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Il primo uomo sulla Luna

Oggi è il 14 luglio. Dovrebbe essere il giorno più bello della mia vita, la scuola è finita da un po’ ed è pure il mio compleanno: quindici anni. In un mondo perfetto dovrei essere in spiaggia con le mie amiche a festeggiare. Ma la spiaggia è lontana e non ho amiche, e questo è un problema.

Inoltre sono nella sala d’attesa del dottor Bonacelli, il chirurgo più famoso della città, che si occupa di obesità, perché mia madre dice che sono arrivata a un punto di non ritorno e se continuo a mangiare così, dovrà trovarsi un secondo lavoro solo per fare la spesa.

Il dottore vuole centoventi euro per la visita e quindi non avrò nemmeno un regalo, perché – dice sempre mia madre – sono in questa condizione per colpa mia e la visita dovrei pagarmela da sola.

Ho provato mille diete e poi non ce la faccio a finirle. Io le diete le comincio ma, a un certo punto, vengo presa da un morso che non è fame, almeno non soltanto. È una specie di strega secca secca, vestita di viola, con gli occhi blu, che mi convince che è tutto inutile e non ce la farò mai. Allora l’unico modo di cacciarla via è riempirmi la pancia con qualcosa di dolce.

Di solito mia madre lo scopre e ci litigo (cioè lei urla e io abbasso gli occhi), poi diventa anche lei una strega secca secca, viola, con gli occhi blu. Ma anche quando lei esce dalla mia stanza, la strega continua a stare lì, a muoversi fra le mie cose prendendomi in giro. In quel caso l’unico modo di cacciarla è mangiare qualcosa di salato, quindi ricado nel vortice del cibo e addio dieta.

Questa volta però mia madre fa sul serio. Dice che questo dottore è uno che risolve problemi. Anche operando, se necessario.

L’attesa è noiosa, siamo arrivate in anticipo e io non so che fare.

Accanto a me c’è un ragazzino che peserà cento chili e forse non ha nemmeno undici anni. Secondo me si chiama Carlo, ma forse i suoi compagni lo chiamano Ciccio. Riesco a intuire che è bello, ma ha la faccia sformata dal grasso. Chissà se la gente pensa le stesse cose quando mi guarda.

Non uscivo di casa dal 9 giugno, l’ultimo giorno di scuola, perché mia madre mi obbliga ad andare fino all’ultimo. Poi mi sono chiusa dentro. Non esco molto d’inverno quando sono tutta coperta, figuriamoci d’estate. E pensare che mi piace molto passeggiare, ma lo faccio solo quando sono abbastanza certa di non incontrare nessuno.

Le mie compagne vanno in giro con le canotte e le minigonne e pubblicano le loro foto in bikini striminziti. Io non l’ho mai indossato, un bikini. Eppure mi piacerebbe. Sento che lo porterei bene, con classe, senza volgarità, e potrei essere un riferimento di stile per tante ragazze, ma secondo il gusto comune la tripla XL non lascerà mai un segno nel mondo dell’alta moda.

Quando poco fa sono uscita, ho trovato diversa la città: senza traffico e con tanti turisti. Sono belli i turisti, spensierati e pieni di vita da spendere, come i soldi che hanno in tasca. Mangiano, sorridono e scattano foto, camminano a piedi e si fermano sulle panchine a riposare, poi vanno in albergo a fare la doccia ed escono di nuovo per la cena. Io non riuscirei a camminare per tutto quel tempo, ma vorrei capire cosa si prova a essere una turista.

Questo continuo «vorrei ma non posso» è frustrante e mi fa venire voglia di una fetta di torta.

Il ragazzino è entrato dopo che dallo studio del dottore è uscita una signora molto bella, un po’ paffuta ma bella. Io, se fossi al suo posto, sarei contenta così. Non mi pare molto grassa. Poi ad attenderla in sala d’attesa c’è un ragazzo dalla faccia comica che le ha sorriso, forse è suo figlio, anzi sicuramente lo è. Da quel sorriso ho capito che le vuole bene, quindi lei potrebbe essere contenta di quello che ha, visto che la situazione non mi pare così grave. Invece chissà cosa insegue… Magari perdere quei pochi chili l’aiuterà a cacciare via la sua strega personale.

Intanto il ragazzino che è dentro ha iniziato a piangere, si sente da qui. Ho sentito dire che questo dottore spesso fa piangere i pazienti. Deve essere un suo metodo per cominciare a far perdere i liquidi, sicuramente farà parte della dieta.

Il tavolino della sala d’attesa è pieno di riviste di modelle, belle e magre. C’è cattiveria nel metterle proprio lì. È come mettere le foto dei calciatori in un negozio di sedie a rotelle. E poi io non vorrei essere come loro, mi basterebbe restare così come sono, vorrei semplicemente non essere presa in giro e avere il coraggio di vivere normalmente, come i miei coetanei. Ma se avessi questo coraggio, probabilmente troverei anche la forza per dimagrire.

