qwertyuiopasdfghjklzxcvbnmqwertyuiop asdfghjklzxcvbnmqwertyuiopasdfghjklzx cvbnmqwertyuiopasdfghjklzxcvbnmqwer I racconti del Fasancult
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tyuiopasdfghjklzxnmrtyuiopasdfghjnmq La forza della passione Sabato sera
Passione proibita Solo una mela …..
wertyuiopasdfghjklzxcvbnmqwertyuiopa "Durante la notte si è alzato il vento” sdfghjklzxcvbnmqwertyuiopasdfghjklzxc
Lo squartatore Dialogo immorale sul nulla A Walt, a Luther, a me nostromo Ci vorrebbe un’idea Alla ricerca di te …ti guarderò La persistenza della memoria Che “suono” ha la notte Emozione L’ascensore Insonnia Il racconto del Fasancult Diario di un fasanese VIII ed ultimo capitolo Il silenzio dell’incenso Cambiamento interiore Chatti@mo? Penso Angeli caduci domus L’acrostico Storia di un numero 10
VIAGGI La sera che decisi di fermare il tempo non era chiara. Eppure dentro di me avvertivo una luminescenza, mista a calore, che non so descrivere. Avevo terminato i miei studi e mi sentivo forte di quel sapere, ma il coraggio di utilizzarlo nella vita di tutti i giorni mi mancava. La chiusura, nel mio essere interiore, mi impediva ogni possibile aspirazione. Con mio padre non aprivo bocca, da anni, ma lui e mia madre sembravano accettare con rassegnazione questo stato di cose. La vita in casa scorreva a scatti, intervallati da tensioni, urla e strepiti. Io mi rintanavo nella mia camera, mettevo un disco e tiravo su il volume, così la musica, almeno in quei momenti, copriva il dolore dell’esistere. Viaggiavo con la mente e raggiungevo luoghi nascosti che solo io conoscevo. Esploravo con gli occhi dell’anima quei territori, aiutandomi con la coperta tirata fino ai capelli. Spesso piangevo, non solo di rabbia o dolore, pure di gioia. La tristezza, grande, era quella di non condividere la mia vita interiore che scorreva ora impetuosa ed ora calma, a volte ammalata e indebolita ed altre forte e scanzonata. Presto, però, mi adattai e da allora i viaggi ebbero un senso nuovo. In quei fantastici tragitti accadevano cose: amavo, odiavo, creavo ed uccidevo. L’incantesimo durò per anni, fino a quando la conoscenza prese il sopravvento. Avvertivo che qualcosa stava cambiando in me, c’era più libertà, riuscivo a toccare inesplorate parti di me. La conoscenza era intrisa d’amore e a niente serviva dirsi che tutto avrebbe potuto essere un’illusione, sapevo che c’era e mi bastava. Senso e sensualità, sensazione ed emozione, si fondevano in un unico corpo, come il vento che agitava i miei capelli e con loro scherzava, quando, nella completa nudità, uscivo per le terrazze di casa, esponendomi al maestrale, sentivo umidità e turgidità e appetito e voglia di contatto. Dal mare giungeva il sapore della vita e la conoscenza mi apriva le mente e schiudeva le cosce. Il ritmo del cuore, aumentava. Partivo senza compagnia. In solitudine. Nel pianto. Nella gioia. Nel dolore. Nel piacere. Tutto alternandosi nella mente e nell’anima, fino all’inguine dei sentimenti. Tutto procurandomi orgasmi simili a sisma. Seguivano dolcezze infinite e pensieri rivolti a chi avevo solo intravisto quel giorno,
quella mattina, innamorandomene. Vivevo il mio amore fino all’esaurimento, succhiandone l’essenza perché ciò che mi circondava doveva essere coperto. I colori cambiavano di tono e si facevano, di volta in volta, sfumati o decisi. Ne ammiravo le variazioni in preda al delirio interno. Chi mi osservava, da fuori, non comprendeva (come avrebbe potuto?) ciò che stavo vivendo. Era mio... ero io. La conoscenza venne in soccorso tramutandosi in fede. Ascoltavo con gli occhi e vedevo con le orecchie. Parlavo con il cuore e pulsavo vita dalla lingua. Fusione di cellule che si moltiplicavano, trasformandomi in un nuovo organismo, forte di sé e sicuro dei propri rimpianti. Forte, più della morte. Impavido di fronte al pericolo. Avido di umori e sudori, desideroso di toccare, mordere e succhiare. Il vento mi prendeva e mio padre, nascosto dalle trine e dalla finestra, mi guardava, forse innamorato, ma terrorizzato all’idea di ammetterlo. Non gli parlavo e questo mi dava sofferenza. Quale sollievo avrei mai potuto trovare alle mie angosce, al mio amore? Volli fermare il tempo, è vero ma, mi chiedo, perché nessuno volle fermare me? Il volo fu leggero, non pensavo così fresco. Una scarpa qua, una scarpa là. Il pavimento dell’aia si avvicinò troppo velocemente e l’impatto, credevo peggio, non fece rumore. Dal naso sentii che veniva fuori calore, forse era rosso ma era buio e non potrei dire. All’alba mi ritrovarono.
Sabato sera
“Vedrai – avevano detto i miei amici – ci divertiremo un mondo in discoteca!”. Non sapendo come trascorrere questo sabato, ed essendomi lasciata convincere da loro, li ho seguiti, anche se non sono dell’umore più adatto alla situazione. Chissà, magari nel frastuono della musica non avrei più sentito il peso della mia anima. Ed eccoci in discoteca: siamo appena arrivati e ci siamo seduti ad un tavolino, ai bordi della pista da ballo. Alcuni degli amici stanno già consumando la prima sigaretta della serata; io sono seduta scompostamente, con l’aria di chi vorrebbe essere altrove. No, non voglio stare in discoteca, sono triste, non mi va di ballare. Mi chiedono cosa mi prende. No, niente, non lo so neanche io, è che ho perso il bandolo della matassa, non riesco più a capire il senso di tutto questo. Le luci mi abbagliano la musica mi stordisce, l’aria già pregna di fumo mi soffoca. Vado alla toilette per cercare un po’ di tranquillità, ma appena arrivo scopro che mi sbagliavo: una cappa di fumo e un gruppo di ragazzette ciarlanti mi accolgono. Non posso fare a meno di tossire e respirare piano, e sentire i loro discorsi; si stanno scambiando pareri sull’abito più sexy della serata. Torno in fratta al nostro tavolo, almeno l’aria è meno irrespirabile, ma non trovo più nessuno: stanno già tutti ballando. Guardo il mio abito: mai visto niente di meno sexy. Un maglione che ricade abbondantemente su tutto, sul seno, sul sedere, le gambe infilate in un jeans qualunque.
Non mi resta altro che rimanere a guardare quei corpi che si animano al centro della pista. Noto l’abbigliamento di tante ragazze: minigonne mozzafiato, abitini anni Settanta che possono essere messi solo in occasioni come questa, o meglio, solo questa sera, perché mai ci si può mettere per più di una volta uno stesso vestito: è la regola maledettamente consumistica che lo impone! Di tanto in tanto arriva qualche mio amico, che mi invita ad andare a ballare, poi si siede, accende l’ennesima sigaretta e guarda con me. La musica è travolgente, ma mi scivola come acqua sulla pelle , non mi sento coinvolta, non mi getto a ballare come faccio di solito, penso al senso che possa avere muoversi a tempo di musica, o avvelenarsi con un po’ di tabacco avvolto in carta, però non cerco risposta, non ne riceverei mai, anzi sarei derisa. Forse per tornare nel meccanismo di questo mondo, il mio mondo, dovrei entrare in pista e ballare, in fondo ci sono stata altre volte in discoteca, e mi sono divertita. Perché stasera no? Vado. La musica non è un gran che, tuttavia attira la mia attenzione una ragazza, balla forsennatamente, ha gli occhi assatanati, intorno a lei c’è un gruppo di ragazzi che sono altrettanto eccitati. Tutti si divertono, forse perché qui possono spogliarsi degli abiti di tutti i giorni e sfogarsi, essere se stessi. Se così fosse, perché i giovani sono così giovani e hanno gli stessi difetti degli adulti? I ragazzi dovrebbero essere freschi, sempre spontanei, sempre se stessi, e non dei Dr Jekyl e Mr Hide… mi accorgo che non posso neanche pensare in pista, altrimenti perdo il tempo della musica, ma cosa importa qui nessuno bada a me, e non tutti sono ballerini, qui si
pensa solo a muoversi. Torno a posto, il mio umore non è cambiato. Continuo a guardare gli altri che ballano, il volto di ciascun ragazzo è il volto di Gianni… forse starebbe qui, ora, ma è proprio per essersi lasciato andare troppo in discoteca che un mese fa se n’è andato, e ha lasciato dentro di noi un nulla, che cerchiamo di colmare. Ma guarda, ora mi accorgo che due ragazzi che formavano una coppia affiatatissima fino a una decina di giorni fa, ora non stanno più insieme, e me ne dispiace. Sono tutt’e due in pista, e fanno finta di non conoscersi. Lui fa il buffone con i suoi amici, lei balla sola, si vede chiaramente che lo fa per dimenticare. Si è fatto tardi ora, dobbiamo andare. I miei amici arrivano al tavolo, grondanti di sudore, quasi pronti per partire. Ho un po’ di timore a tornare con loro a casa, siamo tutti storditi da questa musica. Stiamo viaggiando, io guardo il mio volto riflesso nel finestrino dell’auto, e al di là di esso vedo le stelle, grandi, lontane, bellissime stelle. Chissà cosa direbbero se potessero pensare, forse riderebbero di noi, così piccoli, così effimeri, ma così tormentati da niente. Loro, eterne nell’infinito universo sono tanto affascinanti, più le guardo fissamente, più si moltiplicano, sono milioni in questo pezzo di cielo. Vorrei andare far loro, essere una di loro, ma nello stesso tempo rivederle ancora domani, e dopodomani, e le sere successive, da qui, dalla Terra, da questo mondo di pazzi. La macchina va…chissà se arriveremo a casa.
LA FORZA DELLA PASSIONE
“A quanti hanno la possibilità di studiare e non la sfruttano, a quanti scelgono lo studio per passatempo e non per passione, a quanti non hanno le idee chiare o non si prefiggono un obiettivo e non lottano per raggiungerlo e a quanti non inseguono i propri sogni…ad essi dedico il mio racconto.” Durante i miei lunghi pomeriggi invernali, mi ritrovavo sempre china su quei libroni per apprendere, conoscere ed arricchire il mio bagaglio culturale. Il mio obiettivo finale non era quello di prendere un buon voto, il che rimaneva fine a sé stesso, ma di sapere. Rivedevo in me una bambina, agli albori della sua vita, che continuamente domanda “Perché”, alle persone più grandi di lei: i miei interrogativi erano rivolti ai popolari dotti dei diversi settori e ai miei stimati professori. Di lì a poco una scelta mi attendeva dietro la porta del vicino futuro… Superata quella paurosa prova finale, a cui tutti i discenti dovevano sottoporsi per ottenere quel valoroso pezzettino di carta, che apre la strada a studi più specifici o a quelle applicazioni più pratiche, mi domandai quello che di più giusto c’era da fare e non quello che volevo. Conoscevo quali erano le mie passioni e i miei sogni, ma realizzarli sarebbe stato difficile e costoso, soprattutto, perché chi mi circondava non avrebbe capito le mie scelte.
A pochi giorni dal diploma, un’allettante proposta di lavoro si presentò sotto i miei occhi: l’idea di avere un’indipendenza economica mi interessava, soprattutto per non pesare più sulle spalle dei miei genitori. Abbandonare gli studi mi dispiaceva, ma pensai che avrei potuto continuare da autodidatta o semplicemente leggendo. Mi scoraggiò, poi, la panoramica della realtà che mi circondava. Giovani alle cui spalle pendeva un curriculum ineccepibile alla ricerca disperata di un lavoro che non c’é o che si accontentano del primo posto a caso, possibilmente di quelli che si dice pare siano a vita. Date le premesse decisi di accettare quella interessante offerta: non sapevo ciò a cui andavo incontro, ma l’idea di qualcosa di concreto mi spinse in questa direzione. Cominciai con entusiasmo, anche perché ebbi la possibilità di mettere in pratica tutto quello che durante i miei studi avevo imparato. Passavo otto ore della mia giornata davanti un freddo calcolatore, a cercar di far bilanciare conti e rispettare scadenze. La stanza in cui lavoravo cominciava a divenir sempre più buia e stretta: mi sentivo un uccello in gabbia che aveva voglia e fretta di evadere. Uscivo da quella prigione allorquando mi rifugiavo nella mia stanza, dedicandomi alla mia passione che da piccolina mi aveva accompagnata: unire quei prodigiosi segni, come le parole, per creare nuove frasi e poi di qui significativi testi, mi donava un entusiasmo che solo un appassionato può conoscere. Come quei grandi autori immobili su quei libroni, anch’io mi dedicavo ad
analizzare problematiche del mio tempo. Numerose le riflessioni, le costruttive critiche e le possibili risoluzioni…tanto che passavano i giorni, i mesi e mi rendevo sempre più conto che quei numeri non erano il mio avvenire: sempre più forte in me si faceva la necessità di uscire da quella piccola dimensione e mettere a nudo le mie considerazioni. Nel mio animo un misto di sensazioni si alternavano: mi sentivo una nullità e sconfitta da me stessa, perché non avevo avuto il coraggio di inseguire le mie passioni, ma allo stesso tempo una parte di me non si arrendeva all’idea di lasciare i sogni nel cassetto. Il passato era vicino e il futuro, ancora molto lontano… La mia falsa utopia doveva tramutarsi in realtà e così levai dal mio volto quella maschera pirandelliana di apprezzata lavoratrice per rivelare la mia vera faccia e mostrare, quindi, quello che desideravo ed ero senza pensare ai giudizi altrui. Maturai, così, la scelta di provare il test a quella sospirata facoltà che mi avrebbe permesso di raggiungere il mio traguardo: una sola possibilità, quella prova scritta, che sbagliata avrebbe mandato in frantumi tutti i miei progetti. Il fato volle che l’esito fosse positivo. Un segno, che mi diede una maggiore grinta a proseguire in quella ignota rotta. Il mio futuro era quello che io volevo e il destino me ne diede prova. Lasciai quel tanto ambito posto, con una irrazionale gioia che quasi nessuno comprese, date le condizioni lavorative in cui i giovani versano. Per me cominciava un nuovo percorso, che mi avrebbe permesso di dar vita alle
mie aspirazioni. Le motivazioni che mi avevano indotto a fare quella difficile scelta erano forti: lasciavo qualcosa di sicuro per un qualcos’altro di incerto, ma questo qualcosa mi avrebbe donato quella soddisfazione e quella gioia, ricercate da rari pescelti. Mi resi conto di questo allorquando giunsi nell’ambiente universitario: mi sentivo una studentessa diversa, perché le motivazioni degli altri differivano dalle mie. Ricordo che una ragazza mi disse che non aveva obiettivi terminati i faticosi studi: questa testimonianza mi portò una gran tristezza, perché mi resi conto che pochi erano coloro i quali effettuavano quella scelta poiché dietro si celava la speranza di raggiungere il proprio sogno. Nello stesso periodo decisi, altresì, di mettere in pratica la mia passione e cercare di rendere in questo modo un utile servizio al mio paese. Dopo ore ed ore di studio matto mi dedicavo ai miei articoli, realizzando interviste, ricerche e analisi sul mio piccolo borgo natio e nuovamente mi ritrovavo seduta davanti un computer amico, che con gran cura custodiva i miei scritti. Ogni giorno da quel momento mi svegliavo con il sole anche se fuori dalla mia finestra pioveva e soprattutto anche se non avevo più quella faticata retribuzione, mi sentivo più ricca di prima, perché la mia era una ricchezza interiore, che nessun denaro mai può farti raggiungere. Un saggio proverbio rammenta che “i soldi non fanno la felicità” a testimonianza del fatto che c’è qualcos’altro che conduce ad essa: non vorrei essere ipocrita e aggiungo che i soldi aiutano, ma bisogna conoscere la vera passione per
assaporare la gioia di sentirsi vivamente realizzati. Un lungo cammino mi attende ancora lungo il corso della mia esistenza, per raggiungere il mio finale obiettivo, ma se non dovessi farcela sarei comunque felice perchĂŠ ho avuto al meno la forza e il coraggio per provarci, non arrendendomi alla normalitĂ .
