alla famiglia Russelli, ed intestata a Roberto, fratello del capo mafia Pantaleone. La Ru. Gi. Srl deteneva anche il 40 per cento delle azioni di un'altra ditta di costruzioni, la Quadrifoglio srl, con sede a Pesaro. Nel corso dell'operazione erano stati sequestrati anche i conti-correnti intestati ai familiari, oltre ai depositi dell'azienda, aperti nelle banche svizzere.
Un altro fattore “facilitante” è quello della corruzione. Nel 1992 all'indomani della cattura nel vicentino di Giuseppe Piddu Madonia (numero due di Cosa Nostra), il giudice Guido Papalia si esprimeva così: “Se domani la mafia avesse l'intenzione di controllare il mercato economico e finanziario oppure la gestione dell'amministrazione pubblica a Verona, come in qualsiasi altra città settentrionale, avrebbe la strada spianata. L'importante sistema delle tangenti e il dilagare della corruzione consentirebbe infatti di introdursi ed acquisire potere più facilmente anche in questo territorio”. Le parole del giudice sono ancora attuali e servono ad evidenziare come le mafie trovino terreno “fertile” per infiltrarsi nel sistema economico legale laddove ci siano figure istituzionali compromesse e propense ad avallare atti illeciti.
Nel 2012 a Garda si è scoperto che due ditte calabresi in odor di ‘Ndrangheta si sono infiltrate negli appalti pubblici. Dopo aver vinto la gara d’appalto, il Consorzio Primavera e l'impresa Giada srl che hanno realizzato il Centro Ecologico del paese e hanno incassato quasi un milione di euro, hanno visto revocata la certificazione antimafia. Per entrambe le ditte era alto il rischio di infiltrazione da parte della cosca Grande Aracri, originaria di Cutro.
Nel 2011, sempre a Zimella e a Roncanova sono stati sequestrati appartamenti, terreni agricoli e il 60 per cento delle quote della “Real Costruzioni srl”, con sede legale a Verona, riconducibili a Domenico Multari, crotonese, detto Gheddafi, del clan Dragone.
Le mafie sono interessate a tutti gli aspetti dell'edilizia, dalla produzione di calcestruzzo all'escavazione, passando per la vincita delle gare di appalto. Di norma le cosche agiscono attraverso società di comodo, costituite anni prima, e regolarmente registrate, con un capitale sociale adeguato tale da non destare sospetti, vincendo le gare d'appalto con offerte al ribasso.
Anche nel Veneto la 'ndrangheta ha saputo
Su 12
quest'ultimo
punto
si
intuisce
la
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progettualità di un'azienda legata alle cosche che vuole integrarsi nella società. Essa vorrà apparire come una società normale. Questo comporta, ad esempio, che nelle gare di appalto le offerte non debbano mai essere troppo al ribasso per non destare sospetti.
riporta l’inchiesta del Ros di Padova, si può notare che la ditta in questione seguiva il modus operandi dell’infiltrazione mafiosa nell’edilizia. A far scattare i primi sospetti era stato l’offerta al ribasso del 30 per cento presentata, per la gara d’appalto indetta dal Comune, dall'azienda dei fratelli Domenico, Gennaro e Pasqualino Longo. In seguito ai controlli compiuti dagli investigatori in Calabria ed erano venuti alla luce i contatti con la cosca capeggiata da Vincenzino Iannazzo, ora in carcere. Contatti che i Longo avrebbero definito, stando sempre al Tribunale del riesame lagunare, «normali relazioni lavorative e familiari». Oltre al sospetto sospetto dei legami della ditta con una cosca 'ndranghetista vi è un ipotesi più «concreta» e cioè che abbiano utilizzato per i lavori della caserma «cemento depotenziato», mettendo quindi a rischio la solidità dell’edificio che deve ospitare la tenenza dell’Arma. Stando alle accuse raccolte dai carabinieri del Ros di Padova, la “Elle Due” avrebbe fatto lavorare nel cantiere un’impresa esclusa da qualsiasi appalto pubblico perché in odore di mafia, la “Giglio srl”. Subito è scattato il sequestro dei computer e dei documenti dell’impresa, a cui si sono opposti i fratelli Longo, con un ricorso che è stato respinto dal Tribunale del riesame di Venezia. I sospetti sono aumentati poi in seguito ai controlli sul cantiere. «Numerosi sono gli elementi riportati dai quali emerge l’interesse di soggetti legati alla ’ndrangheta - si legge nelle motivazioni del Tribunale - nonché il concreto coinvolgimento della ditta Giglio nell’esecuzione dell’appalto». Dagli atti dell’indagine emerge in particolare come questa società sia gravata da un’interdittiva antimafia. «I carabinieri hanno attestato l’impiego di veicoli commerciali della Giglio nel cantiere di Dueville – sottolineano gli inquirenti -, risulta inoltre anche un accesso da soggetti orbitanti nella citata società presso il cantiere della Elle Due Costruzioni. Gli operanti hanno attestato altresì l’utilizzo da parte dei Longo, nell’attività di movimentazione terra, di uomini e mezzi della Giglio»
Un caso recentissimo spiega il concetto: è emerso da una inchiesta che il principale indagato, trasferitosi a Treviso, aveva aperto una società intestata alla moglie. Tale ditta si era giudicata appalti con ribassi di oltre il 45 per cento. Il padre dell'indagato era stato arrestato perché considerato uno dei prestanome del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. La stessa società ha acquistato immobili nella Marca, investendo un milione e mezzo di euro in soli due anni. La ditta, come scoperto dalla Dia, in realtà serviva a mascherare il riciclaggio di denaro sporco attraverso gli acquisti di immobili. A parte le prime gare vinte, infatti era sostanzialmente inoperante. Una volta vinte la gara, l'appalto viene subappaltato ad altre ditte che, spesso in odore di mafia se non proprio mafiose, si spartiscono il lavoro. Spesso in corso d'opera si realizzano varianti che portano ad un innalzamento finale dei costi. La differenza tra il primo preventivo e il costo finale rappresenta un surplus di risorse economiche pubbliche interamente assorbito dalle cosche. Ovviamente per la realizzazione dell'opera si usano maestranze del sud, che lavorano in nero, oppure materiale non conforme, come il cemento depotenziato. In generale, esistono due tipi di imprese edili colluse: quelle propriamente mafiose e quelle in cui la mafie si infiltrano. Le prime si connotano per essere l'emanazione stessa della cosca, mentre le seconde sono quelle in cui l'imprenditore instaura con l'associazione criminale un rapporto di convivenza che può trasformarsi in un rapporto di convenienza. Per comprendere questo meccanismo è utile osservare un caso recente. Nel vicentino, a Dueville, nel 2012 è risultato che l'appalto per la costruzione della caserma dei Carabinieri era stata vinto da una ditta in odore di mafia, la Elle Due Costruzioni. Stando a quanto
L'impresa «legale» in cui la mafia si infiltra, 13
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vista la sua facciata rispettabile, appare più pericolosa. Si parla allora di aziende in “odor di mafia”. Quest'ultimo termine è stato coniato per permettere l'allontanamento dai lavori in corso d'opera delle ditte sospette. Spesso infatti, è più facile che le aziende in odor di mafia (su cui non pendono elementi probanti il reato di associazione mafiosa) siano escluse dalle attività per poter poi procedere ed espletare le lunghe indagini per accertare la connivenza della ditta con le organizzazioni criminali. Bisogna ricordare poi, che il sequestro e la successiva confisca delle aziende sono più difficili da attuare rispetto a quelle sugli immobili. Si spiega anche così il notevole numero di immobili confiscati in via definitiva in Veneto (82) rispetto alle imprese (4).
spa, erano stati effettuati nuovi controlli che hanno evidenziato l'utilizzo di materiale non conforme alla legge. Attraverso le imprese si è realizzata quella socializzazione mafiosa che ha portato da un lato le mafie ad entrare nel sistema economico e dall'altro esponenti del mondo impresa – e più in generale dell'economia – ad entrare nel sistema mafia. Si sottolineano quindi sia gli aspetti negativi prettamente legati all'edilizia mafiosa, quale l'uso di materiale scadente, del caporalato, del lavoro in nero, etc, sia la compromissione del funzionamento dei meccanismi di mercato. Si può affermare allora che la mafia è presente in Veneto? Per comprendere il fenomeno nella sua complessità occorre innanzitutto notare il cambiamento dell'approccio “culturale” avvenuto: fino a poco tempo fa vigeva il tabù “la mafia qui da noi non c'è”. Caduto questo falso mito, spesso si è enfatizzato lo stereotipo opposto, ossia la “mafie sono ovunque”. Ma si corre sempre il rischio di chiamare altre attività criminali con un termine improprio e quindi di perdere il reale significato della parola mafia.
Il secondo livello di infiltrazione delle mafie, poi, viene perpetrato sia verso i circuiti economici sia verso il territorio in cui si opera. Le cosche ambiscono ovviamente agli appalti delle grandi opere. Per due motivi: il primo riguarda le ingenti quantità di denaro in circolazione; il secondo è la possibilità di stringere nuovi legami con la parte legale del Paese (proprio per la caratteristica della socializzazione insita nei meccanismi dell'economia). Per la realizzazione di un'opera la ditta avrà contatti con una varietà di funzionari pubblici che sicuramente risulteranno utili in futuro. Un obiettivo degli affiliati alla cosca rimane quello di “ripulirsi” e di costruirsi una reputazione immacolata.
Per trovare una risposta, possiamo solo osservare e ricordare quanto le operazioni antimafia hanno svelato. Agli storici interessi delle mafie per la nostra regione, si connettono i casi in cui ditte registrate in Veneto e collegate alle cosche operano nel nostro territorio. Significativa anche una denuncia riportata nel capitolo riguardante la ricostruzione dell'Abruzzo terremotato nella relazione della Dna del 2011: «La maggior parte delle imprese infiltrate da interessi mafiosi hanno spesso sede [...] prevalentemente a Roma, in Abruzzo, in Veneto e in Emilia Romagna». Questo può far ipotizzare che la nostra regione sia comunque strategica per le cosche mafiose, in quanto “base” per estendere la rete dei propri interessi illeciti.
Sul tema delle grandi opere, nel 2008 era stato lanciato l'allarme di possibili infiltrazioni della criminalità organizzata sull'A4-Passante di Mestre, dopo che la Dia di Caltanissetta aveva sequestrato due lotti (9 e 14) della Valdastico sud. In quest'ultima sono stati riscontrati significativi scostamenti tra i dosaggi contrattuali di cemento e quelli realmente adoperati. Per quanto riguarda il Passante, in seguito all'indagine scattata sui materiali scadenti utilizzati dalla Calcestruzzi
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Traffico illecito dei rifiuti ed evasione fiscale di Martina Osetta – Università di Trento
Rifiuti, ecomafie ed ora anche evasione fiscale. E’ su questo nuovo connubio che si sta concentrando l'attenzione delle procure impegnate da tempo nella lotta contro i trafficanti di veleni. E' noto come i rifiuti costituiscano per gli eco-criminali un sostanzioso business condotto grazie al coinvolgimento di network criminali complessi e a discapito dell'ambiente e della salute dei cittadini. L'aspetto rimasto fin'ora in ombra sono le conseguenze negative sulla nostra economia e sulle pubbliche finanze della gestione abusiva della "monnezza". Cerchiamo di capire il perché.
pericolosi progetti delinquenziali, caratterizzati dall’organizzazione di mezzi e di attività. Dal 2002 - anno di entrata in vigore del reato in questione - ad oggi si sono susseguite numerose operazioni di polizia giudiziaria relative al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e la magistratura è riuscita a comprendere le modalità attraverso le quali gli eco-criminali riescono a smaltire abusivamente i rifiuti e accumulare, così, ingenti profitti. Già nel Rapporto Ecomafia 2006, Legambiente rilevava che il traffico di rifiuti - per lo più pericolosi e smaltiti con sistemi illegali costituisce una vera attività economica sviluppata, in grado di far acquisire alle organizzazioni criminali rilevanti profitti in un contesto di oligopolio, anche grazie ad azioni illecite consistenti essenzialmente in truffe, inadempienze contrattuali e in una notevole evasione fiscale.
