Memorie sul Tavoleto

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INDICE

Presentazione 3 Prefazione 8 Cenni storici e memorie 10 Note sull’autore 15 Le Pievi 18 Pieve di S. Lorenzo in Barcola 23 Le Chiese 28 La Cella 41 Miracoloso Ritrovamento 59 Prediche e Sermoni 68 I Parroci 72 Conclusione 77 Chiese e Preti 89 Parte seconda Dies irae 118 La battaglia della Pieve 155 Arazzo della sfida 163 Motivazione del titolo nobiliare 169


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PRESENTAZIONE In questo paese si era tutti amici, lo siamo ancora e, quando ci si ritrova ci salutiamo con i soprannomi di allora (quarantacinque anni or sono), ci è piacevole ricordare di quando si disputava la “Coppa del baghin” in un torneo di basket per l’inaugurazione del pattinaggio. Io, il “Professor Panzacia”, ero il più giovane, lui: Gigetto, detto “Belloni”, da Tano Belloni, famoso ciclista passato alla storia col titolo di “eterno secondo”, era il più vecchio; per i più giovani è il Maestro, perchè diverse generazioni lo hanno avuto come maestro alle scuole elementari e animatore di attività ludicosportive nel tempo libero. Io, ormai vivo a Bologna da oltre trent’anni, ma quando arrivo a Tavoleto, so che prima o poi lo vedrò e mi racconterà un fatto nuovo, mi chiederà consiglio su una parola della quale non è sicuro, mi sottoporrà un gioco di intelligenza (che non riuscirò a risolvere), parleremo di politica. Lui è Luigi Signorotti l’autore di questo libro. Quel giorno però non si parlò di politica, né mi propose uno dei suoi rompicapi matematici, ma:-Tu sei il mio interlocutore più valido, e possiedi i requisiti del tavoletano Doc; conservo un documento originale, dove è riportato nello specchietto degli emolumenti ordinari e straordinari, incerti e regalie che convergevano agli impiegati del comune di Tavoleto, che Paolucci Paolo, nonno di tuo nonno, nel 1854, con la qualifica di famiglio, percepì un assegno annuo di £ 5 (cinque). Ho scritto la storia di Tavoleto, vi ho messo tanto amore e impegno, leggila, da te voglio due righe di presentazione. Non ebbi il coraggio di defilarmi, così accettai con lo spirito di affrontare un’impresa. Anzitutto non mi sentivo adeguato, pensando a lavoro di ricerca storica da lui compiuto, l’idea di 3


scrivere qualcosa a cui non fossi minimamente all’altezza mi sembrava ardua. E, quando un improvviso “input” m’indirizzò il pensiero a considerare la sua personalità, quale sintesi di due anime convissute insieme, compresi che avrei potuto dare un mio personale contributo, iniziando a parlare dell’autore nella sua duplice personalità. Quella fisica si è estrinsecata nel centrocampista di”rottura” (in tutti i sensi), di instancabile maratoneta, di ciclista indefesso; quella spirituale, nella persona colta, curiosa e desiderosa di raccogliere e raccontare le storie e la storia del nostro paese. Ora me lo immagino mentre intervista “Miglin” (Emilio Magi), citato nel libro, mentre interroga l’Alda, sua madre, alla ricerca di un ricordo in più, di una storia divertente che dia valore , in qualche modo a Tavoleto. Lo vedo quando ripercorre con mio fratello Giorgio vecchi tracciati di strade senza più cure, di sentieri che, con intrecci arabescati collegavano borgate e casolari, ora ridotti a ruderi o a mucchi di sassi nascosti dalla sterpaglia, in una campagna senza voce. Nell’impatto con i primi capitoli ho ritrovato storie e fatti già vagamente orecchiati, altri, completamente nuovi per me; indi Ubaldo Ceccaroli, l’autore del libro “Memorie sul Tavoleto” in cui sono riportati fatti e misfatti della vita di coloro che erano alla guida civile e religiosa di questa comunità. Lo vedo chino sui libri, che si arrabbia e difende i Tavoletani dalla loro cattiva fama di poco teneri con i parroci (forse non del tutto immeritata). Carloccino e Belancino che si lanciano fra le fiamme per salvare la Madonna del Sole, mi fanno ricordare i soprannomi dei miei compagni d’infanzia e di gioventù. Ma i ricordi più intensi sono legati a don Alberto. Credo di essere stato il chierichetto più giovane di tutti i tempi. Ho cominciato a servire messa quando avevo cinque anni, eravamo in quattro: io Luigi, Sergio, e Domenico, quando c’erano gli uffici multipli di messe in suffragio dei defunti, ci litigavamo don Pasquale di 4


