Terra di Dio - Estratto

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«Dov’è Dio? », «Come trovarlo?», «Come riconoscerlo?».

Queste pagine esplorano la domanda che arde nel cuore di donne e uomini di tutti i tempi e a cui il cristianesimo offre una risposta fuori dagli schemi, persino scandalosa: il Dio di Gesù sta sulla terra, è un «Dio della terra».

Ciascuna lettrice, ciascun lettore guardando alla vita quotidiana potrà senza dubbio identificare i propri angeli e i propri demoni, le proprie radici e le proprie utopie, i propri piccoli miracoli, i propri inevitabili scandali e i propri frutti gustosi.

L’Autrice ci accompagna in questi spaccati di esistenza, di cui lei stessa ha fatto esperienza, convinta che la quotidianità sia un autentico luogo di chiamata e di invio, una vera «terra di Dio».

Spiritualità del quotidiano TERRA DI DIO

TERRA DI DIO

Una spiritualità per la vita quotidiana Prefazione di Víctor codina sj

MARGARITA SALDAÑA MOSTAJO

Titolo originale dell’opera: Tierra de Dios. Una espiritualidad para la vida cotidiana

© Editorial Sal Terrae. Grupo de Comunicación Loyola, 2019 Bilbao - España

Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Salvati

Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana © 2008, Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2022 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI) ISBN 978-88-315-5504-3

Prefazione alla seconda edizione spagnola

Dov’è Dio? Dove lo possiamo trovare? Sono queste le domande che molte persone di buona volontà oggi si pongono, nel vertiginoso traffico di esperienze e sensazioni, spesso deludenti, che sperimentano ogni giorno. Possiamo trovare Dio solo nel silenzio del tempio o nella solitudine della preghiera appartata? Alla fine, queste domande sono profondamente umane, di tutti i tempi. Margarita Saldaña risponde partendo non da una visione dualistica della realtà (cielo/terra), ma dalla fede nel mistero di Gesù, il Figlio di Dio incarnato. Un Gesù che scopriamo incarnato a Nazaret, un piccolo e marginale villaggio della Galilea, sconosciuto a molti, disprezzato da altri, dove ha trascorso trent’anni della sua vita.

Questa vita di Gesù a Nazaret, che di solito chiamiamo «vita nascosta», è stata in realtà una vita pubblica, normale, tra la sua famiglia, i suoi vicini e i suoi compagni di lavoro, condividendo come uno fra i tanti l’esistenza monotona e ordinaria del suo popolo, della maggioranza delle persone.

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In quegli anni Gesù, attraverso il popolo galileo, viene introdotto nella storia di Israele e nella storia della nostra umanità, e da Nazaret va plasmando e sognando la sua proposta del regno di Dio come alternativa a un mondo di oppressione, discriminazione e ingiustizia.

Questa prospettiva nazarena di Gesù, che Margarita ha approfondito a livello teologico nella sua prima opera Rutina habitada. Vida oculta de Jesús y cotidianidad creyente (2013)1 viene sviluppata in questa seconda pubblicazione in modo narrativo, semplice e pastorale, partendo da fatti ed esperienze concrete. Il nostro Dio è un Dio «della terra», un Dio con noi, che ci accompagna ogni giorno, sempre, che si fa presente a noi negli eventi e nelle persone che ci circondano, specialmente in quelle più deboli ed emarginate. Per questo la nostra terra diventa una terra dalle radici umane e spirituali, una terra di scandalo ma anche di utopia, con la presenza di frutti e di miracoli quotidiani; vale a dire che la nostra terra è una «terra di Dio». Dobbiamo toglierci i calzari, come Mosè davanti al roveto ardente: siamo sul terreno sacro della vita quotidiana. Pertanto, non dobbiamo cercare Dio tra le nuvole o nella nostra zona di comfort: «Con il Van-

1 Edizione italiana: Quotidianità abitata, Effatà, Cantalupa (TO) 2022 (nde).

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gelo in mano, non si può trascorrere la vita leggendo tranquillamente il giornale accanto al camino, circondati da persone che la pensano al nostro stesso modo, esultando di tanto in tanto per il successo delle azioni umanitarie in Paesi lontani» (p. 170).