Passione proibita
Come avevo fatto a ridurmi in quello stato? Ormai neanch'io mi riconoscevo più. Tutti i miei fermi punti di riferimento erano saltati, tutti i miei lungimiranti orizzonti svaniti, i miei nobili ideali, la mia alta concezioni del mondo e di tutto quello che c'è dopo: tutto volato via, in poco tempo. Eppure non riuscivo a capacitarmene. Non ero più me stesso. Pensavo e ripensavo, ma più mi arrovellavo e più mi sembrava di allontanarmi dal mio corpo, dalla mia anima, dal mio cuore. Era come se, rivedendomi da lontano, stessi recitando il ruolo da protagonista in un film in cui non volevo riconoscermi. Ma purtroppo non era un film, non c'era finzione, non esisteva recitazione. Potevo dunque essere io? Era un brutto sogno che volgeva al termine, oppure era la cruda inaccettabile realtà? Pensavo a tutti quegli anni trascorsi in seminario e a come mi avevano reso forte e sicuro, determinato e lucido, fermo nella consapevolezza che la mia fede aveva ormai delle fondamenta solidamente ancorate. Tutti i miei amici seminaristi mi ammiravano per questo: ero il loro solido punto di riferimento nei momenti difficili, la loro luce nelle zone d'ombra, il loro sentiero nell'oscura foresta. Ma di tempo ne era passato tanto, forse troppo, ed ora fremevo al solo pensiero della carne. Non resistevo, ero tentato, ero ossessionato, follemente ossessionato! Riemergeva a tratti nella mia memoria il giorno in cui diventai parroco. Scorrevano nella mia mente le diapositive sfumate del primo giorno in parrocchia, della commovente accoglienza ricevuta, delle sincere parole con cui i parrocchiani
e le parrocchiane mi avevano amorevolmente accolto. Forse anche perché la triste vicenda del mio infame predecessore li aveva scossi nei loro animi, magari proprio perché non avevano accettato la storia della becera violenza perpetrata ai danni di una non più giovane fedele. Erano turbati quando arrivai, ma in me avevano subito riposto tante speranze e tanta voglia di dimenticare presto, di voltare pagina e di rimarginare la ferita quanto prima, per tornare a pregare e ad amarsi come il loro Padreterno avrebbe voluto. Dimenticare. In fretta. Ma io ora li stavo tradendo. Con un solo gesto, con un'unica azione, avrei scaraventato fuori dalla finestra il mio credo, la loro fede, e la stima del mio Unico Amore. Ed io, ora? Come potevo tremare al solo pensiero della mia morbosa voglia, e continuare a guardare in faccia la mia gente? Come potevo dire messa con la coscienza lacerata? Come potevo guardare negli occhi traditi ma ridondanti tanto caritatevole amore della mia laboriosa gente? Ne conoscevo ormai fatti e misfatti, e per questo me ne dolevo nei meandri della mia anima. Non avrei più potuto porgere loro il mio rassicurante saluto, e non avrei più potuto stringere la mano a coloro i quali, a volte tra le lacrime, avevano invocato tramite la mia fede il perdono per i peccati commessi. E più mi ponevo questi conturbanti interrogativi, e più la mia famelica voglia non si arrestava, ma, anzi, come nel bel mezzo di un contrappasso dantesco, dilagava vertiginosamente. Ero ormai al centro di un devastante vortice che mi spingeva dannatamente verso gli inferi del peccato. Ma io pensavo a lei, solo ed esclusivamente a lei. E quasi con la saliva alla bocca, aumentava la mia tremenda voglia. Ma tra pochi minuti sarebbe cominciata la
messa, e io ormai ero sulla soglia della follia. Sapevo che lei era lĂŹ, ad attendermi su, nelle mie stanze. E mentre i fedeli prendevano posto tra i banchi, mentre il mormorio delle anziane donne sfiorava il mio ingrato cuore, in preda al delirio ossessivo, cominciai a salire lungo le scale che separano la sagrestia dalle mie stanze. Impacciato nel mio abito talare, inciampai, mi rialzai velocemente, noncurante della ferita procuratami sulla mia fronte, e corsi forsennatamente come un dannato, quasi a voler recuperare il tempo perso. Varcai in modo violento e tremendo quella maledetta porta e... mio Dio! Stavo per commettere l'insano gesto! In un attimo vidi passare davanti ai miei occhi tutta la mia esistenza. Ma ormai era troppo tardi. E fu cosĂŹ che aprii ferocemente la porta del frigorifero e... afferrai la bistecca di manzo, la posai con gesto rapido e sicuro sulla piastra, dopodichĂŠ... la divorai, intera, al sangue, incurante dei fedeli che devotamente mi attendevano per la messa. E vaffancult alla dieta!
"Solo una mela è tutto quel che possiedo, ma una mela è quel che ti sto donando… fidati di me..."
è quel che mi hai detto... e anch'io, per ora, ho da offrirti solo una mela... ma la mia, in compenso, è avvelenata... Già quel sogno, la notte successiva al nostro primo incontro, era stato illuminante: il matrimonio per finzione al quale mi stavo preparando, l'abito indossato controvoglia, le mille domande che mi ponevo di fronte a quell'assurdità che stavo per compiere, quella sensazione di profondo disagio che m'investiva... Strascichi di quel sogno, al mattino dopo, si trascinavano laddove iniziavano altri giorni di perchè, forse, ma... giorni caratterizzati dai miei lasciamo che le cose avvengano, se devono avvenire, con tranquillità...
"Durante la notte si è alzato il vento e ha portato via i nostri piani". (proverbio cinese)
Poi quella mattina mi svegliai che piangevo, senza ragione apparente... come per presagio di quel turbinìo di sentimenti che avrei provato nei giorni a seguire... desiderio, ma forse d’altro, gioia d’averti accanto, ma forse gioia più intensa nel vederti infilare l’uscio, per andare… Tentavamo, intanto, di trovare canali sui quali viaggiare in sintonia… Una sera ci recammo ad una mostra… Vagavamo tra ombre e luci, alla ricerca dell'arte celata dall'arte, attraverso nature morte -illuminate da singole melagrane rosse- e nudi femminili- a tratti androgini, se non adolescenziali- e maschere bianche candide e... i nostri sguardi, contemporanei e paralleli, si posarono per soffermarsi infine sullo stesso quadro: "Distacco" di Renato Nosek... ...il distacco tra una lei ed un lui, i cui corpi poggiano su due piani differenti: lei -con una lacrima che avanza sulla gota- un passo più avanti rispetto a lui, gli sguardi dei due persi in direzioni differenti e poi, dietro di loro, la rappresentazione, forse, di una accesa manifestazione operaia che sembra non tangerli e sulla quale trovano albergo le loro ombre... di_stacco... I nostri occhi guardarono, forse solo in quell'attimo, insieme, la stessa cosa allo stesso modo: come a preannunciare il giudizio finale e irreversibile di quel non-rapporto
agonizzante... Di_stac_co
LO SQUARTATORE - RACCONTO EROTICO DI UN DICIOTTENNE CAPITOLO 1 Camminavo lungo una strada buia, credo senza un’uscita, una strada che non mi portava a risolvere niente, una strada che non avrebbe mai dato una risposta al grande dubbio, che affliggeva la mia anima insonne , trasandata, malridotta, distrutta, il mio stesso corpo era corroso da quel malessere; tutto era inutile, il mio respiro, la mia vista, il gusto, non esistevano più per me; era come se il mondo mi schiacciasse delicatamente, pressandomi, alla maledetta luna che tanto avevo amato. Mille gocce trasparenti di acqua piovana, quella notte, si confondevano alle mie calde lacrime salate, che inumidivano il mio viso rendendolo morbido ed indifeso. Ero una pecorella smarrita, un pescatore che non sapeva nuotare, un povero uomo, o meglio come ci chiamano loro, la “gente”, si ero quello che chiamano la gente, privo di speranza, quello che elemosinerà ad i semafori per un tozzo di pane, quello che avrebbe rubato nelle vostre case, quello di cui si deve avere compassione, quello che non vorrei mai essere, quello che avrebbe violentato le vostre figlie, quello che vi ucciderà, si sono quello per voi, sono quella gente, sono “quelli li”, si quelli a cui puntate il dito ogni giorno senza accorgervi che loro lo puntano a voi. No invece non sono quello o forse lo sono, o forse non sono più, o forse lo sarò oppure lo siete voi, chi sono? Chi siamo stati? Chi saremo? Continuo a vagare, i miei occhi a versare lacrime, lacrime di disperazione, che non allevieranno le sofferenze di questa notte, ma al contrario la renderanno interminabile. Ricordo quando da bambino, mi avventuravo di notte, nelle strade
buie della mia città, in cerca di qualcuno con cui giocare, ma trovavo sempre cattive compagnie, o quando quella notte, quando tutto era ancora bello, quando ancora valeva la pena di vivere, quando pensavo che niente, avrebbe mai potuto rovinare la mia vita, distrussi completamente la mia esistenza. Ricordo che era bello, quando la mattina al mio risveglio avevo voglia con tutto me stesso di gridare al sole, alle rondini, al cielo, Grazie vita; purtroppo tutto questo e finito e non tornerà mai più, come finisce tutto del resto, come una tazza di caffè caldo, come una zuppa calda, come la stessa vita. Vagavo come adesso, però senza un coltello da macellaio e una pistola nel cappotto, cercando il posto più isolato per farla finita con me stesso e con il mondo, avevo tanti amici che si divertivano con me, scherzavano, bighellonavano, come quella volta tanti anni fa alla festa. Avevo compiuto appena 18 anni, e in quella occasione io ed i miei due amici Carl e Mattia, ci recammo in una masseria un po’ distante dal mio paese, naturalmente a piedi, non avendo mezzi con cui spostarci, percorremmo circa quattro chilometri di dura campagna prima di arrivarci; quattro KM tra i boschi di querce e pini, canti di cicale, funghi di mucchio, profumi incantevoli, con i soffioni che ci volavano intorno dando l’effetto candido della neve. Mi accorsi che eravamo quasi arrivati, quando, intravidi delle forti luci colorate e udii i suoni in lontananza dei tamburelli, di chitarre e credo, che quel battito fosse il suono della grancassa con il suo rumore rimbombante, senza nessuna intonazione. -Carl siamo quasi arrivati! Disse Mattia tirando un sospiro, che riempi i suoi polmoni affaticati dalla lunga
salita -finalmente! Non vedo l’ora di poter mettere qualcosa sotto i denti e magari di assaporare l’ebrezza degli dei. Rispose Carl, poi rivolgendosi a me continuò: -Che dici, questa sera ti concederai alla prima che ti capita? Lui non rispose. Arrivammo alla festa finalmente, era tutto bellissimo, dinanzi a noi c’era un enorme casato rosso con un grosso campanile che pendeva al centro di una torre alta circa trenta, trenta cinque metri; tutt’intorno vi erano dei trulli bianchissimi con il loro tipico tetto a forma di cono grigiastro, con su disegnate delle croci che servivano a scacciare il male. Il tutto tra colline ed artisti di strada, uomini, donne e che donne, ballavano a piedi nudi sulla terra asciutta e arida del sud, il grande sud fatto di tradizioni, di ballate, di semplicità, di sorrisi, di belle atmosfere; erano quelli i momenti che amavamo io ed i miei amici. Passeggiavo, curiosavo assieme a loro in quei trulli, la gente mi sorrideva mi invitava ad assaggiare i lori prodotti. Tarallini al peperoncino, all’olio di oliva; o ancora pane con olive, vino rosso, bianco, ancora vino rosato, vino di tutti i tipi, i gruppi cantavano U’ TAMBURIELLO e noi ci facemmo trasportare dal ritmo, da quelle note così allegre, cominciando così a ballare. Eravamo in tanti, ballavamo un ballo chiamato tarantella, ballo tipico salentino consiste nel saltare, saltare sempre saltare. Eravamo in tanti, le fisarmoniche gridavano, noi saltavamo, le ragazze sudavano e si sbottonavano le camicette, lasciando intravedere un po’ di pelle
umida, i ragazzi sudavano, ancora chitarre e fisarmoniche, si ballava e si rideva, il vino faceva effetto, la musica metteva allegria, i tamburi aumentavano la velocità, sembrava di essere in un'altra epoca, non smettevo mai di muovermi, la musica riempiva i miei timpani rendendoli felici e spensierati, lasciandomi ai miei pensieri strani di adolescente, sentivo, lo sentivo, il loro profumo, sentivo la voglia, si ero grande volevo a tutti i costi una donna, le guardavo tutte, cercavo di sfiorarle, con una mano, con il sedere o meglio con l’inguine, vedevo anche i miei amici farlo e mi accorgevo anche con stupore, che alle ragazze non dispiaceva, ah il loro profumo, mi eccitava anima e corpo non lasciandomi pensare ad altro, fissavo le loro scollature, il reggiseno, le gonne che si alzavano, le loro gambe lisce, il vino faceva sempre più effetto, ballavo, mi divertivo tantissimo, si rideva, il suono dei flauti mi ipnotizzava, era come un sogno, un bel sogno, dove non c’erano ne obblighi, ne doveri, ne diritti, dove non ti dovevi preoccupare di cosa pensa la gente di te, dove l’unico comandamento era quello di divertirsi sfrenatamente, dove tutto è consentito, tra donne, mangiatori di fuoco, vino e droga. Sentivo chiamarmi, si sentivo il mio nome che si confondeva con quella musica, ma non mi preoccupavo chi fosse, ero troppo preso dal ritmo. - Cazzo che fai, mi rispondi? Oppure hai deciso di farti una sega istantanea ballando? Mi grido Carl, tirandomi di forza fuori dalla pista. C- Ho conosciuto un tizio che si fa chiamare Oman, mi ha detto che può venderci dell’ebrezza!
-Ah si, o capito! Gli risposi crollando in terra. C- Vedo che il vino ha avuto i suoi desiderati effetti, scusa se mi servo da solo, ma prendo qualche monetina dalle tue tasche, vediamo quanto hai? Beh per questa sera possono bastare! Dai Mattia rialzalo che adesso lo faccio riprendere io. - Dove vai con i miei soldi? Gridai a Carl con una voce ubriachissima, ma lui continuò a camminare senza voltarsi. - Dai ti porto a sciacquarti il viso, vediamo se ti riprendi un pò, è il tuo compleanno non lo dimenticare! Disse sorridendo Mattia, tirandomi per le braccia. Ero completamente ubriaco, non riuscivo neanche a distinguere le mie mani da quelle di Mattia, non feci in tempo a dire: “sto per vomitare”, che cominciai a spruzzare liquido rossastro dalla mia bocca, versandolo, schizzandolo, su tutto quello che fosse nelle mie vicinanze, persino sulle scarpe di Mattia. Tra una scarica e l’altra alzando gli occhi vidi Carl avvicinarsi, e sussurrare qualcosa nell’orecchio di Mattia, ad un tratto mi sentii afferrare dalla schiena e trascinare con forza. - Dove mi portate? Gridai, senza opporre resistenza, visto le mie forze non lo permettevano. - Non preoccuparti, adesso io e Mattia ti faremo un bel regalo di Compleanno, Che ti ricorderai per un bel po’ di tempo, Credo?