Da quando il noto collaboratore di giustizia Nunzio Perrella dichiarò ai magistrati di Napoli che non era più la droga l’unico ambito di interesse per i clan ma anche il traffico illecito di rifiuti – considerati preziosi come l’oro – sono passati più di vent’anni. Era il lontano 1992 e il 23 maggio veniva ucciso Giovanni Falcone, l’uomo che per primo aveva capito che le mafie altro non erano che organizzazioni imprenditoriali e che per contrastarle era necessario istituire pool di magistrati specializzati nel contrasto alla criminalità organizzata. Dì li a poco si sarebbero costituite la procura nazionale antimafia e le relative ventisei procure distrettuali, competenti a procedere per i soli reati di “grave allarme sociale” e oggi, grazie alla legge 136 del 2010, anche per il delitto di traffico illecito di rifiuti (art. 260, Decreto legislativo 152 del 2006). Una fattispecie criminosa che non rientra tra i reati associativi e non necessariamente di criminalità mafiosa anche se, nella prassi, è espressione di
Del resto, il settore dei rifiuti rappresenta un terreno fertile per l’eco-criminale che decide di investire, arricchendosi ricorrendo a pratiche illecite. Le attività delittuose in tale settore sono favorite dall'inefficace tutela penale dell’ambiente che si fonda per lo più su reati di natura contravvenzionale che, diversamente da quelli di natura delittuosa, presentano termini di prescrizione brevi, generano uno scarso effetto deterrente e non consentono l’applicazione di misure restrittive della libertà personale né permettono alle forze dell’ordine l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche quali mezzi di ricerca della prova, fondamentali nell’accertamento di reati caratterizzati 15
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dall’elemento dell’organizzazione.
formalmente il rispetto delle regole per le procedure di gestione e recupero di rifiuti che, in realtà, attraverso l’alterazione dei codici identificativi ai quali vengono accompagnati, finiscono per essere depositati abusivamente o smaltiti in maniera illegale.
Il pericolo che le organizzazioni criminali si infiltrino sempre più nel settore dei rifiuti è, pertanto, molto elevato e a lanciare l’allarme è anche la Banca d’Italia, la quale ha istituito dal 1° gennaio 2008 l’Unità di informazione finanziaria (Uif), deputata a ricevere e approfondire segnalazioni di operazioni sospette e altre informazioni inerenti il riciclaggio e i cosiddetti reati-presupposto nonché di trasmettere i risultati di tali approfondimenti agli organi inquirenti. Dai dati raccolti da tale organismo negli anni 2010-2011 risulta che le segnalazioni relative a imprese operanti nel settore dello smaltimento dei rifiuti sono state oltre trecento nel 2010. Del resto - come ha sottolineato l’ex vice direttore generale della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola - le attività legate alla gestione dei rifiuti rappresentano un ambito di grande interesse per la criminalità organizzata, in quanto offrono la possibilità di generare profitti molto consistenti con volumi di fatturato molto ampi, in assenza di controlli formali efficaci.
Ma l’ecotassa non è il solo tributo che viene evaso da parte di coloro che decidono di fare affari con la "monnezza": i trafficanti di veleni, infatti, cercano di compiere attività illecite nel settore della green economy anche al fine di evadere le imposte sui redditi e, a tal proposito, un accertamento del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti potrebbe portare gli inquirenti ad inserire nel capo di imputazione anche gli ulteriori reati fiscali previsti e puniti dal Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, il quale contiene la disciplina dei reati relativi alle imposte sui redditi e all’imposta sul valore aggiunto. Ma quali sono le fattispecie delittuose previste in tale decreto che potrebbero configurarsi in un eventuale traffico illecito di rifiuti? Pensiamo al caso di una società autorizzata al recupero di rifiuti, al fine di produrre materia prima secondaria come il “conglomerato cementizio” e immaginiamo anche che tale società, attraverso la pratica del miscuglio illegale, venda il proprio prodotto a imprese edili a prezzi concorrenziali, sostenendo le spese di trasporto dei materiali nei luoghi di costruzione, ricevendo delle fatture dalle società acquirenti che, in realtà, rappresentano il pagamento dello smaltimento dei rifiuti stessi che vengono impiegati da quella stessa società per la propria attività produttiva. E’ quanto accaduto nell’inchiesta denominata “Mercanti di rifiuti”, coordinata dalla Procura della Repubblica di Venezia nel 2005, che ha permesso di analizzare il fenomeno dei traffici di rifiuti, incrociandoli con i profili fiscali.
Effetto diretto del comportamento ecocriminale volto ad accumulare denaro sporco, perché frutto di reati ambientali, è l’evasione, che si manifesta, in primo luogo, nel mancato pagamento della cosiddetta Ecotassa, tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi, dovuto alle Regioni e, per una piccola parte - il 10 per cento -, anche alle Provincie. Obbligati al pagamento dell’ecotassa sono i gestori delle imprese di stoccaggio definitivo o di impianti di incenerimento di rifiuti o chiunque eserciti attività di discarica abusiva o abbandoni, scarichi ed effettui deposito incontrollato di rifiuti. Presentando documentazione falsa e facendo ricorso al cosiddetto “metodo del giro di bolla”, i professionisti nel campo della gestione dei rifiuti fanno apparire solo 16
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La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è, in effetti, un reato disciplinato dal decreto legislativo sopracitato, punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, e richiede la dimostrazione in giudizio della specifica volontà di evadere le imposte. Ma l’emissione di fatture per operazioni inesistenti non è il solo reato fiscale a poter essere eventualmente coinvolto in una indagine in materia ambientale.
presunto dei ricavi o compensi. Più semplicemente: quando la differenza tra ricavi medi di fatturato di una impresa operante nel settore dei rifiuti e quelli effettivamente dichiarati inizia ad essere rilevante, ciò può essere presagio di pratiche illecite legate ad una mala gestione dei rifiuti stessi da parte delle imprese, più attente ad alterare la documentazione contabile che ad operare in senso conforme alla normativa ambientale.
Possono rientrarvi anche la dichiarazione infedele, l’omessa dichiarazione, l’occultamento e distruzione di documenti contabili, la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, tutti reati disciplinati dal Decreto legislativo 74 del 2000 e che per lo più richiedono il superamento di determinate soglie di evasione: un accertamento della contabilità fiscale di una azienda operante nel settore dei rifiuti potrebbe facilitare le forze dell’ordine nell’acquisizione di elementi utili a provare anche eventuali reati ambientali come il delitto di cui all’art. 260, Testo Unico Ambientale, il quale richiede di per sé che la gestione abusiva dei rifiuti sia finalizzata al conseguimento di un «ingiusto profitto».
Per questo motivo, un approccio fiscale in un procedimento per traffico illecito di rifiuti potrebbe portare all’ulteriore contestazione di reati finanziari, sferrando così un duro colpo per i trafficanti di veleni che troppo spesso riescono ad accumulare grandi capitali in spregio della disciplina in materia ambientale.
E come mettere in luce l’esistenza di una correlazione e contiguità tra una violazione della normativa fiscale e quella ambientale? La soluzione più corretta è quella di applicare alle imprese operanti nel settore della gestione dei rifiuti accertamenti fiscali “standardizzati” mediante studi di settore che, a seconda del tipo di attività svolta, del modello organizzativo prescelto e delle modalità di svolgimento dell’attività stessa, individuano in base alla valutazione della situazione reddituale di campioni significativi di contribuenti appartenenti al medesimo cluster, la relazione matematica tra le caratteristiche di quella particolare attività e l’ammontare
Le cronache giudiziarie sembrano confermare quanto sin qui affermato. Risale a luglio 2013 l’inchiesta trentina denominata “Efesto”, indagine penale e tributaria sviluppata dalle fiamme gialle trentine, che ha permesso di individuare 126 persone fisiche e di inquadrarle in 11 evasori totali (6 società di fatto a carattere familiare e 5 ditte individuali) i quali avrebbero gestito e commercializzato abusivamente metalli come rame, ottone, ferro, alluminio e acciaio. Si tratta di una vera e propria organizzazione, unita da legami di parentela che tra il 2007 e il 2012 avrebbe sottratto a tassazione ricavi per un totale di poco
Quello che si è cercato di elaborare in queste poche righe è, quindi, un nuovo modo di svolgere le indagini quando si ha a che fare con la "monnezza" e che fa assumere alla Guardia di Finanza un ruolo fondamentale nelle inchieste sull’art. 260, Decreto Legislativo 152 del 2006, ma anche in quelle riguardanti l’abusivismo edilizio e le attività di escavazioni, entrambi settori che si considerano appartenenti al mondo delle ecomafie, al pari dei traffici illeciti di rifiuti.
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inferiore ai sette milioni di euro.
ragione della loro capacità contributiva").
La nostra attenzione rimarrà viva nei confronti di questa indagine che ci auguriamo possa accertare con chiarezza le eventuali responsabilità degli imputati, affermando i principi sanciti dalla Costituzione negli articoli 32 ("La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti") e 53 ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
Vorremmo concludere questa riflessione con le parole di un politico ed economista italiano, nonché ministro dell’economia nel governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa: «Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l'istruzione e l'ambiente».
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Veleni e biomasse: un caso che deve far riflettere di Mariateresa Ariniello – Osservatorio ambiente e legalità Venezia L'analisi del digestato in un impianto di biogas del padovano ha messo in luce la presenza di pericolose sostanze nocive. Un caso che deve far riflettere sui controlli di questi impianti e la mancanza di una vera regolazione in un settore in sbalorditiva espansione
Durante i lavori della conferenza di Rio+20, le Nazioni Unite hanno a gran voce promosso un nuovo approccio incentrato sulla green economy: un processo di transizione verso un’economia che mira ad una maggiore equità sociale, ampliando le tecnologie e riducendo al contempo i rischi ambientali. Ovunque si promuovono investimenti pubblici e privati miranti a ridurre le emissioni di carbonio e rendere le risorse maggiormente efficienti. Anche in Italia, da diversi anni, i finanziamenti verso le fonti alternative per la produzione di energia attirano diversi investitori, anche stranieri. Difficile pensare che questi vengano ispirati dai principi base della green economy e della sostenibilità ambientale.
Il biogas si forma durante la fermentazione anaerobica, un processo biologico attraverso il quale la sostanza organica, di origine animale e/o vegetale, in assenza di ossigeno, si trasforma in una miscela costituita da metano e anidride carbonica. Il suo rendimento e la percentuale di metano dipendono dalla sostanza impiegata che varia da residui di coltura (paglia, barbabietole), rifiuti urbani, deiezioni animali, a scarti organici agroindustriali (lieviti, fanghi, reflui). Secondo i dati del GSE, Gestore Servizi Elettrici, al 31 dicembre 2012, gli impianti di biogas presenti sul territorio italiano sono 989, per una produzione di energia pari a 4083 GWh ed un utilizzo di potenza di circa 770MW. Inoltre, sono in cantiere altri 60 impianti per un incremento della produzione energetica di circa 249 Gwh. In Veneto esistono impianti cogenerativi a bioenergie per una potenza installata complessiva pari a 61,3 MW, dei quali il 70 per cento sono impianti a biomassa legnosa, il 27 per cento impianti a oli vegetali e per il 3 per cento impianti a biomassa vegetale. Gli impianti già autorizzati, ma non ancora entrati in esercizio, hanno una potenza totale installabile pari a 82,9 MW, suddivisa per l’88 per cento in impianti a olio vegetale, 9 per cento in impianti a biomassa solida e per il 3 per cento in impianti a biomassa vegetale.
Grazie alla modifica del Titolo V della Costituzione le Regioni e le Province autonome hanno acquisito il diritto di legiferare in materia di energia, e modificano o attuano le indicazioni normative nazionali in materia di produzione di energia, che negli ultimi anni è generata maggiormente da fonte rinnovabili, nel rispetto del protocollo di Kyoto finalizzato alla riduzione significativa di fonti fossili. Tra le fonti di energia rinnovabile l’attenzione si è concentrata sulle biomasse e sul biogas, presenti sul territorio italiano in tipologie differenti, classificate sulla base dell’origine della materia utilizzata. La presenza di scarti e residui agricoli, agroindustriali e forestali favorisce lo sviluppo di impianti di biomasse, valorizzati attraverso le filiere del biogas che permettono sia l’abbattimento dei costi per lo smaltimento rifiuti che notevoli guadagni derivanti dalla produzione di bioenergia.
Se da una parte essi consentono l’utilizzo di eccessi di produzione delle culture alimentari per la produzione di energia,dall’altra però vi sono questioni etiche ed ecologiche collegate alla conservazione dei terreni e al consumo di risorse idriche. La politica della 19
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dell’arco alpino), le zone umide di importanza internazionale tutelate dalla Convenzione di Ramsar del 1971 (Valle Averto, Vincheto di Cellarda, Palude del Busatello, Palude del Brusà, le Vallette), i parchi regionali, le aree o territori d’interessa geologico o geomorfologico, aree agricole, i siti di importanza comunitaria e le zone di protezione speciale.
massimizzazione del profitto, infatti, predilige lo sfruttamento di aree verdi destinate al pascolo e/o alla produzione di cibo per la realizzazione di coltivazioni, come il mais e la canna da zucchero, da impiegare nella produzione energetica; inoltre, in alcune aree viene minata la biodiversità, ponendo a coltivazione piantagioni che non sarebbero adatte ad un dato clima.
Ma, a parte queste limitazioni riguardanti la localizzazione territoriale degli impianti, è mancata nella nostra regione in questi anni qualsiasi programmazione nella produzione di energia e pure l'attuale piano energetico – in via di approvazione – non individua limitazioni nella qualità e nella modalità di produzione dell'energia da biogas. Il pericolo è che gli impianti di biogas divengano strutture per lo smaltimento illegale di materiali contaminati. Una pratica che incrementerebbe i profitti privati già di per sé assicurati dai finanziamenti pubblici. Non mancano, infatti, in Italia, casi in cui agricoltori fanno fatica a gestire correttamente impianti di grandi dimensioni e sono disposti ad accettare anche biomasse contaminate senza domandarsi la natura e l’origine della materia pur di mantenere in produzione gli impianti.
