LA COMUNIONE CHE VIENE
Giovani, politica e fede. Quaderni Prefazione di Andrea Grillo
PAUL COLRAT - FOUCAULD GIULIANI ANNE WAELES
Titolo originale dell’opera: La communion qui vient © Éditions du Seuil, 2021 - Paris
Traduzione dal francese di Antonio Ballarò
Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nel la versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana © 200 8, Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena
Per i testi citati dal magistero della Chiesa e dai documenti dei pontefici © Libreria Editrice Vaticana - Dicastero per la comunicazione, Città del Vaticano
PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2022
Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it ed libri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Pia zza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)
ISBN 978-88-315-5503-6
Prefazione
Istruzioni per l’uso al cattolico italiano di Andrea Grillo
Il fatto che giovani filosofi francesi, che si presentano come «semplici parrocchiani» e che sono entrati in relazione in due cafés di Lione e Parigi (il Simone e il Dorothy), offrano una rilettura complessiva delle sfide politiche per il cattolicesimo contemporaneo con una miscela sorprendente di radicalismo evangelico, di raffinata analisi culturale e di passione per la tradizione cristiana, è fin dal primo impatto un dato che sorprende forse ogni lettore, ma in modo particolare il lettore italiano.
Poiché la posizione che il discorso assume nei confronti del compito politico, dell’analisi sociale, delle sfide per la teologia, del discernimento spirituale, gode di una libertà di giudizio e di un’originalità di tratto che spesso, in Italia, è del tutto estranea al dibattito comune e preferisce rifugiarsi solo in piccoli angoli accademici, ma non certo nei caffè! Abbiamo avuto anche noi, un tempo, i nostri caffè letterari e filosofici. Oggi abbiamo dislocato altrove il pensiero. Tantomeno abbiamo «caffè parrocchiali» che ripensano la Chiesa e il mondo. Né abbiamo, ordinariamente, il coraggio di intrecciare Vangelo, cultura, sfide sociali e giudizi storici con quella freschezza che il testo che abbiamo tra le mani ci offre, con un’allure tutta francese, ma con una serie di evidenze che attraversano tutto il campo della esperienza europea e mondiale.
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La vocazione «antipolitica» che viene delineata nel volume, e che lo caratterizza in profondità, deve essere bene intesa e non va assolutamente confusa con le «forme dell’antipolitica» che in Italia, e non solo in Italia, vanno per la maggiore. Per questo la provocazione del testo deve essere intesa nelle sue vere intenzioni, precisamente nel recupero, da parte del cattolicesimo, di una specifica forma di «impegno politico» che esca dai cliché in cui ha lasciato che lo imprigionassero sia la cattiva politica che la teologia superficiale, integrista o relativista che fosse.
La struttura del testo può essere così descritta: in esso si esprime il forte richiamo a una «depoliticizzazione» che sia risposta efficace e decisa alla «sovrapoliticizzazione» tardo-moderna. Per prendere questa via, che certo si presenta come assai impegnativa, gli autori passano in rassegna una serie di sfide fondamentali per la vita comune e per la vita cristiana. L’ordine dei capitoli e dei temi merita un’analisi preliminare. Il sommario ragionato del libro
Muovendo dalle «ansie cattoliche» che qualificano la stagione presente (in Francia, ma non solo), il volume esamina il contesto politico in cui si può scoprire di essere compromessi con il potere e quindi trasformati dal potere, e afferma che, per liberarsi del potere, è possibile scoprire la Chiesa come istituzione destituente e i parrocchiani come gente che sosta (cap. 2).
È l’urgenza della crisi a mostrare il recupero necessario di un messianismo politico, di una salvezza che rigenera, di un servizio alla città di Dio che può gridare: «Viva il pre-
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sente!» (p. 76). Se l’analisi perviene alla necessità di «decivilizzare il cristianesimo», ne contesta anzitutto il mito delle radici cristiane della Francia (e dell’Europa) con il riconoscimento di essere comunità incompiuta, che non ha niente da difendere dall’islam e che deve interrogarsi su quali radici debba concepire per se stessa (pp. 89-106). Allo stesso tempo gli autori, contro l’appropriazione economica del mondo, chiedono di destituire l’economismo dal suo ruolo pervasivo, proponendo un’«apologia della dismisura», per «salvare la natura senza la natura» e per «lavorare e non lavorare» (pp. 127-156).
Il giudizio sul piano politico e sul piano economico si basa su un’antropologia dell’uomo crocifisso, che trova la forza di rileggere la tradizione in modo nuovo, ma non per questo arbitrario: così si rivendica che il nostro nome è persona, un cammino verso la rigenerazione, sapendo riconoscere che il monaco è il primo queer perché mette «in questione l’ossessione dell’umanità pagana per la procreazione e la perpetuazione della discendenza» e che si tratta di «educare bastardi» in quanto «slegati da ogni origine chiara, con identità travagliate» (pp. 183; 190; 195). Se ne trae l’imperativo di un ripensamento radicale dei due temi a cui spesso si è ridotta la presenza cattolica sul piano politico: si tratta di decostruire «vita» e «famiglia», di smetterla con la bioetica, di riconoscere il disordine familiare, di resistere alla tentazione delle virtù depoliticizzanti del moralismo e all’inclinazione verso l’antipolitica (pp. 197-218).
Alla fine si tratta di un atto di sana ripresa della domanda: «Abbiamo cominciato a essere cristiani?», non semplicemente per continuare, ma per iniziare a esserlo, con categorie nuove e con esperienze fresche (pp. 219-222).
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La Francia, l’Europa, il mondo
Come è evidente già dalla considerazione del sommario dei temi, scopriamo un approccio alla tradizione cattolica che lavora contemporaneamente sul piano biblico, sul piano antropologico-sociologico e sul piano teologico con una lucidità e un’originalità veramente fuori dal comune.
È chiaro che la parola viene presa da un’angolatura che risente profondamente della storia francese degli ultimi decenni, e che appare molto diversa dalla storia italiana. Non solo per eventi civili e nazionali, ma per la collocazione che la Chiesa ha avuto e continua ad avere in tale storia. Ma proprio su questo piano, in cui le vicende francesi e italiane appaiono differenti, non si deve esitare ad ascoltare con tutto l’interesse necessario le ricche pagine del volume, perché offrono una teologia politica, un ripensamento dell’antropologia, una rilettura della teologia morale e della bioetica di cui abbiamo bisogno in tutta Europa, a sud come a nord, a est come a ovest. Perciò vorrei soffermare la mia attenzione su alcuni punti del testo, dai quali emerge una preziosa ricomprensione della tradizione cattolica alla luce di fonti filosofiche (Giorgio Agamben) e teologiche (William Cavanaugh) poco frequentate, non dico dai parrocchiani, ma dai teologi italiani.
Vangelo e politica
La domanda di depoliticizzazione non viene da una sfiducia nella democrazia o da una chiusura della fede nel privato. È piuttosto il contrario: è la reazione a una sovrapoliticizzazione che ha innestato il potere nel più profondo delle nostre esistenze. Ossia nel modo in cui mangiamo o
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viaggiamo, amiamo e giudichiamo. La domanda di depoliticizzazione è una reazione a questa continua ingerenza, che ha un impatto antropologico potentissimo nel renderci «individui» e nel farci dimenticare che la sede originaria della l ibertà non è l’interiorità dell’individuo, ma la relazione sociale. Un mondo di «privilegiati» dimentica che la condizione della propria libertà è una riduzione dello sguardo e della stessa percezione. La fede non è consolazione che distrae da lla costruzione della città dell’uomo. Questo darebbe ragione all’analisi che riduce la religione a «oppio dei popoli». Invece occorre reagire alla sovrapoliticizzazione che trasforma gli uomini in animali crudeli. Questo impone alla fede d i uscire dalla tendenza a legittimare il potere. Teocrazia e cesaropapismo sono le due versioni opposte, ma coincidenti, di un’«alleanza col potere» che appare sospetta. Le parole di Gesù svuotano il potere politico di ogni legittimità intrinseca e lo sottopongono alla prova della fraternità. Questo rende la Chiesa «marginale», come il suo Signore. Occorre stare ai margini perché si «crede nei principi comuni» (p. 39): così era Gesù e così deve essere la Chiesa.
La «destituzione» cattolica
Il fatto che la Chiesa scelga non l’istituzione, ma la destituzione, non è un’evidenza della tradizione. Una Chiesa intesa come istituzione destituente è una prospettiva originale, che ha una radice nel pensiero di Agamben e che traduce la teoria ecclesiale in modo paradossale. In prima battuta è evidente che la «diversità» dell’istituzioneChiesa (che è santa) non si difende equiparandola alle agenzie educative o sportive. La ragione per cui si è catto-
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lici (e per non chiedere lo sbattezzo) deve essere espressa in un modo originale.