Sghignazzo Carl, trascinandomi fuori dalla festa, in un posto piuttosto isolato, i due mi appoggiarono ad un albero, spalancarono le mie mascelle e vi inserirono delle capsule, che subito inghiotii, non ricordo quante fossero, forse due o tre, in un primo momento non capii di che cosa si trattasse, ma subito dopo mi accorsi che erano pasticche di estasi, tentai di rigurgitarle ma era troppo tardi, cominciavo a sentire il loro effetto. - Bastardi! Siete due grossi figli di puttana, sapete che io sono contrario a queste cazzo di droghe, VAFFANCULO, siete dei pezzi di merda, non dovevate farlo! Esclamai, sbraitandomi cercando di alzarmi ma senza riuscirci, guardando verso quei due stronzi di Mattia e Carl. -Dai non ti agitare tanto le sorprese non sono ancora finite, il bello deve ancora arrivare. Disse Carl, mentre si alzava la manica destra della sua camicia, vidi che anche Mattia faceva lo stesso; Capii subito che quei due stavano per spararsi dell’eroina nelle vene. -Che Cazzo state facendo?, non capite che quella roba vi ucciderà, fermatevi finche siete in tempo, almeno tu Mattia, che sei più responsabile, ascoltami te ne prego. C- Dai non preoccuparti, e poi ricordati che siamo entrambi due mesi più grandi di te, non dimenticarlo Moccioso. E cosi dicendo Carl si infilò quel maledetto ago nella vena, accompagnando il tutto da un grido di godimento, poi accasciandosi passo la siringa a Mattia.
IO- Fermo Mattia, Fermati, Fermati! M- Smettila so quel che faccio! E anche lui si bucò, accompagnato dalle note di un armonica, la musica rallento tutto d’un tratto, trasformandosi in un ritmo più lento e triste, era come se i musicisti si fossero accorti di tutto, era come un rito solenne che si ripeteva di continuo, di festa in festa, in quelle colline qualcuno cadeva sempre in quella trappola. Sembrava, che i musicisti mostrassero il proprio dispiacere con quelle tristi note, di chitarra e fisarmonica. Tutto diventò più lento, i miei movimenti erano controllati a fatica da me, le pasticche cominciavano a fare sempre più effetto, guardavo i miei amici distesi su quella terra, di pietre e tufo, dei brividi salivano lungo la mia spina dorsale fino al collo, per poi battere in testa come un martello contro un’incudine, loro li distesi, non muovevano un dito, sembrava perfino che non respirassero, forse, quella era la punizione per qualche cattiverie dell’infanzia, ma cosa avrebbero potuto fare di male, dei ragazzi così apposto, l’unica loro colpa era quella di essere troppo ingenui e curiosi, curiosi verso un mondo cattivo, non meritavano, non la meritavano quella punizione. Fissavo Mattia, lo fissavo, guardavo i suoi capelli rossi, quasi arancioni, un po’ ondulati che si riempivano di terra rossa, guardavo quel ragazzo così sicuro di se, guardavo quel ragazzo che aveva sempre il sorriso spiaccicato sulle labbra ma che ora si era ridotto ad uno straccio. Mai avrei immaginato che proprio lui avrebbe fatto una simile fine, mai avrei immaginato che proprio lui si sarebbe drogato, lui che mi dava sempre consigli quando ne avevo bisogno, lui che mi passava i compiti
di matematica, lui con quelle sue sopracciglia inesistenti, che lo rendevano così buffo e deriso dai nostri amici di classe, lui proprio lui, un mio amico. Erano li per terra entrambi privi dei sensi, avevano entrambi gli occhi chiusi, le gambe irrigidite come pure il busto, il mio corpo invece, al contrario cominciava a muoversi irrefrenabilmente, accompagnato dal cuore che batteva all’impazzata, sentii: - Sei tu l’amico di Carl? Alzai gli occhi e vidi due delle più belle ragazze che avessi mai visto prima di quel momento. - Allora sei tu il suo amico? Ci sei? O anche tu stai per collassare? Carl ci ha detto che oggi è il tuo compleanno, e allora ci ha chiesto se potevamo farti un po’ di compagnia, che ne dici Elis lo facciamo diventare un uomo, questo bel ragazzetto, non vedo l’ora di essere la sua prima donna! Non dici niente! Ci aveva avvisato Mattia che eri timido, ma non fino a questo punto. Non riuscivo a capire bene se tutto questo era realtà o era solo l’effetto della pasticca, cominciai a sentire le loro mani che accarezzavano il mio petto e che poi, scendevano verso le mie parti intime, le loro lingue umide, continuavo a non credere che quella fosse la realtà, le vedevo spogliarsi, il loro seno era bianco, una di loro cominciò a slacciarmi i pantaloni, mentre sentivo la lingua dell’altra che mi carezzava la pelle, mordendomi il petto, per me quello era il paradiso, la ragazza bionda, che si chiamava Elis, dopo avermi sbottonato i pantaloni divaricò le gambe e si sedette sul mio bacino, lasciandosi penetrare da me, cominciò cosi a
cavalcarmi senza sosta mentre si baciava con la sua amica Bruna, Ero esterrefatto da lei non riuscivo a toglierli lo sguardo di dosso, la fissavo negli occhi era bellissima Elis. Si Elis era bellissima lo ricordo benissimo, I suoi occhi neri mi incantavano, le sue labbra carnose di un colore rosa mi invitavano a carezzarle come pure il suo seno, cercavo con tutte le mie forze di alzare un braccio poter accarezzare il suo seno, quel bel seno bianco, ci riuscii, lo toccai era la prima volta per me, quel seno era così morbido e caldo, non avevo mai provato una sensazione così bella nella mia vita. Per un momento avevo dimenticato quei due poveretti distesi li per terra, avevo dimenticato tutto il resto, quella sensazione di benessere, mi piaceva, lo feci quattro volte, o meglio loro alternandosi, mi fecero quattro volte, visto che io non riuscivo ad muovermi. Passai delle ore bellissime, quella fu la mia prima volta. L’indomani al mio risveglio tutto era finito, i musicisti, gli artisti, tutti avevano fatto i bagagli ed erano andati via, l’atmosfera era cambiata totalmente: per terra c’erano carte bottiglie di birra rotte, vetri sparsi ovunque, l’erba era bruciata, c’era ancora chi vomitava, chi dormiva o era collassato, il sole non riusciva a svegliare tutti anche se era così forte e bello, non ci riusciva proprio, il sonno che incombeva in quella masseria era più forte di lui, era tutto cambiato, si sentiva una maleodorante tanfa di vino, cacca e puzze varie. Io mi svegliai con un gran mal di testa, dovuto a chissà che cosa, cominciai a cercare Carl e Mattia, perché non erano più distesi li per terra, erano spariti. Dopo un lungo vagare li trovai distesi in un pollaio con la faccia spiaccicata su delle uova di gallina, ora non so se quelle
uova gliele aveva spiaccicate qualcuno in faccia, oppure vi erano caduti sopra, non lo capii mai come fossero arrivati fin li, ma la cosa, veramente, non è che mi importasse più di tanto, quello che mi dispiaceva di più, era che le due ragazze fossero sparite, e chissà se mai, le avrei più incontrate. Provai in tutti i modi a svegliare i miei due amici ma niente da fare, erano proprio collassati - Prova con un secchio d’acqua, vedrai come salteranno di terra Mi suggerì un signore, dalla lunga barba bianca. - Non crede che l’acqua sia un rimedio un po’ esagerato? Poi con questo freddo, ho paura di fargli prendere un malanno, sa, ieri hanno un po’ esagerato con il vino, allora… - Allora ti faccio vedere io come si svegliano questi due caproni, Fannulloni - disse riempiendo un secchio di acqua dal pozzo più vicino, poi aggiunse – guarda ed impara, le mie pecore così stanno sveglie per due giorni e mi danno del buon latte anche. Così dicendo verso quel secchio colmo d’acqua gelida su quei poveri ragazzi, ma i due niente. - Porca di un pollo spennato! – esclamò – Questi due sono davvero due pigroni, ma figliuolo non preoccuparti ho ancora un asso nella manica. E così dicendo a passo veloce si avvicinò alle sue pecore, dopo qualche minuto, ne scelse una e cominciò a parlargli, io sinceramente cominciavo a preoccuparmi della salute dei miei amici, ma soprattutto della mia perché quel anziano uomo mi
sembrava un po’ pazzo. - Gli ho raccontato tutto il problema alla pecorella mia, - mi disse mentre toccava le zone intime del suo animale – ora ci penserà Michelina la pecorella mia, a svegliare i tuoi amici, lo faccio sempre con mio figlio, quando non vuol venire con me nei campi, e poi vedi come salta, sbrigati toglili le scarpe e spalmagli questo formaggio sui piedi. - Ma veramente non credo che sia la giusta soluzione questa? Gli dissi sperando che non mi avrebbe costretto a compiere quello schifoso atto. - FORZA ragazzo FORZA Gridò accarezzando ancora le zone calde della pecora, mentre essa belava; allora cominciai tutto schifato a slacciarli le scarpe, gliele sfilai e poi lentamente e senza guardare cercando di non toccare il piede sfilai i calzini. - Tieni spalma un po’ di questo su li piedi, e poi ridammelo. - E’ proprio necessario? - Si che è necessario, la pecorella mia vuole un po’ di contorno. Così dicendo lasciò libera la pecora che cominciò a leccare li dove avevo appena spalmato il formaggio, lo leccava di sotto e di sopra, non lasciando neanche l’interno delle dita che era di un nero carbone, ma leggermente morbido, mi ero accorto di questo perché alla pecora gli si appendeva al muso e dondolava, era una cosa disgustosa, la puzza ei loro piedi era fortissima, chissà da quanto tempo non li lavavano! La pecora li gustava, come se fossero appena usciti da un caseificio. - Lecca lecca, Michelina mia!
Disse sorridendo il vecchio, ma ad un tratto la pecora si fermò, guardò verso di noi come se ci volesse dire qualcosa, anzi disse “BEEE”, e così dicendo cadde in terra, ADESSo LI IN TERRA AVEVANO DUE CAPRONI E UNA PECORA! Il pastore ce l’avevamo ed il gregge era completo. - Michelina, Michelina mia che ti hanno fatto, cosa ti hanno fatto? Urlò il pastore come se volesse scoppiare a piangere, toccandogli sempre la zona bassa. - Michelina, Michelina, e tu! – rivolgendosi a me disse- Tu ed i tuoi amici, la pecorella mia dovete ripagarmela, dovete ripagarmela.
Io impaurito cominciai ad indietreggiare, e dando un balzo all’indietro cominciai a scappare via - Dove scappi, torna qui porca di un pollo spennato, Michelina, Mi hai fatto morire Michelina, Che la pecora fosse morta di disgusto al sapore dei loro piedi puzzolenti, ne sono sicuro, perciò, continuai a correre diretto a casa, lasciando quei due li a dormire, giurando che non ci sarei più ritornato.
… e continua… una storia che non ho mai terminato di scrivere…
Dialogo immorale sul nulla… Non voleva saperne di compiersi… il suo miracolo, no… non ancora… neppure ora che un barbaro esercito d’ecchimosi aveva schierato l’ombra dei suoi alfieri sulla scacchiera di quel corpo in malora, mentre un rivo di sangue ne intabarrava lento ed irresistibile capo, volto e colando, diveniva cuscino tiepido su quel letto d’asfalto.“Ehehe… finalmente…” rise con la solita, ormai flebile ma coraggiosa incoscienza, singhiozzando movimenti viscidi, come fosse un invertebrato ansioso di tastare del suo stesso liquido vitale, con quel colore così succoso, con quel sapore greve quanto la vita che aveva deciso di cavalcare ormai ventisette anni prima. “Pentiti… ti supplico!” intonò la compagna di quella fredda nottata… colei che di lì a poco si sarebbe trasformata nell’ ultima partecipe dei suoi giochi crudeli. “Vedi…sorella… Dio è davvero immenso… un datore di lavoro tanto premuroso quanto responsabile. Certo, ha pure lui suoi vizi, come quello di azzardare su cavalli da lui stesso coltivati, ma non per questo addomesticati e pronti a lasciarsi sottomettere da quel pessimo figlioccio e dalle sue briglie scadenti… ’’. “Tu sei solo un ragazzino ingrato!’’rimproverò agitandosi la monaca con severità frammista a commozione e pentimento, ‘’Tu!’’ “ …è possibile” rispose lui con calma laconica… enigmatica… inconcludente… Il suo animo butterato dall’esperienza aveva sconfitto nel tempo il germe del cancro e della poliomelite … ma pareva vi avesse insinuato quelli del dubbio e dell’ assurdità di una vita corrotta dalla continua necessità di inseguire nostalgie
sentimenti, emozioni, laddove il mondo vede solo il fumo di piaceri fatui. “Dannosi si, per fortuna solo per il mio fegato!” disse con aria soddisfatta… “la ricerca in se non è affatto dannosa…’’ “Dunque, tu chiami ricerca… quella che l’umanità definisce licenziosità?” “Bhò… perché no?” “Tu sei solo un poveraccio… sei il delirio di un’anima perduta! Sei un pervertito… uno stupratore d’ anime’’ “Eh… già!’’ “Sei un ubriacone” “…è per introspezione” “Sei una prostituta’’ “cazzo, magari!” “se un fumatore inguaribile” “in effetti un po’ coglione lo sono sempre stato… ma in verità sono io solamente ricerca…” “La ricerca è sofferenza, è sudore, è abnegazione!” “La ricerca è la mia unica verità!” “la verità non ha bisogno di cattivi maestri, ne di giullari’’ “è vero… non ha bisogno di giullari, perché insegue se stessa… ed una volta afferrata, allora, dopo tutto quel suodore, dopo tutte le tue lezioni, dopo tutte le mie bestemmie, dopo i nostri voti inutili, allora, quando ufficialmente risulteremo illuminati, moriremo tutti dalle risate’’.
a Walt, a Luther, a me Nostromo Dal bottone della luna all’imbuto nella penna scriverò, come redine per la follia scriverò, con una serpe nella laringe scriverò, con il Vesuvio nelle vene, scriverò, con un cuore di nome Ade, scriverò con il marmo nella mente, scriverò, con le urla di chi mi batte scriverò, con il sangue di chi mi odia scriverò, con le lacrime di chi mi ama scriverò, come morte per chi mi vince, scriverò,
buffone, scriverò, Genio barbone scriverò, ribelle scriverò, Demone santo scriverò, bozzagro scriverò, blasfemo e conservatore scriverò, della mia terra scriverò, del generoso ulivo scriverò, di mura saporite, scriverò, di frange fraterne, scriverò lacrime e fragole scriverò,
del sarcasmo del destino, scriverò, per la memoria delle masse scriverò, all’intelligenza nelle cravatte, scriverò, ai timoni delle anime, scriverò sulle croci delle barche, scriverò dell’uomo libero, scriverò, all’uomo volgo, scriverò, presunto saggio, suonerò, campane sorde combatterò con braccia monche, urlerò,
per il mio vicino morirò, svegliando anime rivivrò, impartendo morte scriverò, Io…
Ci vorrebbe un'idea....