La realizzazione degli impianti è disciplinata a livello comunitario dalla direttiva 2001/77/CE recepita a livello nazionale dal D.Lgs 387/03. Ma spetta ad ogni Regione italiana, attraverso il piano energetico regionale, approvato dal Consiglio Regionale in conformità al Decreto ministeriale del 15 marzo 2012 (che fissa gli obiettivi regionali inerenti alla produzione di energia da fonti rinnovabili), monitorare la situazione regionale in merito alla produzione, al consumo e all’importazione di energia. Inoltre, il piano energetico individua le politiche di contenimento dei rispettivi consumi finali lordi e promuove iniziative per incrementare la produzione da fonti rinnovabili. Tutto questo al fine di valutare la capacità di ciascuna regione di raggiungere il cosiddetto «burden sharing» cioè la ripartizione regionale degli obiettivi nazionali (il 17 per cento di produzione di energia fonti rinnovabili, entro il 2020). Per il Veneto l’obiettivo è che il 10,3 per cento dell’energia elettrica, termica e dei trasporti provenga da fonte rinnovabile. Oggi è a circa il 7,5 per cento. Solo il 25 ottobre 2013, tra le ultime regioni italiane, il Veneto ha formulato il «Piano energetico ambientale, fonti rinnovabili, risparmio energetico, efficienza energetica».
L'incidente occorso in una delle centrali a biogas più grandi del Veneto, appartenente alla società agricola Tosetto S.S. potrebbe – il condizionale è d'obbligo – rappresentare un triste esempio della concretizzazione di questo rischio. L’Arpav ha riscontrato, nel settembre del 2012 e nel febbraio 2013, nelle analisi effettuate nel digestato - residuo del processo di produzione del biogas che conserva la parte organica e minerale - prodotto dall'azienda di Limena, la presenza di Pcb, composti chimici denominati policlorobifenili. Si tratta di liquidi oleosi dall’odore intenso, classificati tra le sostanze maggiormente cancerogene. Ma è solo il 28 marzo 2013 - in seguito alla comunicazione dell’Arpav emessa oltre cinque mesi dopo l’analisi del campionamento -, che il sindaco di Limena,
Segnaliamo inoltre la delibera regionale del 2 maggio 2013 n. 38, che ha individuato alcune aree non idonee all’installazione di impianti a biomassa, biogas e biometano: siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco (Venezia e la sua Laguna, l’Orto Botanico di Padova, città di Vicenza e le ville di Palladio del Veneto, città di Verona, le Dolomiti, i siti palafitticoli preistorici 20
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con ordinanza n. 2/2013, ha obbligato la ditta in questione alla messa in sicurezza dell’impianto. Per spiegare la presenza del Pcb nel digestato la ditta Tosetto ha ipotizzato un tentativo di sabotaggio, ma allo stato attuale non si è a conoscenza dell’inoltro o meno di una denuncia da parte dell’azienda presso l’autorità giudiziaria.
moltiplicazione. Da qualche anno, in Germania il professore veterinario Bohnel sostiene l’esistenza di un legame tra il numero di animali ammalati di botulismo e il digestato prodotto dalle aziende di biogas distribuito sui terreni utilizzati per il pascolo. La Commissione europea, in seguito a l’interrogazione dell’europarlamentare Andrea Zanoni in merito alla moria da avvelenamento da botulino di mucche a Trebaseleghe, nel padovano, ha affermato che ad oggi non è ancora stato dimostrata una relazione causale tra la malattia ed il digestato residuo della produzione di biogas.
La sostanza tossica non era contenuta nel letame e nell’insilato di mais utilizzati per l’alimentazione dell’impianto, ma solo nel digestato solido e liquido all’interno delle vasche di stoccaggio. Ancora oggi, l’origine della contaminazione non è stata definita. Ma partendo dal dato oggettivo, quale appunto la presenza di pcb nel digestato, possono essere formulate una serie di ipotesi generali, tra le quali l’idea che il digestore potrebbe esser stato ripulito immediatamente dopo il contatto con le matrici contaminate. Oppure ci sarebbe stato – successivamente al processo produttivo del biogas - un mescolamento del digestato prodotto dall’azienda con altro proveniente da biomasse contaminate.
Tutte queste problematiche inducono a sollevare la questione dei controlli. Controlli che verrebbero in realtà demandati alla stessa azienda, la quale ha l’obbligo di controllare l’omogeneità e la tracciabilità delle materie prime in entrata e l’attività di stoccaggio della materie. Risulta molto problematico il controllo esterno sul funzionamento dell'impianto e, soprattutto, la qualità delle materie prime utilizzate. A gran voce, le associazioni ambientaliste del territorio si domandano che fine abbia fatto il digestato contaminato da Pcb prodotto dalla ditta Tosetto. Lo spargimento sui terreni agricoli determinerebbe un contagio della catena alimentare, causando danni irreversibili all’ambiente e alla salute umana.
L'attività della ditta aveva sollevato le lamentele dei cittadini di Limena per la presenza di odori sgradevoli, soprattutto in prossimità dell’impianto. L'emissione di odori è spesso interpretato come sintomo di un impianto non adeguatamente dotato di dispositivi tecnologici atti a garantirne il corretto funzionamento. Inoltre, un’attenzione particolare deve essere riservata al digestato prodotto, utilizzato come fertilizzante naturale, ma spesso portatore di microrganismi patogeni, come il Clostridium botulinum, batterio anaerobico che si trova comunemente nei suoli e sedimenti marini, in grado di produrre spore e neurotossine capaci di vivere per moltissimi anni. Data la presenza nel terreno, esso può contaminare gli ortaggi coltivati e l’apparato intestinale degli animali. Le spore di clostridi sono resistenti al calore e le condizioni di temperatura del digestato ne favoriscono la
Come abbiamo visto la diffusione di questi impianti, in assenza di adeguati controlli e di una seria programmazione, rischia di rivelarsi una importante occasione per lo smaltimento illecito dei rifiuti tossici.
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Logistica: la «zona grigia» della sussidiarietà Dai Magazzini Generali di Padova alla piattaforma di Parma di Paolo Baron, Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi, giornalisti Documenti truccati per non versare i contributi dei lavoratori delle cooperative. E' così che una organizzazione a delinquere a Padova ha drenato, con l'aiuto di consulenti tributari, montagne di quattrini riciclati in diverse attività immobiliari. La logistica è un settore dove coesistono grandi interessi e molti soldi pubblici. E molti punti di domanda
1. Logistica ovvero «l'insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nell'azienda i flussi di materiali e delle relative informazioni dalle origini con i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita». Un sistema economico letteralmente fondato sulle merci che a nordest si è rivelato “sussidiario” al modello della «locomotiva» postindustriale. La nicchia produttiva ha beneficiato dei magazzini (patrimonio pubblico) affidati alle cooperative («nuova» flessibilità del facchinaggio) in una sorta di gestione delegata (privatizzazione). Padova ha rappresentato da questo punto di vista un vero e proprio «laboratorio», ma ha anche evidenziato qual è la “zona grigia” in cui si affastellano interessi affaristici, convenienze politiche, illegalità contrattuali, omissioni di controllo. Una cronaca nera, giudiziaria e politica. Un caso di scuola anche sul fronte sindacale. Un’anticipazione delle larghe intese al governo. Una metafora compiuta: le merci dettano legge; i diritti delle persone diventano zavorra; la logica è il business ad ogni costo.
(diventati famosi come la “cricca della logistica”) per non versare i contributi ai lavoratori, non pagare le imposte e quindi arricchirsi indebitamente. Il giochetto era “semplice”: i consulenti delle aziende cooperative di Zampieri (che operavano anche all'interno di Magazzini Generali) inviavano all'Inps i moduli ritoccati con il “bianchetto” facendo così figurare di aver versato i contributi. Ma non era vero. I soldi finivano da un'altra parte. Zampieri e i suoi sodali (arrestati e ora a processo con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla falsità materiale commessa in privato, omesso versamento di ritenute previdenziali e evasione fiscale), secondo l'accusa, in più anni di attività avevano messo in piedi un'associazione capace di drenare 30 milioni di euro all'erario, falsificando i documenti contabili di decine di coop del settore della logistica con un migliaio di addetti (a cui non avevano mai versato i contributi). Soldi riciclati in attività economiche e immobili. Il business milionario venne spezzato dalla Guardia di Finanza di Padova grazie anche a decine le perquisizioni in Veneto, Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna. Furono così sequestrate azioni di 14 società, 80 conti correnti bancari e postali, 600 mila euro in contanti, terreni e fabbricati per un controvalore di 18 milioni.
2. Un minuscolo errore contabile nel modello F24 (usato dalle aziende per il pagamento di imposte, tasse e contributi). E' servita la classica casualità per scoperchiare il malaffare all'interno di uno dei comparti più complessi dell'economia padovana: la logistica. Un errore che in realtà era lo stratagemma usato da Willy Zampieri e dai suoi due collaboratori
Scriveva la Procura all'epoca dell'indagine: «Willy Zampieri ha assunto il ruolo di principale artefice ed organizzatore di una 22
Schegge di dark economy
obiettivo. Per venirne a capo, un gruppo dedicato di finanzieri ci ha impiegato più di tre anni per cristallizzare i reati contabili. Zampieri e soci, infatti, avevano costituito una ragnatela di cooperative di primo e secondo livello: le prime gestivano le seconde e inoltre partecipavano alle gare d'appalto. Le seconde, invece, erano il cuore del sistema illecito messo in piedi da Zampieri. «Le cooperative di secondo livello gestite tra false certificazioni di pagamenti di tributi e contributi e avocazione ai vertici dell'organizzazione della gestione del contenzioso con i lavoratori» scriveva ancora la Procura, «Fungono in sostanza da filtro per i consorzi di primo livello proteggendoli dalle responsabilità solidale amministrativa e, di conseguenza, da ogni possibilità di recupero di danno erariale, vanificando la normativa in materia di contrasto all'economia sommersa».
complessa associazione a delinquere costituita da una stabile struttura formata da lui medesimo e dai suoi essenziali consulenti Paolo Sinagra Brisca (ex terrorista e ora di professione consulente tributario) e Patrizia Trivellato (consulente del lavoro), oltre che da plurimi collaboratori legati allo Zampieri da un vincolo risalente da tempo, collaudato e tuttora in corso: lo scopo comune è lo sfruttamento delle potenzialità di arricchimento offerte dall'uso strumentale della disciplina giuridica delle cooperative al fine di commettere un numero indeterminato di reati». E' proprio la conoscenza del comparto la chiave del successo criminale della cosiddetta “cricca della logistica”: aprire e chiudere coop di facchinaggio spostando i lavoratori da una parte dall'altra; posticipare i versamenti; cambiare i contratti in corso d'opera. Tutte operazioni lecite ma che, appunto, se usate in maniera strumentale, consentono di raggirare la legge e accumulare guadagni impropri (non a caso al processo l'Agenzia delle Entrate si è costituita parte civile, chiedendo un risarcimenti di circa 20 milioni). Non solo: risparmiando sui contributi il “Gruppo Zampieri” ovvero la galassia di cooperative di facchinaggio riconducibili al capo dell'organizzazione, era in grado di porsi con prezzi fuori mercato, vincendo così la maggior parte degli appalti della logistica.
In questo modo il Gruppo Zampieri riusciva a spuntare un costo del lavoro di gran lunga inferiore a quello praticato dalla concorrenza. «Si tratta di un sistema» sottolineava la Procura «la cui ideazione, applicazione pratica e gestione, d'indubbia complessità anche per la recente, particolare attenzione normativa al settore (giudicato dal legislatore, appunto, a forte rischio d'evasione), ha richiesto e richiede all'organizzazione criminale un complesso studio e un continuo aggiornamento, consapevolmente e volontariamente fornito dalle competenze della consulente di lavoro Trivellato e dal consulente tributario Sinagra Brisca».
Aumentando, dunque, la sua forza sia sotto il profilo contrattuale che imprenditoriale. Scriveva la Procura: «Il modello organizzativo illecito era capace di far ottenere appalti di manodopera a prezzi più bassi rispetto alla concorrenza, di sfuggire all'attività ispettiva e in generale ai controlli degli Enti preposti opponendo ostacoli mirati ed efficaci tesi ad impedire la determinazione dei contributi e delle imposte effettivamente dovute; di evadere impunemente gli obblighi previdenziali assistenziali e fiscali; al contempo di godere delle agevolazioni fiscali previste dalla peculiare normativa vigente per le cooperative a mutualità prevalente».
