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Introduzione
È giunto il momento di fermarci e sapere chi siamo. Quell’eccedenza che ci costituisce come esseri umani esige che diamo un nome a ciò per cui vale la pena vivere.
Giusepppe Morotti, nel libro Il Sufismo, frutto di un’esperienza di vita sulle orme di Charles de Foucauld, evidenzia come la crisi profonda, antropologica anzitutto, quindi valoriale, sociale, culturale che stiamo attraversando, scateni in noi una sete profonda di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo, di interiorità, di “disarmo” della ragione, di riannodare la nostra relazione con il Mistero. E tutto ciò esige un passo lento, momenti di sosta, di perdita di tempo, di gratuità, di meditazione, di preghiera, essenziali per la costruzione dell’essere umano e lo sviluppo del suo essere relazionale.
Oggi, donne e uomini del nostro mondo occidentale stanno come riavendosi da un sonno profondo; pare si stiano accorgendo che in fin dei conti ciò che più importa in questa vita è «non perdere la propria anima», per dirla con le parole di Gesù di Nazaret: non tradire la propria umanità, la sorgente interiore che irrora l’essere, il proprio vero sé. In che modo? Prendendosene cura, come un vaso di fiori che necessita di essere annaffiato regolarmente, pena l’avvizzimento e la morte. Ci torna alla mente la fede serena, ma al contempo ferma, di Etty Hillesum: «Tutto avviene secondo un ritmo più profondo, che si dovrebbe imparare ad ascoltare. È la cosa più importante che si può imparare in questa vita».
Ecco, nei tempi di crisi i saggi ci ricordano che importante non è l’accumulo, il potere, il successo, neanche i legami più cari, ma una cosa sola: la cura della propria sorgente interiore. «Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?» (Mc 8,36).
Il lavoro che segue è il tentativo di mostrare una possibile via per non perdere la propria anima, una modalità di innaffiare il proprio essere, che appunto come una pianta ha necessità di essere accudi- to con costanza, affinché non appassisca e muoia per distrazione, dimenticanza o arroganza. E questo intento si traduce nella pratica della meditazione, ossia l’attività di accudimento del proprio «io invisibile», per usare un termine caro al filosofo tedesco Immanuel Kant.
Meditare è custodire, e vince chi custodisce. Vinceremo sull’odio e sulla disgregazione di noi stessi e del mondo se impariamo a custodire il nostro tesoro, il nostro bene più prezioso, la nostra anima appunto. Il Dhammapada – testo del canone buddhista – ricorda che «la vittoria su se stessi è la suprema vittoria, e questo ha molto più valore che soggiogare gli altri».
Meditando torniamo a casa, esperiamo la nostra natura più profonda, la pasta di cui siamo fatti, al di là del nostro piccolo ego e dell’io psicologico.
Tat tvam asi (ciò tu sei), ricorda la tradizione indù nel Chandogya Upanishad 1. Sì, io sono «ciò»,
1 Dal Chandogya Upanishad, importante testo della filosofia vedanta, deriva il mantra « Tat tvam asi» che, sinteticamente, significa «quello sei tu», intendendo da un lato il divino, il prossimo e la natura, dall’altro noi stessi. Siamo dunque un tutt’uno con Dio. Nel testo sono inoltre contenute tre grandi massime o aforismi, detti mahavakya, ossia grandi detti, tre espressioni sanscrite che esprimono il concetto sono l’essenza, la natura stessa del tutto. Ed è proprio la ricerca del fondamento, della sorgente, ciò a cui anela Bede Griffiths nel Ritorno al Centro, quando si domanda:
Che cos’è il vero sé? Qual è il vero centro dell’essere dell’uomo? È l’ego, che si rende indipendente e mira a essere il signore del mondo? O esiste un “io” al di là dell’ego, un centro più profondo dell’essere personale, che si fonda sulla verità, e che è uno con il sé universale, con la legge dell’universo? Questa è la grande scoperta del pensiero indiano: la scoperta del sé, l’ atman del fondamento dell’essere personale, che è uno con il brahman, il fondamento dell’essere universale. Non si raggiunge tale conoscenza attraverso il pensiero; al contrario, la si raggiunge esclusivamente trascendendo ogni pensiero. La ragione, così come il sé di cui è la facoltà, deve trascendere se stessa. Fino a quando sarà orientata al mondo sensibile, materiale, rimarrà sempre difet- dell’identità tra spirito individuale, atman, e spirito universale, brahman. Tat tvam asi, «quello sei tu», dove Tat sta per «l’immenso, l’impronunciabile, il divino», mentre tvam asi significa «questo sei tu». Pronunciando queste parole, affermiamo di riconoscere e rispettare il divino in qualunque forma, entità o sensazione esso ci compaia davanti. Aham brahmasmi, «io sono brahman, il divino»: qui diventiamo consapevoli di essere noi stessi divini; Ayam atma brahma, «questo sé è il brahman » o anche « Dio e io siamo un tutt’uno». tosa, incapace di scoprire la verità. Ma nel momento in cui guarda all’interno di se stessa, alla propria sorgente, e si riconosce nel proprio fondamento attraverso un’intuizione pura, allora conosce la verità del proprio stesso essere e dell’essere del mondo, e diviene realmente libera. «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). In questo consiste la redenzione: nell’essere liberati dalla schiavitù dei sensi e del mondo materiale e nello scoprire che il fondamento e la sorgente di tutto ciò che è risiedono nel sé, che è la parola di Dio all’interno di noi.
L’intenzione di questo libro è molto semplice: proporre un percorso di riscoperta del proprio sé autentico, un ritorno al centro, alla propria sorgente interiore, attraverso l’antica pratica della meditazione. Un percorso che conduce così alla verità, al l ’esperienza di sé e del mondo senza il filtro dell’illusione e dei sogni, per esperire finalmente la piena libertà e quindi il compimento del cuore.