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Osservatorio Balcani e Caucaso

Sarajevo vent'anni! Piero Del Giudice 3 aprile 2012 Le vicende del conflitto bosniaco, la lotta tra il Bene e il Male, tra le logiche della convivenza e della pulizia etnica. Il giornalista Piero Del Giudice ricorda, vent'anni dopo, l'inizio dell'assedio di Sarajevo La città che può fermare la guerra non riesce a farlo. Fallisce la Sarajevo multiculturale. Si oppone tradizione e complessità della società civile (nei quartieri nuovi, Ćengić Vila, Dobrinja, i matrimoni misti superano il 40%) alla Sarajevo - immagine tratta da Sarajevo il libro dell'assedio (ADV ferinità delle stragi e pulizie etniche edizioni, Lugano) pagine 220; 32 tavole fotografiche; € 15 lungo la Drina (da Bijeljina a Višegrad dove si sgozza la gente sulle spallette del ponte di Ivo Andrić). Nella grande manifestazione del 4-5-6 aprile 1992 per la pace, convocata nella capitale bosniaca, affluiscono trecentomila persone. Il secondo e il terzo giorno tiratori scelti sparano dall’alto sulla folla, cadono i primi civili, comincia la battaglia per Sarajevo e la “blokada”. Sarà l’assedio più lungo.

Nazionalismi Lo speciale

È l’evoluzione e il ‘tradimento’ della sinistra - la Lega socialista nelle mani di Slobodan Milošević - a far precipitare la situazione. Dentro le tempeste di un Paese in crisi e di fronte alle resurrezioni dei nazionalismi sconfitti nella resistenza della Seconda guerra mondiale, Milošević decide di coricarsi sull’onda nera che monta e cavalca il nazionalismo serbo.

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Sarajevo il libro dell'assedio Il 5 aprile, alle 18 - nell’ambito delle manifestazioni del ventesimo – al Historijski Muzej Bosne i Hercegovine (Museo di Storia di Sarajevo, già Museo della Rivoluzione), via Zmaja od Bosne, 5, a fianco del Museo Nazionale della Bosnia Erzegovina, di fronte all’Holiday Inn, l’ufficio cultura dell’Ambasciata italiana promuove la presentazione del volume Sarajevo il libro dell’assedio (ADV edizioni, Lugano, marzo 2012) antologia di testi sull’assedio di Dževad Karahasan, Tvrtko Kulenović, Abdulah Sidran, Izet Sarajlić, Marko Vešović. Lo presentano e discutono con il pubblico Dževad Karahasan, Abdulah Sidran, Marko Vešović, Piero Del Giudice e Daniele Onori

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Osservatorio Balcani e Caucaso La sinistra non fa proposte di riforma, abbandona la mediazione politica tra repubbliche e aree di crisi della federazione, tra diversità culturali e comunitarie. Concorre con i nazionalismi e le loro bande per un futuro di ‘Grande Serbia’. “Là dove è un serbo lì è Serbia”. Il nazionalismo croato - leader l’ex-generale di Tito, Franjo Tudjman - guarda ad Ante Pavelić ‘Primo capo dello Stato croato’ e sogna la ‘Grande Croazia’. Le divise dei soldati sono ancora sommarie, ma il rosario alle spalline dove passa la cinghia del kalashnikov lo hanno tutti. A fine febbraio 1993, nella Bosnia coperta di neve, si chiude l’accordo serbo-croato e si disegna la spartizione del Paese tra le due più forti repubbliche. L’idea è quella di confinare in alcuni quartieri di valle da Marindvor a Vraca - la comunità musulmana tagliando la città e chiudendo la porta sud. «Dentro come topi nel quartiere turco, tutti dentro la Baščaršja» dice Radovan Karadžić che, nell’aprile 1992, è ancora seduto alla triplice presidenza insieme ad Alija Izetbegović e Stjepan Kljuić.