Dobbiamo cercare Dio nella nostra terra, nello spazio e nel tempo di ogni giorno. Dobbiamo tornare al mistero di Nazaret, che è la terra che Gesù ha abitato per la maggior parte della sua vita e che ci rende possibile l’incontro con Dio nei successi e nei fallimenti di tutti i giorni, nella ordinarietà della vita quotidiana, negli ultimi. Questa spiritualità per la vita quotidiana, sempre nuova, si intreccia con la tradizione francescana di Laudato si’, con la tradizione ignaziana di «cercare e trovare Dio in tutte le cose», con il detto teresiano che «anche tra le pentole sta il Signore» e con la profonda sensibilità nazarena di fratel Charles de Foucauld, oggi attuale e necessaria come non mai.

Un libro da leggere e rileggere, per riflettere e interrogarsi, che unisce la semplicità di uno stile aneddotico e quotidiano con la profondità nazarena di un Gesù che ha trasformato la nostra terra ordinaria in una «terra di Dio».

Víctor codina sj 7 settembre 2021

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«DIO DELLA TERRA»

Avolte immaginiamo, anche se non arriviamo a confessarlo, che Dio sia lontano, in un paradiso remoto, estraneo a noi. Un Dio, in fondo, così trascendente e distante che non avrebbe molto in comune con la nostra vita concreta di esseri umani e terreni.

Custodiamo, tuttavia, l’infinita nostalgia e la segreta speranza di riuscire a entrare in relazione con lui, e lo cerchiamo nella natura e nel silenzio, in quei paradisi di pace che di tanto in tanto riusciamo a strappare ai nostri impegni. Intanto, come meglio possiamo, percorriamo questa corsia ad alta velocità che è la nostra vita quotidiana, in mezzo ai problemi di lavoro, all’educazione dei figli, alla ricerca di momenti comunitari, alle preoccupazioni per la salute, alle inquietudini finanziarie, ai dibattiti ecclesiali e al mondo che si sta lacerando intorno a noi.

Questa prospettiva non è nuova. Anche Israele si chiedeva con una certa frequenza dove fosse JHWH, quel Dio «geloso» che, a differenza degli idoli dei popoli vicini, non si lasciava racchiudere

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in statue d’argilla né in vitelli d’oro. Di tanto in tanto il popolo eletto aveva bisogno che gli fosse ricordato che JHWH, il Dio creatore, colui che aveva salvato gli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto e li aveva condotti fino alla Terra Promessa, continuava a essere realmente presente: «Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). «Dov’è Dio?». Queste pagine esplorano la domanda che arde nel cuore degli uomini di tutti i tempi. Il cristianesimo offre una risposta fuori dagli schemi e persino scandalosa: il Dio di Gesù Cristo sta sulla terra, è un «Dio della terra». Non è un dio lontano e isolato dal mondo, disinteressato delle faccende degli uomini. Non è nemmeno un dio manipolabile che si lascia imprigionare in immagini che sconfiggono magicamente le nostre paure o assecondano i nostri capricci.

Il Dio di Gesù Cristo «sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103,14). È un Dio che, grazie al suo amore infinito e alla sua libertà, ha scelto di impegnarsi con le sue creature al punto da condividere dall’interno la condizione umana. È un Dio che, nell’incarnazione di suo Figlio, ha deciso di percorrere i nostri sentieri, di assumere i nostri ritmi e di sporcarsi le mani con la nostra terra. Al di là delle rappresentazioni che ci facciamo di lui e degli idoli

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di argilla che ci fabbrichiamo continuamente nel vano tentativo di farlo nostro, l’eterna domanda rimane aperta, chiamandoci in causa: «Dov’è Dio “per me”?».

Credere nell’incarnazione significa mettersi ogni mattina alla ricerca delle impronte di Dio nella nostra terra, consapevoli che «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Non si tratta, dunque, di ridurre la nostra ricerca a tempi privilegiati o a spazi sacri, ma di riconoscere Dio nelle pieghe di questo mondo complesso e ambiguo che abitiamo, e che lui ha talmente amato da dare il suo unico Figlio per comunicargli la vita in pienezza.