Ci vorrebbe un’idea, certo. Ma un’idea non la compri al supermercato. Non ti alzi una mattina, gli occhi rossi e gonfi, intontito dal sonno profondo e ancora addosso la sensazione piacevole delle coperte che ti coccolano, dicendo: “Ora mi farò venire un’idea.” Nessuno ha mai avuto un’idea appena alzato. Le idee, al massimo, ti vengono sognando. Ma un sogno telecomandato, dritto dritto sul tuo problema, che sogno sarebbe? Vediamo, le grandi idee della storia come sono arrivate? Farsi colpire da una mela che precipita dall’albero? Banale e abusatissimo. E poi, ci vorrebbe il cervello di Newton. Forse accendendo una lampadina, sarà luce in questo buio totale. Anche questa usatissima, come immagine. No, ci vuole altro. Facendo un bagno, come Archimede? L’importante è che poi non mi metta a correre nudo per andare a brevettarla. No, meglio di no, e se non riuscissi a controllarmi proprio come successe a lui? Sedendomi al mio studio, sulla mia sedia, con la mia scrivania davanti, un bel foglio bianco e tutti gli attrezzi necessari al lavoro intellettuale? Sì, può essere l’idea giusta. A meno di non avere la classica crisi da foglio bianco. Bianco come il nulla che avvolge la mia mente. Eppure, ci sarà un modo. Non può essere così difficile. Le idee ce le hanno tutti. Poche risorse umane sono diffuse come le idee. Forse gli uomini non sempre se ne
accorgono, ma è così. Ah, se ogni uomo avesse l’acqua, e il cibo, così come ha le idee! Se avesse un pc, così come ha le idee! Se avesse un lavoro stabile, così come ha le idee! Nessuna grande ideologia ha mai difeso le idee, ha mai valorizzato le idee. E’ ovvio, stanno lì, non sfuggono, sono di tutti. Peccato che le idee non sappiano cos‘è il tempismo. Cerco disperatamente un’idea, non so, per vincere la partita a scacchi che sto perdendo con mio cugino piccolo -quel genietto, ma da chi avrà preso poi?- e mi viene un’idea vincente da applicare in azienda. Mi agito per inventarmi il look che colpirà di più al prossimo megamaxi-iperfestone di sabato, e scopro come potare l’albero per ridargli splendore. Se avessero anche il tempismo, le idee, sarebbero davvero perfette. Ma la perfezione, si sa, non è di questo mondo. Intanto il tempo passa, ormai sono completamente sveglio, e di uno straccio di idea valida nemmeno l’ombra. Avessi l’ombra, sicuro, potrei risalire al suo corpo, al suo volto. Le ombre sono come le impronte digitali, ci dicono tutto su chi le ha lasciate. Anzi no, le ombre sono impronte. Mobili, ma pur sempre impronte. Avere l’impronta di un’idea è come avere l’idea. Ricordo quando andavo a scuola, le distruttive versioni. Ore di compito che non passavano mai, la maledetta idea per tradurre la versione non veniva. Mi bloccavo puntualmente sul passo cruciale e non potevo decodificare il resto. Questo calvario durava fino agli ultimi cinque minuti. Finchè, pietosa, non arrivava la voce del mio compagno di banco, che aveva consegnato già tutto anni-luce prima, ad imbeccarmi. Lì, partiva il mio vero compito. Ad averlo sempre accanto, uno che ti
aiuta quando non ci arrivi, quando brancoli nel buio. Purtroppo dovremmo avere la persona adatta per ogni occasione della giornata. E’ impossibile, si sa. Comunque ora io non ce l’ho, devo arrendermi. Non ce l’ho fatta, proprio no. L’idea, oggi, non è venuta. Aspetta. Aspetta un attimo. Forse l’idea l’ho avuta e non me ne sono nemmeno accorto. Come ho fatto? L’idea l’ho avuta per scrivere un racconto per il Fasancult! E l’ho anche scritto. Sì, vabbè, è vero, è una libera divagazione. Ma sta in piedi. Spero.
Alla ricerca di te
E' una corsa bellissima quella che mi porta da te....
Il cuore scalpita, la mente vola e le mie gambe fanno fatica a starle dietro...
Sei un puntino che scorgo nella luce,
ora sei tu la luce ...
ora più nitida, ora più fioca, ora dinuovo limpida....
Non c'è traguardo in questa corsa,
io corro carburata dalla gioia...
Se chiudo gli occhi, corro comunque....che bello!
E' una corsa senza fatiche, è una corsa senza ostacoli....è una corsa senza soste....
E' una corsa che mi dà energie proprio mentre le spendo....
E' un lancio senza imbracature....
E' un tuffo........
E' una corsa alla ricerca di te... improvvisa,come un acquazzone estivo, mi è tornata l'ansia di vivere...
mi sento come si devono sentire i fiori quando stanno per sbocciare piena d'aspettative per qualcosa che giĂ conosco ma che ora mi appare diverso
non voglio pensare,non voglio analizzare,voglio solo lasciarmi andare e vivere questo momento
...ti guarderò negli occhi come se fosse la prima volta, come se il sole avesse iniziato a risplendere nella mia vita solo dopo averti riscoperto. Solo e sincero, frivolo e solare, superficiale ed unico. Tu, protagonista dei miei tanti sogni; tu, la mia adolescenza ormai chiusa in scatole; a te ho donato il mio cuore, un pomeriggio, inconsapevolmente, tra un pranzo ed un caffè... sapevo che non l'avresti mai custodito gelosamente come un tesoro, anzi hai creduto che potesse essere tuo in ogni momento, quando avresti avuto bisogno di me e delle mie parole. Non rim di averci creduto e di dato più di quel che potevo, sentivo di farlo ed avevo bisogno di sentirmi utile alla persona che più amavo nella mia vita. Il tuo sorriso sarebbe stato più importante di mille parole, di baci rubati e non dati, di carezze cercate e non trovate, di lacrime amare, di caldi abbracci...sinceri, ma fraterni. Avrei potuto amarti per tutta la vita, ma ho deciso di uscire dal tunnel, di scendere alla fermata VITA e di riappropriarmi dell'aria, del mare, della vita del mio cuore ed ogni giorno riscopro una nuova alba, un nuovo sole, un nuovo amore.
La persistenza della memoria
Persa...Corro per oscure stanze...tutto sembra uguale qui seppur tutto appaia in continuo mutamento...Apparenza. Flebile, sfocata e illusoria apparenza! Tutto è buio, fioche luci ad olio illuminano le numerose porte che si perdono ai miei sguardi....Alla mia destra la debole fiaccola illumina una porticina piccolissima, sulla targhetta si legge la scritta "Speranze"...Spero e credo che dentro sia immensa, ma forse dipende dai "giorni"...Altre porte scorrono innanzi ai miei occhi alcune diventano immense, altre piccolissime, altre apparentemente normali..Mi fermo solo un attimo dinnanzi una porta, sembra esser stata aperta, riaperta, sfondata oserei dire...Si, sfondata, riaperta e chiusa con forza..Non per niente sulla targa della porta c'è scritto "Ricordi"...No, non è il momento, ho bisogno d'altro adesso. Continuo a cercare non sò nemmeno io cosa..Non un punto di riferimento, nessuna indicazione...Nulla..Ma qui non c'è bisogno d'indicazioni, in un certo senso è come se i tuoi piedi camminassero da soli, come se a guidarti ci fosse una sorta "d'istinto primordiale" come se sapessi a priori dove sono diretta..Eccola una porta come tante, ma a differenza delle altre questa è già aperta..Entro..sò già cosa fare, mi siedo sul quel pavimento vecchio vent'anni e osservo uno dei miei quadri preferiti che in questi giorni mi salta in mente spesso, quasi come una riscoperta..Non sò perchè ogni volta che i miei occhi si posano su quel dipinto, mi sento come rapita, sospesa..saranno gli orologi e quindi il tempo e tutto ciò che
esso rappresenta...Resto lì immobile a fissarlo...ogni orologio sembra abbia qualcosa da raccontarmi, riesce a rapirmi, affascinarmi..E io lascio che ogni orologio mi racconti la sua singola storia, lascio che quel quadro nel suo complesso mi racconti tutto di sè, le sue teorie e in esso lascio anch'io qualche mia piccola considerazione..Forse un modo per "scaricare" qualche pensiero, per unirlo a qualcosa di annesso??Probabile...Tanto resterà dove ogni pensiero rimane finchè non si decide di esternarlo..
che "suono" ha la notte?
ha il suono del silenzio...ha il suono dei battiti del mio cuore,ora affrettati,ora quasi inesistenti
ha il suono delle mie lacrime che scorrono copiose sul mio viso per tutte le mie paure,le mie incertezze i miei dubbi,i miei amori non corrisposti
ha il suono della risata che mi gorgoglia in gola per i miei successi, per il tempo condiviso con gli amici,per chi mi ha detto t'amo,a chi ho detto t'amo...
mi piace la notte...quando i pensieri si rincorrono veloci,quando tutto ti pare possibile,quando aspetti il nuovo giorno,quando sai che è già un altro giorno.
EMOZIONE
Trema la goccia di rugiada e un raggio di sole l’avvolge mentre una giovane rondine s’avvita nel cielo. Arriva in puntuale silenzio il tempo del giorno. Un gallo lontano canta e la falce barcolla nel grano. Un bimbo su una roccia guarda in là l’orizzonte oltre il campo, dove la terra bacia il cielo e una risata spensierata percorre la brezza: il sollievo della terra. E vibra, vibra la distesa di spighe come un morbido manto vellutato. Il gallo riposa. scuoto le pareti dell’universo,
si smaglia nel cielo la trama di astri
lapilli ardenti si sciolgono, precipitano,
piangendo, si diluiscono nuvole,
la luna scaglia la sua falce,
il vento raduna foglie,
riscopre il salice la sua frusta di rami,
un’ombra galleggia nel mare di nebbia,
rapito dallo stagno, il riflesso
pescherà un caràssio di luce,
colmerà d’invidia la notte.
La mia terra Si, mi ritrovo ancora solo a percorrere chilometri di costa. Uno, due, tre‌ tanti quanti sono i decenni che passerei ad ammirarli. Emozionato dalla storia nascosta dalle onde accolto dai racconti dei miei pescatori desolato fra la battigia abbandonata da una civiltà forse mai arrivata mi poggio alla difesa collinare stagliata dietro di me immensa. Ritorno su per una campagna dal verde imminente carica di colori e profumi. Ammiro antiche fortezze di porpora incalcinate erose dal tempo ma zeppe di storia. Tocco i miei ulivi poderosi profusi di fatica.
Attraverso piccoli abitati abbandonati vivi di tradizioni.
Salgo piano la collina verdeggiante cullata dal vento. Poggiato alle fredde chianche rivedo le acque che poco prima mi bagnavano i calcinacci invecchiati dalle piogge gli ulivi stremati dalla terra. Ritrovo tutto a portata di mano. Tutto in un quadro. Troppa la nostalgia. Troppa la solitudine. Mi calo tortuosamente fino a giungere su un chiaro lastricato. Ritrovo sempre i miei amici. Sempre il mio faso.
Viaggio di Ritorno 1. I preparativi andavano per le lunghe. Come al solito i bagagli aumentavano a vista d’occhio. Difficile rinunciare anche ad un fazzoletto, eppure si trattava di una vacanza. Il migliore at-teggiamento di fronte alla vacanza è proprio quello di dimenticare tutto e tutti. Più distanti si è dalla quotidiana noia e più si è in grado di pensare e ricaricarsi prima di tornare ai giorni sempre uguali. Più si è lontani dal contesto solito e più non si vorrebbe tornare. A volte vien voglia di morirci. Di colpo Robert decise di partire portando con sé solo lo spazzolino da denti e il solito Alla ricerca del tempo perduto, libro la cui lettura si moltiplicava, nel tempo, all’infinito senza alcuna possibilità di leggerne la fine. Libro ormai bandito dalle biblioteche ufficiali, troppo decadente per i gusti del governo. Robert lo leggeva con il senso del proibito, non finendolo e, anzi, ricominciandolo sempre. Come Penelope e la sua tela. A volte si chiedeva cosa ne sarebbe stato di tutta quella nostalgia. 2. ‘‘Diciottomilacinquecento dollari, signore’’, fece il commesso dell’agenzia Kronos, impas-sibile di fronte al viso disperato di Robert. ‘‘Come, la pubblicità parlava di sedicimila’’, tentò. ‘‘Come lei sa, l’inflazione è un male che ancora non siamo riusciti a debellare’’, recitò freddo, di rimando, il commesso.
‘‘In pieno 2036’’, commentò amaro Robert. Consultò il terminale da polso che gli disse di scoprire il conto di duemilacinquecento dollari, senza problemi. ‘‘Quando si parte?’’. 3. La cabina assomigliava alle vecchie camere di decompressione usate dai subacquei quando era ancora possibile tuffarsi in mare, prima della catastrofe batteriologica di Port Hart del 1991. Robert si distese e l’addetta gli si avvicinò: ‘‘Nome, cognome, età, professione’’. Annoiato rispose: ‘‘Robert Palmer, 95 anni, tecnico nucleare presso la centrale di Har-rysburg’’. L’addetta passò i dati in un terminale da tavolo: ‘‘Per quale motivo lei va nel 1985? Vacanza o lavoro?’’. Un altoparlante diffondeva nell’ambiente spezzoni di musica discreta che ren-deva il tutto molto rilassante. ‘‘Vacanza, una semplice vacanza. È da tempo che l’ho progettata’’. Era calmo. ‘‘Perché proprio in Italia, a …’’, si interruppe non riuscendo a leggere: ‘‘… Firenze?, conti-nuò. ‘‘Nel 1984 avevo 17 anni ed ero in vacanza in Europa, in autostop. Lei forse non sa cos’è l’autostop. A Firenze cominciai a leggere questo libro per imparare l’italiano, ma non sono mai riuscito a leggerlo fino in fondo. Proust non è semplice, in italiano poi. Allora le cose andavano bene, l’aria era respirabile, il mare pulito e ancora non c’era stata la guerra del K-201, ricorda la storia studiata a scuola? Ma questo che le sto dicendo non può
inserirlo nel terminale, questa è nostalgia, non può ridurla a memorie e unità di misura bio-informatiche’’. Robert era completamente rilassato. ‘‘Lo so benissimo’’, rispose l’addetta, ‘‘il mio compito è constatare la sua integrità psicofi-sica’’. L’addetta doveva essere una clonata, pensò Robert, aveva ben poco di umano. ‘‘Capisco. In effetti sono ancora giovane per questo genere di viaggi. Di solito è verso i 150 anni che vien voglia di tutto questo, ma io ho una malattia che si chiama nostalgia’’, disse, ormai convinto di avere superato la prova. L’addetta, impassibile, digitò ancora dei dati al terminale. ‘‘Bene’’ infine parlò ‘‘lei è ammesso. Il computer centrale l’ha inserita nella categoria ‘Età d’oro’. Buon viaggio’’. 4. Firenze era proprio come la ricordava, tutto corrispondeva alle sue nostalgie. Trovò imme-diatamente la strada. Suonò due volte. Gli aprì una ragazza dagli occhi profondi, troppo pro-fondi. In un italiano molto trascinato le disse: ‘‘Ho imparato l’italiano, Ada, e ho imparato anche la nostalgia’’. ‘‘Ma lei chi è? Come conosce il mio nome?’’, chiese stranita la ragazza. ‘‘Sono il padre di Robert Palmer, ricorda? L’anno scorso lei prestò questo libro a Robert perché imparasse l’italiano. Una improvvisa partenza gli impedì di rivederla e di restituirle il volume. Sono qui per riparare’’. La ragazza rise. ‘‘Ma non era il caso di preoccuparsi, poteva tenerlo. Che
caro! Gli dica che lo ricordo sempre e che sempre lo ricorderò’’. Robert mormorò qualcosa per ringraziare e di scatto si voltò andandosene, gli occhi erano lucidi di lacrime. ‘‘Dunque mi pensa’’. 5. Ponte Vecchio era lì, Robert guardava l’acqua che sotto scorreva limacciosa. ‘‘Finalmente una vacanza’’. Il fiume se lo portò via. Più si è lontani dal contesto solito e più non si vorrebbe tornare. Vien voglia di morirci.
-L'ascensore-
“Sono volato via dal cornicione delle mie paure, precipitando nel cielo. E mentre libravo, mi mancava il respiro.” -oggi lo faccio!- e mentre scendevo da casa tua con l’ascensore, quel senso di vuoto che senti allo stomaco mi è sembrato così affascinante. Attraversando la strada mi è sembrato come se mi spiassi dalla finestra dove fino a poco tempo fa indirizzavo i miei sguardi più dolci, nascosta, quasi a frugare nel profondo dei miei pensieri meno evidenti; mi sono sentito incoraggiato, spronato, rassicurato dalla falsa consapevolezza che potessi sapere ciò che stavo andando a fare. Salii in macchina. La radio mi propose come ultimo ascolto una vecchia canzone dei Pooh, e quasi sorrisi, canticchiando quella melodia così patetica “…..sei la donna del mio amico….non possiamo fargli questo….”. Pensai che, alla fine dei conti, non è poi così difficile uccidere un uomo, basta non guardarlo negli occhi, ma in quel momento, dovetti inchiodare. Non mi ero accorto del rosso e per poco non tamponavo una Bmw, una di quelle che sembrano uscite ieri dalla concessionaria, una di quelle che insieme alla patente ed il libretto, ti chiedono anche la cravatta. Nonostante andassi incontro alla fine, non volevo ammaccare, non volevo ferire, non volevo segnare nulla e nessuno, -“i morti non pagano i danni”-, sorrisi ancora.