Un sistema quasi perfetto. Già, se non fosse stato per quel “bianchetto” di troppo sopra un modello F24... 3. Logistica da inchiestare, dunque. Anche oltre il perimetro dei faldoni della Procura, delle procedure giudiziarie e perfino delle «verità» istituzionali. La “zona grigia” è decisamente più ampia delle singole responsabilità penali, mentre il nesso con la politica affiora visura dopo visura (grazie alla Camera di commercio). Ma il «laboratorio Padova» distilla in anticipo un vero e proprio sistema della sussidiarietà, che spazia dalla sanità alla formazione come dalla “charity” ai
Insomma, più il sistema era opaco, intricato, confuso, più la cricca riusciva nel suo 23
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Grandi Appalti e – nell’ultima versione – dalla rieducazione pasticciera all’energetica vocazione per “smart city”. E’ l’esproprio costituzionale del pubblico a vantaggio del “compromesso storico” realizzato dall’asse fra i ciellini della Compagnia delle Opere e la Lega delle Cooperative. Si incista la res publica con la benedizione istituzionale, fino a monopolizzare il governo dei flussi di risorse e a «riformare» conflitti d’interesse. Padova nell’ultimo ventennio ricalca la celeste Milano: basta solo grattar via la propaganda fideistica e si «evince» il diagramma di flusso.
appalto nel polo logistico di Fiano Romano per Tnt. Una vertenza aperta paradossalmente proprio sulla legalità: unico contratto, identico trattamento, rispetto dei diritti. La “zona grigia” della logistica si dimostra così fuori controllo, a nordest come nel resto d’Italia. Rotta la gabbia diventa impossibile accreditare ancora coop a responsabilità limitata o proclamare l’efficienza della sussidiarietà nazionale. Tanto più che a Padova la logistica dei padroncini ha letteralmente abbattuto la gatta di sant’Andrea, uno dei simboli storici della città. Trasporto “fuorilegge” nella Ztl presidiata dalla videorveglianza. Plastica manovra di retromarcia da ogni punto di vista. Consegna eseguita a costi iperbolici. E sicurezza frantumata insieme alla colonna…
La logistica si apre a ventaglio. I fili della matassa si snodano, puntuali, fino al colossale crac del Consorzio per lo sviluppo del Conselvano ora Attiva Spa in liquidazione (7 milioni di capitale per 100 milioni di debiti). E alla catastrofica gestione decennale dell’Azienda ospedaliera: 433 milioni di rosso patrimoniale nel bilancio 2010. O al “leasing in costruendo” che consta operazioni immobiliari - più o meno faraoniche – nell’ormai ex zona industriale della città.
4. Puntare 10 mila euro sul piatto che vale 400 milioni. Lo «sbarco» a Parma dei “padroncini” della logistica è un’operazione da manuale del gioco. Obiettivo della posta: diventare i number one del “food & grocery”, cioè la dispensa esterna(lizzata) di grandi marchi come Barilla, Despar, Conad, Eurospin, Pastificio Garofalo e… Coop. Un vero e proprio “mulino grigio”, che macina affari e merci al pari del destino delle persone. A muovere le pale sono gli specialisti della gestione «separata» e parallela: l’ingegnere e il “camionista”. Il padovano Renzo Sartori, uomo di punta del firmamento ciellino, e il polesano Floriano Pomaro, ex ras dei Magazzini Generali a gestione pubblica.
I nessi fra gli “eletti” scattano, poi, con l’ingegneria delle Grandi Opere a nordest. Ci si attovaglia con la Mantovani per il nuovo ospedale. E si dirige il Consorzio Venezia Nuova con la “cerniera” della Fip accusata di collusione con la mafia. O si rogita in contiguità con studi professionali, banche, consulenti e società di gestione del risparmio. Nel frattempo, la logistica è diventata un caso nazionale. Da maggio a luglio, tre scioperi nazionali indetti da Adl-Cobas hanno fatto esplodere (soprattutto a Bologna e in Lombardia) l’omertà sulle condizioni di lavoro all’interno dei capannoni: consorzi di coop che giocano al ribasso sui prezzi quanto con le buste paga dei facchini, spesso migranti. Il 26 settembre si è replicato alla Michelin di Cuneo per iniziativa della Cgil: sciopero di 24 ore dei dipendenti della coop Red (Consorzio Work Holding) che garantisce la movimentazione d'ingresso e d'uscita dello stabilimento di pneumatici. E il 1 ottobre hanno incrociato le braccia anche i facchini di Coop New Services e Master Services (consorzio Gesco) che lavorano in
Un caso sintomatico, confinato negli archivi della cronaca locale, dimenticato troppo in fretta dalla politica non solo democratica. Eppure meglio di qualunque altro illumina l’altra faccia del «sistema integrato» e risponde, soprattutto, alle domande su come funziona e a che punto è l’in-fusione delle vecchie coop nei nuovi consorzi. Basta ritornare al 3 luglio 2012 quando il Gruppo Barilla ufficializza a mezzo stampa la dismissione dell’attività stoccaggio in proprio. Finanziariamente, l’operazione si traduce con la cessione dell’intero pacchetto 24
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azionario di Number 1, lo storico magazzino interno del pastificio emiliano. La notizia fa rumore, perché per Barilla la società Number 1 non è propriamente un ramo morto. E’ un pezzo di azienda che fattura 400 milioni di euro all’anno e vanta 136 mila metri quadrati di spazi, mezza dozzina di “snodi”, 19 piattaforme e 100 mila posti pallet. Oltre a Barilla - e alla Coop Adriatica – viene utilizzato per distribuire il caffè Lavazza, il Riso Gallo, i biscotti Plasmon, il latte Parmalat, il tonno di Mareblù e Nostromo e i prodotti della Nestlé. Con 500 dipendenti e 3.500 lavoratori rientra tra i giganti della logistica alimentare.
Parma dove si sperimenta la nuova sussidiarietà orizzontale. Al modello delle piccole coop si sostituisce l’architettura già collaudata a Nord Est, ma moltiplicata per dieci. Politicamente non fiata (quasi) nessuno. Oggi come allora il coro del silenzio non prevede né consente stecche, e il diapason dell’affare rimane confinato nel recinto degli esperti. Eppure in Emilia come in Veneto, salvo rare eccezioni, i democratici appoggiano in pieno l’operazione sussidiaria. Al punto che alla cerimonia di presentazione della “santa alleanza” con Sartori & Pomaro sfilano fianco a fianco il presidente Legacoop Ivano Bernazzoli, Stefano Girasole di Confindustria e Andrea Zanlari della Camera di Commercio. Uno schema già messo a punto in Lombardia dove «la sinergia» ha scomposto (e ricomposto) il confine tra pubblico e privato.
Tant’è l’eredita d’oro. Il beneficiario, spiegano i manager Barilla, è il Gruppo Fisi, la «scatola» costituita da Consorzio Sincro e Multiservizi Srl. Per gli addetti del settore, è il segnale che la coppia Sartori & Pomaro è tornata. In realtà a Parma, la «rivoluzione» logistica è in corso fin dall’aprile 2008, dopo il varo in pompa magna all’hotel Stendhal del Consorzio Logistic Service Company formato dall’unione delle coop Il Colle, La Giovane e Primo Taddei. Sulla carta è un’alleanza che serve a consolidare patrimonio; in realtà la fusione mette soprattutto in comune un fatturato di 54,6 milioni di euro, 1.658 addetti e 28.500 metri quadrati di spazi logistici delle coop di Parma.
Il precedente padovano? Viene in mente solo a un gruppo di facchini della coop Primo Taddei che non ha digerito il “patto” emiliano-veneto, ha smosso i sindacati di categoria e non si rassegna a cedere «la trincea». E’ passato un lustro, tuttavia resta agli atti la richiesta di chiarimento di Fai-Flai e Uil, che chiedono lumi sull’affare Number 1, lamentando l’assenza di ogni informazione sulla vendita «ai padovani». Il 10 luglio, in assenza di chiarimenti, a Pedigrano si era giunti perfino allo sciopero con i lavoratori dei magazzini Barilla che avevano incrociato le braccia per due ore. Nulla di fatto. L’operazione prosegue come se niente fosse. Nessuna rassicurazione, tanto meno la voglia di mettere in discussione l’affare sussidiario. Sono gli effetti collaterali della rivoluzione logistica, Il lato B del “matching” cooperativo nell’epoca dell'economia mista. Funziona così: da Bruxelles e dalle Regioni arrivano i finanziamenti pubblici a garanzia della concertazione sui soldi pubblici. Poi tutto finisce nelle mani degli specialisti.
Giusto trenta giorni dopo nella città ducale nasce La Magica, società a responsabilità limitata. Registra 10 mila euro di capitale sociale (9.900 della fiduciaria Poldi Allai Srl di Parma, 100 di Arnaldo Rampini) e rappresenta il mezzo finanziario per sbarcare nel nuovo “eldorado” della logistica. Un mese più tardi spunta l’altro tassello del puzzle sussidiario: la nomina ad amministratore delegato dell’ex manager Barilla Giampaolo Calanchi, “referente” dei padovani. Così lo sbarco a Parma è quasi completo. E si compie una mossa più che necessaria. Esauriti gli affari istituzionali a Nord Est, i gestori della logistica sbarcano nel nuovo hub dell’alta velocità su gomma. Si chiude così, in parallelo, la catena alimentare che totalizza stabilimenti, dipendenti e consumatori. Dal laboratorio Padova a
5. E dall’hub della sussidiarietà logistica si ritorna comunque in Veneto. Padova ha fatto da trampolino di lancio per la coppia ciellina alla conquista di Parma. E la concertazione 25
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istituzionale ha prodotto la fusione per incorporazione degli storici Magazzini Generali da parte di Interporto, che sembra prepararsi a replicare con il Consorzio Zip. Insomma, qualcuno ha fatto carriera e qualcun altro coltiva analoghe ambizioni ospitando (a pagamento pubblico…) collezioni di design, archivi giudiziari e vecchie cartelle cliniche. E a dar ascolto a chi lavora nella logistica padovana, il passaggio dalla “zona grigia” certificata dalla
magistratura alla “nuova” gestione sussidiaria è tut’altro che rose e fiori… Dalla vicina Vicenza, sembra arrivare una conferma indiretta. Come ha raccontato Giulio Todescan qui http://www.nuovavicenza.it/2013/10/eurocoo p-logistica-vicentina-alcapolinea-il-nodomagazzini-generali/ , anche nella democratica (e renziana) amministrazione di Achille Variati si replica il solito copione.
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Infiltrazioni criminali nel mercato delle rinnovabili e misure di prevenzione di Simone Grillo - Fondazione Culturale Responsabilità Etica Come gestisce Cosa nostra il business delle rinnovabili? La storia imprenditoriale di Vito Nicastri svela molte cose. Anche sul Veneto. Le misure di prevenzione per contrastare il fenomeno.
Nel 1990 Paolo Borsellino fu tra i primi a parlare del rischio di infiltrazioni delle mafie al Nord, valutando come quest’area del Paese potesse essere soggetta ad attività di riciclaggio o re-impiego dei proventi illeciti. I fatti avvenuti nel corso degli anni hanno certo dato ragione al giudice, ucciso da Cosa nostra, ad appena due anni di distanza da quelle considerazioni.
organizzato comprende la maggior vulnerabilità del sistema economico legale, non solo in settori quali commercio ed edilizia (da tempo sottoposti all’attenzione delle organizzazioni criminali) ma anche in settori nuovi sui quali, in questi anni, sono stati peraltro investiti significativi fondi pubblici, come nel caso del mercato delle fonti rinnovabili. Da notare, per inciso, che l'incentivazione delle fonti rinnovabili ha preceduto il completamento del quadro normativo: emblematico il caso delle Linee Guida Nazionali in materia di rinnovabili le quali, già previste dall’art. 12 del decreto legge n. 387/2003, venivano approvate solo con un decreto ministeriale il 10 settembre 2010, sette anni dopo.
Proprio nel 1992, mentre in provincia di Vicenza veniva arrestato il boss Giuseppe Madonia, l’allora procuratore di Verona Guido Papalia osservava come ai fini dell’infiltrazione “tutte le città del Veneto e del Nord in genere vanno bene, perché permettono la penetrazione in un mercato finanziario in continua espansione e quindi in grado di assorbire gli enormi capitali guadagnati illecitamente nelle regioni che più sono sotto il diretto controllo della mafia”.
La presenza di un mercato fortemente incentivato, ma non preventivamente regolamentato in modo adeguato, ha certamente creato una condizione di vulnerabilità che ha inevitabilmente finito per destare l’interesse delle organizzazioni criminali, come dimostrano le numerose inchieste che in questi ultimi anni sono state aperte (molte delle quali ancora in attesa di una compiuta verità giudiziaria) sul rischio di infiltrazione delle mafie in questo settore, in particolare nell’ambito dell’eolico.
Ad oggi, nonostante le molte avversità insite nell’affrontare questo tema, si va finalmente diffondendo tra le istituzioni ed i cittadini la consapevolezza della permeabilità del nord alle infiltrazioni mafiose. Questo fenomeno, che nei primi anni novanta si esprimeva attraverso l’interesse delle cosche per le opportunità di riciclaggio dei proventi illeciti e di infiltrazione nell’economia di un’area del Paese in costante crescita, vive oggi una nuova dimensione, completamente diversa ma altrettanto pericolosa.