Morire per Sarajevo Morire per Sarajevo è allora battersi per la città che muore sotto le granate e all’incrocio delle strade, sotto il tiro dei cecchini, per i tavuti – le assi funerarie del rito islamico - già pronti e accatastati nei cortili delle moschee, per una lingua, letteratura che scompare, un’arte tolta dai musei e nascosta nelle casse (e gli stećci, i monumenti funebri medievali bohumili esposti nei prati fuori dai musei, vengono presi di mira dai cecchini). Morire per la disperata preghiera del muezzin dal minareto cannoneggiato dal tank (fare il tirassegno sui minareti!), per la biblioteca della città ridotta in cenere dal bombardamento di granate incendiarie dell’agosto 1992. Per una città aperta, che argomenta la vita in comune tra diversi, per una repubblica che in sé accentra la proposta originale di convivenza tra diversi, il modello possibile e anche futuribile. Abdulah Sidran in uno scritto recente: «Che cosa ha significato - dunque - l’assedio di Sarajevo? Come ha modellato la Storia quella tragica vicenda di morti e privazioni? Che cosa volevano gli assedianti e che cosa difendevano gli assediati?La mia generazione, resistendo al nazionalismo serbo, lottando in nome di una società multiculturale, ha conservato un volto, una forma e un discorso. Quella dell’assedio fu una conoscenza dalle origini, esistenziale. Fu una prova e una maturità. Fu la ragione contro i mostri… La lotta tra il Bene e il Male è iniziata sulle mura di Sarajevo! 20 anni fa! Da allora abbiamo visto crescere, moltiplicarsi, diffondersi, le nuove teorie per cui gli uomini non stanno insieme tenendo a base il diritto, 2/3

Gli scritti Dževad Karahasan (Duvno, oggi Tomislavgrad, 1953) drammaturgo, docente di drammaturgia, romanziere. In italiano Il Centro del mondo (Il Saggiatore, 1994), Il divano orientale (Il Saggiatore, 1997)

Gli ebrei lasciano Sarajevo «Gli attacchi alla città sono cominciati nell'anno in cui la comunità ebraica fe-steggiava i 500 anni dal tempo dell'esilio dalla Spa-gna e dell'arrivo a Sarajevo. Metà millennio di vita in comune è stato festeggiato, nella città accerchia-ta, mezza distrutta, circondata da tutte le parti dal-l'artiglieria pesante e pesantissima, tanto che nemmeno un uccello riusciva a penetrarvi. Eravamo tutti sinceramente scossi e ci aggiravamo per la Città con le lacrime agli occhi, badando meno del solito alle granate. Pensa-vo, in quei giorni, che il festeggiamento del giubileo in condizioni normali avrebbe avuto qualcosa di fal-so. Abbiamo festeg-giato come abbiamo festeggiato - nella città mezza distrutta, assediata, colpita dal desti-no solo perché i suoi abitanti volevano vivere insie-me, con tutte le loro differenze di fedi, lingue, cul-ture. Venti giorni do-po la celebrazione, durante la quale erano state pro-nunciate molte belle parole e persino qualche solen-ne giuramento, meno di venti giorni dopo la com-memorazione, l'intera comunità ebraica se ne è anda-ta dalla Città, verso un nuovo Esilio, quasi al com-pleto (solo una decina di persone è rimasta fanatica-mente innamorata della propria casa e della Città). Le stesse leggi che hanno voluto che il nostro cimite-ro ebraico venisse mischiato, per la prima volta, alla nostra morte; le stesse leggi che hanno voluto che i nostri ebrei celebrassero in questo modo i 500 anni di esilio e di arrivo nella loro città; le stesse leggi che hanno voluto che la loro Città scomparisse lenta-mente davanti ai loro occhi; queste leggi hanno vo-luto