Al cuore del messaggio cristiano sta la anastasis, che è insieme risurrezione e insurrezione, ed è evento messianico, ossia forma di aperta contestazione del potere. Appartenere alla Chiesa cattolica non deve essere inteso come un potere contro un altro potere (per esempio come accadeva con i «re cristianissimi» di Francia che lottavano contro il papa ocome accade oggi con i gallicani che lottano contro Francesco, percepito come islamo-gauchiste), ma come un modo di destituire il potere per servire la persona. La Chiesa deve «mettere in luce la verità dei poteri in carica» (p. 44). Se la fondazione biblica di queste categorie è fragile e sommaria, perché troppo rapida e un po’ fondamentalista, la forza del discorso merita comunque attenzione.
L’istituzione, come organizzazione della libertà, non si realizza nel governo, che è controllo delle libertà. In origine il governo è invece quello del pastore. La trasformazione del governo nella forma dello Stato moderno prende le distanze dal sospetto cristiano verso i pastori cattivi e in tal modo assolutizza il governo stesso. Nella Chiesa non si è spenta la memoria di questa differenza: la ricerca di luoghi di liberazione nella relazione e nel servizio lo attesta. Questo costituisce il cuore della politica restituita al suo centro. L’espressione di questa vocazione originaria è per gli autori l’adorazione eucaristica, identificata come luogo della più radicale fraternità. È interessante che al centro sia posto il sacramento nella visione medievale, non la celebrazione eucaristica riscoperta dal concilio Vaticano II. Questo è tipico dell’ortodossia radicale1 .
1 Si tratta di una corrente teologica, nata originariamente nel Regno Unito,
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Il recupero della centralità della parrocchia è il secondo punto qualificante il volume. Se governo e ministri sono «concetti teologici secolarizzati» (p. 50), il modo per ricomprenderli in profondità è ripartire dalla fraternità elementare della vita parrocchiale 2 . Perché Gesù «non è un dover-essere al quale conformarsi in un futuro irraggiungibile, ma una presenza da prendere sul serio» (p. 56). La parrocchia ha inoltre il vantaggio di essere una dimensione locale diversa sia da quella della idealizzazione della natura sia da quella della deriva neoliberista. La parrocchia si articola in quattro atti: pregare, pensare, organizzarsi e agire. Questa azione dal basso aiuta a «de-civilizzare il cristianesimo»: vediamo che cosa intendono gli autori con questo termine. Comunità incompiuta e destituzione dell’economismo
L’idea che la fede cristiana debba de-civilizzarsi implica una differenza fondamentale tra comunità e comunione: «La comunità unisce solo attraverso strumenti giuridici che separano gli esseri umani, mentre la comunione unisce approfondendo l’infinita distanza tra ogni essere umano» (p. 85). Il cattolicesimo, per questo, non è un «mito politico». Il discorso sulle radici cristiane e sulla cristianità e quindi di tradizione anglicana, che però ha coinvolto in un secondo momento anche autori di altre confessioni e che è caratterizzata da un’originale rilettura della tradizione medievale e una forte critica verso la modernità. Suoi esponenti principali sono John Milbank, Catherine Pickstock e William Cavanaugh, con una singolare mescolanza di tradizionalismo e anarchismo.
2 Se è paradossale il fatto che gli autori rimettano al centro il sacramento e non la celebrazione, altrettanto lo è che invitino alla riscoperta di un’istituzione tridentina come la parrocchia e non la soggettività comunitaria o la Chiesa locale, come neppure appaiono sensibili ai movimenti ecclesiali.
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suppone un’immagine del cristianesimo come «radice», definizione che non trova corrispondenza nel Vangelo. Il cristianesimo è essenzialmente «impuro» (p. 12). Ebraismo e cristianesimo rifiutano l’autofondazione e perciò prendono una direzione anti-gnostica, contraria all’uniformità nazionale e statale. La comunità, perciò, resta incompiuta, così come la fede non è identità e non si fonda sull’identità, ma sullo slancio, sulla relazione, sull’apertura ad altro rispondendo non a un’idea, ma a un appello.
In questo atteggiamento, che resiste alla mercificazione del mondo, viene elevato un elogio della dismisura e della sobrietà ecologica (pp. 127-128) in una «casa comune» di cui prendersi cura. Questo è il contrario del controllo dei corpi, che ha nella gestazione per altri la forma più esemplare in quanto implica la mercificazione del corpo della donna (p. 147). Qui si intreccia, nella stessa modalità, il mercato della vita e il mercato del lavoro! Così la diffusa condizione di schiavitù merita una citazione dotta: «Il lavoro salariato, per Aristotele, non è ciò che distingue gli schiavi dagli uomini liberi, è ciò che definisce alcuni schiavi. Perché lo schiavo non è chi vive senza una paga, ma chi lavora alle dipendenze di un altro» (p. 150).
L’uomo crocifisso
Un’«antropologia crocifissa» parte dalla irriducibilità dell’essere umano, cosa che può essere espressa dal termine «persona». A dispetto del termine «individuo», «persona» conosce il primato della relazione sulla sostanza. «Il concetto di persona rifiuta ogni definizione dell’essere umano che lo sottometta a un potere» (p. 158). Per difendere l’es-
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sere umano dal controllo del potere occorre definirlo in modo non funzionale. Di qui la presa di distanza formale da ogni liberalismo inteso come la possibilità di partire dall’autonomia dell’individuo. Solo la dipendenza da Dio rende liberi. Ma la dipendenza da Dio non giustifica le dipendenze umane, dalla famiglia o dall’autorità. «Attribuendo la sua preferenza all’ordine invece che alla libertà, un certo conservatorismo tradisce il cristianesimo» (p. 161). D’altra parte il mito della autofondazione è anche responsabile di gravi ingiustizie: «Non è l’autonomia che bisogna inseguire, ma relazioni libere dal dominio e dall’oppressione» (p. 164).
I richiami alla natura sono vani se non tematizzano che la natura dell’essere umano è precisamente di non avere una natura fissa, ma di trovare se stesso nelle relazioni che cura e coltiva. Il richiamo alla natura è spesso un modo di sfuggire alla storia. «Difendere la famiglia patriarcale in nome della natura non è nient’altro che proiettare in un paradiso perduto e di fantasia una norma che riteniamo insuperabile» (p. 166).
L’orizzonte di genere viene oggi percepito come un disordine. Ma questa è una buona notizia. Come per l’uomo e la donna non si tratta di aderire a una natura, a fortiori essi non hanno un modello di natura maschile o femminile: «La difesa degli stereotipi di genere non ha niente di cristiano» (p. 178).
D’altra parte, la costruzione sociale dei generi si basa su una differenza gerarchica, che oggi deve essere contestata: tra uomo e donna non vi è gerarchia. La teologia della complementarità spesso cade in questa trappola gerarchica. Tutta la sezione dedicata alla discussione della «teoria gender» è strutturata con lucidità e forza.
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Ansie cattoliche
I cattolici francesi sono come fantasmi. Senza occupare realmente lo spazio politico, lo agitano, talvolta senza volerlo. Mentre il panorama è cambiato, mentre il mito della cristianità nutre meno felicemente l’immaginario europeo, mentre lo Stato non deve più rendere conto alla Chiesa, un vago riferimento al cattolicesimo resta un utile strumento di legittimazione per soggetti politici senza successo, offerto come pallido rimedio al presunto declino dell’Occidente «vittima della forza dell’islam» o dell’atomizzazione causata dalla tecnica. Malgrado la sua mancanza di vitalità, si vorrebbe fare del cristianesimo una cura per civiltà malate. Ciò significa considerare i cattolici fortunati detentori di un patrimonio condiviso che si tratterebbe solo di conservare. Significa tradire una missione essenziale della fede cristiana: mettere in luce le contraddizioni tra l’ordine mondano e la giustizia desiderata da Dio sulla terra. È questa la malattia, il peccato di cui moriamo generazione dopo generazione. Il cattolicesimo non può essere lo strumento di restaurazione dell’autorità statale e dell’unità nazionale, né un vettore comunitario contro l’isolamento generalizzato delle esistenze – che non è cominciato con la pandemia da Covid-19 – poiché intrattiene con lo Stato e con l’idea di comunità una distanza originaria, concependosi come
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ekklesia (assemblea) e non come Stato, come comunione e non come comunità.
Il mondo stesso diventa spettrale nella misura in cui produciamo degli oggetti, cioè impediamo la realizzazione di processi unici a vantaggio di quella di prodotti identici gli uni agli altri. Ma qui non ci lamenteremo del fatto che Tinder rimpiazzi una bellezza fugace, che il turismo sostituisca l’avventura, che i ravioli di carne di cavallo diventino cibo quotidiano mentre si rifiuta di mangiare l’agnello una volta l’anno, che i meccanismi di sorveglianza prendano il posto dell’attività creativa, che la didattica digitale si affermi su quella che si svolge in aula, tutto per ottenere un maggior controllo della situazione a scapito della presenza. Certo, non si può negare che la presenza stessa si stia riducendo, che i soggetti si disincarnino. Certo, questa esistenza disincarnata è in gran parte indotta dai dispositivi tecnologici, veri e propri «strumenti di assenza». Ma sarebbe inutile voler ritornare a una presenza originaria. Di fronte alla scena di un mondo disincarnato in cui ciascuno è assente a se stesso e agli altri, non è un errore ricordare – e qui lo faremo – che il cattolicesimo si definisce per mezzo dell’incarnazione e della presenza reale. Ma è anche una forma di vita che contempla la distanza infinita di Dio, fosse anche mediata da icone, che resta lontana dalla sapienza degli esseri umani e per mezzo del servizio ecclesiastico simboleggia uno scarto tra l’umanità e il sacro. In altre parole, non per nulla noi cattolici, più di chiunque altro, siamo fantasmi.