Se vogliamo vivere secondo lo Spirito, se desideriamo veramente crescere in profondità e spiritualità, il destino di Gesù, e in particolare il mistero di Nazaret, si apre davanti a noi come strada sicura in mezzo all’incertezza e alla fragilità della nostra esistenza. Le persone che incontriamo ogni giorno per strada o sull’autobus si trasformano in «angeli» portatori di messaggi che dobbiamo imparare a decifrare. I loro volti, le loro storie, le loro sofferenze e le loro speranze ci interpellano a vivere concretamente il Vangelo, perché è qui e ora che il Signore si rende presente, e la nostra terra è il luogo dove il suo Regno cerca di crescere.

Ciascuna lettrice, ciascun lettore potrà senza dubbio identificare nella sua vita quotidiana i pro-

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pri angeli e demoni, le proprie radici e le proprie utopie, i propri piccoli miracoli, i propri inevitabili scandali e i propri frutti gustosi.

In queste pagine mi permetto in tutta semplicità di condividere alcune delle esperienze che mi hanno segnata personalmente, convinta che la vita quotidiana sia un autentico luogo di convocazione e di invio, una vera «terra di Dio».

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TERRA DI ESODO

Uscire Ho

incontrato Ranjit qualche tempo fa, quando sono andata a Londra a trovare degli amici che accolgono nella loro comunità donne rifugiate che non hanno riparo. La storia di questa donna indiana, nata nella regione del Punjab nel 1980, parla di coloro che sembrano non avere diritto a stare da nessuna parte.

Ranjit è figlia unica e quando ha nove anni i suoi genitori muoiono in un incidente. In seguito vive con gli zii e le zie fino a quando si sposa e si trasferisce a casa dei suoceri. Dopo un anno di matrimonio il marito emigra in Inghilterra e lei rimane con i suoceri e i cognati, che la sottopongono a vari tipi di abusi e la considerano la schiava di casa. A distanza di poco tempo Ranjit dà alla luce sua figlia, dalla quale si deve presto separare per raggiungere il marito nel Regno Unito; sotto le minacce dei suoi parenti si vede obbligata a lasciare il proprio Paese, nonostante sia priva di un visto e necessiti di un passaporto falso.

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La vita in Europa con suo marito non è ciò che si aspetta. Ranjit racconta che veniva controllato ogni suo movimento e gli abusi sessuali erano frequenti. Senza documenti, senza libertà, senza una rete sociale e senza possibilità di trovare un lavoro, tutto ciò che Ranjit vuole è tornare in India e riavere sua figlia ancora piccola. La violenta opposizione del marito e dei suoceri glielo impediscono. Per un momento tutto sembra cambiare quando è il marito di Ranjit a decidere di tornare al Paese d’origine. Invece, prima di partire, e sotto minaccia di morte, lei viene costretta a firmare un documento di separazione e una rinuncia alla custodia della loro figlia. E così, sola e senza documenti, Ranjit rimane all’improvviso senza più niente. Senza il diritto «legale» di intraprendere una nuova vita nel Regno Unito e senza il diritto «reale» di recuperare la vita che ha lasciato in India.

Da allora questa donna è stata sballottata da una parte all’altra, da un avvocato all’altro, da un’istituzione all’altra. Il governo britannico ha più volte respinto i suoi appelli, cosicché non sta ottenendo né il permesso di soggiorno né il permesso di lavoro. Per questo motivo trascorre periodi di tempo negli ostelli di diverse organizzazioni, ma non riesce a trovare un posto dove stare. Sogna ancora di tornare in India e di vedere sua figlia, che immagina adolescente, ma è convinta che se prendesse questa decisione mettereb-

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be a rischio la propria vita. Non sorprende che Ranjit soffra di depressione, incubi notturni e attacchi di panico. È sorprendente che abbia ancora voglia di sorridere, di fidarsi di qualcuno e persino di preparare focaccine per la colazione con i nuovi amici che ha trovato.