Attraversò un uomo, nonostante avesse il verde attraversò con circospezione, mi accorsi che era un mio vecchio compagno di scuola, erano anni che non lo vedevo, ma lo riconobbi subito nonostante fosse praticamente un’altra persona; vestiva elegante adesso e gli occhiali gli davano un tono più serio. Feci un cenno, feci finta di salutarlo, feci finta che si ricordasse di me e pensai che leggendo il mio nome sul manifesto avrebbe addirittura dimostrato dispiacere, nonostante da circa dieci anni non sapevamo nulla l’uno dell’altro o meglio, non ne avevamo sentito l’esigenza. Costeggiai la mia banca, -quella dei miei-, lasciandomi andare in un pensiero autoironico; avevo lavorato per anni ma ero mantenuto da loro, praticamente un loro non-lavoratore dipendente, un po’ come quelli che fa assumere lo Stato, intoccabile. Loro erano felici di sentirsi ancora i miei genitori ed io mi sentivo un po’ come quelle troie foraggiate dal loro amante in carriera che non ha le palle di lasciare sua moglie…che fanno finta di amare, ma che a volte amano davvero. Non avevo preso niente con me nonostante ci pensassi da sempre. Certe decisioni sono davvero difficili. Ho paura del sangue, quindi avevo optato per il tubo di scappamento, ma l’immagine di mia madre preoccupata per il mio ritardo a casa, e me stesso morto in macchina in quel sentiero dove di solito vanno a scopare le coppiette, non mi piaceva affatto. Amavo mia madre e volevo regalarle la rapida consapevolezza della mia morte. Quell’attesa di chi spera, aspettando invano, è terribile. Parcheggiai sulle linee blu, senza grattino, -sorrisi- “adesso fatemi la multa, figli di
puttana”-. Riposi lo stereo sotto il sedile. Aprii la portiera e respirai profondamente. Scesi. Chiusi. Presi una sigaretta e l’accesi. Tirai profondamente, il rosso del fuoco che bruciava il tabacco seguì l’intensità del mio respiro. Mi sembrò un attimo, tanto che non saprei dire cosa pensai mentre aspiravo avidamente quel fumo. Mi venne incontro con fare discreto, quasi incuriosito dalla mia presenza, ma senza sospettare, senza temere. Si spense tra le mie mani che gli avvolgevano il collo, non ricordo nient’altro, ma lo vidi negli occhi. Durò un attimo, forse. Mi sentivo estenuato e ci misi un po’ per recuperare il fiato. Avevo l’affanno. Mi ricordai di quella volta che a causa di mio padre feci per due volte quattro piani di fretta. A piedi. Aveva dimenticato il cellulare in macchina disse, per poi rendersi conto che aveva dimenticato anche il caricabatterie, e dovetti scendere ancora. Quanto sarebbe stato utile avere un ascensore. Ma lo stesso non pensava quello stronzo che abitava al 3° piano, e che nell’ultima riunione di condominio aveva avuto il coraggio di dire –“Salire e scendere le scale non può fare altro che bene!”ma tutti gli altri sapevano che era solo un gran tirchio e che spendere dei soldi per una casa che non avrebbe lasciato a nessuno, non era un buon investimento.
Anche i figli l’avevano abbandonato. Avrei voluto tanto che si spezzasse una gamba, ma lui nonostante avesse settant’anni, saliva e scendeva senza troppi problemi. In un attimo fui già sotto casa. Aprii il portone e salendo pensai a nulla, ma quando varcai il 3° piano mi soffermai e sorrisi. Guadagnai l’ultimo piano, entrando in casa ti pensai ancora, ma fu un attimo. Ormai avevo varcato quella sottile linea di confine che c’è tra la vita e la morte, già molto prima di smettere di respirare. Aprii la finestra del bagno, misi un piede sul cesso e con l’altro la scavalcai, poi poggiai ambedue i piedi sul cornicione.
Insonnia Tutto attorno parla il silenzio. E’ l’unica cosa che non sono riuscita a spegnere, o a cacciar via dalla finestra. Sibila nelle mie orecchie con tanta veemenza da stordirmi, e così inizio a sospirare, a fare piccoli colpetti di tosse per riportarlo alla disciplina e al rispetto per una povera anima in pena che cerca di concentrarsi a deconcentrarsi; inizio a respirare con affanno e a sudare la mia impazienza…. Questa Notte si è divertita a violentare un corpo insofferente, straziandomi la testa, martellandomi le tempie al ritmo di una incessante musica, ...quella del silenzio, tagliente, sordo, assordante, che non conosce origine e non conosce fine, che perfora il senso dell’udito prima ancora che i timpani. Questo tuo attaccamento a me ha il sapore di una vendetta immotivata,
di una provocazione ingiustificata… Poi.....la luce.... Bussa ai miei occhi chiusisi per sbaglio pochi minuti prima; è un risveglio indotto, un parto prematuro, una nascita al nuovo giorno dopo una gestazione sofferta… Notte isterica non sopporti l’idea di essere gravida di me… E così fingo un risveglio, priva di forze, eternamente impreparata alle pretese di un giorno appena iniziato. Sorrido, non posso far altro, con lo stesso sorriso di chi, sconfitto, mal cela la fatica e l’umiliazione di una gara persa.
Notte assente, notte invisibile, notte sorda, notte morta… mi imprigioni con questa tua assenza.
Per te
CosĂŹ ho dovuto correrla tutta questa storia, di occasioni mancate, sbagliate, inventate, anche il resto ho dovuto pensarlo veloce e guardarlo veloce e non confonderlo, non scambiarlo per odio, che non ti ho portato. Soddisfatti di silenzio e sguardi cavi, l'affermazione finale dei tuoi occhi, sui risvolti dei nostri errori. Buttata l'ultima cosa perfetta che ci era rimasta e non voluta, ormai consunta di ripensamenti, senza rumore. Delusione di cose attraverso i pensieri, non ti ho visto sorridere, eri solo diverso. Questo specie d'amore, qui ,troppo vicino alle nostre incertezze.. come l'ultima volta di un'altra cosa, come tante.. Il tuo compleanno di strada, tu guardi, solo, e sorridi, semplice, prima di ogni ritorno, dopo il tempo delle partenze, e degli arrivi infiniti.. occhi pieni di parole, silenzio e polvere, sui tuoi bagagli stanchi e ricordi tra le distanze percorse tra te e i tuoi pensieri. Ti ho qui, come niente, come la fine del cielo, i tuoi pensieri lenti, il silenzio piĂš acuto sulle cose, scordando le parole, come una eco nella mente..
Questo amore, cosĂŹ, da non saperti dare parole, cosĂŹ da aspettare le tue..e contarle e sentirle vicino e poi consumarle piano.. non ho visto nulla di te.. Mi spoglio di questa solitudine per indossare il tuo amore e portarlo bene e forte, camminando lungo le pieghe della tua assenza. Ho pensato la non soluzione di questo amore, senza piĂš avere tempo, posti e distanze..tranne che ti amo.. le cose che non sai, che io non so non gettare l'amore, non corrompere l'amore.. l'amore sbaglia,l'amore soffre, tutto giĂ visto e non detto, non perderti mai cosĂŹ ,in inutili distanze, ..non voglio perderti,non voglio perdere il tuo sorriso,il tuo odore..il tuo sogno il mio sogno... e poi ho sbagliato..scusa..ho sbagliato le distanze del cuore, le coordinate del tuo dolore, di dove era dentro.. ma non ho sbagliato il mio amore, solo le cose,non il tuo amore...........
Un pensiero...un messaggio.... Cosa provo per te non lo so, a volte mi sembra un' illusione, solo fantasia questo sentimento che sconvolge tanto il mio animo. A volte quando ti penso mi sembra di non sentire niente, di non avere bisogno della tua presenza! Eppure quando so che da qualche parte ci sei tu mi ritrovo a cercarti tra la gente, ansiosamente... e un tuffo al cuore mi prende quando finalmente il mio sguardo non visto incrocia il tuo viso!
Il racconto del Fasancult Scritto, interattivamente, on line dagli utenti Tutto il racconto ....fino al 29/02/2008 "Dopo una giornata trascorsa a rincorrere il tempo, rinchiuso nel quadrante del mio orologio, quasi non credevo di poter trovare la forza di toglierlo dal polso, e sentirmi improvvisamente sospeso e libero di lasciarmi andare al nulla...Inizio persino a sentire dinuovo il mio respiro. Chiudo gli occhi, ed è come se finalmente li avessi aperti su di me...ma dove diavolo sono stato fino ad ora........" ...una vano tentativo di ripercorrere un pezzo del mio passato è vanificato dall'accendino che. come un automa, sfrego per accendere l'ennesima sigaretta ed assopire la richiesta di endorfina fattami dal sangue. Mi serve un pò di alcool che liberi la mente a voli accompagnati dalle note del sax di Coltrane che vengono fuori dall'Ipod...... Certo che il vinile era un'altra cosa. Ricordo quella collezione di dischi che ingombrava la libreria e lo stereo grazie al quale entravo in mondi sconosciuti aiutato dalle copertine. Già allora fumavo, ma dovevo farlo con le finestre aperte, anche d'inverno, prima che i miei sopraggiungessero a urlarmi contro il dolore di non capire a cosa servisse tutta quella musica... Lo stereo è ancora lì, davanti al mio letto, ma ormai si è assopito... e l'unica cosa che riesce ad emettere è lo stridulo e graffiante rumore dell'ago di zaffiro fissato alla testina del giradischi, non più in grado di riconoscere la mia musica...E' come se quella musica fosse uscita dalla mia finestra eternamente aperta, assieme al fumo delle mie sigarette.... ...no che
non potevano capire. Il loro cervello ormai era troppo assuefatto agli schiaccianti pensieri della quodianità. Non si accorgevano neanche di stare sull'orlo di un immaginario precipizio conducente nell'alienante abitudine. Io invece, già da adolescente, avevo orrore di perdere il contatto con la vera essenza di me stesso e allora mi rifugiavo nelle note dirompenti della musica, tutta la musica, tutti i suoi generi sollecitanti, a seconda dell'umore, le remote corde del mio cuore... .... Ma a un certo punto sembrava non bastarmi più nulla: lo spazio, il tempo, l'orizzonte che mi offriva quella finestra spalancata sul mondo... Dovevo fuggire, scappare da quella consuetudine che avrebbe sbiadito i miei sogni... Volevo provare a credere che a me fosse concesso qualcosa in più... Il cuore cominciò a battere all'impazzata, finalmente mi sembrò d'aver capito: ero libero di andare, se solo lo avessi voluto. Fu una scoperta che deragliò i miei pensieri dalle rotaie della consuetudine e con occhi nuovi mi guardai intorno. Eppure stentavo a credere di essere ancora steso su quel letto, dentro avvertivo il calore del viaggio, mi muovevo... ma ero fermo. Cosa mi stava succedendo? Cos'era quello strano formicolio alle mani? Il sangue scorreva come sempre seguendo il suo consueto circolo, ma ossigenava meglio i miei tessuti perchè capivo. Capivo che dipendeva solo da me sentirmi libero e non certo da un luogo, da una situazione. La libertà era dentro di me e l'avevo sempre posseduta. Allora finalmente mi alzai da quel letto, andai in cucina, notai dei postit sulla porta, li lessi e... ...e cazzo, il primo post-it mi ricorda la routine da seguire al sorgere del nuovo sole, il formicolio non mi abbandona e mi costringe a
sdraiarmi ancora sul letto impedendomi di reagire. La musica continua a vibrare ma non più per me, la mente è ossessionata dai minuti che scorrono lenti ma veloci verso l'alba. Il timore che quell'ozio possa presto terminare mi costinge e centellinare i secondi... ...e a contare i battiti del mio cuore, le auto che sfrecciavano per strada, i giri delle mulinelle ricordo di chissà quale festa, le pieghe della tenda mossa dal vento, le pagine da sfogliare, quelle studiate e quelle lasciate al caso, i numeri in rubrica da contattare, le storie d'amore inventate e quelle rifiutate, i giorni persi a cazzeggiare e quelli necessari per tornare a cazzeggiare! ma in fin dei conti quanti giorni ancora ci mancano? Perso in mille pensieri piombai di nuovo in un sonno inquieto, le parole si sovrapponevano e si fondevano in frasi sconnesse, ricordi confusi, sogni deliranti... Quando mi svegliai mi resi conto di non aver ancora smaltito la sbornia. Con tutta la forza di volontà di cui ero capace mi sedetti lentamente al letto e rimasi così, con la testa tra le mani per qualche lunghissimo minuto. Mi trascinai in bagno, barcollando, mi sedetti nella doccia e rimasi lì, sotto uno scroscio di acqua fredda, finchè la pelle non mi si accapponò tutta. ..."basta" mi dissi! Vivo da una vita in questa stanza...e invidio la mia musica e il fumo delle mie sigarette, che ...sono riuscite ad uscire dal mio carcere....Dopo la doccia, mi infilai un paio di jeans, la prima maglietta che mi capitò per le mani, indossai le scarpe più comode che avevo....quelle che mi davano l'impressione di sentirmi piacevolmente scalzo....e uscì di casa. Dopo tanto tempo, mi resi conto che ero ancora in grado di solcare una porta e attraversare una strada....ma dove diavolo ero stato fino a quel
momento...Mi lasciavo piacevolemente assordare dai rumori della città, e mi lasciavo liberamente investire dalle luci di un giorno diverso... ...gli occhi della gente addosso mi mettevano in imbarazzo ma ormai ero lì e avevo deciso di vivere, di andare avanti;troppo tempo avevo perso fino ad allora e sapevo che non avrei potuto recuperarlo, ma tutte le sensazioni che stavo provando in quel momento mi piacevano! Distrattamente attraversai la strada senza badare al traffico, ma il rumore di una brusca frenata mi distolse dai miei pensieri; da un taxi uscì un signore robusto, con una cannottiera bianca piuttosto sporca e un paio di jeans strappati che continuava ad urlarmi :"Cretino ma come diavolo attraversi???" e impaurito mi gettai dall'altra parte della strada! Dove stavo andando adesso?mille domande nella mia testa e senza nemmeno accorgermene mi ritrovai davanti a casa sua... il mio sguardo automaticamente si porto sulla sua finestra, che non aveva più le tende del colore che lei amava tanto, la mia testa incominciò a dolermi e lacrime di dolore mi rigarono il volto. Sconvolto mi diressi nuovamente verso la mia stanza prigione, e arrivato lì mi gettai disperato sul letto. Mi resi conto che il mio dolore era ancora tutto lì, intatto, immutato. Ma ad un tratto la mia memoria sussultò. Velocemente mi alzai e attraversai la stanza raggiungendo la mia disordinatissima libreria, incominciai a cercare freneticamente, fin quando lo trovai, nascosto sotto una pila di fogli e giornali, accumulati distrattamente, o forse incosciamente li sopra.