Occorre continuare a guardare con grande attenzione ai possibili rischi di infiltrazione in questo settore, anche alla luce di alcuni recenti provvedimenti che interessano il territorio veneto e che, al di la degli sviluppi che si potranno determinare nei casi specifici
Nel pieno di una crisi economica, della quale non si scorge ancora la fine, il crimine 27
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(in quanto, come si vedrà, si tratta di provvedimenti sottoposti a un vaglio giudiziale non ancora concluso), devono indurre ad attivare preventivamente tutti gli strumenti (culturali, prima ancora che normativi o politici) utili alla prevenzione delle possibili infiltrazioni delle mafie in questo mercato.
essendo il settore delle rinnovabili caratterizzato dal rilascio di concessioni e autorizzazioni da parte di enti pubblici, esso si prestasse al rischio di pratiche corruttive. Si rilevava, inoltre, come la presenza di un mercato caratterizzato da considerevoli risorse finanziarie, necessarie per l’acquisto degli impianti, unita alla prospettiva di guadagni attesi elevati, creavano le condizioni per scambi finanziari di significativa entità, sostenuti da ingenti interventi creditizi. L’esistenza di finanziamenti agevolati ed il riconoscimento di contributi pubblici relativi all’energia prodotta, attiravano, come ricordava sempre l’Uif, l’attenzione delle organizzazioni criminali, per la quali diveniva dunque possibile (anche grazie al potere che esse esercitano nelle regioni meridionali) effettuare ingenti investimenti nel settore.
Le prime evidenze sulla possibile infiltrazione delle mafie nel mercato delle rinnovabili Nel corso degli ultimi anni, diverse evidenze hanno fatto emergere la possibilità che gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare quelli eolici, potessero essere oggetto di operazioni di riciclaggio dei proventi illeciti. In particolare, la relazione 2009 dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) - l'organismo della Banca d’Italia che raccoglie ed analizza le segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio inviate dai soggetti titolati dell’obbligo di segnalazione - documentava come fossero pervenuti, nel corso dell’anno, «diverse segnalazioni di operazioni sospette relative a flussi finanziari di ingente ammontare, scambiati tra imprese e soggetti attivi nel settore dell’energia eolica e società situate in Paesi a regime fiscale privilegiato».
La rilevanza assunta col tempo da questo tema, ha inevitabilmente spinto la stessa Commissione Parlamentare Antimafia ad occuparsene, come dimostrano le dichiarazioni dell’allora Presidente Giuseppe Pisanu il quale, nella seduta del 31 maggio 2011, sottolineava come una serie di fattori - i cospicui finanziamenti pubblici, la necessità per le grandi imprese produttive di relazionarsi con le amministrazioni locali allo scopo di ottenere le indispensabili autorizzazioni e concessioni e per la stipulazione delle convenzioni e l’esigenza di semplificazione e velocizzazione dei procedimenti di acquisto da terzi del diritto di superficie sui terreni sui quali installare gli impianti eolici o delle connesse servitù di passaggio o di elettrodotto - fossero in grado di determinare una significativa capacità di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali. Le prime indagini quali “Eolo”, “Minoa” e “Via col Vento”, sulle presunte infiltrazioni nell’eolico in Sicilia, avevano del resto contribuito a dare maggior concretezza a questi dubbi.
Nella Relazione si specificava come le vicende finanziarie fossero di particolare rilievo, sia dal punto di vista della numerosità dei soggetti coinvolti che della consistenza dei flussi movimentati, concentrati soprattutto in Calabria e Sicilia. Venne dunque avviato un attento monitoraggio, anche in considerazione di «evidenze finanziarie sul coinvolgimento della criminalità organizzata nella fase di costituzione di alcune “società veicolo” alle quali fanno capo gli impianti eolici». L’analisi finanziaria del fenomeno ha peraltro permesso di rilevare come tali società, talvolta a seguito di alcuni passaggi di proprietà, finissero nella titolarità di holding costituite all’estero. Tali compravendite azionarie comportavano possibili rischi di alterazione dei valori di mercato dei corrispondenti titoli societari. La UIF sottolineava altresì come,
La Sicilia, in particolare, si è dimostrata col tempo un’area particolarmente rilevante per le indagini su questa materia, come dimostra l’azione investigativa che cerca di rilevare le possibili relazioni tra boss mafiosi, esponenti del mondo della politica, dell’impresa e delle 28
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professioni.
“rischio di impresa”gli importi della corruzione alla politica locale e la percentuale per la famiglia mafiosa che controlla il territorio.
La Provincia di Trapani, in questo contesto di indagini - fermo restando come occorra sempre attendere pronunciamenti definitivi da parte della magistratura giudicante - emerge come realtà nella quale, più che altrove, appaiono concentrarsi le condizioni ideali per la possibile infiltrazione del crimine organizzato in una serie di settori rilevanti, tra i quali l’indotto derivante dagli impianti di produzione delle energie rinnovabili, come emerge anche dalla relazione annuale della Direzione nazionale antimafia (Dna), considerando soprattutto le particolari forme di finanziamento pubblico agevolato di cui beneficia tale mercato, un valore aggiunto che spingerebbe le organizzazioni criminali a tentare di intessere rapporti d’affari con funzionari pubblici e soggetti attivi nella catena autorizzativa.
Appare particolarmente rilevante l’analisi del ruolo che taluni professionisti, coinvolti nella realizzazione di impianti da fonti rinnovabili, possono finire per svolgere in qualità di “soggetti cerniera” tra soggetti legali e gli interessi indebiti del crimine organizzato nel settore delle rinnovabili. Il riferimento va, nello specifico, al cosiddetto “sviluppatore”, quel soggetto che (così come inquadrato dalla Dna), «spesso senza alcuna competenza specifica, ma grazie alla conoscenza del territorio, si occupa dei rapporti con gli enti locali, propone progetti (pur non avendo le risorse necessarie), definisce accordi con le amministrazioni e, solo alla fine, cede l’affare alle imprese contando sulle proprie relazioni privilegiate» (Legambiente, Rapporto Ecomafia 2013).
Le modalità di possibile infiltrazione del settore delle rinnovabili
Proprio questa figura, nel corso degli anni, è divenuta centrale nelle indagini e nelle valutazioni degli esperti sul rischio di “inquinamento” mafioso del mercato delle rinnovabili. L’analisi circa il rischio di un ruolo indebito che possa essere svolto da alcuni “sviluppatori” nell’avvicinare le organizzazioni criminali al mercato delle rinnovabili ha assunto particolare rilevanza anche a partire dalle indagini sullo sviluppatore di Alcamo Vito Nicastri.
Dalle ricostruzioni realizzate negli ultimi anni, è parsa evidente la possibilità da parte di Cosa nostra di gestire sotto ogni aspetto la realizzazione di un impianto eolico. Il quadro, più volte delineato in questi anni e ripreso dall’ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente, rappresenta una attività nella quale i soggetti criminali possono sviluppare una capacità di lavoro “in rete”, potendo coinvolgere amministratori pubblici, intermediari ed imprese.
Le indagini sullo sviluppatore Vito Nicastri e l’emergere di nuovi canali di infiltrazione
Si constata come in questo mercato i soggetti criminali possano entrare facilmente in relazione con chi possiede le terre sulle quali costruire (o è in grado di ottenerle facilmente); con chi fornisce le ditte ed i materiali per i lavori; con chi può avvicinare politici ed i soggetti amministrativi coinvolti nel procedimento autorizzativo. Nelle ricostruzioni emerge la possibilità di una infiltrazione attraverso società locali che siano diretta emanazione della sfera di potere delle cosche o, quantomeno, operanti sotto il loro stretto controllo, oppure tramite società di altra provenienza (dal nord o dall'estero), le quali possono includere nel novero del
Le indagini attivate nei suoi confronti sono volte a fare luce su investimenti di cui si sospetta l’illiceità, non solo in Sicilia, dove una quantità di autorizzazioni per impianti eolici è stata concessa ad imprese che hanno avuto a che fare con lui, ma anche in Campania e Calabria, come emerge dal Rapporto Ecomafia 2013. Sempre dal Rapporto emerge come egli possieda direttamente alcune aziende mentre altre sarebbero fittiziamente intestate a prestanome. Nicastri è sospettato di relazioni 29
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con il boss trapanese Matteo Messina Denaro, così come di relazioni con la mafia palermitana dei Lo Piccolo e con le ‘ndrine calabresi.
altri soggetti professionali). Intervenendo di fronte alla Commissione Speciale sulla Criminalità Organizzata, la Corruzione e il Riciclaggio di denaro del Parlamento Europeo (Crim) il 18 giugno 2013, il Capo del Centro Operativo Dia di Palermo, Colonnello Giuseppe D’Agata, ricostruisce la vicenda di Nicastri ricordando come alla sua figura si arrivi a seguito di un’attività investigativa volta ad identificare la presenza di presunti prestanome, anche insospettabili, impegnati nella gestione di patrimoni e/o nell’ effettuare investimenti per conto di Cosa nostra. Dagli accertamenti svolti su Nicastri, già in passato coinvolto in numerosi procedimenti penali riguardanti reati di natura finanziaria ed amministrativa, sono emerse relazioni e collegamenti con soggetti mafiosi, senza che avessero mai portato a un suo diretto coinvolgimento in indagini inerenti l’associazione mafiosa. Il suo comportamento, afferma il Colonnello, risultava «indicativo di una consapevole e costante disponibilità del soggetto a prestarsi agli interessi di cosa nostra per agevolarne i fini illeciti».
Rispetto alle diverse vicende inerenti presunte attività illecite nel settore delle rinnovabili nelle quali emerge il suo nome non si ha ad oggi, è bene ricordarlo, una compiuta verità giudiziaria, ragion per cui occorrerà attendere l’evoluzione degli eventi prima di poter pronunciare un giudizio definitivo sullo sviluppatore di Alcamo. Non si può tuttavia non rilevare la significatività dei provvedimenti di prevenzione personale e patrimoniale che lo hanno riguardato nel corso del 2013: lo scorso aprile, infatti, Nicastri si è visto confiscare beni per oltre un miliardo di euro, venendo altresì sottoposto alla sorveglianza con un obbligo di dimora per tre anni. Alla fine di settembre, inoltre, la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) ha messo sotto controllo patrimoni per un valore di oltre 3.500mila euro. Nell’analisi della Dia si ricostruisce l’attività dell’imprenditore, impegnato nella realizzazione e successiva vendita “chiavi in mano” di parchi eolici/fotovoltaici con ricavi milionari. L’indagine già portata avanti dalla magistratura, ricorda il sito “Liberainformazione”, ha rintracciato i collegamenti che vi sarebbero tra l’attività imprenditoriale di Nicastri e noti esponenti mafiosi, riconducibili alla consorteria della “cosa nostra” trapanese e “vicini” al latitante Matteo Messina Denaro.
Nicastri, imprenditore inizialmente impegnato nel settore della climatizzazione e dell’energia alternativa, è successivamente entrato nel settore della progettazione e installazione di impianti per la produzione alternativa di energia elettrica (segnatamente, di impianti eolici e fotovoltaici), divenendo poi uno sviluppatore ed assumendo una posizione di leadership nel mercato nazionale del settore. Nelle indagini volte a ricostruire le relazioni personali, connesse alle proiezioni economiche, che caratterizzavano la sua dimensione patrimoniale, è stato riscontrato un coinvolgimento con alcuni politici ed imprenditori, tutti successivamente tratti in arresto e ritenuti organicamente inseriti, o collegati, a Cosa nostra trapanese. Tali indagini hanno fatto emergere il metodo di approccio di Nicastri, il quale (sempre in base alla ricostruzione del Colonnello) riusciva a realizzare numerosi parchi eolici «attraverso un momento di accordo tra il versante politico e quello mafioso». Viene rilevato, in sostanza, un sistema corruttivo trilaterale, ritenuto
Di fronte a questi provvedimenti appare allora importante capire qualcosa di più sulla ricostruzione del profilo imprenditoriale di Nicastri (sempre ribadendo come una compiuta verità giudiziaria sulla sua esperienza debba ancora essere determinata) allo scopo di acquisire elementi utili a delineare le modalità attraverso le quali possa essere possibile per il crimine organizzato servirsi di professionisti quali gli “sviluppatori” per acquisire posizioni rilevanti nel mercato delle rinnovabili (secondo un modello di infiltrazione certamente replicabile in altri settori e con 30
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capace di mettere in comunicazione il mondo politico, quello imprenditoriale e quello mafioso, un sistema ritenuto alla base della realizzazione di diversi parchi eolici in Sicilia e che, secondo gli inquirenti, Nicastri stava portando in Calabria (tenuto anche conto dei rapporti emersi con noti esponenti di centri ad alta densità criminale quali Africo, Platì e San Luca e che sarebbero stati volti all’acquisto di terreni per la realizzazione di parchi eolici).
in cambio la promessa di tangente; l’imprenditore si impegnava promettendo tangenti nei confronti dei primi due soggetti facendo altresì eseguire i lavori ad imprese indicate alternativamente da uno degli altri due soggetti dell’accordo illecito. E’ interessante notare come lo stesso Colonnello D’Agata rilevi che «Il metodo utilizzato dal Nicastriha generato un ulteriore livello evolutivo del sistema mafioso facendo dialogare tre mondi (politica – imprenditoria - mafia) che, in teoria, non dovrebbero avere nessuna relazione tra loro, fungendo nel contempo da pedina fondamentale nella stagione della sommersione, quando la mafia in maniera indiretta si inserisce nel circuito dell’economia legale». In questo sistema il crimine organizzato, grazie ai propri ingenti proventi illeciti, si inserisce nel circuito imprenditoriale legale, distorcendo la libera concorrenza e ottenendo contestualmente l’obiettivo di riciclare proventi illeciti.