Non basta più appellarsi anzitutto a ciò che siamo, come avrebbe fatto un manifesto, ossia affermare di più la nostra identità. Qui scriviamo per esorcizzare l’ansia tipica dei fantasmi, quella di scomparire. In primo luogo perché non
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siamo padroni dell’apparire e dello sparire, poi perché non c’è alcun motivo per cui lo Spirito non debba darsi anche oggi. Se un Dio c’è, se si è rivelato in Gesù Cristo, la sua rivelazione non può sparire, né di fronte a un’altra religione né davanti a nessun potere. I cattolici non devono essere, ma amare, che viene prima dell’essere; non devono affermarsi, ma anzitutto ascoltare; non devono difendersi da qualche nemico, ma aprire parrocchie. Il loro essere distanti non è il contrario del farsi prossimi. Il pensiero reazionario cristiano ‒ secondo cui occorre prima occuparsi del proprio prossimo, nel senso del più vicino, poi del connazionale, e solo dopo dello straniero ‒ suppone che il prossimo non sia mai chi è lontano. In realtà il prossimo si fa avanti nella sua stessa distanza, si manifesta nella sua singolarità proprio perché vediamo fino a che punto è altro da noi. Allo stesso modo la parrocchia ( par-oikia, letteralmente «vicino casa») è un modo di praticare la sosta, che consiste nell’ammettere la propria distanza dal mondo e dagli altri, facendo di tale distanza un’occasione di prossimità. In una parrocchia – con ciò intendiamo qualcosa di più che una chiesa – l’incontro è favorito dalla distanza: il migrante maliano è più prossimo del vicino scontento, lo sventurato relegato ai margini è più prossimo del coinvolto uomo di successo, l’anziano alcolista è più prossimo dell’irreprensibile cugino. In altre parole, i fantasmi passano dall’assenza alla distanza, ritrovando se non l’esistenza, almeno un po’ di colore e di luce. È sulla base di questa intuizione che abbiamo contribuito all’apertura di luoghi come il Simone a Lione e il Dorothy a Parigi 3: per lasciare una vita da fantasmi e farci
3 Il Simone è un caffè culturale e uno spazio di coworking che è stato aperto a Lione ad aprile 2015. Il nome è un omaggio alla filosofa francese Simone
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prossimi mediante le nostre stesse distanze. È a partire da questi luoghi – e non a nome loro – che parliamo, poiché essi ci hanno trasformato più di quanto abbiamo fatto noi fondandoli.
In questo libro parliamo di politica da cattolici. A differenza dei politici, non scriviamo per offrire delle soluzioni a chi vorrebbe adottarle o a chi vorrebbe votare per noi; scriviamo per esporre in che modo intendiamo la vita cristiana, per lottare contro le menzogne che la deformano, menzogne che ci disgustano o che ci fanno scoppiare dal ridere. Offrire «soluzioni» presuppone che si parta da qualcosa di negativo per arrivare a qualcosa di positivo, che si cominci dal nulla per arrivare all’essere, il che è possibile solo a Dio. Inizieremo invece dal positivo che è già la vita cristiana incarnata da Cristo e abbozzata nelle parrocchie, il che ci condurrà a una certa negatività, a un certo rifiuto di ciò che si presenta come «l’ordine». In effetti la fede cristiana esercita politicamente la sua forza esplosiva secondo almeno tre assi. Essa desacralizza e dichiara illegittimi i poteri mondani, politici ed economici facendo di ogni padrone un servo. Ci apre all’esperienza dell’eternità, liberando le nostre vite da due pericoli speculari: l’irrazionale fiducia nel futuro e la sacralizzazione di epoche passate, permettendoci di accedere all’esperienza del tempo messianico e della salvezza. Infine, annulla ogni pretesa identitaria dei soggetti, orientandoli alla scoperta dell’alterità divina che è in loro e li chiama al dono di sé – la carità – che è dove si sperimenta la beatitudine.
Weil (1909-1943). Il Dorothy è uno spazio sociale, di riflessione e di trasmissione di saperi pratici che è stato aperto a Parigi nel novembre 2017. Prende il nome da Dorothy Day (1897-1980), teologa e attivista americana, sostenitrice di un anarco-comunismo cristiano.
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Il nostro contesto politico
Ciò non è volontario, voi siete imbarcati. Blaise Pascal, Pensées, 233
Compromessi con il potere
Malgrado la sua inconsistenza, il mito della depoliticizzazione resiste. Per «depoliticizzazione» si intende solitamente il presunto disinteresse dei cittadini verso le questioni che vanno al di là della loro sfera privata, come se un egoismo colpevole, unito a una reticenza a impegnarsi con gli altri e per il bene di tutti, definisse l’individuo contemporaneo. Questo clima triste richiederebbe per contro una guida forte e personaggi politici carismatici, capaci di cogliere l’interesse generale e di salvarci da questa pericolosa deriva individualistica. Una tale interpretazione della situazione politica è scorretta: l’apparente ripiego degli individui su se stessi non è altro che il sintomo di una sovrapoliticizzazione.
Pensare la politica dal punto di vista della democrazia rappresentativa, dell’affluenza alle urne e dei livelli di adesione ai partiti politici non coglie in effetti ciò che la politica e l’economia sono diventate: un potere plastico esercitato su ogni ambito delle nostre vite. Parlando di sovrapoliticizzazione miriamo ai meccanismi e agli effetti di questo potere che somiglia a una supervisione allargata dei soggetti
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II.
che i diritti individuali e il pensiero liberale non smettono di presentare come «liberi e autonomi».
Nutrirsi, divertirsi, fare l’amore... sono tutti atti profondamente politicizzati se definiti e guidati da interessi che assoggettano un gran numero di persone. Nessuno di essi può più essere visto sotto lo sguardo innocente della soddisfazione di un bisogno naturale. Farlo significa cedere alla malafede. Tra i nostri desideri e la loro soddisfazione si staglia l’intero immaginario commerciale con i suoi slogan, i suoi imperativi e le sue martellanti campagne pubblicitarie.
Così nutrirsi è andare al supermercato e comprare un prodotto che contiene, nel suo piccolo, tutta la realtà del lavoro operaio e dell’industrializzazione dell’agricoltura. Ai nostri giorni il più infinitesimale atto necessario alla vita è automaticamente e immediatamente legato, già nel suo svolgersi, a un sistema economico nei confronti del quale il soggetto non ha alcun controllo e di cui può osservare gli effetti d istruttivi sul mondo e sugli altri. Siamo tutti contribuenti assidui e al contempo vittime di un’economia che ciononostante siamo sempre di più a detestare.
Il desiderio di uscire dalle proprie abitudini e incontrare nuove persone viene colto dall’industria del turismo, diventata maestra nell’arte di far passare uno scenario esotico ed ef fimero per un’avventura rivolta all’incontro approfondito con «altre culture». Tuttavia è sufficiente leggere qualche pagina scritta da un vero viaggiatore per comprendere come il viaggio sia sinonimo di prova, come l’incontro reale con l’altro scuota e metta in discussione. Così scriveva Nicolas Bouvier in La polvere del mondo: «Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa»1.
1 N. Bouvier, L’Usage du monde, Payot, Paris 2006 (trad. it. La polvere del mondo, Feltrinelli, Milano 20202).
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Il desiderio sessuale è dal canto suo intercettato e orientato verso la pornografia, il cui accesso è facilitato da Internet. Gli adolescenti, talvolta gli stessi bambini, vengono privati della loro sessualità in germe. La pornografia, centro di scambi sessuali asimmetrici e violenti in cui il desiderio degrada a pulsione, è anzitutto un mezzo per fare profitti. Essa si insinua tra il desiderio e la coscienza delle sue vittime, tra le loro aspirazioni e i loro gesti. Mette a serio rischio la vita sessuale delle persone sottomettendola al dovere della performance. Invece di essere dialogo e unione amorosa, la sessualità messa in scena nella pornografia è violenza e riduce l’altro a un oggetto di piacere. Sono evidentemente le donne, in quanto grande maggioranza della famiglia umana intrappolata nelle spirali della prostituzione e della pornografia, a pagare il prezzo più alto.
La sovrapoliticizzazione è l’iscrizione del potere nel più profondo e nel più intimo delle nostre esistenze. È il potere del capitalismo moderno, che non ha un unico volto né un elenco chiaro e definito di rappresentanti; ha più poli e attinge la sua forza dalla sua estensione e fluidità. Possiede strutture giuridiche e istituzionali, che favoriscono, per esempio, la libera circolazione dei capitali, di cui qualsiasi rivolta seria nei suoi confronti non può che volere la fine. Inseparabilmente economico e politico, il capitalismo moderno subordina le vite degli esseri umani a interessi a loro estranei, a comportamenti che sono per loro nocivi sul piano fisico e gravi su quello morale. Perché nessuno vuole che l’atto del nutrirsi significhi impoverire un piccolo produttore dall’altra parte del pianeta; né che il pagamento della propria fattura telefonica implichi il finanziamento di un conto bancario protetto in un paradiso fiscale. E tuttavia l’attuale contesto politico ci impone simili contraddizioni.