Lo presi fra le mani tremanti, mentre il cuore mi batteva all'impazzata, e mi domandai come avessi potuto dimenticarlo. Lo strinsi al cuore e mi diressi verso il letto, mi sedetti lentamente, raccolsi tutte le mie forze e lo aprii, ed ecco che mi apparve il suo sorriso, i suoi meravigliosi capelli biondi, profumo di grano, e i suoi occhi verdi da gattina smarrita...... "Maledette donne! può essere che debba ridurmi così per una maledetta, stamaledetta donna che mi martella in testa? Io posso essere libero, io sono libero da tutto" mi dissi in un urlo muto che implodeva nella mia anima. E allora uscii di nuovo, di fretta senza badare a niente e... (attacco il post di Artemide ch emi piaceva e stava lì come cavolo a merenda)Avevo dimenticato il colori di un giorno di sole... Avevo dimenticato che ad illuminare non sono solo i freddi neon delle insegne notturne... Camminavo senza una meta, senza pormi domande... godendo di quel calore che scaldava il mio cuore... Giunsi fin giù al porto, il luccichio del mare mi abbagliò, sembrava il riflesso di miriadi di diamanti.... .... Avevo dimenticato il colori di un giorno di sole... Avevo dimenticato che ad illuminare non sono solo i freddi neon delle insegne notturne... Camminavo senza una meta, senza pormi domande... godendo di quel calore che scaldava il mio cuore... Giunsi fin giù al porto, il luccichio del mare mi abbagliò, sembrava il riflesso di miriadi di diamanti.... ...a quel punto preso da mille emozioni senza esitare mi sono tuffato in acqua e ho cominciato a nuotare...provavo uno strano ma piacevole senso di leggerezza;non mi importava più niente adesso,ma il suo ricordo era ancora vivo nella mia mente ed è allora che ho cominciato a nuotare più in fretta che potevo,
come per allontanare quei pensieri, non volevo rovinare quel bel momento e quando ormai ero troppo stanco per continuare mi sono lasciato andare...!Sarei rimasto così a galleggiare sull'acqua per ore.... ...Il sole cominciava a tramontare e riflessi rossastri coloravano la distesa d'acqua attorno a me. Cominciavo ad avvertire brividi di freddo nonostante la stagione fosse calda e fossi ancora agitato da quel tumulto di sensazioni. Ormai non scorgevo più in lontananza il porticciolo della baia. Volevo continuare quello stato di inerzia che svuotava il cervello, ma una voce forte e tuonante pareva che si rivolgesse propio a me dicendo: "Hei laggiù... ...mi girai di scatto, quasi infastidito da quella voce che interrompeva il silenzio che mi circondava, quel silenzio da me cercato per mettere una parvenza d'ordine a i miei pensieri. Iniziai ad allontanarmi velocemente camminando lungo la spiaggia...non volevo vedere nessuno, non volevo parlare con nessuno, volevo rimanere solo ,volevo fuggire dai miei simili.... ...iniziai a correre su quella spiaggia lunghissima, correvo ad occhi chiusi godendomi il vento che mi sferzava il volto e sentendo la sabbia che mi aggrediva dappertutto! Inciampai e mi ritrovai con il viso nella sabbia...alzai la testa: un paio di occhi neri e imbronciati mi fissavano severi dall'alto dei suoi 120 cm..."ehi...mi hai rotto il mio castello". "Te lo ricostruisco piccolo" "Davvero? E mi fai anche il drago che difende il mio castello?" " Si certo...tutto quello che vuoi". Un sorriso, a cui mancavano un paio di denti, illuminò il suo viso.... ..quegli occhi, erano lì, proprio lì davanti a me. Gli occhi del figlio che ho sempre desiderato, ma lui...lui...è sparito prima che lasciasse un minimo di
speranza per una nuova ed immensa felicità.... ....gli occhi del figlio che avevo sempre desiderato, e per il quale avrei rinunciato certo a vita mondana e dispendiosa. Rimbalza nella mia mente il ricordo ancora troppo limpido e nitido di quella fredda giornata di Dicembre, in cui lei arrendevole di fronte al suo impiego lavorativo, mi disse che quel figlio sarebbe stato la fine di una sua carriera illuminante. E che avrebbe fatto "la cosa giusta". Ma giusta per chi? Per lei, per me, per quell'embrione che 8 mesi dopo sarebbe stato NOSTRO figlio? Nostro....non riesco ancora a credere che non vi sia più nulla di Nostro, che noi non siamo più Noi... noi che eravamo una cosa sola, noi che quando eravamo insieme brillavamo come due stelle in un caldo ciele d'estate, ed era il nostro amore a rendere tutto questo possibile. Adesso dov'è quell'amore, o meglio dov'è il tuo amore? ricordo il giorno che sei venuta da me, e con il viso stravolto da un'espressione che non ti conoscevo, con una freddezza che pensavo non ti appartenesse, mi hai detto: "non c'è più!"............e in quel momento la mia vita si è fermata........... ticchettii,cosi sembravano i battiti del mio cuore,un sogno,per il quale avevo scelto te!un sogno in cui avevo dipinto ogni personaggio,io,te,e quel bambino al qaule tu hai negato la vita!...quiei ricordi,quel dolore era cosi vivo,che la voglia di ritornare li',in quel posto si faceva sempre piu' forte e allora..... allora sconfitto ritornai sulla riva del mare,quel mare che tante vite aveva spezzato,ho paura,paura per mio padre,l'ho visto partire con la sua barca due giorni fà,ho seguito la scia della barca fino a quando l'orrizzonte ha oscurato la stessa,oggi aspetto il suo ritorno,ho
freddo,ho paura,ma ecco spuntare all'orizzonte la sua vela,si ne sono certo è lui,ancora una volta avevamo vinto.......Approdò con calma nell'ormai noto porticciolo, porto di navi, porto del mio animo. Scese sulla terraferma ancora barcollante, quasi a simulare il rollio della nave sul mare e mi disse:" Figliolo anche sta volta son tornato, non ti crucciare delle amarezze della vita, tutto fa parte del gioco" Ci abbracciamo a lungo. Lui sentiva il mio dolore, la mia amarezza. In qualità di padre avvertiva i miei tumulti e sapeva quanto male facesse sentirsi un non padre! un fallito! ecco cosa mi sentivo,un patetico fallito che si piangeva adosso tutto il dolore che aveva in corpo e che mai nessun essere umano avrebbe potuto comprendere...guardai in faccia mio padre e gli dissi:<Papa'...cosa si prova ad essere chiamati Papa',cosa si prova a sentirsi stringere il dito da quella mano cosi piccola e inerme,cosa si prova a guardare per la prima volta negli occhi tuo figlio e a non sapergli dire...Perche'! Mio padre non rispose. Mi guardò solo negli occhi con tutto l'affetto che poteva e mi fece segno verso l'orizzonte. Liberi gabbiani svolazzavano a pelo d'acqua in cerca di cibo. Un delfino saltellava allegro tra di essi e brevi onde del mare, che facevano da cornice a quello scenario idilliaco, mi sussurravano pacifici suoni. L'armonia della natura mi invitava a cercare l'armonia in me... ... l'armonia del rosso e del sole che tramontava davanti a me... mi sentivo più leggero, nuovo. Forse stavo davvero ritrovando quell'armonia in me. Forse uscire da quella prigione della mia stanza è servito sul serio. Il rosso nel cielo aumentava, il sole stava per scomparire, il mare si colorava di
argento, il buio si avvicinava sempre pi첫, scendeva ormai la sera... Guardai l'orologio e notai che si era fatto tardi << Forse devo tornare a casa pensai - sono un po stanco. Devo ancora cenare ed ultimare quel lavoro importante che mi hanno commissionato>>. Mi diressi verso casa sentendomi pi첫 leggero, nonostante la mente non riusciva a distaccarsi completamente da quei pensieri che mi balzarono per tutta la giornata. Ma adesso provavo un'emozione nuova, diversa... un emozione che mi aiutava ad andare avanti,un emozione che mi permetteva di sentirmi ...ancora vivo. giunsi a casa,in quella casa che per anni ormai era divenuta la mia tana,lontano dagli occhi indiscreti di amici e parenti che puntualmente tornavano a farmi rivivere quell inferno che con tanta fatica ho cercato di dimenticare...salgo le scale affanosamente,e' tardi!sono le 19 e sta per cominciare quella trasmissione radiofonica che tanta compagnia mi ha fatto in questi ultimi tempi,ma salendo le scale,qualcosa di forte,un presagio,s'impadroniva della mia mente. ero di fronte la porata di casa,afferrai la chiave,due giri di serrattura,e in un attimo ero dentro...il silenzio,la pace,la tranquillita' di cui avevo bisogno erano di nuovo a portata di mano...data l'ora mi decisi a preparare la cena,due uova al tegamino ,giusto per mettere in bocca qualcosa...mentre preparavo la cena,la mia attenzione fu richiamata dal lampeggio della segreteria telefonica...sobbalzai!chi mai mi aveva cercato?chi si era ricordato di me?erano anni che ormai gli amici,i parenti, avevano smesso di cercarmi al telefono...chiusi la manopola del gas,mi lavai le mani, e corsi verso il telefono,rimandai indietro il nastro e ascoltai il
messaggio...era..... la sua voce........non potevo credere alle mie orecchie.........il sangue mi salì alla testa e il volto divenne di fiamme. La sua voce era come me la ricordavo, per le mie orecchie era melodiosa come il suono di un'arpa pizzicata da mani esperte. Ero così emozionato nel sentirla, che facevo fatica a concentrarmi sul senso delle parole, la mia mente percepiva solo il suono, era come se ne fossi assetato. Mi scosse il segnale telefonico, il messaggio era finito, ed io non avevo capito nulla di quello che lei vi aveva registrato. Rimandai indietro il messaggio e questa volta mi imposi di ascoltare per bene quello che voleva dirmi........ ..."dammi un'altra possibilità, non ti chiedo di passare un colpo di spugna sui miei errori, ti chiedo solo un'altra possibilità." ma le parole anche in questo caso non sarebbero bastate, erano poche ed ecco nuovamente conflitto tra ragione ed istinto, un conflitto interiore che non mi avrebbe forse portato a nulla. Non avevo creato io quella situazione d'angoscia, di tristezza, di malinconia. Pensavo a quel gesto che per sempre avrebbe segnato la mia esistenza, che il cuore non sarebbe mai riuscito a guarire da quella ferita che ancora faceva male... no, non dovevo ascoltarla, non dovevo giustificarla, no, questa volta avrei fatto valere le mie ragioni di "non-padre", quella scelta che sarebbe dovuta essere nostra, lei ha pensato a sè, a quello che forse avrebbe perso, la sua carriera, la sua libertà, ma avrebbe mai capito che la "vita" ormai persa era parte del nostro amore, fondamenta del nostro rapporto? ...no, non l'avrei richiamata, ma... in fondo pensavo che quel suo sorriso forse mi avrebbe riaperto le porte del mondo,
quel mondo che ormai avevo cacciato dalla mia vita perchè non mi interessava piÚ nulla degl'altri.... quindi ero preso dal dubbio,darle o non darle la seconda possibilità ?...un film,pochi attimi e rividi tutto quello che insieme avevamo costruito e poi successivamente distrutto...non potevo,benchè il mio cuore l'aveva perdonata,non potevo correre il rischio che lei mi rifacesse sprofondare di nuovo all'inferno...in quell inferno dove lei mi ci aveva buttato,dove la mia anima da anni bruciava...e mentre questi pensieri e queste considerazioni mi passavano davanti,la segreteria continuava ad andare avanti...un secondo messaggio mi lasciava letterelamente senza fiato! :Ciao Gian,sono Luisa,come stai?? e da tanto che non ho tue notizie...sai l'altra sera abbiamo fatto una rimpatriata tra amici di corso e' con molto dispiacere ho visto che tu non c'eri,cosi ho chiesto a qualcuno dei nostri amici se avessero notizie di te,e Carlo,il tuo amico del cuore,mi ha dato questo numero di telefono....non ti ho mai dimenticato Gian,in questi anni...non ho mai dimenticato il tuo amore,ti prego io ho bisogno di rivederti.mi trovi in corso magenta al numero 30,sono titolare di una libreria...fatti vivo ti prego!un bacio....
Diario di un fasanese VIII e ultimo capitolo. Avrei dovuto aspettarmelo. Anzi, me lo sentivo. La frequentazione di quel forum virtuale aveva in se qualcosa di maledetto. Ogni volta che ne stavo lontano sapevo che, prima o poi, ci sarei ritornato. Non ce l'ho mai fatta a mandarlo a quel paese. E si che no ho parecchie di cose da fare. Ieri sera ho fatto la cazzata di rimandare di qualche minuto l'uscita dal forum, mi sono infilato in una discussione che non mi riguardava nemmeno. Ed è stato come inoltrarsi in casa della sfortuna. Dove vanno a mangiare quei deficienti? Che me ne frega? Ecco una discussione che non mi riguarda e non potrà interessarmi. E allora perchè sento il bisogno di entrarci dentro? E di scriverci, anche? Perchè ci scrivo lo capisco da solo, mentre lo faccio: si stanno alzando i toni, litigano, meglio cercare di deviare il discorso attirando l'attenzione su qualcos'altro. Su cosa? Ah, si, ecco: butto li, senza pensarci troppo, che vado alla conferenza su Nardelli. E poi, incredibile, ci vado davvero. So che non ci crederà nessuno, ma è stata una sequenza di calamite: forum-discussione-conferenza. La conferenza trattava di un personaggio illustre e stimato della storia di Fasano. Non è stata colpa sua. Voglio dire che Nardelli non ha colpa se mi sono addormentato nel teatro Sociale. Ma almeno Alfonso e Paolo, che certamente mi avranno visto dormire in poltrona, una fila davanti a loro, avrebbero potuto svegliarmi. Cosa li ha spinti al gesto così
meschino, di lasciarmi nel teatro chiuso? E perchè anche se ho dato l'allarme sul forum nessuno viene a liberarmi? A tutte queste domande potrò rispondere con calma. La presa di corrente non è stata staccata e quindi avrò modo di continuare a scrivere col portatile, ho trovato una rete non protetta per girare in internet ma il proprietario probabilmente spegne il modem quando esce di casa, infatti la connessione va e viene. Se, come intuisco, nessuno verrà a liberarmi, potrò scrivere ancora per alcuni giorni prima che la disidratazione mi stronchi. Non posso certo dire che la prospettiva di morire qui dentro mi esalti, ma almeno sto evitando di fare i regali di Natale ed eviterò i cenoni. Qui dentro è buio, viene sonno, provo a dormire un po'. Non era sonno, infatti sono già sveglio. La verità è che speravo di svegliarmi da un brutto sogno. Invece sono ancora qui. Girando al buio per questo teatro mi sono quasi spaccato una rotula contro una poltroncina, sono inciampato ed ho urtato la testa contro il bordo del palcoscenico. La botta deve avermi fatto bene (danni non ne poteva fare) infatti mi è venuto in mente di usare lo schermo del PC acceso al posto di una torcia elettrica. Ho girato un po' ed ho trovato la toilette. Acqua, posso bere, non morirò disidratato. Probabilmente sarà la fame a stroncarmi, ma a questo punto credo di avere qualche possibilità di salvarmi: dovrei avere riserve adipose a sufficienza almeno fino a Pasqua, ci sarà qualche altro evento al Sociale fino ad allora? Eccomi quindi inerme. La mia vita dipende interamente dal fatto che il teatro Sociale sia o meno concesso a qualche associazione per realizzare eventi culturali.
Già, eventi culturali a Fasano. Sono quasi spacciato... E' meglio che cerchi nel locale qualche segnale che mi faccia capire quando sarà il prossimo evento qui dentro. Certo che è proprio buio. Ho passato la mia seconda notte chiuso dentro al teatro Sociale. La prima notte ero così narcotizzato dalla conferenza di presentazione del libro che ho fatto tutta una tirata di sonno. Stanotte è stata un inferno. Il calore generato dalla presenza del pubblico si è ormai disperso. Ho avuto molto freddo. Pe riscaldarmi non ho trovato di meglio che tirare giù una di quelle tende grandi sul palcoscenico, com'è che si chiamano? Sipari? Boh? Comunque mi hanno tenuto caldo per un po'. Poi ho iniziato a tremare, credevo di avere crisi epilettiche. Poi ho capito. Non ho ancora i morsi della fame ma è da giovedì sera che non bevo vino: sono in crisi d'astinenza. Anche adesso mentre scrivo sento qualcosa di strano. Temo che stia per arrivare un'altra crisfdjnv,bvbvl wlbvviiroutk,c Stamattina mia moglie si è collegata su MSN. Solo adesso si è accorta della mia assenza perchè nessuno aveva buttato l'immondizia. Le ho raccontato la mia disavventura implorandola di venire a salvarmi. Mi ha detto di stare tranquillo e prendermela calma, che tanto l'immondizia la scende lei... Anche mia figlia si è collegata con MSN. Mi ha chiesto a quanto ammonterebbe, eventualmente, la sua quota di eredità. Ho disinstallato MSN. Ho capito che rimarrò qui fino alla fine dei miei giorni, che spero arrivi prima dello spettacolo di Capozzi: va bene morire, ma meglio evitarsi sofferenze aggiuntive.