L’indagine ha consentito al direttore della Dia di inoltrare al tribunale competente la proposta di applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale finalizzata al sequestro dei beni, proposta accolta e integrata con ulteriori provvedimenti di sequestro emessi a seguito di nuovi accertamenti svolti dalla Dia di Palermo. Il provvedimento di sequestro è stato poi adottato dai giudici competenti condividendo l’impostazione accusatoria. Successivamente, nel Settembre 2010 si è aperto un iter processuale concluso nel 2013 con il provvedimento di confisca (il primo sopracitato, ndr.) comprensivo della già citata misura di sorveglianza speciale.
In questo contesto diviene importante ricordare come la misura di prevenzione adottata nei confronti di Nicastri (il provvedimento di sequestro poi tramutato in confisca lo scorso aprile) si sia segnalato per la sua eccezionalità (per la prima volta è stato applicato un provvedimento del genere sulla base di elementi indiziari puri ritenuti gravi, precisi e concordanti); la sua specialità (in quanto è stata dimostrata una sperequazione finanziaria, la cui impostazione veniva pienamente confermata dal Tribunale, nonostante le eccezioni della difesa) e la sua straordinarietà (in termini di valore economico del provvedimento, un traguardo unico tra le operazioni di polizia sinora svolte).
Viene altresì ricordato il ruolo che avrebbe svolto lo stesso Nicastri nell’ambito di un’altra indagine (“Operazione Eolo”) nella quale, pur non essendo imputato, rimaneva coinvolto nel reticolo degli interessi politicoimprenditoriale-mafiosi. In definitiva, la figura di Nicastri emerge (sempre dalle ricostruzioni del Colonnello) come quella di un soggetto che non risulta affatto organico o affiliato a Cosa nostra, ma che avrebbe beneficiato dell’appoggio di questa organizzazione nella sua attività economica, assicurando a questa ingenti guadagni e fornendo una facciata di legalità alla grande imprenditoria e alle famiglie mafiose. Nella ricostruzione del Colonnello D’Agata, il soggetto politico garantiva all’impresa l’emanazione di tutti i provvedimenti amministrativi necessari alla realizzazione dei parchi eolici, ricevendo in cambio la promessa di una tangente e la sua effettiva corresponsione; il mafioso autorizzava l’impresa ad operare sul proprio territorio ed il politico a gestire l’affare, ricevendone
Ai fini della nostra disamina risultano particolarmente importanti le valutazioni espresse dalla Dia anche a seguito di questa indagine, in quanto essa rileva la capacità di Cosa nostra di diversificare i propri investimenti, ponendosi al passo con i tempi in relazione all’andamento dell’economia; cercando di investire i proventi illeciti in nuove attività economiche; applicando una metodologia imprenditoriale per realizzare la 31
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quale essa ricerca soggetti incensurati e/o non collegati alla criminalità organizzata, servendosi altresì di nuove figure di professionisti che, con le loro competenze, sostengono l’organizzazione criminale nella ricerca di nuovi settori economici ove investire i capitali di origine illecita.
Nicastri, ndr.), le quali miravano ad ottenere sovvenzioni europee per decine di milioni di euro nel settore delle energie rinnovabili. La questione viene ribadita anche alla relazione della Dia relativa al primo semestre 2012, così come nell’ultima relazione semestrale disponibile (la seconda del 2012), laddove si ribadisce la validità del quadro emerso dagli accertamenti svolti in materia di certificazione antimafia per taluni appalti pubblici che ha portato all’emissione di provvedimenti interdittivi prefettizi allo scopo di escludere imprese sospettate di collusione con la criminalità organizzata.
E’ opportuno ribadire come, in considerazione del fatto per cui vi sono ancora aspetti pendenti riguardanti la valutazione dell’attività dell’imprenditore siciliano, sia doveroso attendere il raggiungimento di una compiuta verità giudiziaria prima di procedere a una valutazione definitiva sulla sua personale esperienza. Tale considerazione si applica necessariamente anche ai provvedimenti dei quali si parlerà nel seguito della trattazione, in quanto il solo scopo che tale lavoro si prefigge è quello di contribuire all’analisi delle forme che potenzialmente può assumere il rischio di infiltrazione del crimine organizzato nel settore delle fonti rinnovabili, un rischio che occorre valutare in via preventiva anche nelle attività imprenditoriali che si realizzano nel Veneto.
La relazione annuale della Direzione nazionale antimafia documenta altresì come, rispetto ad alcuni provvedimenti interdittivi, sia stato presentato ricorso e, a tal proposito, si ricorda che il Tar del Veneto (Sentenza n. 321 del 4 aprile 2012) ha respinto le doglianze confermando la validità degli elementi raccolti. E’ importante tuttavia sottolineare che su questa sentenza pende ricorso presentato al Consiglio di Stato, pertanto la ricostruzione della vicenda qui proposta deve ancora essere pienamente vagliata. Il ricorso qui richiamato, è stato presentato da una delle società toccate dal provvedimento prefettizio contro il Ministero dell’Interno e dello Sviluppo Economico (quest’ultimo non costituito in giudizio), allo scopo di ottenere l’annullamento del provvedimento di informativa tipica, emesso dalla Prefettura di Verona.
Il rischio di infiltrazione nel mercato delle rinnovabili in Veneto L’effettività del rischio di infiltrazione di Cosa nostra nel settore delle rinnovabili in Veneto è stata denunciata dalle relazioni semestrali della Dia a partire dalla seconda relazione semestrale 2011, nella quale si registra come gli accertamenti effettuati dalla Dia abbiano fatto ritenere che elementi della criminalità organizzata di origine siciliana possano aver stretto contatti con il mondo dell’imprenditoria veneta, specie nel campo delle energie rinnovabili, con il verosimile intento di cogliere opportunità di riciclaggio. In questo contesto, l’attività di monitoraggio di numerose imprese (esperita su attivazione delle rispettive Prefetture) ha consentito l’emissione, da parte della Prefettura di Verona, di cinque provvedimenti interdittivi tipici nei confronti di altrettante società, ritenute riconducibili alla sfera di operatività «di un soggetto, originario di Alcamo, già destinatario di misure di prevenzione personali e patrimoniali..» (Vito
Il Tar ha dunque dovuto giudicare il provvedimento di “informativa tipica” e di annullamento d’ufficio (in data 25 agosto 2011) del certificato antimafia rilasciato il 17 febbraio 2010 a una società (poi trasformata nella ricorrente) in ragione dell’intervenuta sottoposizione (nel settembre 2010) del soggetto ritenuto proprietario originario di tale società, a misura di prevenzione personale e patrimoniale, ai sensi della normativa antimafia (misura e procedimento pendenti alla data della sentenza). La ricorrente lamentava la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 (in materia di comunicazione di avvio del procedimento) oltre alla violazione dell’art. 32
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10 c. 7, lett. C, del D.P.R. 3.6.1998 n. 252 (relativo alle informazioni del Prefetto nell’ambito del Regolamento recante “Norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia”), lamentando altresì eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza di motivazione ed ingiustizia manifesta. La doglianza relativa alla mancanza di avviso di inizio del procedimento è stata ritenuta dal Tar infondata, facendo riferimento alla prevalente e recente giurisprudenza che ne esclude la necessità in conseguenza dell’urgenza del provvedimento.
dell’assetto societario e i complessi molteplici trasferimenti di sedi e di capitali dall’Italia a Paesi “off shore” e quindi il loro rientro, dopo aver acquisito autorizzazioni e finanziamenti da parte dello Stato». Dai fatti, l’Amministrazione competente deduce, in modo ritenuto non manifestamente illogico dal collegio giudicante, «il rischio di infiltrazioni mafiose, il sospetto di “esistenza attuale di una situazione di comunanza di interessi” tra il predetto soggetto e la società anche richiamata». Tali conclusioni, ricorda il Tar, risultano suffragate dalla documentazione depositata, con particolare riguardo alla relazione della Prefettura di Verona e la nota della Dia di Padova, «documentazione dalla quale si conosce l’esistenza di procedimenti connessi a quello qui in essere nei confronti di almeno altre tre delle predette società e di numerosi punti di contatto, specie fino al 2009, tra appartenenti alla catena di controllo societaria riconducibile alla ricorrente ed il soggetto summenzionato sottoposto a misura di prevenzione ovvero persone a lui collegate».
Con riferimento alla censura relativa al merito, il collegio giudicante ricorda come il provvedimento assunto dall’amministrazione competente debba prescindere dalla necessaria sussistenza di condanne o responsabilità penali, ma consista in un’azione di prevenzione, rispetto alla quale risultano rilevanti anche fatti e vicende solo sintomatici ed indiziari, ovvero globalmente valutati, secondo un giudizio prognostico espresso discrezionalmente dal Prefetto ai sensi di legge. Pertanto, è sufficiente che emergano possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose affinché sia ritenuta sconsigliabile l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la P.A.
In conclusione, ribadendo come la legge e la giurisprudenza richiedano solo la presenza di indizi e sintomi che giustifichino, secondo le discrezionalità della Prefettura, il sospetto di rischi di infiltrazione, e ricordando come non vadano esclusi elementi di indagini o giustificativi di sospetti che possono risalire ad eventi verificatisi a distanza di tempo (come nel caso qui presente, e censurato dalla ricorrente, di un lasso di tempo tra gli accennati fatti pregressi, inclusa la predetta compravendita della società poi trasformata nella ricorrente e il provvedimento impugnato, lasso di tempo peraltro non ritenuto dal TAR particolarmente lungo), la Corte dichiara che la causa petendi debba essere disattesa ed il ricorso respinto.
La sentenza, pur non potendo ripercorrere le valutazioni di merito dell’Amministrazione, venendo chiamato a valutarne l’estrinseca legittimità o meno, ravvisa come il provvedimento impugnato non sia incompleto, né inesatto o contraddittorio nella motivazione circa la sussistenza dei presupposti per i quali si applica l’art. 10 c. 7 lett. c D.P.R. 252/98. Il provvedimento, ricorda il Collegio giudicante, evidenzia l’appartenenza originaria della società (poi trasformata nella ricorrente) a un soggetto poi sottoposto a misura di prevenzione anti-mafia (Vito Nicastri, ndr.) «e i guadagni derivanti dalla compravendita della società, l’appartenenza di tale società a una “holding” formata da una miriade di altre simili società tutte riferite a familiari dello stesso soggetto, le dettagliate ripetute trasformazioni
Come anticipato, contro questa sentenza è stato presentato ricorso al Consiglio di Stato, pertanto la ricostruzione qui proposta non risulta ancora confermata e dunque occorrerà attendere la conclusione dell’iter giudiziario prima di dare un giudizio nel merito. Del resto, l’oggetto della presente trattazione non è certo quello di esprimersi su alcuna delle 33
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vicende richiamate nel presente lavoro, anche perché esistono ancora iter giudiziari aperti la cui conclusione occorrerà attendere nel pieno rispetto dei diritti di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti.
Straordinario Antimafia”), sia sul piano della prevenzione che della repressione degli illeciti; poi con le misure approntate dalla legge n. 159/2011, recante il cosiddetto “Codice Antimafia”, con particolare riferimento alle misure in termini di documentazione antimafia.
Al di la di quanto in futuro potrà emergere rispetto alle circostanze richiamate, esse vengono qui analizzate al solo scopo di valutare la presenza di un rischio di possibile infiltrazione nel mercato delle rinnovabili in ogni area del Paese e, contestualmente, ribadire l’esigenza di prevenire qualunque rischio di infiltrazione nel mercato legale e nelle attività che (come nel caso delle rinnovabili) sono interessate da provvedimenti della pubblica amministrazione.