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La sovrapoliticizzazione si svolge in un doppio movimento: le nostre vite, all’atto stesso di produrre i loro mezzi di sussistenza, servono e rafforzano il potere capitalista; e questo potere distorce le nostre relazioni interpersonali, spingendoci a stringerne di viziate, fondate su atteggiamenti di appropriazione, concorrenza e diffidenza. Pensata in questo modo, la politica è tutt’altro che una realtà occasionale che l’individuo sceglierebbe o meno di «praticare», come si sceglie di praticare uno sport. Essa non è uno spazio in cui possiamo accettare o rifiutare di avventurarci, ma un potere che ci avvolge.
La sovrapoliticizzazione genera in automatico un’incapacità collettiva di comprendere il corso della storia e di immaginare vie per una vita alternativa al suo interno. Esercitando il suo potere dal centro stesso delle nostre esistenze, essa resta invisibile ai nostri occhi. La percezione del mito della depoliticizzazione e il pensiero della sovrapoliticizzazione ci liberano da una duplice illusione: la fede nell’esistenza di una «sfera privata» sottratta miracolosamente a influenze esterne e la fede nella libertà individuale come punto di partenza della formazione e organizzazione della società.
Ognuno di noi è realmente impegnato nella storia, di un impegno che non è opera nostra e che corrisponde a costrizione e distruzione, un impegno che è cooptazione. Quest’epoca ha fatto di noi i continuatori della catastrofe che essa provoca; l’economia ci ha resi suoi servitori a tempo pieno. La sfida è dunque fare un passo indietro rispetto ai tempi. Non cedendo all’illusione che si possa evadere e «mettersi al sicuro», ma spinti dal desiderio di impegnarci diversamente, a partire da un pensiero e da un’azione ispirati in senso spirituale e ideati in totale libertà.
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Trasformati dal potere
Se una depoliticizzazione esiste, non è quella di cui parliamo da tempo come rovina delle giovani generazioni. La depoliticizzazione esiste solo come contrario della sovrapoliticizzazione. Essa si dà come espropriazione dei processi di deliberazione e di decisione collettivi a tutto vantaggio dei meccanismi di potere che catturano le nostre vite e le asserviscono alla loro volontà. Davanti al numero crescente di cittadini infuriati perché in sofferenza per questa espropriazione ‒ fatto ben dimostrato dal movimento dei Gilet gialli ‒ i politici in carica affermano che la storia è divenuta incontrollabile, riconoscendo così implicitamente la realtà della cooptazione di tutti operata dal potere capitalista. Tuttavia, questa rivendicata impotenza è più fittizia che reale. I nostri leader potrebbero se non rovesciare il potere in atto, almeno indebolirlo svelandone i meccanismi, seguendo l’esempio di Yanis Varoufakis, ministro greco dell’Economia da gennaio a luglio 2015, il quale ha lottato contro l’austerità economica imposta al proprio Paese. Ma essendo i politici funzionali al successo del potere, preferiscono indossare la maschera redentrice delle fatalità della storia. E, per neutralizzare tutti gli istinti di resistenza o rivolta, invocano la necessità: le leggi non vengono più difese perché giuste, ma in quanto necessaria attualizzazione del diritto sulla base dell’ordine mondiale. I politici si compiacciono nella postura della volontà sequestrata: così ciò che accade davanti ai nostri occhi non sarebbe realmente di loro responsabilità, ma avrebbe origini lontane. Mostrano la loro buona volontà umiliata, ostacolata nelle sue generose intenzioni da fattori deprecabili e non regolabili: i «diritti dell’individuo», la
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«globalizzazione», il «progresso del mondo» ecc. È una strategia che si nasconde dietro molte leggi, da quelle che regolano le condizioni lavorative a quelle che permettono la mercificazione della procreazione. Su quest’ultimo punto, l’esistenza di legislazioni ideologicamente ultraliberali in certi Paesi viene invocata per spiegare l’adeguamento dei nostri quadri legislativi. In nome delle rivendicazioni di alcuni e degli interessi economici di imprese indifferenti a qualunque fine etico, si giunge a negare gli effetti di certe pratiche, come per esempio la maternità surrogata, che vanno a creare disuguaglianze sociali e sono psicologicamente destrutturanti. I nostri politici, così a loro agio nelle vesti di salvatori, si comportano e si descrivono come veri e propri «inseguitori»2 . I Gilet gialli non hanno mai smesso di denunciare questa farsa: «Ogni cinque anni ci viene presentato il grande spettacolo in cui tutto è possibile. E poi ci viene spiegato che il possibile è già stato deciso altrove».
La sovrapoliticizzazione ha effetti antropologici profondi: ci ha resi individui, soggetti esclusi dall’elaborazione sociale delle nostre condizioni di esistenza; divorati dalla credenza aberrante che la libertà politica risiederebbe anzitutto in noi, mentre inizia da processi di deliberazione e di decisione collettiva, dall’elaborazione di mezzi utili alla vita. Siamo stati talmente condizionati dalla sovrapoliticizzazione che fatichiamo a credere che la libertà abbia come prima condizione la relazione umana e l’organizzazione sociale; ci sembra un fatto naturale che il diritto non fa che confermare, una realtà magicamente legata alla nostra individualità. Il potere che ci sovrasta è separatista in quanto
2 Il testo francese ha un gioco di parole tra sauvers – salvatori – e suiveurs –inseguitori (ndt).
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individualizza per esercitare meglio il proprio dominio. La legge «contro il separatismo» redatta nell’inverno del 2020 3 manca il bersaglio nell’accusare implicitamente le religioni di essere all’origine di tutti i mali sociali.
Il paradosso è che la logica di separazione si accompagna a una logica di agglomerazione. Quest’ultima è necessaria al capitalismo, perché permette alla società di non dissolversi totalmente. L’agglomerazione consiste nell’unificazione forzata e accelerata dei popoli sotto l’effetto delle leggi del mercato. Essa è il triste modo di «stare insieme» che resta a cittadini privati della loro libertà politica. E la prescrizione moralistica e costante secondo cui è «meglio vivere insieme» mostra la scomparsa della deliberazione e della decisione collettiva. L’agglomerazione sollecita in automatico una reazione che richiede di rafforzare le frontiere e l’omogeneità culturale. È una reazione criticabile perché manca di lucidità e di una messa in questione globale del potere in atto, ma in quanto reazione chiede di essere riorientata sul piano politico anziché negata e giudicata sul piano morale. I liberali sia di destra sia di sinistra sono ipocriti quando s’indignano per il ritorno dei nazionalismi, dato che è la loro politica di adesione al capitalismo che li ha alimentati e inaspriti.
Non siamo spettatori della catastrofe capitalista, essa ci pervade e conduce molti di noi alla disperazione. La quale, sostenuta dalla sensazione di essere prigionieri di una situazione che ci distrugge, minaccia di diventare cinismo. Il pensiero che accompagna la disperazione politica è il se-
3 Quella cui si fa riferimento è diventata la legge n. 1109 del 24 agosto 2021. La proposta è stata al centro di numerosi dibattiti e prevede un maggior controllo da parte dello Stato circa l’adeguamento delle organizzazioni religiose ai valori della République (ndt).
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guente: «Vorrei fare qualcosa, ma sono impotente». Il cinismo dal canto suo va oltre: «A questo punto, chi se ne importa degli altri!». È sbagliato vedere in questo principio la prova di una generazione di egoisti asociali e incivili. Questo pensiero non è presente da sempre in chi lo esprime, ma sorge, al contrario, dopo aver preso coscienza, con rabbia, del proprio sfortunato percorso e della schiavitù provocata. Non è un inizio, è un esito disperato, il segno di una voglia di fare e di un impegno feriti. Le passioni e i pensieri più tristi e meno fecondi sono spesso il segnale di buone intenzioni che sono state mortificate. Alla fine degli anni Cinquanta Jesse Glenn Gray, membro del commando europeo dell’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale, sottolineava che
i fautori del cinismo morale, che le guerre generano in abbondanza, testimoniano la speranza perduta nell’umanità. Laddove il cinismo non è solo un atteggiamento superficiale, è il grido degli uomini che non sono stati in grado di sopportare la tensione tra l’ideale in loro e la realtà fuori di loro. Così decidono di non prendere più sul serio il mondo né se stessi e di dedicarsi al piacere. Ma chiunque può notare che quel piacere cela tristezza 4 .
Il cinismo è il sintomo di un’oppressione subìta e può essere compreso come un modo indiretto di acconsentire, poiché sfuggirvi è impossibile, alla guerra di tutti contro tutti.
La dipendenza forzata dal disastro in corso produce un senso di colpevolezza che si somma alla disperazione e al 4
J. Glenn Gray, Au combat. Réflexions sur les hommes à la guerre, Tallandier, Paris 2013 (orig. New York 1959; trad. it. Guerrieri. Considerazioni sull’uomo in battaglia , Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento 2013).