Osservatorio Balcani e Caucaso che Sarajevo, cinquecento anni dopo ma l’arcano della omogeneità etnica. Le nuove tavole aver accol-to i suoi ebrei, rimanesse della convivenza si scrivono sulle recinzioni». Valori e senza di loro. Senza la co-munità che la rendeva universale, senza la ansia di valori. I giovani studenti e operai che vanno, comunità grazie alla quale era un traversando il tunnel, alla difesa del monte Igman mondo in miniatura e il pic-colo cuore del pianeta, senza la comunità che porta sud della città, dicono: «Noi siamo la Spagna contri-buiva cosi profondamente alla repubblicana, la nostra battaglia è per la democrazia e sua fisionomia. contro il fascismo». «Siamo la multiculturalità e la Ho accompagnato i nostri ebrei democrazia, l’Europa e il cosmopolitismo». I poeti e gli augurando loro felicità, con un grumo di dolore in gola, il soffio del-la morte scrittori - gestori del duh, dell’anima della città nell'anima, sentendo che quel giorno rivestono un ruolo strategico. L’abbandono di Sarajevo qual-cosa di troppo bello era finito per da parte della comunità ebraica - orchestrato da sempre». Israele in chiave islamofobica, con la mediazione di (da Sarajevo il libro dell’assedio. Elie Wiesel - lascia stordita la città cui sono Traduzione Nicole Janigro) appartenuti per 500 anni. E il governo deve ufficialmente smentire che Abdulah Sidran abbia abbandonato la città, quando nel 1993 - come giurato al festival del cinema di Venezia - o nel 1995 - per la prima edizione italiana di un suo libro di poesia - lascia temporaneamente Sarajevo (passando per il tunnel).

Il tunnel. La Velepekara La difesa di Sarajevo si proietta nel mito, come la battaglia della Sutjeska, come la rivolta del ghetto di Varsavia. Sono prove che esistiamo, che l’uomo non è distruttibile. Il tunnel, poco più che un cunicolo minerario, scavato sotto le piste dell’aeroporto - da una casa di Dobrinja a Hrasnica, ai piedi dell’Igman - ha contribuito molto a questo mito. Alto 1.70 e largo altrettanto, vi si snoda uno stretto binario su cui vengono spinte le kolice, i carrelli di ferro. Unico tubolare terroso e malfermo che dà ossigeno alla città, unica via per le armi e il cibo. La fame è una costante nella città assediata. La mancanza d’acqua dentro le case una condizione ancora più grave. La città - ridotta a qualche sgangherato e semidistrutto quartiere coperto dalle barricate («siamo rimasti in pochi!» dicono dall’interno) - anche nelle giornate di luce ha un colore grigio, arrugginito. Né alberi, né verde, i colori sono quelli dei container a protezione di qualche percorso e delle barricate alzate con cataste di automobili fuori uso, le carrozzerie tarmate dai colpi e dal tempo. Il pane per la città viene cotto alla Velepekara il grande forno statale - se non è stato bombardato, se l’Unhcr ha portato le quote di farina. È ‘pane di guerra’ ma la sua fragranza si diffonde nell’aria e accentua la fame e il desiderio. Sulla facciata della Velepekara è dipinta una grande spiga dorata di grano. Il colore - tra lamiere storte e buchi neri dei colpi - è rimasto, come il manto di un santo bizantino in fondo a una latomia diventata stazione di preghiera. I sarajevesi - nei letti gelidi dei loro lunghi inverni sotto assedio, nella città trasformato in un ghetto - sognano la grande spiga di sole, l’aureo cibo proibito.

URL www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Sarajevo-vent-anni!-114965 Tutti i contenuti disponibili sul sito di Osservatorio Balcani e Caucaso sono distribuiti con licenza Creative Commons, se non diversamente indicato. Se vuoi ripubblicare questo articolo sul tuo blog o sito internet puoi farlo utilizzando la dicitura "Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso" includendo un link attivo diretto alla pagina dell'articolo e indicando il nome dell'autore. E' gradita una e-mail di segnalazione alla redazione dell'avvenuta ripubblicazione: redazione@balcanicaucaso.org

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