Il 12 febbraio 2013, sono infatti entrate in vigore (in via anticipata, grazie all’intervento del decreto legislativo n. 218/2012) le norme contenute nel Libro II del Codice, dapprima congelate in attesa dell’attivazione della Banca dati nazionale della documentazione antimafia (comunque rimasta in stand-by al momento del provvedimento), le quali prevedono il mantenimento della distinzione tra comunicazione (che attesta l’eventuale sussistenza di misure di prevenzione a carico di una impresa) e informazione antimafia (la quale accerta anche la presenza di tentativi di infiltrazione all’interno della società). Si prevede un cambio delle modalità di acquisizione della comunicazione antimafia, che potrà essere rilasciata solo dal Prefetto della provincia in cui ha sede l’ente richiedente tramite l’utilizzo di collegamenti telematici con le altre banche dati esistenti (Centro elaborazione dati delle forze di polizia e Camere di commercio). L’informazione antimafia continuerà ad essere rilasciata dalle Prefetture.
Agire sulle norme e sulle politiche per evitare rischi di infiltrazioni nel mercato delle rinnovabili La sentenza del Tar Veneto spiega in maniera molto chiara il senso dell’”interdittiva tipica” e, contestualmente ci richiama al senso profondo di questo lavoro, unicamente teso a favorire la consapevolezza del possibile rischio di infiltrazione del crimine organizzato nel mercato delle rinnovabili in ogni parte del paese. In particolare, ciò che il provvedimento di interdittiva tipica rappresenta, e che la sentenza del Tar riafferma, è l’esigenza di utilizzare gli strumenti oggi offerti dall’ordinamento allo scopo di prevenire qualunque possibile rischio di infiltrazione del crimine organizzato in attività che coinvolgono l’amministrazione pubblica e/o che sono alimentati da fondi pubblici (come nel caso delle rinnovabili).
Particolarmente rilevante è l’ampliamento, apportato dal “Codice”, dell’elenco delle situazioni dalle quali si potrà desumere il tentativo di infiltrazione (l’informativa diviene interdittiva anche in caso di condanna, comprese quelle non definitive, per i reati di “turbata libertà degli incanti” e “turbata libertà del procedimento di libera scelta del contraente”, oltre che per “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” così come nel caso l’impresa non abbia denunciato i reati di corruzione ed estorsione, a meno che non vi sia stata costretta per stato di necessità o legittima difesa). Il Decreto ha altresì arricchito il catalogo delle situazioni in odore di mafia, desumendo l’infiltrazione anche dalla violazione dell’obbligo di tracciabilità dei pagamenti ex legge n. 136/2010 (l’informazione vieterà la stipula
Di fronte a questi possibili rischi di infiltrazione, diviene ancor più urgente comprendere quali sono quelle inadeguatezze del nostro ordinamento capaci di creare le condizioni per l’inserimento del crimine organizzato nell’economia legale, soprattutto in settori decisivi per il nostro futuro quali la green economy. Va detto che alcuni passi avanti rispetto alla prevenzione dei rischi di infiltrazione negli appalti si sono certamente avuti in questi anni; dapprima, con la legge n. 136/2010 (il cosiddetto “Piano 34
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del contratto solo per comportamenti reiterati nell’arco dei cinque anni). Viene ampliata la schiera dei soggetti sottoposti a verifica, che fa registrare l’ingresso in elenco di familiari conviventi.
istituti di credito e liberi professionisti) per l’affinamento continuo degli strumenti antiriciclaggio a loro disposizione. Infine, considerando la rilevanza che, anche alla luce della presente disamina, riveste il tema della prevenzione (oltre che del contrasto) delle ecomafie, occorre realizzare un quadro normativo adeguato in materia di tutela penale dell’ambiente, attuando quanto viene proposto ormai da vent’anni da Legambiente, con particolare riguardo all’introduzione dei delitti ambientali nel nostro Codice Penale di modo da annoverare, accanto al già previsto reato di “attività organizzata di traffico illecito di rifiuti”, una serie di fattispecie e misure – come l'inquinamento ambientale; frode in materia d’ambiente, danneggiamento delle risorse ambientali, l'alterazione del patrimonio naturale e disastro ambientale, insieme all’obbligo di bonifica e, ove possibile, di ripristino dei luoghi compromessi a carico del condannato -, da inserire in una più complessa opera di adeguamento delle previsioni sanzionatorie; di rafforzamento delle attività di controllo e delle misure repressive, con particolare riferimento all’attività delle Direzioni Distrettuali Antimafia; di facilitazione della presenza in giudizio delle associazioni ambientaliste.
In futuro, il rilascio del provvedimento interdittivo impedirà sempre la stipula del contratto e determinerà in ogni caso la sua risoluzione in fase esecutiva (scompaiono così le c.d. “informative atipiche”, le quali lasciavano alla discrezionalità delle stazioni appaltanti la decisione sulle sorti del contratto). Viene confermata la validità della comunicazione antimafia per sei mesi dalla data di acquisizione, aumentata a un anno nel caso dell’informazione, sempre che non intervengano mutamenti nell’assetto societario e gestionale dell’impresa, da comunicare al Prefetto entro 30 giorni a pena di sanzione pecuniaria. Mancano, tuttavia, una serie di provvedimenti essenziali allo scopo di prevenire e contrastare adeguatamente le possibili commistioni tra soggetti dell’economia legale e le organizzazioni criminali, le quali possono arrivare ad interessare qualunque settore, incluso il mercato delle rinnovabili. Il riferimento va, anzitutto, agli interventi che occorre approntare in materia di lotta alla corruzione (specie considerando l’influenza corruttiva che le mafie possono esercitare sulle amministrazioni chiamate a decidere su appalti rilevanti, inclusi quelli inerenti le rinnovabili), in quanto appare necessario rafforzare il quadro normativo, peraltro recentemente rivisto dalla legge n. 190/2012 (ad esempio alzando ulteriormente le pene per le nuove fattispecie di “traffico di influenze illecite” e “corruzione tra privati” e qualificando in modo più adeguato la previsione di responsabilità amministrativa delle imprese ex d.lgs. n. 231/2001).
Infine, appare certa la necessità di un rilancio del mercato delle rinnovabili, legando il più possibile tali politiche con quelle di riqualificazione delle aree depresse e a maggior rischio di influenza criminale. Tuttavia è evidente che nulla di tutto ciò potrà essere garantito senza l’impegno del mondo delle imprese (peraltro sollecitate a collaborare contro le possibili infiltrazioni mafiose nel mercato da provvedimenti quali la legge n. 180/2011) e delle organizzazioni di rappresentanza del settore (peraltro sollecitate a collaborare contro le possibili infiltrazioni mafiose nel mercato da provvedimenti quali la legge n. 180/2011), anche se alcune buone prassi riscontrate in questi anni fanno capire come la sfida ai rischi di infiltrazione delle mafie nel mercato delle rinnovabili possa essere vinta.
Occorre altresì provvedere al riordino della disciplina antiriciclaggio (ad esempio realizzando una rimodulazione delle disposizioni sanzionatorie ed introducendo il reato di “autoriciclaggio”), una materia sulla quale, peraltro, sarà sempre fondamentale l’impegno dei soggetti tenuti a collaborare alla prevenzione di tale reato (in particolare
L’autore ringrazia, per le sue osservazioni, Mauro 35
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Meggiolaro.
Recupero dei rifiuti: non sempre a fin di bene Il caso Serenissima e le difficoltà dei controlli di Mariateresa Ariniello – Osservatorio ambiente e legalità Venezia La plastica da riciclare partiva dal porto di Venezia. Destinazione Cina. I carabinieri del Noe scoprono che quella plastica era pregna di sostanze pericolose. Il lucroso traffico andava avanti da lungo tempo. Come hanno agito i trafficanti? E quali sono state le falle nel sistema di controllo?
Il recupero di rifiuti, apparentemente promosso come un’azione a favore dell’ambiente, frequentemente si rivela come una giustificazione mirante a dirottare i cascami e gli avanzi industriali, spesso pericolosi, in zone già martoriate dalla povertà e dallo sfruttamento, in cui costa meno smaltirli e costerebbe anche meno pagare i danni da essi causati. Gli esiti dell'operazione Serenissima condotta dal Nucleo operativo ecologico (Noe) di Venezia a partire dal dicembre del 2005 confermano l'esistenza di una prassi che ormai da anni molte associazioni e organizzazioni non profit ambientali denunciano: nei paesi sviluppati gli elevati costi di smaltimento, spingono molti imprenditori a esportare i rifiuti nelle aree povere in cambio di ingenti finanziamenti, a discapito del godimento di quei diritti fondamentali, come il diritto ad una vita dignitosa e ad un ambiente salubre. Una volta inviati, i rifiuti sono depositati in discariche a cielo aperto (sham recycling) o impiegati nella produzione di casalinghi e giocattoli (dirty recycling), mettendo a rischio l’ambiente e la salute delle persone che le lavorano o che godono del prodotto finito.
essere spediti in Cina, da sempre uno dei maggiori partner commerciali, soprattutto per quanto concerne l’importazione di carta da macero e rifiuti plastici. I documenti accompagnanti la spedizione denunciavano la non pericolosità dei rifiuti contenuti nei containers, ma dalle analisi effettuate è emerso che circa il 70 per cento del carico era composto da una miscelazione di rifiuti contenenti sostanze pericolose per l’ambiente. Rifiuti, questi, classificati come pericolosi e non esportabili secondo la normativa vigente in materia. Presso i quattro stabilimenti della ditta inquisita operanti nel territorio veneto i rifiuti, provenienti da diverse industrie nazionali e dalla raccolta differenziata di alcuni comuni della provincia patavina, erano caricati in containers e diretti verso i maggiori porti del Nord per poi essere spediti seguendo le medesime rotte commerciali. La Levio Loris srl, regolarmente iscritta all’albo nazionale dei gestori ambientali, accumulava rifiuti per quantità superiori a quelle previste dalla legge e, pur essendo solo autorizzata alla raccolta, selezione dei rifiuti e compattazione in balle (a seconda della tipologia), dichiarava con false etichette l’avvenuta operazione di recupero dei rifiuti stessi. In realtà, l’azienda non dispone delle tecnologie e autorizzazioni necessarie per trasformare i rifiuti in prodotto. Una volta organizzati in balle, la ditta avrebbe dovuto
Seguendo questa mera politica commerciale, flaconi contaminati da fitofarmaci, anticrittogamici, erbicidi, antiparassitari, vernici, detergenti industriali, big bags contenenti rilevanti quantità di sostanze per uso zootecnico, fertilizzanti, erano pronti per 36
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inviare i rifiuti presso altre società autorizzate ad eseguire la triturazione, il lavaggio, la macinazione e l’essicazione del prodotto. Solo al termine di questa procedura di recupero, il rifiuto diviene materia prima secondaria da impiegare nel processo produttivo.
definitivo necessario per la partenza. Per quanto concerne la nostra area geografica, l’ufficio competente ha sede a Marsiglia; si dispone che la richiesta di ispezione sia inviata sette giorni prima la partenza del carico, ma non vi è fatta menzione alcuna riguardo i tempi necessari per il rilascio del documento definitivo. La sede operante in un altro Paese potrebbe, con maggiore probabilità, ridurre il numero di controlli fisici che devono essere realizzati sul carico, compromettendo la veridicità del carico stesso. È bene precisare che i rifiuti destinati al recupero compattati in containers sono oggetto di due ispezioni, la prima presso la ditta esportatrice o spedizioniera e la seconda in porto. Soventemente, purtroppo, la prima ispezione è assolta attraverso semplici fotografie scattate dallo spedizioniere ed inviate telematicamente all’ente.
La Cina, dotandosi di norme sempre più stringenti sta cercando di arginare qualsiasi attività, legale e non, che mini la salubrità dell’ambiente. Infatti, oltre quanto previsto dalla Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti di rifiuti pericolosi e il loro smaltimento, in vigore dal 5 maggio 1992 e recepita a livello europeo dal regolamento 1013/2006/CE, essa ha richiesto l’osservanza di ulteriori obblighi, quali: · la licenza SEPA rilasciata alla ditta importatrice dall’amministrazione per la protezione statale dell’ambiente; · la registrazione della ditta esportatrice presso l’amministrazione generale cinese per la supervisione della qualità, ispezione e quarantena come impresa estera che fornisce rifiuti solidi importati come materia prima e, solo in seguito, il rilascio della licenza AQSIQ; · la certificazione di ispezione comprovante l’avvenuta verifica del carico prima della spedizione. Tale certificato è rilasciato da un istituto di ispezione e controllo autorizzato ad attestare il rispetto degli standards ambientali cinesi, la cui competenza è definita dall’Amministrazione cinese per la protezione statale dell’ambiente su base geografica. Nonostante i serrati obblighi e i numerosi controlli da parte delle autorità, l’evidenza empirica ha rivelato alcune criticità.