L’ Uscita aLL’ orizzonte

La nostra vita ha inizio con una uscita senza ritorno. Dopo nove mesi di benessere assoluto nel grembo materno, siamo gettati nel mondo e acquisiamo per sempre la condizione di pellegrini. Usciamo – o ci fanno uscire – dal grembo di nostra madre per entrare in una situazione di esodo permanente, e questo ci provoca una prima reazione istintiva: il pianto. È una fatica nascere.

Lo scontro con il mondo è motivo di ansia per il neonato, e in particolare per gli appartenenti alla specie umana, che al momento della nascita hanno raggiunto uno stadio di sviluppo molto più basso rispetto agli altri mammiferi. I neonati, quando attraversano lo stretto tunnel che separa la confortevole cavità uterina dall’ostile mondo esterno, lo fanno così privi di mezzi di sopravvivenza che per lunghi mesi sono costretti a dipendere dalle cure di un adulto. Anche se il primo viaggio della vita ha successo, esso costituisce una sfida enorme.

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Quando attraversiamo l’oscura uscita dal grembo materno, l’esodo è appena all’inizio; anzi, è lì che si colloca il suo vero inizio, perché «esodo» significa emigrare o camminare con altri, non da soli. Arriviamo al mondo e scopriamo che non siamo né i primi né gli unici, che vi sono altri e che questi altri sono diversi. Il cordone ombelicale che ci nutriva senza sforzo non c’è più e ora dobbiamo arrangiarci, imparare a chiedere e ad aspettare, a poppare dal seno materno...

Molto presto ci rendiamo conto che nostra madre è altro da noi e c’è una distanza che va rispettata, per quanto la nostalgia della simbiosi dei primi mesi non si attenui. Desideriamo ancora il piacere della fusione, ma altri minacciano il nostro obiettivo e ci pongono dei limiti. Abbiamo bisogno di essere amati incondizionatamente e tuttavia non possiamo fare nulla per assicurarci che accadrà. Ognuno di questi apprendimenti lascia il suo segno nel nostro corpo e nella nostra psicologia, e traccia i binari lungo i quali si snoderà poi la nostra traiettoria personale.

Alla fine della prima infanzia troviamo una nuova uscita. Siamo già in grado di superare gli ostacoli: possiamo camminare e mangiare da soli, esprimere a parole ciò che vediamo intorno a noi e persino eseguire azioni complesse come legarci i lacci delle scarpe. Siamo pronti ad andare oltre, anche se forse siamo riluttanti a farlo. L’inizio del -

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la scuola ci introduce in una cornice statica; nel corso degli anni cambieremo le foto, ma la cornice rimarrà al suo posto. Questa cornice è la routine propria della vita adulta, con la rigidità dei suoi spazi e dei suoi tempi.

La bambina che giocava senza orario e senza un luogo prestabilito è costretta a seguire un orario rigido e a occupare il banco blu triangolare, anche se a lei piace il tavolo rosso rotondo. Si tratta, senz’altro, di un nuovo esodo che apre un orizzonte infinito di gioia e di stupore, ma che mette definitivamente fine all’illusione che tutto sia possibile. Devi alzarti presto, fare colazione senza appetito, stare seduto per bene per interminabili ore, prestare attenzione agli insegnanti, non parlare in modo inopportuno e oltretutto fare i compiti... Benvenuti nella vita quotidiana!

Fin qui tutto bene, almeno quando si abita in un ambiente che dà per scontato questo modello di socializzazione. Il problema inizia quando incominciamo a trasmettere ai piccoli il sovraccarico che accompagna noi adulti. Sono sempre di più i bambini che, una volta terminati i loro compiti ordinari, s’imbattono in un’altra lunga lista di cose da fare che non sempre sono un nutrimento per la loro infanzia: ripetizioni scolastiche, pianoforte, scacchi, danza, cinese... e infine un corso di rilassamento per riprendersi dalla tensione che noi adulti addossiamo loro. Non si tratta più di vita

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quotidiana, ma di stress aggiunto alla vita quotidiana, una malattia che sembra incurabile per molti dei nostri contemporanei e che è diventata un segno distintivo del nostro tempo. Con o senza stress, nella cornice fissa dello spazio e del tempo andremo a mettere foto diverse a seconda di come ci va la vita. Il ritmo di un adolescente non è lo stesso di quello di un genitore, quello di un giovane in cerca di lavoro non è quello di un disoccupato di lunga durata, quello di una persona ben sistemata non è quello di una persona senza fissa dimora, quello di una donna in piena attività lavorativa non è quello di un pensionato che aiuta a crescere i propri nipoti, quello di un monaco tibetano non è quello di una suora in un campo profughi... ma al di là delle differenze di sesso, età, attività, livello economico, impegno o religione, siamo tutti più o meno legati da una sorta di filo rosso che a volte ci provoca un vero panico e dal quale segretamente vorremmo scappare: la routine. inerzia o roUtine?