Intanto stanotte, nel dormiveglia, ho percepito che non sono solo dentro al teatro. Senza poterlo vedere, perchè completamente al buio se si esclude il bagliore dello schermo del pc, ho sentito il suono della "voce" di un colombo. Nella mia solitudine ho momenti di delirio e mi sento un Robinson Crusoe sull'isola deserta. Ho pensato di dare un nome al colombo, se riuscirò a vederlo. Penso di chiamarlo Venerdi. In fondo è da venerdi che sono chiuso qui dentro. E ormai non ho nemmeno più voglia di uscire. Il colombo si è fatto vedere. E' molto simpatico, un po' timido. Si mantiene, ovviamente, a distanza di sicurezza, 12-15 metri. Lo intravedo nella penombra, mi guarda e mi fa clu-clu. Mi sembra abbia un carattere deciso (sempre che si possa dire che un colombo abbia un carattere). Per me è pur sempre una compagnia. Ho cambiato idea, non lo chiamerò venerdi. Poichè, evidentemente, si trova qui dentro in maniera abusiva, è simpatico ed estroso, ho pensato di chiamarlo Clandestino. Il nome mi ricorda un tizio che scrive sul forum, non so chi sia ma mi sembra niente male. Peccato non avere con me del cibo, ne darei volentieri un po' a Clandestino per ricambiarlo della compagnia che mi fa. A volte è proprio vero: gli animali sanno essere migliori degli uomini. Nel caso di Uccio, nè meglio nè peggio: identici. Ho scoperto che Clandestino ha fatto il nido nel controsoffitto. Lo sento svolazzare nella sala, e poi sento il suo clu-clu che proviene da li. Intanto ho provato a cercare i funghi lungo le pareti, come suggerito da Tiffolo, ma non ne ho trovati. Solo delle tracce di salmastro che ho provato a mangiare per integrare la dieta a
base d'acqua. Mi è venuta una sete... Non ci crederete ma, per quanto scarse di proteine, le imbottiture delle poltrone del Sociale non sono male. Ho scoperto che Clandestino ha fatto il nido nel controsoffitto. Lo sento svolazzare nella sala, e poi sento il suo clu-clu che proviene da li. Intanto ho provato a cercare i funghi lungo le pareti, come suggerito da Tiffolo, ma non ne ho trovati. Solo delle tracce di salmastro che ho provato a mangiare per integrare la dieta a base d'acqua. Mi è venuta una sete... Non ci crederete ma, per quanto scarse di proteine, le imbottiture delle poltrone del Sociale non sono male. Che domenica tremenda. Ho passato la notte del sabato attaccato ad internet. Infatti una volta soddisfatte le esigenze primarie: dormire, bere, mangiare (le imbottiture delle poltrone, meglio di niente), l'essere umano ha esigenze che potremmo definire secondarie. L'uomo si sa, non è di legno (a parte Pinocchio, ma questo è un discorso che porterebbe troppo lontano). E così ho passato la penultima nottata a girare sui siti porno. Evidentemente il proprietario della rete cui sono abusivamente allacciato deve avere come abitudine la navigazione notturna in internet perchè la connessione non è mai andata via. In altre occasioni avrei espresso su di lui/lei un giudizio morale poco lusinghiero, adesso, lo immagino solo come sono io e lo capisco. Com'è che dice il Lolò? Per capire quello che dico io devi aver passato quello che ho passato io? Una cosa del genere. Ha ragione. Comunque, resta il fatto che domenica mattina sono crollato per il sonno.
In pomeriggio ho avuto fame e non avevo voglia di imbottitura di poltrone. Gira e rigira ho trovato due minuscoli funghi. Demonio d'un Tiffolo, aveva ragione a dire che qui dentro è così umido che potevano crescerci i funghi. Ciò che non sapeva è che sono allucinogeni. Ho avuto visioni mistiche. Giuseppe e Star87 mi volevano convertire a tutti i costi al cristianesimo e per farlo mi frustavano e mi ustionavano con tenaglie arroventate. Mi sono messo a correre spaventato per il teatro finchè non ho sbattuto contro un muro e sono svenuto. Al mio risveglio avevo vicino a me il colombo che mi guardava impietosito. In realtà i colombi sono due. Oltre al caro Clandestino c'è n'è un altro. Credo che sia la sua compagna, anche se nella penombra non si capisce chi è maschio e chi è femmina. Anzi, trattandosi, di piccioni, non sarei comunque in grado di distinguerne il sesso. Tuttavia il secondo colombo è petulante, sembra rivolgersi a Clandestino in maniera aggressiva. Se credessi che i colombi esprimano concetti elaborati, potrei pensare che il secondo colombo imprechi e dica parolacce a Clandestino. Clandestino, da parte sua, non reagisce animosamente, sembra voglia ragionare con chi non sa farlo. Ho deciso che il secondo colombo lo chiamero Anto. Ridotto ormai a parlare con i colombi, il mio cervello iniziava a dare evidentissimi segni di squilibrio. Intendo dire più del solito. Fu così che preparai un albero di Natale fatto con tavole strappate al palcoscenico e pezzi di poltrona. Gli ultimi funghi ritrovati alle pareti furono la mia cena natalizia. Gli effetti allucinogeni arrivarono con mio grande sollievo. Non so se ciò che avvenne dopo fu sogno o allucinazione. Ma mentre vidi entrare quell'omone
vestito di rosso e con la barba bianca, non mi posi il minimo problema. L'omone aveva un volto a me familiare e mi parlò con forte accento tedesco: "Kome fa compagno?". Cercai di mettere a fuoco la sua immagine nella penombra. Era proprio lui: Karl Marx. Avevo resistito per una settimana, con una discreta dose di dignità, alla solitudine del teatro Sociale. Ma trovarmi faccia a faccia con Karl Marx mi fece sciogliere in un pianto liberatorio. E piangendo e abbracciandolo dissi all'omone "Sono solo, da tanto tempo". Marx mi batteva paternamente la mano sulla spalla. Attese che smettessi di piangere e solo allora mi disse: "E' ta una settimana che sei solo? O ta molto prima?". "Forse da vent'anni, forse da meno. Prima eravamo in tanti e speravamo tutti la stessa cosa. Poi abbiamo smesso di sperare insieme. Da allora sono solo. Solo nel Sociale e senza più la speranza.". "Et è la seconda cosa che ti pesa di più, fero?" disse il vecchio e mi fece una specie di occhiolino. "Si Karl, è questo che non sopporto, che nessuno speri più in un mondo migliore. E' per questo che, a questo punto, posso anche restare qui dentro e morire senza rimpianto. Mi credi se ti dico che sento nella mia testa le grida dei bambini straziati dai missili in Palestina, dei minatori intrappolati nelle viscere delle montagne cinesi, di chi muore di fame in Africa. E queste grida non mi danno pace. E non mi do pace perchè nessuno spera più che queste grida un giorno possano finire". "Ya, io kapisco qvesto, e ancora ti più kapisco atesso che qvi in Italia ti nuovo
fince la destra. Ma tu non preoccupa, fai tuo dofere. Oggi tuo dofere è capire che mondo fa schifo e dire qvesto ad altre persone, soprattutto ciofani perchè loro può campiare mondo, non oggi e forse non tomani, ma forse topotomani è ciorno buono. Tu non ti preoccupare che occi tutta politica è skifo e tutti crede che mondo è arrivato a fine di sua storia. La storia fa afanti anche quando a te non sembra. Nein perdere tua speranza. Se tu già perdi speranza come fai a convincere altri. Muofi tuo culo: socialismo non fuol tire stare chiuso dentro di Sociale. Schnell." E così dicendo ha schioccato le dita. Al rumore dello schiocco mi sono svegliato nel letto di casa mia. Se sia stato tutto un sogno, non lo posso dire con certezza. L'unica certezza che ho è che la prossima volta che entrerò in un teatro mi porterò dietro il cellulare. O almeno una sveglia...
IL SILENZIO DELL’INCENSO
“Ti va un po’ di tè?”, le chiese Sergio, spezzando il silenzio dell’incenso. “Sono già piena di me!”, rispose secca e stizzita Giulia, mentre fumi d’incenso descrivevano ruche di morbido chiffon blu dinanzi ai suoi occhi. Era solita restare per quei quindici minuti con l’espressione attonita, in silenzio, mentre i suoi pensieri, intrecciandosi ai fumi, risalivano la volta della stanza. E stavolta bruciava Incenso alla Mirra, regalatole da zia Clorinda. Indi pensava, tra le altre cose, ai doni portati dai Re Magi al Bambino e al fatto che, a quel punto, le mancava solo di ricevere Oro, per completare la leggendaria triade di doni e sentirsi quasi… divina. Era incurante, del resto, del suo peccare di superbia e avidità. Ma che carino, il suo Sergio! In occasione di quel Santo Natale, anziché l’anello d’oro che da sempre ella sperava di ricevere, le aveva regalato una piccola palla di vetro, con una piccola casetta ed un giardino recintato, piccolo pur esso, con un piccolo abete, la neve, Babbo Natale, le renne… e tutta la razza loro, il tutto rigorosamente in piccolo. Tranne la neve, che era in fiocchi piccolissimi. Tuttavia, col trascorrere degli anni, Giulia era riuscita anche a consolarsi, sposando infine la convinzione che l’avarizia di Sergio fosse direttamente proporzionale all’intensità dei suoi sentimenti, ed è per questo che aveva condiviso insieme a lui già tre lustri di vita! Ma ne raggiunse la profonda consapevolezza solo quando il bastoncino d’incenso s’incenerì, abbracciando tale pensiero, spento.
Cambiamento interiore…
Sola nella mia stanza buia, ascolto il mio respiro, i battiti del mio cuore, il ticchettio dell’orologio…che scandisce il tempo che passa e non tornerà più. Aspetto, penso, spero, piango, sogno, ricordo… aspetto il tempo che verrà, aspetto tempi migliori; penso al mio passato; spero nel mio presente; sogno il mio futuro, piango per tutto quello che avrei potuto fare ma che non ho fatto, per paura…per pigrizia…per rispetto…per.. non so; ricordo i tempi in cui ero bambina, i tempi in cui nulla mi preoccupava, nulla mi ossessionava…bei tempi, i tempi della fanciullezza, quelli in cui tutto è bello, tutto è spensierato, tutto è vita. Mi fermo, tutto dentro me è cambiato…la mente, il corpo, l’anima, il cuore…i pensieri si fanno più bui, il cuore ha amato e spera di amare ancora, il corpo si è trasformato. Sono una donna ormai, sono qualcuno che deve costruirsi un futuro, sono qualcuno che deve accettare la vita che è cambiata, ora piena di ostacoli, di dubbi, di vie tortuose…chissà se ce la farò…attendo, spero, sogno, rifletto, vivo. Sono cambiata, sono peggiorata, sono migliorata? Non so…sono testarda, incoerente, pessimista, sognatrice…sono Io, anche se a volte non vorrei essere così… incoerenza, dubbi, tristezza, vuoto, paura…ecco quella che ora è dentro di me. Aspetto un ulteriore cambiamento, un ulteriore futuro migliore, un’ulteriore vita, un’altra me…
Chatti@mo? ...è solo un monologo,ma te lo invio lo stesso...se mi tengo tutto dentro impazzisco.Sono solo pensieri slegati che occupano la mia mente,ma ho bisogno di metterli per iscritto,per trovare un senso,per convincermi che esiste un senso. Mi sono trovata coinvolta in una storia che non ho cercato,contro cui mi sono opposta credimi,ho fatto di tutto per non farmi coinvolgere,ma poi mi sono arresa alle tue parole,alle sensazioni che mi hai fatto vivere....e da lì è stata tutta una strada in discesa. Sai quando ho capito che tu eri quello giusto per me? Quando m i hai scritto che se cercavi sesso e bello donne non saresti stato lì a parlare con me...guardavi alla mia essenza. Mi sono innamorata di te oltre l'amore,oltre l'aspetto fisico(che peraltro non conosco). Quando penso a te non penso a un ipotetico A..... con i capelli chiari piuttosto che scuri,alto magro o grasso,penso alla tua essenza...sono come un bambino con la mamma: non ama la mamma perchè è bella,alta bionda: la ama perchè è la mamma...e io ti amo perchè sei tu...tu sei l'idea che io mi sono fatta dell'amore,sei quello che ho sempre cercato,quello che mi fa sentire di essere arrivata alla fine del mio viaggio...il mio porto sicuro. Ricordi com'ero diffidente all'inizio? Non mi sembrava vero d averti finalmente trovato,avevo paura d perderti(cosa che comunque si è avverata)ero e sono gelosa delle ombre. Io non sono speciale,sono normale,anzi sono piena di difetti e quindi mi chiedevo come mai uno come te volesse proprio me? Dove stava il trucco?Forse è stata proprio la mia insicurezza la causa di tutto. Ti ho detto delle cose cattive,ti ho fatto soffrire...non l'ho fatto apposta,ma il risultato è stato comunque lo stesso.
Ti ho causato sofferenza e non avrei voluto. La sto sperimentando sulla mia pelle la sofferenza...mi sento morta dentro...tutto mi è indifferente voglio stare sola,sola per piangere liberamente...per ripensare a tutto e capire dove e come ho sbagliato. Tu forse mi dirai di lasciar perdere tutto,di far finta di niente,di non continuare a torturarmi,ma io sono convinta che non è così che risolvo il problema. Prima di risalire bisogna toccare il fondo e io in fondo non ci sono ancora arrivata. Tu potresti aiutarmi parlandomi,dando una risposta alle mie innumerevoli domande...ma non l'hai mai fatto,perchè dovresti iniziare adesso?Avrai trovato un tuo equilibrio magari dopo tanta fatica e non vorrai riprecipitare nel baratro. E' per questo motivo che non pretendo che tu mi risponda. Non ho intenzione di subissarti di mails anche se vorrei ancora dirti molte cose.Non se e come ripenserai a me,ma sappi che ti ho amato veramente e ti amo ancora.Se ti ho fatto soffrire non l'ho fatto volutamente,credimi non ne ho mai avuto l'intenzione. Sei e sarai sempre la cosa più bella della mia vita ...09/06/2000
Penso Sono sul mio letto e penso. Penso alla mia vita. Penso ai miei progetti realizzati, falliti o ancora in cantiere. Penso a cosa farò in futuro e a cosa ho fatto fino ad oggi (cose buone oppure solo cazzate). Penso a me. Come faccio a trovarmi qui? E perché proprio qui? E se non ci fosse stata quella perdita prima di me? Penso alla gente che mi circonda e mi aiuta a crescere. Ognuno, amici e nemici, lima una parte del mio carattere. A volte senza volerlo e senza saperlo. Penso alle persone che sono andate via, chi per sempre e chi solo per un periodo. Penso alle persone che ho odiato e a quelle che mi odiano. Penso ai doni che ho ricevuto, molto spesso senza meritarli. Penso a quante volte ho sfiorato l’amore, facendolo però scappare. E a quante altre volte l’ho evitato per paura. Penso a qualcuno che sta lassù e che mi guida. E dopo tutti questi pensieri che prendono la mia mente, e che mi fanno sentire felice per la grande fortuna che ho avuto, non resta altro che gridare un semplice:
GRAZIE! e iniziare a pensare anche agli altri e non solo a me. Quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui ci siamo visti quell'ultima volta che ci ha visti ancora insieme Dio solo sa quanto ti ho voluto bene e le pene che ho passato quando mi hai lasciato. Sembrava tutto finito ma è bastato solo qualche minuto per riaccendere la passione.. notti intere io e te a far l'amore sulla mia pelle il tuo odore è incancellabile, il tuo nome nel mio cuore è indelebile, il confine tra sogno e realtà non è mai stato così labile, finchè non è arrivato il momento di partire e di seguire di nuovo le nostre strade purtroppo così lontane. ma questa volta sei tu a piangere lacrime amare amore,io di te non mi riesco più a fidare e non mi va di continuare la nostra storia da dove era finita, l'abbiamo lasciata troppo in salita.. amore,è giusto che ognuno viva la sua vita e che questo rimanga solo un bel ricordo che io scrivo lungo la strada del mio ritorno.