In relazione al caso di specie, grazie al supporto logistico di una donna di nazionalità cinese, la ditta inquisita si è procurata indebitamente la licenza per l’esportazione, riportando il numero di licenza AQSIQ di altre aziende italiane e non, oltre poi a falsi documenti comprovanti l’avvenuta ispezione. La ricerca condotta ha, infatti, evidenziato, la facilità a reperire sul web i modelli necessari (vedi a fianco) per l’esportazione, come il documento CCIC attestante l’ispezione; con la semplice bacchetta magica di un programma grafico, la documentazione può essere modificata ed adattata alle singole spedizioni senza l’aiuto di vere e proprie organizzazioni mafiose. Una seconda anomalia riscontrata riguarda la diatriba in corso tra coloro che promuovono il consolidamento di norme dettagliate per l’esportazione di rifiuti destinati al recupero e coloro che, invece, si fanno portavoce di un libero commercio e che, sempre più spesso, spingono ad uno snellimento delle procedure previste per ridurre i tempi d’attesa nelle aree portuali. Come evidenziato precedentemente, il carico è autorizzato alla partenza solo con il rilascio del documento definitivo comprovante la seconda ispezione che deve contenere, tra le varie informazioni, anche il numero di polizza
La prima concerne le tempistiche per l’ispezione del carico: i cinque uffici accreditati al controllo dal governo cinese e competenti in aree geografiche differenti operano con intervalli di tempo difformi. Infatti, per l’ufficio che ha sede a Rotterdam la richiesta di ispezione effettuata da parte dell’esportatore o dello spedizioniere deve pervenire entro cinque giorni dalla partenza del carico e, nei tre giorni lavorativi seguenti, un ispettore effettuerà il controllo di conformità per la concessione del documento 37
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di carico: si tratta dell’elemento comprovante la presa in carico da parte del vettore e l’avvenuto imbarco della merce dal porto di partenza. In Italia tale polizza viene rilasciata solo in seguito al carico dei containers sulla nave. Ma, allo stesso tempo, la merce non può essere caricata se non vi è il documento d’ispezione definitivo comprovante la piena corrispondenza del campione prelevato con i rifiuti contenuti nei containers. Questa falla procedurale incrementa i tempi di sosta del carico nei porti, garantendo allo stesso tempo il rispetto della normativa ambientale dello Stato che riceverà il carico, a discapito delle politiche commerciali.
fatiscenti e non adeguatamente attrezzate. I paesi occidentali trasferiscono soventemente i macchinari ormai obsoleti e non privi di qualsivoglia sistema di sicurezza. Si tratta di aree in cui non è prevista nessuna procedura per rispondere in modo tempestivo alle emergenze e i corsi d’acqua e le aree a cielo aperto accolgono molti dei residui industriali. Mancano strade e servizi che garantiscano la sicurezza dei trasporti, condizioni di lavoro dignitose, strutture mediche che assicurino e proteggano la salute umana. La carta, infatti, mischiata ad altri rifiuti e contenente anche sostanze pericolose, viene lavorata dagli operai nel mancato rispetto delle norme preventive e su montagne di rifiuti accatastati.
Il grido al diritto allo sviluppo economico incitato dai paesi in via di sviluppo e dalle economie emergenti, alla ricerca affannosa di materie prime, sempre più spesso recuperate da rifiuti e pagate a basso costo sottolinea come il movimento transfrontaliero di rifiuti non è solo un problema ambientale ma anche economico.
Imprenditori con pochi scrupoli sono disposti ad impiegare qualsiasi materiale pur di guadagnare. È, infatti, ipotizzabile che le materie prime ricavante da una scorretta gestione ecologica dei rifiuti siano impiegate nella produzione di beni generalmente usati nella quotidianità. Cresce il numero di sequestri di prodotti di origine cinese non conformi alle direttive europee perché contenenti sostanze altamente tossiche per la salute umana, non utilizzate nei processi di produzione.
La direttiva europea 2008/98/CE in vigore dal 12 dicembre 2008 sancisce che i rifiuti destinati al recupero acquisiscono l’etichetta di rifiuto quando quest’ultimo può essere utilizzato nella produzione o per scopi specifici, trova allocazione sul mercato ad un prezzo positivo, il suo impiego non genera danni all’ambiente e alla salute umana. Questa snellimento europeo ha permesso di ridurre gli oneri economici e le tempistiche burocratiche necessarie per il loro movimento, accogliendo la richiesta dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) ad eliminare qualsiasi restrizione che limiti l’esportazione e l’importazione di merci negli scambi commerciali tra gli Stati. Ma cosa accade quando un imprenditore, produttore di rifiuti da recupero, decide di esportare la merce in uno Stato che adotta norme e politiche adeguate invece di inviarla in Paesi in cui gli standards di controllo, le garanzie ambientali e sanitarie sono scarsi? Si commette una violazione della disposizione dell'Omc sopracitata, favorendo uno stato a svantaggio di un altro? Le molte industrie asiatiche della carta sono ubicate in strutture
Ci chiediamo come si possa giustificare l’esportazione della fonte stessa di inquinamento in quei Paesi in cui le probabilità di mitigare gli impatti sull’uomo e sull’ambiente sono notevolmente ridotte e si continua a bruciare a cielo aperto per recuperare quel po’ di rame o per ammorbidire la plastica, dalla cui vendita si ricavano solo pochi dollari. Uno Stato democratico, promotore dei diritti umani e delle garanzie ambientali non può accettare l’idea di fornire, in linea generale, materie prime secondarie ad aziende che non adottano i minimi standards. Le aziende importatrici devono rispondere ai medesimi requisiti richiesti alle ditte italiane evitando così non solo il riciclaggio sporco e favorendo una corretta competizione tra le aziende a livello globale. 38
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L’operazione Serenissima si è conclusa il 24 giugno 2009. I reati contestatati vanno dall’associazione per delinquere finalizzata all’ingiusto profitto, alla violazione degli obblighi di tenuta dei registri e dei formulari, dal traffico illecito di rifiuti ed attività ad esso connesse, alla dichiarazione del falso e favoreggiamento. Inoltre, lo studio di particolari relazioni personali/professionali ha anche evidenziato un lieve livello di corruzione, contestando così ad un comandante della stazione dei carabinieri il reato di rivelazione ed utilizzazione dei segreti d’ufficio.
certificazione sempre più stringenti. Come per qualsiasi azione illegale, il numero dei reati è direttamente proporzionale alla frequenza e alla qualità dei controlli. A tal fine, è necessaria una visione strategica e più ampia da parte di chi opera per la cessazione degli illeciti. Inoltre, i documenti necessari all’esportazione devono consentire ai soggetti preposti al controllo e alla verifica di comprendere se l’impianto di destinazione in questione sia effettivamente in grado di svolgere operazioni ecologicamente corrette. Infine, a noi tutti spetta promuove la cultura alla legalità, quale arma indispensabile per cercare di rompere il sistema dell’illegale, far maturare una cultura incentrata sulla responsabilità ambientale, su valori etici e morali perché la tutela dell’ambiente può svilupparsi solo in seno ai cittadini.
Nel corso del 2012 si è registrato un decremento delle esportazioni di materie plastiche contaminate da sostanze pericolose; questo dato può essere, verosimilmente, correlato ad un incremento delle azioni di monitoraggio e delle procedure di
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La Commissione V.I.A. della Regione Veneto di Claudia Guidorzi – Osservatorio ambiente e legalità Venezia Un organo strategico per la tutela dell'ambiente. Peccato che la commissione regionale per la valutazione dell'impatto ambientale non sia composta da veri esperti in materia e che le nomine sembrano rispondere più ai voleri dei partiti che alla necessaria professionalità
La Valutazione di Impatto Ambientale (Via) è un procedimento amministrativo di derivazione comunitaria, che impone di prevedere e valutare gli impatti di un determinato progetto sull’ambiente, per ridurre o evitare le alterazioni sull’ecosistema. Si potrebbe considerare la Via come un efficace strumento, nelle mani delle amministrazioni pubbliche, di attuazione concreta e quotidiana dello sviluppo sostenibile.
Commissione è, per sua definizione un organo tecnico, legato però a doppio filo al potere politico: è la Giunta regionale che seleziona, nomina, stabilisce le indennità e determina la durata degli incarichi dei componenti. Non solo. E’ emerso che 4 dei commissari esperti, su 9, ricoprono o hanno ricoperto cariche elettive in Comuni del Veneto. La presidenza. La presidenza della Commissione è attualmente ricoperta, non come ci si potrebbe ragionevolmente aspettare -e come prescritto dalla LR 10/1999 istitutiva della Commissione VIA-, dal Segretario regionale con competenza in materia ambientale, ma bensì dal Segretario regionale infrastrutture e mobilità.
Le amministrazioni preposte alla valutazione, sono chiamate ad effettuare una ponderazione puntuale del complesso degli impatti del progetto sull’ambiente, inteso come quel sistema di relazioni fra diversi fattori: «antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici». L’oggetto diretto di tutela è l’ambiente, non in quanto tale, ma in quanto risorsa essenziale per la vita. La valutazione ambientale dei progetti ha come finalità la protezione della salute umana.
Come ampiamente osservato nel Dossier VIA (www.osservatorioambientelegalitavenezia.it) , a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti, in capo alla Segreteria alle infrastrutture si concentrano la valutazione dei progetti, la valutazione della compatibilità ambientale e anche, per effetto della recente riorganizzazione, la valutazione urbanistica e paesaggistica degli stessi. A cui si sommano le, a tutti note, ulteriori posizioni ricoperte dal segretario regionale alle infrastrutture e mobilità, in situazione di palese conflitto di interessi.
Da queste premesse di ordine generale si può chiaramente comprendere l’importanza dell’istituto della Via e l’incisività del potere conferito all’Amministrazione chiamata alla valutazione. Ed è sulla base di queste premesse che si è tentato di approfondire il funzionamento della Commissione regionale Via della Regione Veneto, le cui peculiarità possono essere così brevemente riassunte.
I commissari esperti e i componenti esperti esterni. I nove componenti tecnici della Commissione Via dovrebbero essere nominati per l’esperienza maturata in ambiti di competenze ben determinati dalla normativa
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regionale: analisi e valutazione ambientale; pianificazione urbana, territoriale e del paesaggio; tutela delle specie biologiche e della biodiversità; tutela dell’assetto agronomico e forestale; difesa del suolo, geologia e idrogeologica; contenimento degli inquinanti; analisi dei rischi di incidenti industriali; inquinamento acustico e radiazioni; beni culturali e ambientali; salute ed igiene pubblica.
congiuntamente a Via e ad Aia, accade che ogni membro della commissione esprime il proprio parere, tanto sulla Via quanto sull’Aia. Per lo schiacciante peso numerico dei rappresentanti della Regione Veneto, ed in particolare dei nove Commissari che ricordiamo essere degli esperti chiamati a fornire un parere tecnico sull’impatto ambientale di un progetto, consente alla Regione Veneto di avere l’ultima (o l’unica) parola non solo sulla Via ma anche sull’Aia.
Molte quindi delle specifiche competenze e specializzazioni richieste dalla normativa regionale, non sono effettivamente rappresentate nell’attuale composizione della commissione. A comprova di ciò, il fatto che nel 2010 sono stati nominati ulteriori 7 esperti esterni, nominati anch’essi per un quinquennio.
Un sistema così strutturato annulla totalmente la possibilità di intervento di Comune e Provincia ogni qual volta, nell’ottica della semplificazione amministrativa, il procedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale sia incardinato nel procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale.
La molteplicità e l'intreccio degli interessi dei commissari. Diversi componenti, attraverso il possesso di quote azionarie e la loro attività professionale, intrecciano interessi riguardanti le materie di competenza della commissione. Questo sistema sfumato, che avalla l’intreccio delle posizioni spesso rende difficile la convivenza di più cariche in capo alla medesima persona.
Altri scenari possibili?
I costi. I compensi dei commissari, determinati dalla medesima Giunta Regionale, nell’anno 2011 si collocavano tra il 18 mila euro ai 28 mila euro, cadauno, per un totale di 380.000 euro (vds. allegato decreto del dirigente della direzione tutela ambiente n. 210 del 25 novembre 2011, recante impegno di previsione di spesa per compensi dei consulenti esperti ed esperti esterni della Commissione Regionale Via per l’anno 2011).
Se tuttavia, si ritiene che avvalersi di una commissione specifica sia la scelta migliore, si potrebbe (dovrebbe?!) quanto meno, nel rispetto del principio di trasparenza, rendere pubbliche le graduatorie dei candidati suddivisi per ambiti di competenza specifici.
Analizzando le esperienze di altre Regioni, si scoprono diverse realtà. Si poterebbe pensare di non istituire una Commissione ad hoc per la Via, ma avvalersi dei tecnici interni all’amministrazione per le istruttorie tecniche e incentivare la collaborazione fra tutte le amministrazioni coinvolte in sede di Conferenza di servizi.
Le anomalie rilevate nell’ambito di questa specifica ricerca sono state portate all’attenzione della procura della Corte dei conti della Regione Veneto, affinché possa valutare le effettive modalità di nomina, le ragioni che hanno determinato la nomina degli esperti esterni e la sussistenza di eventuali ipotesi di responsabilità contabileamministrativa.
Il funzionamento della commissione. Via e Aia (autorizzazione ambientale integrata). Quando siamo in presenza di un progetto per cui, nell’ottica della semplificazione procedimentale, è previsto che si proceda
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