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1 L’atto del non fare

Nel breve romanzo Lo zen e il tiro con l’arco, il filosofo tedesco Eugen Herrigel afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, (uno stato) che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall ’io, il maestro lo chiama propriamente «spirituale».

Se liberi da intenzioni, dall’attaccamento all’io, coloro che meditano, gli uomini e le donne spirituali, sanno di essere capaci del possibile come dell’impossibile. E così si libera la «vera arte», che Eugen Harrigel definisce «senza scopo, senza intenzione». Quanto più ci «si ostinerà a voler impa- rare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio», prosegue, «tanto meno riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra». L’ostacolo è «una volontà troppo volitiva». Si ritiene che ciò che non si fa, non avvenga. Lo pensiamo tutti. Se non facciamo, come può capitare qualcosa? Se non traffichiamo, se non ci agitiamo, come è possibile edificare qualcosa? Riscritte da Osho nel volume Tantra. La comprensione suprema, le intuizioni mistiche del maestro indiano Tilopa sul mondo del tantra 4 , trasmesse in forma di canto al discepolo Naropa, assumono oggi un significato ancora attuale:

Non occorre che tu faccia nulla: il divino ti ha già dato tutto quello che può essere dato. Non sei stato messo al mondo come un pezzente, ma come un imperatore. Guardati dentro! Non andare da nessuna parte, non desiderare, non pensare al futuro, non pensare al passato, resta qui e ora; e improvvisamente ecco la meta! È sempre stata lì, e ti viene da ridere!

Lin Chi, quando gli chiesero qual era la prima cosa che aveva fatto raggiunta l’illuminazione, rispose: «Che si può fare? Ho riso e ho chiesto una tazza di tè. Ho riso, perché cosa avevo mai fatto? Avevo cercato qualcosa che c’era già». Tutti i buddha hanno riso e chiesto una tazza di tè, che altro si può fare? La meta era già lì. Stai inutilmente correndo di qua e di là, finché a un certo punto, stanco, torni a casa: una tazza di tè è esattamente quello che ci vuole! La ricerca affannosa produce il fumo che circonda la fiamma. Il correre disperatamente in cerchio solleva la polvere che nasconde la meta. Il tuo sforzo solleva polvere, fa fumo, nasconde la fiamma. Riposati un po’, lascia che il fumo si diradi. E se non corri troppo in fretta, non sollevi più polvere. A poco a poco la perturbazione si placa e appare la luce interiore.

4 I Tantra (Libri) sono i testi canonici della teologia e della filosofia induista. Trattano dei cinque grandi oggetti: creazione e distruzione del mondo; culto degli dèi; conseguimento di forze soprannaturali; unione con lo spirito supremo.

«Non occorre che tu faccia nulla». La meditazione è l’atto del non fare. Paradossale nel senso etimologico del termine: contro l’opinione comune. Meditando non si fa, non si produce, non si costruisce. Non ci si rivolge neppure a un dio, né per invocarlo né per ringraziarlo o lodarlo. Non gli si domandano doni, grazie o guarigioni, per sé o per altri. Meditando, semplicemente, «si sta» come il fiore, come la montagna, radicati nel proprio terreno interiore. Indipendentemente da ciò che accade intorno. La meditazione è l’arte del rimanere.

Con molteplici esempi Antonia Tronti, in ... E rimanendo lasciati trasformare, coniuga l’esortazione evangelica del «rimanere», quindi il principio della stabilità, con l’imperativo del movimento che prevede di non avere «dove posare il capo» (Mt 8,20).

Si sta radicati nel tutto come un permanere in noi che è gratuito, che è semplicemente dono di esistenza. A noi il compito di accoglierlo, di prenderne coscienza e di non ostacolarne il flusso. Di non divenire ostili alla vita in noi. Di non staccarci dalla provenienza. Di non crederci autosufficienti. Non chiusi. Non auto-viventi ma dipendenti da un Vivificante. Riconoscere che il nostro respiro appartiene a un Soffio più ampio, che lo Spirito vive in noi e che noi non viviamo senza di esso. Non viviamo se non a partire da lui. Non viviamo se non in lui. Non viviamo se lui non è in noi.

Rimanendo nel tutto, divenendone sempre più consapevole, pian piano mi percepisco come un fluire e un emergere da questo tutto, la matrice mia e dell’intero universo. La meditazione è l’esperienza dell’emergere dalla sostanza di cui si è impastati: la divinità.

«La grazia è senza sforzo», ricorda Simone Weil, facendo eco al maestro cinese Lao Tse: «Il saggio, senza agire, opera». La meditazione crea quel vuoto che, dopo aver eliminato l’ostacolo di una volon- tà troppo volitiva, diviene lo spazio dove tutto si può compiere. Sbarazzarsi del desiderio di conseguire un obiettivo a tutti i costi, di veder realizzati per forza i propri progetti, di ottenere ciò che si attendeva, è la conditio sine qua non perché qualcosa possa di fatto affermarsi. Questo lasciar andare può essere visto come una morte, ma in fondo Gesù ci ha detto che chi perderà la propria vita, la salverà (cfr. Mc 8,35).

Il vuoto è grembo fecondo di possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, per poi stupirsi dell’esistenza di una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.

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