San Giovanni, perché era velocissimo, si era pagati per numero di messe servite. Si prendevano £ 25 a messa, finché non facemmo sciopero e passammo a £ 50: un capitale. Don Alberto mi voleva bene, anche quando mi dava lo gnocchetto in testa, con la nocca del medio in rilievo, sentivo che lo faceva a modo suo con affetto. Voleva insegnarci il valore della forma, della liturgia. In questo era rigidissimo, servire la messa doveva essere come una recita provata e riprovata che seguiva delle regole fisse. Anche io gli volevo bene. Ricordo ancora che, sarà stato il 1956, aveva organizzato una passeggiata a Casinina per andare a vedere “Marcellino pane e vino”, lacrimoso, miracoloso, e didascalico film spagnolo, i miei non mi volevano mandare, (ero piccolo, i soldi erano pochi, etc.) Ma lui venne a casa e disse a mia madre. “Peperino deve venire!” e figurarsi se mia madre avrebbe osato opporsi a don Alberto! Ma soprattutto stimavo la sua cultura ed intelligenza. E un po’ mi sento in colpa verso di lui. Il suo famoso incipit: “un lembo di Sicilia si è trasferito a Tavoleto” vedeva anche me tra gli imputati. Tutti noi della mia generazione avevamo contribuito alla completa demolizione della Cella. Io ero anche riuscito a lanciare un sasso oltre la casa e colpire in testa “Din din”( Rossano Guerra), “Cincion” (Claudio Paolucci) aveva rischiato di rimanere sepolto da un crollo mentre si dondolava su una trave di legno sporgente, emerse dalla nuvola di polvere tutto bianco come Eldo nei giorni di macinatura. Per motivi diversi ho un ricordo splendido di don Sandro. Col tempo mi sono allontanato dalla pratica religiosa, mia madre mi diceva che stavo diventando una “bestiola”. La distanza tra le parole del vangelo e le azioni della Chiesa mi ha spinto in questa direzione. Ma quando ho conosciuto don Sandro ho visto ricomporsi questa dicotomia. Infatti, è don Sandro che ha battezzato mia figlia Camilla. Il libro riporta l’elenco di tutti i preti che si sono succeduti in qualità di parroci dal 1572 ad oggi. Don Pietro Galuzzi è il per5


sonaggio che emerge in questo saggio storico. Alcuni storici citati nel testo lo hanno accostato ad un neo movimento insurrezionale: Vandea italiana. Signorotti però, in questa sollevazione spontanea di disperati ridotti alla fame, e, vedendo il liberatore Napoleone che si fa tiranno in casa d’altri, ama richiamarsi ad altre simili situazioni in date più recenti, questa “insorgenza” la vede più affine alla nostra “Resistenza”, che alla “Vandea francese. Tutta la storia di questi territori, e di Tavoleto in particolare, è ricca di patimenti, sofferenze e devastazioni, e queste popolazioni hanno patito i sacrifici maggiori, e, dal patire hanno appreso virtù. Don Galuzzi si trova alla catastrofe del 31 marzo 1797, quando il gregge delle sue amate pecorelle è disperso, ferito e lacerato dagli assalitori. Ha perduto; è abbandonato dai confratelli del Vicariato; è solo nel momento della ricostruzione. Vive nel terrore di una dichiarata vendetta delle “colonne infernali”. Ora basta con queste amare storie di tante disgrazie abbattutesi sul Tavoleto, e riguardo ai preti . ora siamo un paese fortunato, e dove me lo trovate uno come don Giuseppe? Le poche volte che vado in chiesa ascolto sempre con attenzione le sue prediche, esposte con linguaggio semplice, sempre piene di amore e cristiana comprensione per le debolezze umane, e di meraviglia per il mistero della fede. Grazie Gigetto per l’onda dei ricordi che mi ha fatto riassaporare le gioie di quei tempi lontani quando in paese si giocava a frotta tutti insieme. Complimenti al maestro Luigi Signorotti per il bel saggio. Un lavoro utile per chi voglia bene a Tavoleto e desideri ripercorrerne la storia. Venerino Vincenzo Paolucci

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Foto storica di Tavoleto anni 1935-36 con il castello Petrangolini appena ultimato.

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PREFAZIONE Quando la mia mente fa scorrere il pensiero a ritroso e s’inoltra in un passato sempre più lontano e remoto, sovente si ferma quando ritrova le vestigia che lo sanno riproporre. Tuttora girovagando nei dintorni del mio paese mi ritrovo su vecchi percorsi che gli avi hanno battuto, su pietre che i loro piedi hanno levigato, su spianate rese tali dalle loro quotidiane fatiche e, se qui la boscaglia ricopriva questi campi, mi viene spontaneo il ripensare a coloro che per arrivare a cogliere i frutti delle loro semine hanno disboscato, sarchiato e arato. Se mi chiedessi quante volte queste zolle sono state ribaltate da sopra a sotto e viceversa nel corso di questo spazio di tempo, non saprei darmi la risposta. E non distante, dove il bosco è ritornato padrone, su una piccola altura, in lotta col tempo, vecchi muri mi catturano il pensiero e davanti scorrono, nelle antinomie di gioia - dolore, nascita morte, le generazioni di coloro che lì hanno abitato. Se lì accanto trovi un mattone, un pezzo di coppo, un grosso chiodo arrugginito, son parte dello scorrere della storia umana, sono la storia dell’uomo e segnano le tappe e le conquiste minime della civiltà, il cui cammino a volte procede spedito, a volte con soste prolungate, ma arricchito delle passate esperienze, è sempre pronto alla risalita fin oltre la meta. Lo ieri, l’oggi, il domani scandiranno di giorno in giorno il divenire e l’essere e, nel rapportarsi con queste categorie la vita; dacché esiste il creato, quella di coloro che ci hanno preceduto, di noi e di quelli che ci succederanno. Ubaldo Ceccaroli con le sue “Memorie sul Tavoleto” rende vivi e presenti molti dei suoi “personaggi”, dei quali non v ‘è traccia di narrazione se non in questo suo libro. Mi sovvengono per primo ed insieme “Carloccino” del Girone e “Belancino” di Cal Ciullo, e li vedo tra le fiamme arrampicati sull’altare, strappare dal 8