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cinismo così radicati nelle coscienze contemporanee. In genere è qui che si sente la peggior lezione di conservatorismo: «È incoerente criticare ciò a cui si partecipa. Occorre rassegnarsi, stare in silenzio e non dubitare di sé né della possibilità di vivere correttamente, poco importano le condizioni!». Quanta di quest’acqua cattiva abbiamo bevuto noi cristiani! E ci è stata servita persino da nostri fratelli e sorelle nella fede! Una certa cooperazione al male non squalifica la lotta contro di esso, senza cui nessuna conversione sarebbe possibile. Perché il male non è anzitutto una realtà esterna a noi, ma ciò che disorienta stabilmente le nostre azioni. Sul piano politico è anche attraverso una conversione, a partire dalla nostra dipendenza da pratiche o strutture ingiuste, che avviene la liberazione. Sperimentare il peso di questa dipendenza è il motore della liberazione; dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia; dove si fa luce sulle nostre ingiustizie, si apre una breccia per le lotte future. Siamo sicuramente colpevoli di cedimento dinanzi al potere, di lasciarci cooptare da esso e di non provare nemmeno a fermarci, ma la nostra debolezza si spiega con la forza della struttura che ci sottomette.
Ci scopriamo coinvolti in rapporti di forza di livello globale in cui siamo lontani, molto lontani, dall’occupare il posto peggiore. Se siamo compromessi con questa storia, non siamo costretti a dovervi giocare un ruolo già scritto. Noi scommettiamo sulla possibilità di una liberazione collettiva da questo potere sovrapoliticizzante. La nostra condizione politica rattrista, ma non ha niente a che vedere con quella di miliardi di persone che subiscono in pieno gli effetti sempre più diffusi e implacabili del capitalismo globalizzato, orchestrato dal potere politico. Da occidentali, restiamo in gran parte protetti dai mali più acuti di cui
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parliamo. Se non fosse questo il caso, non avremmo neanche potuto scrivere queste righe. Lasciamo a incoscienti e spiritosi di accusarci di cedere qui al «pentimento» o all’«odio di sé». La verità è più semplice: per certi aspetti traiamo persino beneficio da questa situazione criminale. Chi ne dubita può leggersi, per esempio, l’inchiesta del giornalista del Financial Times Tom Burgis 5, che descrive nel dettaglio il sistema di saccheggio generalizzato delle risorse naturali africane, o l’analisi di Guillaume Pitron 6 , che mostra gli effetti reali dei nostri consumi tecnologici. In un’intervista a Reporterre del settembre 2019, Pitron è andato dritto al punto:
Stiamo delocalizzando l’inquinamento. Non vogliamo neanche vedere cosa viene prima e cosa viene dopo un telefono cellulare. Pretendiamo tutti i vantaggi di un modo di vivere «connesso» ma rifiutiamo i suoi inconvenienti. Lasciamo che altri Paesi, più poveri, inquinino il loro ambiente e siano più soggetti a casi di cancro, ma ci guardiamo bene dal parlarne. È un’immensa ipocrisia 7 .
E come non riconoscersi nelle parole di Simone Weil: «Data la stabilità delle condizioni generali dell’umanità nel nostro mondo, è probabile che mangiare a sazietà sia sempre sbagliato» 8 . Dalla nostra condizione di privilegiati non
5 T. Burgis, The Looting Machine. Warlords, Tycoons, Smugglers and the Systematic Theft of Africa’s Wealth, Wi lliam Collins, London 2015 (trad. it. La macchina del saccheggio. Signori della guerra, magnati, trafficanti e il furto sistematico delle ricchezze africane, Francesco Brioschi, Milano 2020).
6 G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, LUISS University Press, Roma 2019.
7 Cfr. A.-R. Kokabi, La folie du smartphone, un poison pour la plànete, in Reporterre, 17 settembre 2019 (https://bit.ly/2lOs6CP). Tutti i link sono stati controllati il 3 agosto 2022.
8 Cfr. C. Rancé, Simone Weil. Le courage de l’impossible, Seuil, Paris 2009.
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si tratta di sviluppare un paralizzante senso di colpa, ma un’energia per metterci sempre e prima di tutto al servizio dei nostri fratelli e sorelle.
Liberarsi del potere
Benché il Vangelo rappresenti un appello alla libertà e alla carità, con una lucida coscienza delle difficoltà del mondo abbiamo permesso che la sovrapoliticizzazione estendesse il proprio controllo e ci trasformasse in mezzi e strumenti del suo potere. In questo contesto la fede viene invocata come una «consolazione». Un tale approccio conduce a delle impasse. Individualizza al massimo il rapporto con Dio, distogliendo la fede dal desiderio di rigenerare la storia collettiva; spiritualizza il contenuto delle parole evangeliche, vedendovi la misteriosa descrizione di un altro mondo e non il modo di gettare luce sul nostro tempo e svelare il cammino indicato da Dio; moralizza il senso dell’azione, portando al livello della vita individuale ciò che si astiene dal pensare sul piano collettivo. Divenuta comoda consolazione, la fede somiglia all’«oppio dei popoli» criticato da Marx. Anziché vedere in questa formula il simbolo dell’ateismo in senso stretto, possiamo imparare a leggerla come un appello a purificare la fede dai pericoli sempre incombenti della superstizione e della fuga dalla nostra condizione storica. Per questo bisogna continuamente tornare alla vita di Gesù, fatta di prove, lotte e preghiera. Nel Vangelo di Matteo, il Cristo si presenta come consolatore: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e trovere-
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te ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30). Ma questa consolazione viene dalla liberazione dal «fardello»9, il che significa che la fede può strapparci dalla morsa di ciò che ci affligge e ci schiaccia. Per esempio, i meccanismi di potere descritti in precedenza. Il «giogo» del Cristo è «leggero» perché riconoscerlo come Maestro, lasciarsi rigenerare da lui, equivale a prendere coscienza del bene e a desiderarlo. La sovrapoliticizzazione produce uomini e donne feroci, competitivi, cinici, che non sono più l’uomo o la donna «secondo natura», ma la distorsione della loro vocazione. Così facendo, essa impedisce alla nostra fede di nascere, di crescere, e all’«uomo nuovo» di sorgere e sconvolgere l’ordine esistente. Il Vangelo è in effetti un appello a una «rinascita in Dio» (cfr. Gv 3,5), rinascita che conduce a una vita di carità e a lottare contro l’ingiustizia del mondo. Abbiamo assimilato troppo l’idea per cui il ruolo naturale del cristianesimo in politica sarebbe quello di una legittimazione incondizionata dell’ordine stabilito, sia che esso dica al potere temporale cosa fare (modello teocratico), sia che funzioni da docile strumento di disciplina sociale nelle mani dello Stato (modello cesarista). Ciò spiega come i concetti di teocrazia, di diritto divino e di autoritarismo liberticida vengano immediatamente associati al cristianesimo quando si tratta di mettere in questione il suo ruolo politico. E rende anche conto della diffusione dell’odio spontaneo e ‒ bisogna dirlo ‒ molto francese verso il cristianesimo, che si trova negli ambienti rivoluzionari. Questo quadro ha le
9 Nell’edizione originale, dove la citazione biblica è tratta dalla Bible de Jérusalem (BJ), Cerf, Paris 1998, gli «affaticati» e gli «oppressi» sono definiti come «coloro che soffrono sotto il peso del fardello», producendo un parallelo evidente con quanto affermato in seguito (ndt).
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sue radici storiche in un certo cristianesimo, costruito per essere funzionale agli interessi mondani, che Sören Kierkegaard critica lungo tutta la sua opera: «Tutta la cristianità (ovvero il cristianesimo storico come si è imposto) non è altro che lo sforzo del genere umano di tornare sui suoi passi, di sbarazzarsi del cristianesimo, pretendendo di essere il suo compimento»10. Si sarebbe tentati di identificare il tipo di cristianesimo di cui parla Kierkegaard con la Chiesa cattolica e la sua pompa vaticana. Tuttavia, pensiamo che una duplice logica attraversi il cattolicesimo e le sensibilità che lo compongono: quella legittimista della collaborazione incondizionata con il potere in carica e quella evangelica della creazione di forme di vita e parole che, nel contatto rischioso con il potere, lo svuotano di ogni legittimità. La pr ima, accecata dal desiderio di accreditarsi presso la storia, confonde subordinazione ai potenti e desiderio di assicurarsi una memoria eterna, ritenendo la propria viltà mero «realismo»; la seconda, animata dal bisogno di rendere concreto il Vangelo, intende rendere visibile nel cuore della storia – f ino alla «città eterna» – la croce di Cristo che relativizza ogni potere e smaschera ogni dominio. Questa rappresenta un vessillo piantato al cuore della civiltà europea simboleggiata dalla gloria romana e dalla sua sete di grandezza temporale. In questo il cristianesimo funge da acceleratore dell’evidente crisi di legittimità che oggi colpisce i regimi liberali in Occidente e li spinge a irrigidirsi su prerogative securitarie sempre più ampie e invadenti.