ANGELI CADUCI DOMUS
Lentamente salivo quella scala così antica, rassicurante. Dalla ringhiera, nell’attesa di me, Delia mi parlava del traffico all’incrocio e del parcheggio impossibile. Il palazzo stava, al perfetto centro del secondo corso. A destra la collina, a sinistra la costa, e con la tramontana il mare pareva così vicino da credere che il paese avesse un suo porto ed un vero mercato del pesce. Ma il mare era lontano. Il balcone principale, quello sul portone grande, guardava la piazza e da lì, la sera della festa patronale, con Delia e la madre, assistevo in assorto silenzio al consueto concerto bandistico. L’illuminazione e i pezzi d’opera gratificavano la nostra presuntuosa e altezzosa voglia di tradizioni popolari. A mezzanotte, sempre da lì, lo spettacolo dei fuochi d’artificio. “Come va?” le chiedevo con affanno. “Non male” mi rispondeva salutandomi con un bacio sulla guancia “Sembra che oggi sia meglio di ieri”. A quel punto le parole già mi mancavano. Che dirle? Come aiutarla? Entravamo immergendoci nel freddo della casa, grande, buia e poco abitata, diretti verso le fredde stanze dai camini accesi solo nelle più importanti occasioni. Gli specchi, ormai opachi, parlavano dei tanti ricevimenti che avevano riflesso, quando bastava un battesimo per attirare invitati che arrivavano, a bordo delle loro
lucide auto, dalle masserie più lontane. Vino e paste, cassate e spumante, semplicità e ricchezza. Erano quelle le feste che con orgoglio reggevano alla memoria, non avendo nulla da invidiare alle serate organizzate dai nobili che vivevano nei romanzi. Delia abitava la vecchia soffitta riadattata. Un locale unico ed ampio dove, oltre alla stufa di ghisa che troneggiava al centro, c’era il tavolo per disegnare, un letto in ottone, a due piazze, che sormontava un’alta pedana in legno, libri e riviste e dischi dappertutto. La stanza affacciava sul giardino interno, un chiostro, dove una cappella di modeste dimensioni emanava sacralità, nonostante il frenetico svolgersi della vita oltre l’alto muro coperto di rampicanti. Qualche tempo prima, quando ancora le cose non avevano preso a rovinare, giravo, in solitudine, per quelle stanze arredata con gusto sobrio e nobile. Amavo l’imponente biblioteca che nascondeva in sé non solo libri rari, invidia dei collezionisti, ma anche accessi segreti verso camere utilizzate come deposito di anticaglie, conseguenza dei tanti passaggi ereditari. Mi perdevo, dietro le mie fantasie, e Delia, con fare materno, quando riemergevo, mi guardava sorridendo. Forse anche lei faceva lo stesso gioco. Pensavo, tra un vaso rotto ed una polverosa sedia di velluto, alla sua vita prima che la conoscessi. Le chiesi di disegnarsi così com’era allora, bambina. La risposta fu che avrebbe preferito farmi un ritratto. “Non mi piace lasciare tracce di me” disse. Accettai e posai per lei, cosciente che mai mi sarebbe riuscito di cantare o dipingere la sua
diafana bellezza, frutto di una lontana discendenza, a dire del padre, orientale. “È il posto ideale per disegnare” mi riferivo alla mansarda. Le gambe dolevano a causa della immobile posa. “Già, anche se a volte temo che proprio questa condizione freni il lavoro. Mi sento come isolata e intorpidita”. Non era la prima volta che Delia manifestava lo straniamento dal posto dov’era nata e dove sua madre era tornata a morire. Non era la prima volta che mi metteva di fronte a cose più grandi di me. Vivevo la mia età in provincia, tra scuola e famiglia, cose ne potevo sapere io? “Ho i piedi al Sud e la testa a Genova. E il cuore?” mi chiedeva “Dove sarà il cuore?”. Ancora una volta non avevo risposte da offrirle. Il Sud, diceva, era troppo abbacinante e caldo, le arrossava la pelle trasparente. Le efelidi dell’estate le punteggiavano il viso, restituendole una tonalità selvatica forse appartenuta a suoi avi d’Oriente. Insieme andavamo al mare, d’inverno. Spiagge desolate, imbrattate dei residui estivi. Erano le nostre passeggiate, la nostra maniera di celebrare il lungo arenile ricco di dune e insenature, il vento scherzava tra i nostri capelli. Ogni tanto Delia accennava ad uno dei suoi progetti per andare via… La guardavo e non mi legavo, sapevo che ce l’avrebbe fatta. Sapevo che l’avrei persa e già vivevo il dolore della separazione. Mi sentivo sua preda, assolutamente incapace di sbilanciarmi. Non riuscivo a dirle quello che dentro mi consumava, ad esprimere quel sentire a me sconosciuto.
Ogni parola, o gesto, temevo potesse rompere il sortilegio dei nostri incontri. Per questo tacevo. Mi paralizzavo, nella assurda speranza che la cristallizzazione dei sentimenti arrestasse il momento. Avvertivo che sarebbe riuscita a andare altrove perché l’unico ed ultimo legame con il sole e la terra era la madre. Avevo conosciuto la signora Lucia prima della malattia quando, piena di vita, progettava e personalmente ristrutturava l’antico palazzo abbandonato da vent’anni. Il rientro da Genova lo aveva implorato in famiglia, mal sopportando le abitudini e la cultura di lì. “Per carità” diceva “brava gente ma, sai, non mi piaceva l’idea di programmare sull’agenda un invito a cena”. Un giorno la sorpresi, in tuta da metalmeccanico, insieme agli operai che s’era scelti e che chiamava con vari diminutivi, mentre s’affaccendava nei lavori. Gli stessi uomini che la portarono a spalla, per l’ultima uscita da casa, lungo lo scalone, in quel pomeriggio di luglio. In chiesa Delia, pietrificata nella sofferenza, bella e commovente nel suo lutto, concesse attenzione al consolatorio rituale profumato d’incenso ed accettò le condoglianze con dignità e senso del dovere pubblico. “È stato faticoso” mi confessò, al mare, qualche giorno dopo, mentre le carezzavo la fronte. “Tutta quella gente che nemmeno conosco. Certo erano tutti molto tristi, ma domani al dolore che mi resta chi ci penserà? Per fortuna ho te…” sussurrò, lasciando sospeso, tra me e lei, di fronte alle onde, un oceano di allusioni e
sottintesi, che restituiva il significato del non detto. Per la prima volta pianse. “Ero fuori… in farmacia” singhiozzava “rientrata ho sentito che quel silenzio era nuovo, come vuoto. È morta come aveva sempre desiderato: da sola”. Tacque. “In queste prime sere avrei dovuto avere paura a stare in quella grande casa senza nessuno accanto, ma non è così”, mi scrutò dentro. “Sai, da bambina, nelle sere d’autunno, per mettermi alla prova, percorrevo un lungo sentiero che costeggiava il bosco. Tremavo ad ogni fruscio e guardavo con gli occhi sbarrati la mia ombra, temendo che ne sopraggiungesse un’altra alle spalle… Ero sola, con la mia paura: io più forte di lei, sempre. Lo facevo per temprarmi…”. Una sera di maggio, mentre Delia ultimava i preparativi per la cena, mi decisi e andai a trovare la signora Lucia nella sua camera. Nonostante fossi a casa sua tutti i giorni, non avevo ancora preso il coraggio per incontrarla. Delia mi riferiva dei suoi progressi o dei drammatici peggioramenti della malattia. Ma di vederla trasformata dal cancro non ero capace. La signora avvertì la mia esitazione prima di entrare. “Sono io, non temere” mi disse con voce per nulla cambiata “questa è una parrucca e mi viene da ridere. Non è buffa?”. Non riuscivo nemmeno a sorridere, ma la scena mi apparve, improvvisa, del tutto grottesca. Per la stanza aleggiava l’inconfondibile profumo della paura e della disperazione di quanti le facevano visita. Di chi, pensandola già morta, sentiva l’angoscia per la
propria fine. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, rivedo Palma, la governante, che, piangendo, lava quel corpo senz’anima: una Pietà popolana e sublime al tempo stesso. Ancora oggi, dopo tanti e tanti morti, sento viva l’emozione di quei giorni. “Ti sento arrivare” continuò sorridendomi “Sei come un’ombra per casa, ma so che Delia è molto confortata dalla tua presenza. Grazie, per Delia”. Parlava con la stessa cantilena dei paesani, appena influenzata dalla sua cultura. I suoi autori preferiti, i russi, li aveva letti in francese, ma il dialetto era la sua lingua. Risposi al sorriso, con imbarazzo, ma mi chiedevo se avesse capito ciò che io ancora non avevo compreso. Temevo che fossero scoperti i miei sentimenti, tanto da pagare per colpe non commesse. “Non sono brava in queste cose”, come se mi avesse letto dentro, “io e mio marito non ne abbiamo quasi mai parlato. Però, mi sembra che stai per cacciarti in una situazione complicata. Delia, appena sarò morta, andrà via. Tu potrai seguirla?”. "No” dissi con un sospiro e arrossendo. “Vedi? È questa la complicazione”. “Scusi se cambio discorso”, ma era quello che volevo fare “Mi chiedo come fa ad essere così tranquilla”. “Cos’altro vuoi che mi succeda?” rise di cuore. “Ho il cancro e nessun medico se la sente di dirmi quanto durerò: mesi o settimane? Non ti sembra che possa trascurare certi particolari e occuparmi di mia figlia?”. Non cambiò discorso.
“Può essere” cominciai a rilassarmi “ma per me non è facile parlarne. È la prima volta che mi succede e chissà se questo è quello che chiamano amore”. “Un consiglio” e qui si fece seria “Evita questa parola, questa idea… è meglio. Non sto dicendo che non credo nell’amore, anzi. Sto solo mettendoti in guardia dagli abusi che se ne fanno in suo nome”. Prese fiato, stanca. “È importante che tu lo riconosca per quello che è. Solo allora potrai nominarlo senza spaventare chi ti ascolta”. Mi guardò con occhi liquidi. “È così anche per l’odio”. Tacque e parve addormentata. Delia giunse, provvidenziale, a liberarmi. “Tornerò a trovarla” le sfiorai la mano piagata dagli aghi delle flebo. “Non preoccuparti” mi confortò “Io so sempre quando sei qui, è come se mi facessi visita”. Una luce benevola le attraversò lo sguardo. “E poi” aggiunse “è bello saperti vicina a mia figlia”.
L’ACROSTICO: chi più ne aveva…ne ha messi….. TULIPANO
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BLUE
• B rillante L uminosa U ltima E strella* * licenza poetica per Stella (commento di Blue) ALI 66 • Alfò Lamenti Ingiustificate Scorrettezze. Eppure Sai, Sono Arbitro Notevolmente Talentuoso. Anche Sportivo Ed Imparziale KARBOGHA Kiavik Arriva, Rapido Boomerang. Ostacoli Giammai Ha Avuto (by gatta)
Kompagna! Arrembiamo Riottosi, Bastimenti Occupati. Genuflesso Hitler Abiurerà (by Toshiro)
…ancora KARBOGHA…..
Kalimera!" Arrivò Ridente, Baldanzosa, Ove Greci Hanno Abitazione. (by Gatta)
Kekkavolo Aspetti? Resti Beata O Già Hai Acrosticato? (by Gatta)
Kafkiano! Attenderemo ronfando bei oculati giudizi. Humor? Assecondatemi (by Tiffolo …….e per finire……sempre KARBOGHA
• Karbogha, Aspettiamo Risposta!!!! Benefìcienza Ormai Già Hai Avuto!!!!!! (by Tulipano)
Cari amici, questo documento in origine era in power point ma non riuscivo a caricarlo per la sua estensione, per cui l’ho arrangiato un po’ su word…forse non rende allo stesso modo…ma volevo darvi un anteprima……
Chissà, semmai si realizzerà questo Fasan-book, ci mettiamo dentro pure questo lavoretto. UN ABBRACCIO A TUTTI
Tulipano
A Giovanni Cosenza
Storia di un numero 10 Com’era bella l’idea di far parte di quella squadra,così pensò di entrarci anche lui. Un solo ostacolo, il solito ostacolo: il provino. Si decise, e dopo aver contattato lo staff, si presentò con un quarto d’ora di anticipo nel campo, determinato a dimostrare il suo talento,malgrado la forma fisica non ancora al top. Portava con sè un curriculum di tutto rispetto, di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, aveva infatti militato nelle gloriose file della squadra paesana da titolare. Gli altri candidati lo sapevano bene, ma il loro agonismo lasciò presto spazio alla curiosità di vederlo in azione. Non deluse le aspettative, anzi sorprese. Passaggi calibrati, tiri potenti, altruismo,sacrificio, fantasia, insomma tutto quello che un’ala destra poteva desiderare nel proprio repertorio. Fu preso in rosa, tra una valanga di parole di stima e apprezzamenti di ogni tipo. Era felice,sorrideva compiaciuto e ricambiava i Complimenti con sincerità. Un’altra piccola soddisfazione che si andava aggiungendo a quella ben più grande del passato, di cui il padre non sarebbe potuto che esserne fiero. Aveva un sogno nel cassetto che stava realizzando: avere un figlio che avrebbe presto imparato da lui lo sport più bello del mondo, e non solo. Ma era tempo di guardare al presente, era il tempo dell’assegnazione dei numeri in
vista degli impegni imminenti. Era il capitano a distribuire le maglie, nessuno si voleva accollare quel numero 10, che non era un numero qualsiasi. Il numero 10 è fantasia,è tecnica,è precisione,è umiltà,è classe,è altruismo...è il numero di Maradona ,Pelè e Roberto Baggio,insomma,il numero del migliore. Lui era lì,sembrava timido, aspettava in silenzio che ognuno scegliesse la propria maglia con il numero porta fortuna. La numero 10 era ancora sulla panca, come un bicchiere di cristallo che si ha paura di toccare per non romperlo. Fu un suo compagno,uno tra i primi a spendere parole di apprezzamento per lui, ad incitarlo a prendere quella maglia, a seguire tutti gli altri. Gli occhi gli brillavano,quel mezzo sorriso tradiva le parole imbarazzate che un ragazzo umile,di solito, dice in questi casi. La voleva,così come tutti in fondo l’avrebbero desiderata, ma dopo un po’ si decise e la indossò, senza dimenticarsi, malgrado l’emozione, di ringraziare tutti i compagni e il suo capitano. E via alle foto e alle riprese di rito, prima dell’amichevole. Una settimana dopo iniziarono gli impegni seri,la squadra era pronta per giocarsela contro tutti, anche lui, il numero 10, era pronto. Con i soliti tocchi precisi serviva i suoi compagni, con la solita grinta rubava palla all’avversario, con il solito coraggio svettava di testa, con la solita fantasia serviva l’attaccante, con la solita bontà non criticava mai, dispensava solo consigli per capirsi meglio ed esprimere un bel gioco. Mai una volta si arrabbiò con i compagni per qualche gol sciupato o per qualche gol preso. Dava sempre soluzioni ai problemi,mai critiche, così nel calcio come nella vita. Anche quando era fuori dal rettangolo di gioco per
rifiatare. Inevitabilmente,la squadra raggiunse il primo traguardo: il passaggio dai gironi alla fase eliminatoria. La strada si metteva in salita: squadra decimata e giocatori contati. Non c’era la possibilità di fare cambi, occorreva il sacrificio di tutti, combattere come leoni, come se si stesse giocando l’ultima partita. L’avversario era di un altro livello, ma il numero 10 si distinse su tutti, lottando su ogni pallone, facendo girare palla, imboccando gli attaccanti, sostenendo i compagni con la solita calma, dispensando consigli anche quando si è sfiorato il tracollo, senza mai una parola di stizza, ma parlando a bassa voce e con un’espressione quasi paterna. Mai accettava le scuse, diceva, in tono rassicurante, che non ce n’era il bisogno.
Nessuno poteva saperlo, ma quella fu davvero l’ultima partita del numero 10. Uscito dal campo strinse la mano ai tifosi,ai compagni e agli avversari,scherzò nello spogliatoio e andò via come al solito, salutando piano e con il sorriso sulle labbra. A casa c’erano la moglie e il figlio che lo attendevano...
첫
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Continua………