muro il quadro e passarselo di mano, e scappare mentre piovono coppi infuocati, per trovarsi insieme sul portone nel momento in cui scoppia il deposito di polvere sulfurea che fa precipitare il cappellone della chiesa della Cella, la cui caduta fa sobbalzare i due giovani oltre il sagrato sani e salvi e raggianti per l’impresa. Erano ragazzi di campagna, possidenti, precisa lo scrittore, agili e coraggiosi, avevano avuto l’ardire di salire in paese al suono delle campane a martello e del rimbombo degli spari, i paesani li conoscevano con i soprannomi, e con questi saranno ricordati. Ha ascoltato più volte dalla loro viva voce il racconto del fatto, poiché era d’uso che quando salivano in paese l’argomento veniva ricordato: E quando questo fatto essi raccontavano, o sentivano rimembrare si vedevano commossi fino alla lacrime. Ora noi conosciamo questi fatti per la tua penna, poiché mai nessun ricordo è più duraturo di un debole inchiostro.

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CENNI STORICI CENNI STORICI, e memorie tradizionali sull’antica terra di TAVOLETO Raccolti gli uni, e le altre da un Tavoletano. 1876 ______________ A chi legge ______________ Alcuni dei miei amici mi domandano sovente: ma questo Tavoleto che voi elogiate con tanto sentimento di stima e di affetto, quali cose ha mai in sé di preziosità, poiché altri ne parlano di lui come luogo qualunque? Che anzi se osserviamo l’attuale Statistica, costituisce un Comune puramente microscopico, ed inferiore ai vicini? A queste interrogazioni io m’ingegno di esporre quel tanto che ne sò della patria mia che torni a gloria di lei, e poscia incolgo giustamente l’arbitrio del Governo che ha rimpicolito questo Municipio. Quindi mi faccio a mostrare come da più remoti tempi a tutto il 1817 questo Paese fosse conservato Capoluogo e Comune a se teneva assoggettati Auditore, Piandicastello, Valle Avellana, San Giovanni, Ripamassana, Castelnuovo, e Torricella con la residenza di un Giudice Laico pel civile e criminale, che si nominava conforme i tempi che correvano, Vicario, Capitano, Governatore. Dopo il 1817 il Municipio dovette soffrire l’attuale rimpiccolimento della Territoriale cerchia, ma mantenne la giudicatura con un Giudice chiamato Podestà, che rida (sic) il suo compimento, quando con questo generalmente vennero abbolite le Podestarie. 10


Rimase Tavoleto, e rimane Comune principale con l’annessione delle due piccole Parrocchie Ripamassana e Torricella, e ad un Giudice Conciliatore. Eravi anche un Giudice ecclesiastico che giudicava i chierici in civile, e talvolta anche in criminale, che si chiamava e si chiama Vicario Foraneo, che ha soggette le Parrocchie nominate retro, e inoltre Santa Colomba di Onferno. Che se si trattava di disconnessa da Tavoleto intorno ai secoli andati, bisognava raccogliere le nozioni che raramente, ma che pure si trovano in diversi luoghi, e per certi fatti seguire la costante tradizione. Questo era il mio divisamento, e per ottenere l’effetto, a tutt’uomo, e costantemente mi sono adoperato a presso il Canonico don Luigi Bartolucci di Urbino possessore di molte memorie che rifferiscono al Tavoleto, da dove si ha che questa posizione era il teatro continuo della Guerra fra i Signori di Romagna e quelli dell’Umbria, e il Paese ne risentiva le conseguenze nei replicati incendi, e ripetuti saccheggi che avevano luogo; e presso altri di quella Città che prodighi furono nel promettere, ed avari nel mantenere; per cui per ora, senza dismettere l’impegno di ricercarle. E l’insistenza di ottenerle ho risoluto di scrivere qualche cosa di Tavoleto ed apportare un po’ di passato alla curiosità di chi il desiderasse. E’ scienza delle scienze il saper discorrere: molto più il sapere questo discorso ordinato esporre per iscritto. Conosco la rozzezza del mio talento, confesso che queste incolte mie primizie, sebbene in età avanzata non hanno fondamenti di lettera, quindi riusciranno stucchevoli, insipide e di nessun pregio, ma chi ha vera cognizione dè miei studi e conosce i miei principi renderà compatibili i mancamenti, e gli errori. Non è prurito d’ambizione, né, ma unico eccitamento è la patria mia, la gloria di Lei, il di Lei lustro che mi mette la penna fra le mani. Prego e scongiuro il mio lettore cortese di non volermi condan11