La teocrazia e il cesarismo non esistono più ai nostri giorni e nei nostri Paesi, ma l’uso della religione da parte
10 S. Kierkegaard, L’Instant, in Œuvres complètes, vol. 19, Orante, Paris 1982 (orig. 1855; trad. it. L’istante, a cura di A. Gallas, Marietti, Genova 2001).
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del potere si riaffaccia tramite il tema dell’identità nazionale, come ha largamente mostrato l’episodio dell’incendio di Notre-Dame a Parigi nell’aprile 2019. In quel momento è apparso chiaramente quanto fosse il potere ad avere bisogno della religione cristiana e non viceversa. Nella promessa del governo di «ricostituire» Notre-Dame e nella gara alla donazione più cospicua che ha visto contrapporsi i principali miliardari di Francia, c’era in gioco più che un desiderio di salvaguardare un bene culturale, ammirato a ragione da tutto il mondo. C’era, in piena crisi dei Gilet gialli, in un momento di crescita delle disuguaglianze sociali, il bisogno di unificare simbolicamente la nazione e di relativizzare i dissidi che la attraversavano. La questione che l’incendio poneva ai cattolici era dunque sapere se fossero pronti a vedere un luogo di preghiera, la cui bellezza non ha una finalità se non nel manifestare la gloria di Dio, diventare una garanzia di unità nazionale. La filosofia e il cristianesimo si sono imposti proprio contro tale logica: verità e giustizia valgono più di qualsiasi unità fittizia. Così Socrate, così il Cristo – ma si potrebbero fare altri esempi. Anziché vedere i cattolici riempirsi di emozione per l’evento, leggendovi una prova di vitalità del cristianesimo, ci sarebbe piaciuto di più sentire i loro responsabili religiosi sottolineare che una vera unità collettiva può derivare solo dal mantenimento e dalla crescita dei legami fraterni. Contrariamente alla concezione liberale dei rapporti tra fede cristiana e politica, che afferma che quest’ultima e la religione appartengono a due ordini differenti di pensiero e di azione, riteniamo che uno degli effetti delle parole del Cristo sia svuotare il potere politico di ogni legittimità intrinseca, in linea con l’affermazione del filosofo protestante Jacques Ellul: «Il cristianesimo non fornisce alcuna giu-
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stificazione al potere politico»11. L’azione del Cristo è un dono totale e un servizio disinteressato; essa sfugge alla categoria del potere e alla coercizione, che ne è il corollario. Il Cr isto mostra che ciò che fonda la legittimità dell’azione è la carità, non un qualunque statuto che conferisce il potere. La vita e la morte del Cristo possono anche essere intese come il risultato del conflitto tra i poteri istituiti da una parte ‒ politico (il potere colonizzatore romano) o religioso (il potere dei sommi sacerdoti), gelosi del loro primato e sicuri delle loro ragioni ‒ e la carità di Gesù dall’altra, che muove le persone senza impiegare le armi della paura e della sopraffazione. La croce è allo stesso tempo il segno della v ittoria temporale dei potenti sul Cristo – ossia della logica del potere sulla logica del servizio – e il segno del trionfo eterno di Dio sui potenti, poiché essa diviene il luogo stesso dell’avvento della salvezza. La vittoria dei potenti è solo apparente e il loro fragile regno è condannato alla rovina, da cui la profezia pronunciata da Maria prima della nascita del figlio: «Rovescia i potenti dai troni»12 (Lc 1,52). Trovando la legittimità delle proprie azioni nell’amore potente di Dio, il cristiano getta uno sguardo fondamentalmente diffidente sulla storia e sui poteri politici istituzionali. Ciò tuttavia non impedisce alla vita pubblica di essere, in momenti sfuggenti e felici, il teatro di irruzione della grazia. Ciò che la fede cristiana abolisce è la politica intesa come potere legittimo e come coercizione, e non l’idea stessa di politica, poiché il cristianesimo è portatore di un modo
11 J. Ellul, La subversion du christianisme, Seuil, Paris 1984 (trad. it. La sovversione del cristianesimo, Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2012).
12 Così la BJ nell’originale francese. CEI 2008 ha invece: «Ha rovesciato i potenti dai troni» (ndt).
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originale di organizzare la vita comunitaria. Ciò che abitualmente definiamo «religione» mira allo sviluppo delle relazioni umane in campi ritenuti spesso chiusi: la morale, la politica, l’economia, la vita sociale, la vita familiare ecc. L’interesse del cristianesimo è nella sua forza di riconfigurazione di questi campi alla luce della fede, della speranza e della carità. Tutta l’opera del teologo americano contemporaneo William Cavanaugh mostra che il ruolo essenziale della Chiesa è instaurare una comunione reale tra le persone, che includa le diverse dimensioni della vita. È questo il motivo per cui in seguito ricorriamo ai concetti di istituzione destituente, di parrocchia, di comunione e di radicamento, tracce possibili di una forma di vita cristiana di portata universale, cioè non riservata ai cristiani. Crediamo dunque che una politica cristiana sia possibile e non consisterebbe né nel confortare i cristiani di questo Paese illudendoli sull’opportunità di un ennesimo «partito cattolico» lanciato alla conquista del potere istituzionale, né nell’incaricare la politica del compito comunitarista di organizzare la vita dei nostri correligionari a scapito o a esclusione degli altri, vicini o lontani. Il primo tentativo ha ben mostrato a quali disastri teorici e pratici conduca. Confezionati come «valori», le parole e gli appelli evangelici perdono la loro radicalità e si ritrovano a giustificare i conservatorismi più anacronistici e l’umanesimo più illusorio. Ridotto a una vaga «fonte di ispirazione», il Vangelo non è più all’unico posto che gli si addice: il primo. Dal canto suo, il secondo tentativo è in aperta contraddizione con il bisogno di universalità inerente all’atto di fede stesso.
Perché il desiderio di una politicizzazione attraverso la fede non si riveli un disastro né una rigenerazione delle derive politiche classiche (specialmente le derive gemelle del
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dominio e del delirio di onnipotenza), occorre soddisfare delle condizioni. Questa politicizzazione deve puntare alla guarigione della nostra voglia di agire dal delirio di onnipotenza e orientarla verso la carità. Essa dunque non è un nuovo tipo di evangelizzazione, non mira a convincere della verità del cristianesimo mediante il discorso, né a proiettarsi con vena conquistatrice verso Paesi sociologicamente non cristiani. Essa va pensata anche a partire dal disimpegno, dal farsi da parte, dalla presa di distanza riguardo al meccanismo di sovrapoliticizzazione già descritto. Il disimpegno non è la fuga, poiché il suo obiettivo è l’annientamento del potere che ci sovrapoliticizza e coopta. Vivere in modo disimpegnato significa concedersi lo spazio e il tempo necessari alla creazione di modi di vivere non controllati da questo potere. La Chiesa cattolica è di aiuto in questa missione, specialmente proponendo dei locali a delle associazioni ad affitti molto bassi e senza subordinare questo beneficio al controllo economico o a un obiettivo ideologico. Il locale destinato alle attività associative del Dorothy beneficia per esempio di questo tipo di impostazione, assai preziosa in un momento in cui il mercato immobiliare parigino è oggetto di una folle speculazione finanziaria. Il disimpegno si distingue anche dal rifiuto nella misura in cui praticarlo è riconoscersi impuri, perché riconfigurati dal potere. A monte del disimpegno c’è pertanto la presa di coscienza di un doppio limite; e a valle il desiderio di una vita in cui le conseguenze del potere risultino ridimensionate e controbilanciate da processi di creazione originali. L’esperienza delle ZAD 13 può esserci utile: ben radicate
13 L’acronimo sta per Zone à defendre, zona da difendere, con cui ci si riferisce ad aree occupate al fine di impedire la costruzione di grandi opere (ndt).
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nella storia – altrimenti perché subirebbero la repressione? –, esse si tengono a distanza da ogni potere istituzionale e riflettono costantemente sui modi di evitare la coercizione nei rapporti umani. In definitiva la sfida è di conciliare il disimpegno con la solidarietà, la difesa dal potere con la ricerca del bene comune, perché niente giustifica l’abbandono dei luoghi in cui i più deboli soffrono.
La politicizzazione mediante la fede e la critica alle strutture del potere dominante si uniscono nel nostro caso a una paradossale fiducia nelle persone, indipendentemente dalle strutture e dalle condizioni in cui si trovano. È sempre bene ricordare le parole di Camus: «Come suo più grande sforzo, l’uomo non può che proporsi di diminuire significativamente il dolore del mondo»14 . La questione della diminuzione quantitativa del «dolore del mondo» non può essere cancellata con un colpo di spugna; essa merita di essere considerata in tutta serietà. Ci si guarderà quindi dal fare ironia verso coloro che lottano, armati di buona volontà, per portare un po’ di giustizia su questa terra, anche se la loro azione dovesse svolgersi in luoghi di potere in contraddizione strutturale con tale intenzione. Dopotutto, Chelsea Manning o Edward Snowden, informatori, entrambi membri del complesso scientifico-militare americano, hanno potuto compiere atti coraggiosi perché hanno conosciuto luoghi così. In un altro ambito, possiamo pensare a tutte quelle persone che si battono dall’interno di istituzioni come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Possiamo disperare delle strut-
14 A. Camus, L’Homme révolté, in Œuvres complètes, vol. 3, Gallimard, Paris 2008 (orig. Paris 1951; trad. it. L’uomo in rivolta , Giunti-Bompiani, Milano 2017).