Dalla routine non si può uscire e forse non è bene uscirne. Ma è importante spiegarsi bene e distinguerla dall’inerzia, benché i due termini siano spesso usati come sinonimi. L’inerzia è come l’àncora di una nave: una for-

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za che ci lega a un determinato punto e ci impedisce di muoverci fino addirittura a imprigionarci. Quando siamo soggetti all’inerzia sperimentiamo una terribile usura, tutto ciò che intraprendiamo sembra pesante, tutto sembra grigio, i giorni sembrano ripetersi, siamo facilmente irritati da cose senza importanza, abbiamo l’impressione che il mondo stia cospirando contro di noi e che nulla mai cambierà. Nell’inerzia ci raggiunge la morte. La routine è come il sentiero che attraversa un parco: è sempre nello stesso posto, con la stessa disposizione e le stesse pietre, ma, quando lo percorriamo ogni mattina per andare al lavoro, ci permette di scoprire realtà diverse. Prendendo sempre lo stesso sentiero, in un certo senso non vi facciamo caso e, liberi dalla preoccupazione di trovare la strada giusta, possiamo concentrare la nostra attenzione sull’ape posata sul fiore di lavanda, sul bocciolo che si affaccia timidamente o sulla preoccupazione del vicino che abbiamo appena incrociato. Sotto il peso dell’inerzia questo sentiero nel parco sembra noioso e interminabile, l’ape minaccia di pungerci, il fiore non lo vediamo nemmeno e il vicino è quel petulante del sesto piano che ci trattiene con le sue storielle, senza rendersi conto della fretta che abbiamo.

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Uscire da se stessi

Tra l’inerzia e la routine c’è qualcosa che non cambia: la realtà, con la sua inevitabile dose di ripetizione e di monotonia, di tempi cronologici sempre uguali, di spazi immutabili. Anche se teniamo d’occhio l’orologio la giornata lavorativa non sarà più corta, e per quanto cancelliamo ogni giorno dal calendario le vacanze non arriveranno prima. Il nostro appartamento sarà situato nella stessa città inquinata di sempre, i treni saranno ancora in ritardo e d’estate farà un caldo terribile. Quando di fronte alla realtà immutabile l’inerzia minaccia di inghiottirci, c’è qualcosa però che può illuminare e trasformare tutto: è il modo di affrontare l’agenda piena, l’inquinamento del quartiere, le ore interminabili di trasporto, le intemperie esterne e interne. Dobbiamo fare una scelta: morire nell’inerzia... o abitare la routine. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, questa routine che chiede di essere abitata non ci fa rassegnare alla noia, ma è una provocazione a muoverci in una determinata direzione: «Uscire dal proprio amore, volere e interesse», secondo le parole di Ignazio di Loyola. Uscire da se stessi è una qualità dell’amore. La paura ci spinge a proteggerci dalla differenza perché la differenza rappresenta il rischio di non essere compresi o accettati, di essere feriti, di fallire nella relazione.