nare di presunzione e di soverchia cupidigia di lode, e di onore e di desiderio di lasciare una memoria di me, poiché ben conosco chi mi sia; e il povero mio ingegno, e l’imbecille mia penna mai si sarebbero accinti a scrivere cose di qualche importanza se al mio orecchio, e al mio cuore non mi parlava la diletta terra dei miei natali, e del mio domicilio, e se i replicati stimoli di alcuni veri amici non mi erano a sprone, anzi mi costringevano, a fronte del sacrificio della stessa mia reputazione, che non può non diminuire specialmente in faccia ai detti. Spero con fondamento, che tutti questi buoni terrazzani avranno cuore particolare di diffendermi da ogni rigida censura, sul rifflesso che l’onestà del fine ad oltranza giustifica l’ardire di presentare questa mia fatica. Tratterò dunque con brevi cenni di cose Patrie quali furono, quali sono: parte raccolte da scritti antichi, e da atti di archivi, parte pervenutami per non interrotta tradizione. Parlerò di pochi fatti, ma positivi, innegabili, riserbandomi di proseguire a parlarvi, a scrivere ogni qualvolta verrò in cognizione di altre cose patrie da non revocarsi in dubbio. Intanto accogliete di buon cuore l’offerta che vi faccio di queste memorie, come di buon cuore vi vengono dirette dall’umile vostro servo. U.C. Tavoleto 1° Agosto 1876

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Note di Luigi Signorotti Per questa “offerta” è venuta l’ora della consegna, secondo il disegno dell’autore, ai suoi amati “terrazzani”; mi sento onorato di aver assunto il compito di essere il suo latore. Il manoscritto si compone di cinquanta fogli di carta spessa che, rilegati dentro un cartone rigido e solido, formano il testo delle sue “Memorie sul Tavoleto”. Il libro sempre tenuto ben custodito è tuttora in ottimo stato di conservazione. In questi 135 anni di sua vita è passato per le mani di un esiguo numero di persone. I caratteri grafici sono molto minuti e tracciati con pennini dal tratto sottile, spesso richiedono l’uso di una lente d’ingrandimento, sicché la lettura scorre lenta, su alcune parole, al momento indecifrabili, sono richiesti arresti e rinvii in attesa di future intuizioni. L’hanno sicuramente consultato, per la parte storica, il magistrato ravennate Francesco Maria Agnoli, studioso e autore di molte pubblicazioni e libri che trattano del filone storico che va sotto il nome di “Insorgenze in Italia”, il nostro corregionale Alessandro Petrucci autore del libro: “Insorgenti marchigiani” e di tante altre pubblicazioni di cui alcune riguardano Tavoleto, ponendolo al centro di questi eventi storici in Italia, descritti e definiti col titolo di “Vandea”. Una sua pubblicazione “Come fu fatto a Tavoleto” è ricca di notizie inedite e sconosciute ai più o, come più probabile, volutamente tenute segrete. Sandro Petrucci è stato relatore in entrambe le rievocazioni storiche dell’incendio di Tavoleto: 1997 nel Castello, nel 2001 nella sala parrocchiale appena dedicata a don Alberto Franchini. In queste occasioni abbiamo quindi avuto modo di passare un paio d’ore insieme, cercando di ricostruire mentalmente sull’area dei giardini pubblici l’antica rocca, e di visionare i luoghi menzionati dalle cronache storiche dell’incendio di tutto il pae13


se. È intercorso uno scambio dei nostri libri. Ricambio i ringraziamenti per avermi onorato di “preziosi suggerimenti” dedicatimi nella nota (1) del capitolo primo “Come fu fatto a Tavoleto”.

Cartolina di Tavoleto dei primi del ‘900 manca il castello, costruito dai Conti Petrangolini negli anni 1925-26

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NOTE SU L’AUTORE DEL MANOSCRITTO “MEMORIE SUL TAVOLETO” a cura di Luigi Signorotti Ha descritto vizi e virtù di tanti concittadini, ma di lui nessuno ha lasciato una memoria scritta, le uniche notizie che lo riguardano si trovano nei registri dei nati e dei morti di questo Comune. Ceccaroli Ubaldo di Cesare, professione: possidente, era nato a Tavoleto nel 1813, dove morì il 7 / 3 /1884 all’età di anni 71; la madre Francesca Galuzzi (1788 /1869) era figlia di Domenico fratello di don Pietro Galuzzi, il prete che con la sua possente voce, tuonando dall’altare contro i soprusi permessi e propagandati dalle nuove idee d’importazione francese, riceveva nel frattempo, il favore del movimento degli insorgenti del territorio del Montefeltro, distretto di Urbino e, dei romagnoli, che presero a definirlo: “Il prete conforme al desiderio del loro cuore.” (Agnoli: Gli Insorgenti). Ha sicuramente frequentato la scuola comunale e concluso il corso, non si hanno notizie se sia stato in seminario per qualche anno, è più probabile che la semplice infarinatura di latino che emerge nei suoi scritti l’abbia appresa nel tempo del chierichetto o negli anni della gioventù, o anche in seguito, poiché la sua casa, per il fatto che sua madre era nipote di don Pietro Galuzzi, divenne il punto fermo dell’ospitalità dei parroci. La madre Francesca Galuzzi ha aiutato economicamente don Marino Palazzi con ripetuti prestiti di denaro nel tempo della sua permanenza quale parroco di Tavoleto. Non ha conosciuto don Pietro Galuzzi, zio della madre, morto nel 1811, quindi due anni prima della sua nascita, ma da grande ha avuto modo di leggere la ricca corrispondenza di questo parroco con le più alte autorità civili, religiose e militari intercorsa prima, durante e dopo quei luttuosi eventi culminati in quel tra15