Finalmente entriamo. Mia madre mi guarda e non dice nulla, ma dallo sguardo si capisce che è contenta che incontri qualcuno che smonterà la mia autostima come una costruzione di Lego. La sua frase preferita è: «Te l’avevo detto».

E questa sarà un’occasione unica per ripetermela.

Il dottore è anziano, avrà cinquant’anni. È basso e calvo, quindi ha già i suoi problemi. Come può risolvere i miei? Vorrei dirglielo, ma ho promesso a mia madre che sarò educata, perciò mi limito a rispondere con monosillabi essenziali.

«Prego, sali sulla bilancia», mi dice a un certo punto.

Il mio passo è pesante, ovviamente lo è, ma sento che è pesante soprattutto emotivamente.

Il piede si stacca dal parquet chiaro dello studio e prima di toccare il vetro della bilancia ipermoderna ci mette un’eternità. Mi sento come il primo uomo sulla Luna, che muoveva passi lentissimi. Anch’io sento che questo è un piccolo passo per una ragazza e un grande passo per la dietologia mondiale. Il grande caso da risolvere. Adesso entrambi i piedi sono sulla pedana e mi piacerebbe avere un atteggiamento sfrontato, perché in realtà so già come stanno le cose, quindi sarebbe meglio attaccare che difendersi, ma vedo la mamma sbiancare. Non credo che esista alcun popolo sul pianeta Terra per cui sbiancare sia sinonimo di una bella cosa. Ma io non sono sul pianeta Terra, io sto mettendo il primo piede umano sulla Luna e lì cambia tutto per forza. Si dice bianca come la luna, perciò lì, magari, sbiancare potrebbe significare qualcosa da festeggiare.

Mi carico di forza positiva e abbasso lo sguardo a occhi chiusi, poi li apro: centoventi chili. Per un metro e cinquantacinque di altezza. Ovviamente la mamma non aveva niente da festeggiare e ha confermato che sbiancare non vuol dire niente di buono. Inutile è la luna e inutili tutte le poesie che ispira.

Diagnosi: obesità grave di terzo grado.

La mamma ha pagato centoventi euro, praticamente un euro al chilo. Non è male, il maiale costa molto di più.

Le lacrime, in silenzio, mi bagnano le dita dei piedi e mi accorgo che lo smalto rosa è rovinato. Nell’ultimo mese sono ingrassata ancora di più e faccio fatica ad abbassarmi e arrivare fino a lì. E poi a che serve essere curata? Faccio fatica anche a lavarmi perché entro a malapena nella doccia.

Ora mi sento dentro una nuvola. Vedo tutto bianco intorno a me, c’è soltanto la strega secca secca e viola che, con gli occhi blu spalancati, apre la bocca e ride.

Sento un rumore che mi sveglia e mi riporta alla realtà, è il rumore del mio singhiozzare. La strega viola diventa mia madre, che però non ride. Ha le mani sugli occhi e piange anche lei.

Il dottore, invece, non piange. Sa che per dimagrire dovrò fare tante di quelle sedute che si potrà permettere di comprare un parrucchino, anzi quattro (uno per ogni stagione) e risolvere il suo problema. Ha un sorriso dispettoso e compiaciuto, come tutte le mie compagne di scuola.

Dopo aver ascoltato la mia storia, ovviamente raccontata da mia madre, dice che l’unica soluzione per me è l’operazione bariatrica, che vuol dire che devono rimpicciolirmi lo stomaco. Lo dice senza alzare gli occhi dal foglio su cui scrive le richieste per gli esami. Poi alza lo sguardo e sentenzia:

«Sono obbligatori per cominciare il percorso verso l’intervento», senza nemmeno chiedermi che ne penso e senza nemmeno chiederlo alla mamma. Sicuramente ne avranno già parlato prima al telefono.

Mentre il dottore passa i fogli alla mamma, io non riesco a leggere tutto, non perché sia distante, ma perché il dottore ha una grafia più incomprensibile di un cinese che scrive al buio. Riesco a decifrare solo le parole ecg, che credo sia l’elettrocardiogramma, e rx con uno sgorbio accanto, che credo sia «torace». r x dovrebbe essere la sigla di radiografia, perché una volta ce ne ha parlato la prof di educazione fisica.

Poi aggiunge un altro foglio.

«Anche l’endoscopia?», gli chiede la mamma un po’ preoccupata. Poi prova a tranquillizzarmi con lo sguardo.

Io non ho il coraggio di chiedere informazioni, ma capisco che non deve essere una bella cosa.

«Per il momento questi e gli esami del sangue», risponde il dottore. «Se noteremo elementi d’allarme, procederemo con ulteriori esami di approfondimento».

Mia madre si ricompone e mi guarda con la stessa severità che ha quando mi scopre a mangiare la Nutella con il dito. Ma stavolta quello sguardo rimprovera tutte quelle volte e tutte quelle Nutelle.

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