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ture, ma dobbiamo mantenere la fiducia nelle persone. «Il vento soffia dove vuole», ci insegna il Vangelo (Gv 3,8). Qui divergiamo da una certa sinistra estrema, la cui prontezza nel condannare definitivamente delle persone in nome della loro appartenenza a strutture avverse ci ricorda il puritanesimo. Nondimeno si può deplorare che il discorso della Chiesa, a motivo della fiducia nella capacità delle persone di orientare il corso delle cose, non affronti più a testa alta strutture oggettivamente dannose. Nei suoi diversi testi e nelle sue prese di posizione pubbliche papa Francesco ha pronunciato parole espressamente critiche di cui non si può non gioire: «Io non posso non denunciare, Vangelo alla mano, i peccati personali e sociali commessi contro Dio e il prossimo in nome del dio denaro. Il capitalismo sfrenato ha creato nuove precarietà e nuove schiavitù»15. All’accusa di anarchia che potrebbe esserci rivolta rispondiamo in modo lapidario: il nostro motto non è «né Dio, né maestri!», ma «Dio, solo maestro». Da questo punto di vista dunque non siamo anarchici, ma cinici, non nel senso evocato in precedenza, ma in quello elaborato da Michel Foucault: il cinico come colui che prende sul serio i principi sui quali si intende fondata la comunità. Se il cinico sta ai margini è perché crede nei principi comuni. È in questo senso che il Cristo era un marginale, è in questo senso che i cristiani portano in sé i germi della marginalità. Non una marginalità voluta per se stessa, in un narcisismo della negatività, ma una marginalità che consiste nella rinuncia alla ricerca del potere senza abbandonare la preoccupazione politica, per perseguire una seria ricerca della
15 Cfr. M. Zanzucchi, Potere e denaro. La giustizia sociale secondo Bergoglio, Città Nuova, Roma 2018.
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verità. Pertanto, se nascesse una protesta, essa non procederebbe dalla volontà di sovversione, ma dalla logica. Il cristianesimo non deve diventare eretico per essere rivoluzionario; non deve abbracciare un’utopia, ma rivestirsi del Vangelo. Per un catechismo rivoluzionario.
L’istituzione destituente
Le recenti questioni legate alla pedofilia nella Chiesa, opiuttosto al silenzio dell’istituzione di fronte a tali crimini, hanno aperto una crisi che non si potrà fermare solamente mediante una verità che desti più reazioni o una maggiore trasparenza. Perché ciò che è in crisi ‒ e spiega perché le diocesi ricevano così tante (impossibili) richieste di sbattezzo ‒ si riassume in una questione semplice: che cosa significa essere cattolico, ovvero un cristiano che si definisce in rapporto a un’istituzione? Se alcuni chiedono all’istituzione di essere rimossi dai propri registri è perché rimanerle legati, per loro, non ha più senso. Inoltre, consideriamo che ciò che viene rimesso in causa dalla crisi attuale tocca la natura e la possibilità stessa di un’istituzione cristiana.
Se, come dice il Credo, la Chiesa è santa, significa perlomeno che essa non è né può comportarsi come un’istituzione simile alle altre. Tuttavia, il suo silenzio testimonia non soltanto la sua corruzione, ma anche un comportamento simile a quello di altre istituzioni, che cercano di perseverare nel proprio essere a scapito della verità, quindi della giustizia. Si sentono alcuni cattolici, da biasimare, confrontare il silenzio che ha attorniato i casi di pedofilia nella Chiesa con quello che ha riguardato i casi di pedofilia nel
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mondo dell’educazione o dello sport, come se ciò attenuasse la gravità di quei comportamenti. Un tale confronto lascia intendere che la Chiesa sia un’istituzione come le altre, e non è un gran modo di difenderla.
Occorre dire che c’è una lunga tradizione di apologia anticristiana della Chiesa cattolica. È così che questa istituzione che chiamiamo Chiesa (ekklesia, l’«assemblea»), nello specifico per distinguerla dalla città ( polis, tra la «città» e lo «Stato»), è diventata il modello di tutte le istituzioni gerarchiche. Che il cristianesimo si rivolti contro se stesso è un’operazione che era già apparsa chiaramente nella tradizione francese del gallicanesimo, che consiste al tempo stesso nel costruire una Chiesa nazionale e santificare il sovrano. Mentre la Chiesa afferma la differenza tra il santo e il sovrano, il gallicanesimo tenta di farli coincidere, in nome della difesa stessa della fede. È questo ad aver condotto coloro che si definivano «re cristianissimi» a lottare contro il papa e più tardi i gallicani a lottare contro gli «ultramontani», visti come parti de l’étranger. Fin dal battesimo di Clodoveo la Francia si definisce per mezzo del gallicanesimo, ossia di una sacralizzazione dello Stato in contrasto con tutto ciò che il papato può rappresentare sia in termini di apertura all’universale che di legame con le realtà locali, parrocchiali. È significativo che i re di Francia si facessero chiamare «re cristianissimi» rispetto ai «re cattolici» di Spagna. Ed è un segno dei tempi che oggi coloro i quali si appellano in modo forte e chiaro all’identità cristiana della Francia lo facciano contro il Papa, nello specifico contro il suo incessante appello ad adottare l’atteggiamento del Buon Samaritano, che ha saputo rendersi prossimo di colui che i briganti avevano reso debole, al punto da servirlo incondizionatamente. Proprio come Luigi XIV
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aveva lottato contro papa Innocenzo XI, i gallicani di oggi si fanno forti della cristianità per colpire Francesco, accusandolo più o meno apertamente di essere islamo-gauchiste 16 . Così, mentre Pietro attribuisce alla Chiesa il primo nome di «fratelli sparsi per il mondo» (1Pt 5,9: aldephotes en kosmo), i gallicani fanno del cristianesimo un argomento a favore della tesi dello scontro di civiltà. Se cerchiamo di mantenere un punto fondamentale, quello della fedeltà all’evento messianico, i recenti testi di Giorgio Agamben sulla destituzione costituiscono, insieme con le Scritture e la dottrina sociale della Chiesa, una letteratura delle più edificanti. Non ci stupiremo troppo se saremo disposti ad ammettere che una filosofia degna di questo nome è sempre e solo edificante suo malgrado – il che significa molto più che a sue spese – e che lo Spirito soffia dove vuole. Non sono solo i riferimenti ai Salmi, alle «nonnine cattoliche» e ai Comuni irlandesi a colpire in questi testi 17; è il fatto che ci riportino alla parte più politica della nostra tradizione richiamandoci alla serietà della nostra condizione messianica. «Cristiano» significa in ef-
16 L’espressione va fatta risalire al filosofo e storico delle idee Pierre-André Taguieff. La sua diffusione si deve alla crescente presenza di cittadini musulmani sul suolo francese, il che ha ingenerato in alcune forze politiche, solitamente di destra, l’esplicitazione di un’accusa rivolta a rappresentanti politici, soprattutto di sinistra, considerati troppo indulgenti nei confronti dell’islamismo (ndt).
17 Il riferimento è ai testi di Le Comité Invisible, un collettivo anarchico anonimo che si ispira al concetto di «potenza destituente» di Giorgio Agamben con l’obiettivo di avviare una pratica destituente in seno alla società. Il Comité, che ha sollevato non poche polemiche in Francia, cita i Salmi come conferma dell’antichità della lotta di classe, il coinvolgimento esemplare di alcune anziane signore di fede cattolica nelle proteste in Val di Susa e la dichiarazione di autonomia di alcuni Comuni cattolici irlandesi che destituì, di fatto, il potere statuale dopo il trentennale conflitto nordirlandese degli anni Sessanta (ndt).
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fetti «messianico», e «messianico», a minima, la sospensione dei poteri temporali. Questi testi ci obbligano a pensare che il termine scelto per essere al cuore delle nostre fedeltà – «risurrezione» – è quello che in greco designava l’insurrezione: anastasis, il sollevamento, che ha luogo in modo improvviso. Esso ci ricorda che il primo scopo politico della Chiesa è istituire l’anastasis come forma di vita, implicando l’articolazione in un «adesso» rivolto all’eternità dell’insurrezione-risurrezione già compiuta da Cristo, e quella che verrà. La nostra appartenenza alla Chiesa cattolica, intesa come istituzione destituente, è dunque portatrice di una specifica linea politica: non accontentarsi dello Stato e del suo governo, o di un governo senza Stato, ma annullare il suo effetto deresponsabilizzante sulle nostre vite. Perché se ha un senso che la Chiesa sia un’istituzione, ciò non può essere che in tensione non soltanto con le altre istituzioni, ma anche con la propria natura istituzionale. Un’istituzione destituente esiste solo a condizione di destituirsi essa stessa e di destituire le altre istituzioni. Il potere che essa si dà temporaneamente ha senso solo se affronta il potere nella sua profonda negligenza verso la persona. Si può vedere una manifestazione di questa dimensione istituzionale paradossale della Chiesa se si guarda alla sua fondazione da parte di Gesù: una fondazione sulla croce, segno di unità di tutti i cristiani, che coincide con il rinnegamento di Pietro. L’istituzione della Chiesa da parte di Gesù coincide con la fallibilità incarnata da Pietro. Ciò significa sia che la Chiesa esiste in una dialettica tra morte e vita, sia che esiste solo in mezzo al proprio fallimento, in una tensione tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, ovvero che esiste soltanto in uno stato di crisi, di inadeguatezza rispetto alla propria vocazione.