gico venerdì del 31 marzo 1797, con l’incendio totale del paese. Don Galuzzi, rispettoso della tradizione e sospettoso delle innovazioni in atto, nel compilare gli atti amministrativi di pertinenza al suo ufficio, usava il latino, forse, anche perché dagli scritti in lingua italiana si arguisce che era in possesso di scarse conoscenze della sua grammatica. Il bambino Ubaldo è vissuto e cresciuto in una famiglia, dove le questioni di chiesa costituivano l’argomento di ogni giorno. La madre, al tempo della catastrofe aveva nove anni, ha vissuto per altri 14 anni con lo zio prete, quindi, di notizie in merito a quei fatti ne ha apprese molte, e chissà, quante volte le avrà raccontate! L’autore delle “Memorie sul Tavoleto”, per la vastità e varietà degli argomenti trattati e, nell’elencare note di spese e d’incasso precise al centesimo, ci fa capire che era a conoscenza della vita amministrativa sia del Comune, quale pubblico rappresentante del Municipio, come della parrocchia dove poteva reggere “l’economato” e l’amministrazione dell’ospedale. Al tempo della ricostruzione della Cella, alla ditta costruttrice si presenta un rendiconto dettagliato nei minimi particolari, così come risulta meticolosa la distinta delle somme raccolte e necessarie alla copertura. Ho la netta convinzione che dalla famiglia Galuzzi-Ceccaroli sia partita la lettera della richiesta di contributo per la ricostruzione della Cella dopo l’incendio e, consegnata al Papa Pio X da Vincenzo Sartori di Auditore, al tempo medico personale di S. Santità e sia ritornata gonfia di lire 1450, percorrendo al ritorno gli stessi canali dell’andata. Non si deve, infatti, trascurare che Marta Sartori in Galuzzi era sua nonna materna, imparentata con il Sartori. La “Casa Sartori”, nella nostra zona aveva dato alla Chiesa, e l’autore lo annota in questo suo testo, -: quei grandi uomini che or sono Mon. Sig. Lorenzo Sartori Vicario Generale di Cagli, Luigi Canonico Sartori, zii di Lui (Don Marino Palazzi di Auditore, il suo prete prediletto, 16


molto benvoluto e stimato in famiglia). Caro Ubaldo, questa tua testimonianza scritta, a volte frutto di ricerca metodica, a volte di ricordi personali riproduce vicende che hanno vissuto queste popolazioni, costringendole per secoli a subire soprusi, angherie, stenti e privazioni da parte di chi, amministrandole, avrebbe dovuto averne cura. Hai saputo rendere presente, a chi ti legge a distanza di 150 anni, una realtĂ che assume nelle diverse sfaccettature, il fascino e il mito della favola, l’orrore e la disperazione dei vinti, l’accondiscendenza e la ribellione, ma è la fede nel disegno divino che, anche dopo immani sciagure non viene a meno, e segna il filo conduttore sulla cui falsariga scorrono gli avvenimenti da te descritti, che io trascrivo senza modificarli di una virgola.

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LE PIEVI cioè Pieve Vecchia, Pieve Nuova di San Lorenzo Martire La Chiesa Arcipretale Matrice di San Lorenzo Martire di Tavoleto, colla residenza annessa del Parroco che si chiamava col titolo di Arciprete, ed era anche Vicario Foraneo, fino alla sua origine e fondazione remotissima, era situata fuori del Paese, in distanza da esso di circa mezzo chilometro dalla parte di Sud_ Est, e precisamente all’attuale Pieve vocabolo S. Lorenzo proprietà della Chiesa Parrocchiale. Alcune vestigia di mura, sepolcri e le ossa dei cadaveri indicano che la Chiesa e la casa si ergevano dove oggi esiste la casa rurale, l’orto e l’aia. Negli anni adietro si trovava eretta una croce di legno commemorativa, e fino al 1836 si andette ogni anno in quel luogo colla processione delle Rogazioni nel terzo giorno, ossia il mercoledì. La sua giurisdizione territoriale si estendeva al Nord fino alla Cella inclusa, al Sud confinava con la Parrocchia di Auditore e di S. Silvestro in Foglia, ad Est col termine territoriale di Romagna, ad Ovest con S. Giovanni; anche il Paese murato apparteneva a questa Parrocchia. In seguito di tempo, la seconda Parrocchia detta di S. Maria in Conca che in qualche modo doveva dalla suddetta Matrice dipendere, si riunì totalmente a quella, e così, di fatto, la sua cerchia come si dirà a suo luogo. Ma il vetusto fabbricato Chiesa e canonica nel 1624 circa, rovinò e cessò di esistere a S. Lorenzo. (a) Venuta meno la Chiesa Parrocchiale e la canonica annessa, furono trasportate ed erette nell’interno del murato costruendo la Chiesa Plebale di S. Lorenzo nel luogo preciso dove esisteva l’Oratorio di S. Antonio da Padova e si prese una piccola casa annessa che servì sempre per residenza Parrocchiale, casa che 18