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L’amore, al contrario, ci invita a uscire da noi stessi e a esporci all’altro, non in modo avventato, non come chi cerca inconsciamente il pericolo, ma con la fiducia che viene dalla libertà. Quando non devi più salvarti la vita con le tue sole forze e comincia ad affacciarsi dentro di te la sensazione che la tua esistenza sia in buone mani, puoi allora avventurarti a dare quello che hai senza fare tanti calcoli, cominci ad acquisire la capacità di uscire da te stesso e di aprirti incondizionatamente all’altro. Questo movimento di uscita da se stessi non richiede uno scenario spettacolare, proprio perché non ha alcuna pretesa di eroismo. «Non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me» (Sal 131,1). Si tratta piuttosto di un amore concreto e attento che, posto nelle vicende di ogni giorno, penetra lentamente la realtà e ci porta a sperimentare con gioia che la nostra routine è abitata da un significato che tutto rinnova, da una presenza che tutto pervade. Un tale amore, «più nei fatti che nelle parole», ci riscatta dall’inerzia sostituendo il nostro centro di gravità; la forza di attrazione non è più il mio volere e interesse, ma il volto del prossimo che mi interpella.

L’ esodo definitiVo

La storia della salvezza può essere letta come la storia di un Dio che si prodiga per il suo popo-

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lo, uscendo continuamente incontro ad esso con una creatività infinita. Nel deserto JHWH si fa colonna di fuoco e nube per guidare il cammino sia di giorno sia di notte. Ogni volta che Israele si adagia o si perde nell’infedeltà, JHWH suscita giudici e profeti per ricordargli la sua vocazione di popolo eletto e gli impegni dell’alleanza.

In pieno esilio babilonese, quando Israele non ha più nulla da perdere, JHWH continua a chiamarlo alla conversione, incoraggiando la sua speranza e proteggendo un piccolo resto fedele. Tutto l’Antico Testamento è la testimonianza di una relazione basata sulla fedeltà di JHWH e la sua ferma volontà di uscire da se stesso e di rivelarsi a coloro che ama.

Ma l’esodo definitivo non è ancora arrivato. L’incarnazione suppone un’uscita così radicale che è difficile immaginarla e accettarla. Per la ragione è uno scandalo assoluto: come si può concepire che Dio (infinito, eterno, onnipotente) si faccia uomo (limitato, mortale, debole)? Forse, abituati come siamo a recitare il Credo ogni domenica, questa verità della nostra fede non ci meraviglia più, ma basterebbe fermarsi di fronte al mistero per rimanerne sopraffatti, sconcertati e –chissà – scandalizzati. Credere nell’incarnazione è difficile. Affermare che Dio «discese dal cielo, si è incarnato e si è fatto uomo» equivale a dire che Dio stesso, lui

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stesso in persona e non un altro messaggero, è venuto ad abitare la nostra terra ed è diventato un pellegrino insieme a noi, «uno fra i tanti» nell’esodo della nostra umanità.

Nel suo desiderio di rivelarsi, di uscire incontro al mondo e di comunicarsi all’essere umano, Dio ha raggiunto un limite insuperabile: ha mandato il proprio Figlio a essere uno di noi. Gesù non è un personaggio soprannaturale mascherato da uomo, né è un uomo qualunque che si trova divinizzato grazie alla sua vita irreprensibile; Gesù è il Figlio di Dio fatto carne della nostra carne. Non sorprende che fin dall’inizio del cristianesimo ci sia stata una forte resistenza a riconoscere la perfetta unione dell’umano e del divino in Gesù, per cui proliferarono eresie come l’adozionismo e l’arianesimo.

Le radici di tali deviazioni sono talmente profonde da essere sopravvissute fino ai giorni nostri in diverse forme. Forse in un’epoca ormai lontana si è posto maggiormente l’accento sulla divinità di Gesù, attribuendogli dei superpoteri e allontanandolo così dalla nostra autentica condizione umana. Si ha l’impressione che oggi molte persone che si considerano cristiane siano in realtà «gesuane»: ammirano e amano Gesù, lo accettano anche come salvatore, ma in fondo sostengono che è solo un uomo, seppur molto speciale.