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SAGGISTICA PAOLINE
Saggi di cultura religiosa in senso ampio, che affrontano le diverse tematiche della fede, della spiritualità, della Bibbia, della teologia, del dialogo interreligioso in maniera divulgativa, senza però rinunciare a un certo rigore scientifico.
4. Carlo Climati, I giovani e l’esoterismo. Magia, satanismo e occultismo: l’inganno del fuoco che non brucia
19. Luis F. Ladaria, La Trinità, mistero di comunione
37. Ettore Malnati, I ministeri nella Chiesa (prefaz. di Guido Pozzo)
38. Stefano Guarinelli, Il celibato dei preti. Perché sceglierlo ancora? (prefaz. di Franco Giulio Brambilla)
40. André Chouraqui, Il destino d’Israele. Corrispondenza con Jules Isaac, Jacques Ellul, Jacques Maritain, Marc Chagall. Conversazioni con Paul Claudel
41. Giacomo Morandi, Bellezza. Luogo teologico di evangelizzazione (prefaz. di Tomásˇ S ˇ pidlík)
42. Alberto Piola, Non litigare con Darwin. Chiesa ed evoluzionismo (prefaz. di Piero Coda)
43. Cesare Paradiso - Pietro M. Fragnelli, Giuseppe Dossetti. Sentinella e discepolo (prefaz. di Cosimo Damiano Fonseca)
44. Simone Giusti, Solo l’amore salva. Un percorso di evangelizzazione
46. Corrado Lorefice, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II (prefaz. di Giuseppe Ruggieri)
47. Natalino Valentini, Volti dell’anima russa. Identità culturale e spirituale del cristianesimo slavo-ortodosso (prefaz. di Elia Citterio)
49. Giuseppe Alcamo (a cura di), Il compito educativo della catechesi. Il contributo del Documento di base
51. Alfredo Luciani, La spiritualità del lavoro Dalla dottrina sociale una sfida per il futuro
52. SAE (a cura di), « Camminare in novità di vita ». In dialogo sull’etica
53. Bruno Secondin - Guglielmo Cazzulani, A Oriente dell’Eden Dialoghi e mediazioni tra Vangelo e culture
54. Maria Grazia Fida, Educare alla pace. La via di don Milani
55. Francesco Mattioli, A che punto siamo arrivati! Viaggio nell’imbarazzante mondo del rispetto
56 Dario Edoardo Viganò, Il Vaticano II e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società (con DVD)
57. Sergio Paronetto, Tonino Bello, maestro di nonviolenza. Pedagogia, politica, cittadinanza attiva e vita cristiana
58. Vincenzo Bertolone, La sapienza del sorriso. Il martirio di don Giuseppe Puglisi
59. Giuseppe Forlai, Cristo vive in me. La proposta spirituale di don Alberione
60. SAE (a cura di), « Praticate il diritto e la giustizia ». Un dialogo ecumenico sull’etica sociale
61 Carlo Ghidelli, Un dono da vivere. Il concilio Vaticano II
62. Maurizio De Sanctis, Gesù di Nazaret. Drop out di tutti i tempi
63. Marinella Perroni e Hervé Legrand (a cura di), Avendo qualcosa da dire. Teologhe e teologi rileggono il Vaticano II
64. Valeria Martano, L’abbraccio di Gerusalemme. Cinquant’anni fa lo storico incontro tra Paolo VI e Athenagoras
65. SAE (a cura di), Condividere e annunciare la Parola. « Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi »
67. SAE (a cura di), « Ama il prossimo tuo come te stesso ». La vita in relazione: prospettive etiche
68. Rocco Parolini, Scommessa sulla felicità. Una nuova lettura dei Pensieri di Pascal
69. Anne Soupa, Dio ama le donne? Verso una teologia della donna
70. Antonio Galati, Teilhard de Chardin. La Chiesa nell’evoluzione dell’universo
71. Maurizio De Sanctis, Quale vita oltre la morte? Teologia, filosofia, Sacra Scrittura
72. Giuseppe Forlai, Io sono “Vangelo”. Decidersi per Cristo alla scuola di Paolo
73. Paolo Candelari - Ilaria Ciriaci, Guerra pace nonviolenza. 50 anni di storia e impegno
74. Mela Mondì Sanò, Dalla timidezza alla speranza. Il cammino pedagogico-politico di don Milani
75. George Augustin, La Chiesa secondo papa Francesco
76. Cristina Simonelli e Pius-Ramon Tragan (a cura di), La Parola e la Polis. Percorsi biblici, teologici, politici. Omaggio a Marinella Perroni
77.Onorato Nardi, Le radici dell’anima. L’esperienza spirituale di don Primo Mazzolari
78. Giovanni Maria Flick, Elogio della Costituzione
79. Gabriele Pelizzari, La discepola ribelle. Tecla di Iconio nel ciclo agiografico degli Atti di Paolo
80. Leopoldo Gasbarro, Terra. Scegliamo di vivere!
81. George Augustin, L’anima dell’ecumenismo. L’unità dei cristiani come percorso spirituale
82. Anne Soupa, Dodici donne nella vita di Gesù. Senza paura di amare e di essere amate 83. Massimo Enrico Milone, Quel giorno a Gerusalemme. Da Paolo VI a Francesco 84. Giovanni Maria Flick, La Costituzione: un manuale di convivenza. Antologia di scritti su Costituzione, dignità, patrimonio
85. Sabina Caligiani, La voce delle donne. Pluralità e differenza nel cuore della Chiesa 86. Antonella Lumini, Spirito Santo. Divina maternità, amore in atto
87. Giovanni Maria Flick, Elogio della città? Dal luogo delle paure alla comunità della gioia
88. Franco Ferrari, Francesco il papa della riforma. La conversione non può lasciare le cose come stanno 89. Paolo Luigi Branca e Antonio Cuciniello, Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità 90. Antonella Lumini, Monachesimo interiore. Tempo di crisi, tempo di risveglio 91. Maria Cristina Bartolomei - Rosanna Virgili (edd.), Discanto. Voci di donne sull’enciclica Fratelli tutti
92 Her vé Legrand - Michel Camdessus, Una Chiesa trasformata dal popolo. Alcune proposte alla luce di Fratelli tutti
93. Mar ia Martello, Una giustizia alta e altra. Nella nostra vita e nei tribunali
94. Pau l Colrat - Foucauld Giuliani - Anne Waeles, La comunione che viene. Giovani, politica e fede. Quaderni
95. Massimo Grilli, Una sfida per la Chiesa. La sinodalità nell’opera lucana
La sfida che l’autore vuole raccogliere è quella di presentare il cambiamento, che papa Francesco sta portando avanti, attraverso un racconto documentato che consenta di cogliere l’organicità del disegno riformatore, le connessioni con la Tradizione e i processi che mette in atto per guidare la Chiesa nel terzo millennio.
Molti i temi che rivestono il carattere della novità: la misericordia, il clericalismo, la riforma della curia, l’economia, l’ecologia integrale ecc.
Paul Colrat, Foucauld Giuliani e Anne Waeles sono giovani e brillanti trentenni, cattolici, docenti di Filosofia. Il loro impegno si è dispiegato all’interno di due caffè-coworking associativi: Le Dorothy, fondato a Parigi nel 2017 – in riferimento a Dorothy Day (1897-1980), grande figura del cattolicesimo sociale americano – e Le Simone – in omaggio a Simone Weil –, aperto a Lione nel 2015. Questi luoghi, che si propongono di «lasciarsi ispirare dal Vangelo», mirano ad affinare il senso del bene comune attraverso specifiche iniziative (conferenze, mostre, attività sociali, trasmissione di competenze manuali ecc.). In copertina: © Cassette Bleue / Shutterstock
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Il fatto che giovani filosofi francesi, che si presentano come «semplici parrocchiani» e che sono entrati in relazione in due cafés di Lione e Parigi, offrano una rilettura complessiva delle sfide politiche per il cattolicesimo contemporaneo con una miscela sorprendente di radicalismo evangelico, di raffinata analisi culturale e di passione per la tradizione cristiana, è fin dal primo impatto un dato che sorprende.
In Italia non abbiamo «caffè parrocchiali» che ripensano la Chiesa e il mondo. Né abbiamo, ordinariamente, il coraggio di intrecciare Vangelo, cultura, sfide sociali e giudizi storici con quella freschezza che il testo che abbiamo tra le mani ci offre, con un’allure tutta francese, ma con una serie di evidenze che attraversano tutto il campo dell’esperienza europea e mondiale.
Andrea Grillo dalla Prefazione
ISBN 978-88-315-5503-6
22Y 94