tutt’ora à delle ragioni della Parrocchia. E in ricordo che la Chiesa era stata eretta nell’Oratorio di S. Antonio, si volle che in essa ci fosse un altare in onore del Taumaturgo padovano. Il patrimonio parrocchiale venne ampliato con gli altri beni della Parrocchia di S. Maria in Conca, e nel 1681 furono pure applicati i beni della Chiesa di S. Maria del Sole, ossia della Cella alla stessa Parrocchia di S, Lorenzo. L’arciprete Piastra assunto il possesso di questi ultimi Capitoli, cominciò ad abbitare nella casa del Cappellano abbandonando la residenza del Paese. A Piastra successe Marchetti, a questi Buda, a Buda Bajocchi, a Bajocchi Coscio, a Coscio Galuzzi. a Galuzzi Galli, a Galli, Palazzi, a Palazzi Amati, ad Amati Barbieri, a Barbieri l’attuale Todrani, e tutti fino al presente1876 hanno costantemente abbitato nella casa della Cella che dallo scorso anno si è cominciato a migliorarla notabilmente, e si prosiegue a renderla decente servendosi in parte dei denari della fabbrica della Chiesa della Madonna del Sole accordati al Parroco per voto della congregazione delle Compagnie del giorno 25 aprile 1875 ed in parte impiegati per Lire 450 dallo stesso Parroco per questa da lui dovuta pagare alla fabbrica, e finalmente messi del proprio dal medesimo Parroco Todrani. La suddetta Congregazione delle compagnie nella sua tornata del giorno nominato accordò al parroco lire 550 circa, e gli permesse di usare alcuni legnami della fabbrica, perché era stata privata la sua residenza di tre camere da letto, e di un fondo a piano terra nella costruzione della nuova Chiesa, e ciò si accenna per memoria ai posteri. E qui tornando in argomento la Parrocchia di S. Lorenzo ha riunito le donazioni di tre Chiese e il suo territorio ha un’estensione di tre chilometri con un animato di 800 individui. Le Bolle di datoria che vengono al nuovo Parroco vi tassano sui beni di prima erezione più quelli della Parrocchia di S. Lorenzo, per cui figura Parrocchia meschina. Il Parroco novello riceve dal suo anteces19


sore, o dall’eredità di esso il valore di una perizia che vale su tutti i fabbricati, cioè sulle case coloniche, sulle case della Cella, su quelle del Tavoleto sulle due chiese, la Plebale, e S. Maria del Sole. Il perché al suddetto Parroco sta la manutenzione di esse fabbriche.

(a) In detto anno 1624 Francesco M.ia II° Della Rovere Duca di Urbino passò il suo ducato sotto il Dominio del Sommo Pontefice Urbano VIlI°.

Note di Luigi Signorotti Il nostro Ubaldo Ceccaroli trascrittore di queste importanti testimonianze non cita una parte di storia antecedente, dalla quale trae origine quella da lui menzionata. La pieve di S. Lorenzo, nei secoli precedenti prendeva nome dal Castello di Trapole; nei documenti ecclesiastici è riportato “Plebatus Trapole”; questo Castello “Castrum”, molto probabilmente era situato nei pressi della Pieve, zona della Marcella; la chiesa della Pieve sorgeva nella parte alta del montaletto ed è stata officiata fino a metà del 1900, e ancor oggi è in piedi una parte della casa colonica annessa, ad essa appartenente. Subito, in direzione sud, si notano ampi valloni, fossati e gradoni non ancora del tutto appianati a testimonianza di un ampio smottamento di questa collina franata verso il Foglia attorno all’anno 1200. Se a quei tempi su questa collina esisteva un castello, è doveroso supporre che nei suoi pressi ci fosse anche una Pieve, questa, unita al fortilizio, al signore: “Dominus loci” faceva accrescere il suo prestigio. “Pieve”, dal latino plebs, da cui plebeo contrapposto a patrizio, ovvero popolo minuto, povero. In seguito ha assunto altri significati col propagarsi del cristia20


nesimo nei “pagi”, e intendersi quale singola unità di cristiani esclusivamente appartenenti alla plebe. Indi, edificio di culto, luogo di riunione o d’assemblea, ma con l’allargarsi degli adepti e dell’estensione delle terre, ad ambito o circoscrizione del territorio. Man mano che il cristianesimo veniva viepiù riconosciuto quale religione “ex legibus” dagli stati dominanti, e dalle nostre parti, imposta dal potere temporale dei papi-re, si prese a trascurare la base e favorire gli interessi di chi stava ai vertici. La Pieve diventa Chiesa principale: plebale, (quanta contraddizione nella sinonimia dei due aggettivi!) dalla quale dipendevano tutte le chiese minori e le cappelle nella sua circoscrizione. Non è il caso di questa. Ricordo di aver sentito raccontare da gente, le cui generazioni erano da secoli su quei poderi, vecchie storie che narravano che a fianco di essa passava una strada che portava a Roma, e i viandanti, i pellegrini, gente a cavallo o con i carri si fermavano per pernottare o rifocillarsi. Questo mi riporta al percorso Rimini - Urbino - Calmazzo con aggancio alla consolare Flaminia, strada più nota col nome “Flaminia- Conca” la carrozzabile regale, cioè di grande traffico, presumibilmente realizzata nell’alto medio evo. La primitiva pieve qui sorta poteva essere una costruzione rustica molto semplice; un altare per il culto c’era sicuramente, ma era preminente la sua funzione di “iusta hospitalia”; la sua struttura era più simile a un vecchio fienile che alle successive chiese. Quattro muri perimetrali di rozze pietre e mattoni, con una trave sul culmine per tutta la sua lunghezza e, per la copertura, travicelli a spiovere con sopra un tetto di canne e cannegge; nessuna finestra, una sola apertura in fondo, da chiudersi nelle stagioni fredde con un portone mobile fatto di spesse tavole inchiodate su due montanti laterali, all’interno poche file di panche e grossi fasci di paglia accantonati alle pareti; niente 21