Anche se risulta un po’ difficile ammetterlo, soprattutto in certi ambienti ecclesiali, nessuno di

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questi due estremi è conforme alla fede della Chiesa, una fede che ha richiesto più di ottocento anni per essere chiarita e formulata attraverso impegnativi concili e dibattiti teologici. Ogni generazione cristiana è chiamata a reinterpretare la fede, inserendola nel proprio contesto culturale e rispettando fedelmente la tradizione che ha ricevuto. nazaret, terra di esodo Poiché crediamo che Gesù è vero Dio e vero uomo, possiamo dire che a Nazaret Dio ha vissuto il suo esodo, il suo continuo uscire da sé verso la creatura, fino al culmine dell’amore. A Nazaret, il Dio creatore, nella persona di suo Figlio, è rimasto trent’anni senza fare nulla di rilevante. Il Dio infinito si è limitato alla ristrettezza di un piccolo villaggio. Il Dio eterno ha sperimentato il monotono passare dei minuti, delle ore e degli anni. A Nazaret, Dio è entrato nella profondità della vita quotidiana e ha conosciuto dall’interno ciò che significa la routine, la fatica, il conflitto, la gioia, la gratuità e lo stupore.

Seguire Gesù di Nazaret, allora, significa osare affrontare la vita come un esodo permanente, senza cedere alla tentazione di adagiarsi in un qualsiasi tornante della strada. Al cristiano che s’imbarca nella sequela non viene promessa una crociera tranquilla né una partenza all’avventura;

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è semplicemente invitato a percorrere un viaggio lungo e talvolta faticoso sulle orme di Gesù. Davanti ai suoi occhi appariranno paesaggi pieni di una bellezza senza precedenti che dovrà imparare a decifrare. La vita ordinaria, piena d’incontri inaspettati e di piccole trasformazioni, comincerà a essere per il discepolo, come lo fu per il Maestro, un terreno fertile in cui lasciare che la semina avvenga al di là di ogni calcolo.

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Indice

Prefazione alla seconda edizione spagnola di Víctor Codina sj pag. 5

I. «Dio della terra» » 9

II. Terra di esodo » 13 Uscire » 13 L’uscita all’orizzonte » 15 Inerzia o routine? » 18 Uscire da se stessi » 20 L’esodo definitivo » 21 Nazaret, terra di esodo » 24

III. Terra di radici » 27 Sradicamento » 27 Radici liquide? » 29 Tempo perduto » 33 L’inutile » 35 Le radici di Gesù » 37 Nazaret, terra di radici » 47

IV. Terra di sapienza » 51 «Non ti distrarre» » 51 Angeli e demoni dell’era digitale » 53 Quelli che sanno... e quelli che sono saggi » 59

«Gesù cresceva» (Lc 2,52)

pag. 60 Come noi... essendo lui » 63 Nazaret, terra di sapienza » 65

V. Terra di scandalo » 71 Suore giostraie » 71 Un Dio in movimento » 73 Nella carovana dell’umano » 75 Nazaret, terra di scandalo » 77

VI. Terra di utopia » 81

I segreti del tulle » 81 Il progetto di Dio » 85 L’utopia del Regno » 87 Il Regno in segni » 89 Il Regno in parole » 90 Nazaret, terra di utopia » 104

VII. Terra di p resenza » 109 Azucena » 109

Una spiritualità della presenza » 111 Una spiritualità della contemplazione e della relazione » 114

VIII. Terra di f rutti » 121

Un rimprovero sul tram » 121 Frutti di Nazaret » 122

IX. Terra di miracoli » 131 Casualità o miracolo? » 131 I «miracoli» di Giuseppe » 132

X. Terra di Dio pag. 153

Opere? Di misericordia » 153

A piedi scalzi » 156

Incompiuti » 158 Attenti » 161 Disponibili » 164 Esposti » 166 Nazaret, terra di Dio » 169

Margarita Saldaña MoStajo (Madrid 1972) è laureata in Giornalismo e ha conseguito la licenza in Teologia dogmatica.

Appartenente alla famiglia spirituale di Charles de Foucauld, è membro di un gruppo di ricerca sulla figura di questo santo.

Con Paoline ha pubblicato: San Giuseppe. Gli occhi del cuore (2021); Charles de Foucauld. Fratello incompiuto e santo (2022).

In copertina: © Vector Archive / Shutterstock

€15,00

Unlibro da leggere e rileggere, per guardare con occhi nuovi la propria vita. Pagine che uniscono la semplicità di narrazioni quotidiane, di storie, di volti, di sofferenze e di speranze con la profondità di un Gesù che ha trasformato la nostra terra ordinaria in una «terra di Dio».

ISBN 978-88-315-5504-3

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