chiavi o catenacci, in modo che il pellegrino non fosse obbligato a chiedere il permesso d’accesso; nei pressi doveva esserci una casupola per un’esigua famiglia di religiosi con un recinto per carriaggi con abbeveratoi per cavalli, asini e buoi. Una descrizione molto simile a questa si ritrova in un opuscolo di D. Anati, si riferisce alla pieve di S. Erasmo di Misano: “quattro mura, un ambiente a cavalcioni, così basso che in estate per il soffoco era insalubre”. Del castello di Trapole inghiottito dalla frana, non è sopravvissuto nulla, nemmeno un toponimo; la pieve potrebbe essersi salvata, ma è più verosimile che una chiesa, lì nei pressi, sia stata ricostruita in un’epoca in cui il territorio era sotto il dominio di Urbino, dopo il 1474; potrebbe essere un indizio il neo patrono: S. Silvestro che ha dato il nome e, al luogo e, alla parrocchia.

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PIEVE DI S. LORENZO IN BARCOLA La prima citazione storica di una “Pieve di Trapole” sul colle di S. Lorenzo si riscontra attorno all’anno Mille, nel noto testamento di Pietro figlio di Benno che in data 17 giugno 1069 annota i moltissimi beni della sua donazione a S. Pier Damiani e per lui all’Abbazia di S. Gregorio, tra cui il castrum Murzanum (in Pieve di S. Giorgio in Conca), quello di Mondaino (in pieve di S. Laudizio) e quello di Trapole. …”concedo aliud castrum quod vocatur Trapole, cum Monte Nuri cum curtibus suis circum et cum omnibus quae mea pertinentia sunt in tota plebe S. Laudicii et in plebe S. Laurentii in Berco”. Si cita il vocabolo “Trapole” il quale era stato dato a un fantomatico “Castrum” Questo toponimo deriva dal termine grecolatino “Intra-poles”, ovvero fra due città, o anche terra di nessuno, e anche: terra di confine, che nel caso specifico, a volte era dell’una, a volte era dell’altra parte, in dispute durate per secoli. Il termine “Berco” potrebbe stare per Barco, nella trascrizione di manoscritti le due vocali appaiono simili. Il colle di S. Lorenzo (quota 415 metri s.l.m.), a settecento metri a sud-est del Castello appare da lontano come un barco di covoni, o come una grossa stiva di tronchi che si staglia nel cielo, specie per chi guarda dal basso, come da Montespino. La Pieve di S. Lorenzo in Barco è menzionata anche nelle bolle papali del 1136 e del 1144, in questa sono enumerate dal papa Lucio II le pievi del territorio riminese a partire dal Rubicone, fino all’estremo sud con S. Giorgio in Conca, S. Laudizio, Santa Colomba di Inferno e S. Lorenzo di Trapole. Da un’approfondita ricerca sulle antiche pievi del nostro territorio fatta da Alfredo Franchini e riportata a pag. 14 del suo libro “Tavoleto tra cronaca e storia”, risulta quanto testualmente si trascrive :- Nel caso, poi, di S. Lorenzo non è poi di grande uti23


lità il Libro delle Decime degli anni 1290, poiché l’unica Chiesa del suo piviere che pagava tali imposte era S. Donato di Auditore-: Peraltro si rileva che nella Vallata del Ventena, S. Angelo di Ripamassana e Torricella, (alias Rivopetroso), erano comprese nella circoscrizione di Inferno; che la Chiesa di S. Maria di Leora dipendeva dalla Plebale di Saludecio. E pertanto il piviere di S. Lorenzo doveva riguardare, soprattutto, il versante del Foglia, dove evidentemente deve aver subito, nella prima metà del1200 una notevole decurtazione. Infatti, stando almeno a quanto asserisce il Prof. Vasina (ordinario di storia medioevale all’Università di Bologna), il piviere di Trapole confinava dalla parte del Foglia con quello di S. Giorgio in Conca, (presso Cattolica). L’ubicazione dell’edificio della Pieve di S. Lorenzo in Barco sulla sommità di un colle dagli ampi orizzonti panoramici in ogni direzione, rientra nella logica, inoltre la Flaminia-Conca, con la carrozzabile: Cal Mazzo-Urbino-Tavoleto-Rimini, le passava proprio accanto ed era sotto controllo per un lungo tratto. Lo storico Alfredo Franchini, fratello di Don Alberto, vissuto a Tavoleto nell’immediato dopo-guerra, indi con residenza ad Ancona, ma felice di ritornarvi e riappropriarsi delle tante amenità e dei ricordi gioiosi di giornate di caccia che i suoi luoghi gli avevano procurato, ha cercato di dare un significato a tanti toponimi dislocati per tutto il territorio. Molti sono fitotoponimi, ovvero riferibili alla vegetazione (in particolare alle piante). In una sua nota riportata a pag. 13 del suo libro “Tavoleto tra cronaca e storia”si legge:- Non sono riuscito ad individuare questo “Monte Nuri” nella micro toponomastica delle nostre zone: potrebbe essere l’attuale Montespino, fitotoponimo dovuto alla presenza di acacie e di agrifogli, come l’attiguo Laureto per l’alloro- e si potrebbe aggiungere Cerreto, Monte Fiore, Valle Avellana e lo stesso Tavoleto. E’ d’aiuto il soffermarsi a considerare come potevano essere queste zone, quando la macchia continua formata da querce e 24


da altre varietà di alberi d’alto fusto le ricopriva interamente. Rustici cascinali dai tetti di canne si trasformarono in piccoli centri man mano che l’opera di bonificare gli spiazzi attigui rese l’uomo padrone di un appezzamento di terra. E’ quindi logico e conseguente che questi centri si nomassero per il tipo di vegetazione o pianta che li circondavano: lauri, cerri, “cerque”, ginestre, piante spinose. Nella toponomastica di questi luoghi il “fito”, dal greco “phytòn” pianta, è il primo elemento del termine fitotoponimo. Le strade che congiungevano fra loro i cascinali, i piccoli centri, ma anche località murate e castelli di queste zone, erano tutte in terra battuta, poco più grandi di un sentiero; le poche “carrabili” o “rotabili” si differenziavano da queste per una doppia fila di pietre atte a non fare affondare nella melma le ruote dei carri. Per vari motivi di praticità scorrevano sui crinali: primo, perché qui la neve è spazzata dal vento e forma meno accumuli, e quando piove, l’acqua scivola più facilmente dai fianchi; inoltre una strada sul crinale offre un panorama più ampio e, il viandante ha la possibilità di scorgere in tempo i vari pericoli e scamparli molto meglio che in una valle oscura. Un esempio pratico si può tuttora ricavare poiché il percorso che univa Tavoleto a Mondaino è ancora rintracciabile. Io l’ho ripercorso, a piedi naturalmente, partendo da Tavoleto, per Pieve di S. Lorenzo, Levola-Monte, S: Stefano e Ca’ Bianco di Cerreto, crinale di Baiacano, Monte Zaccarelli, Mons Diana o Mondaino: Nel manoscritto di Leale Malatesti, (biblioteca GambalungaMS 1139), emerge la seguente situazione delle chiese dipendenti dalla Pieve di Trapole: S. Leo, San Giovanni e S. Donato di Auditore, S. Martino in Silvis e S. Paolo di Montespino; nello stesso “Decimario” il Malatesti cita anche una chiesa dedicata a S. Martino in Ventena che dipendeva dalla pieve di Onferno, con S. Biagio di Castelnuovo, S. Salvatore di Piandicastello, S. Ercolano e S. Angelo di Ripamassana e S. Giorgio di Valle Avella25


na; per ciò che riguarda la doppia denominazione di S. Martino, il Franchini opta per un errore nella compilazione dello spoglio del “manoscritto membraceo attribuita allo studioso riminese Garampi nel 1744”. S. Martino in Silvis e S. Martino in Ventena indicano la stessa Cappella sita lungo il corso del torrente Ventena? Il “no” avvalora l’errore; e quella precisazione “in silvis” può benissimo riferirsi alla cappella dedicata a “S. Maria in Silvis” nella Parrocchia di Valle Avellana, che in tempi recenti è stata completamente ristrutturata insieme alla casa colonica annessa divenendo una struttura idonea per ospitare colonie estive gestite da alcune parrocchie della costa romagnola. Anche per questi due termini: S. Martino in Silvis e S. Maria in Silvis è opinabile il pensare a un errore del traduttore e optare per il secondo. Se ne ricava che: “S. Martino in Ventena”corrisponda all’attuale S. Martino. Mentre “S Martino in silvis” è da leggere S. Maria in Silvis in parrocchia di Valle Avellana. L’altro dubbio dell’amico e compaesano Franchini si riporta a S. Leo o S. Leone. S. Leone esisteva, ed esiste tuttora in territorio di Saludecio. S. Leo, quale Cappella Benedettina era, (ed è) situata nei pressi del colle di S. Lorenzo in Barcola a 400 metri distante in direzione nord; (l’attuale cascinale ne porta ancora il nome e, con lo stesso nome di “Via S. Leo” è intitolata la strada che lo raggiunge.) Se fosse stata sempre, fin dal suo sorgere, una casa colonica avrebbe assunto un toponimo preceduto da “Ca’“ come tante altre di queste zone: (Ca’ Gingione, Ca’ Prino, Ca’ Picchio, Ca’ Piccillo, Ca’ Schirpe ecc), inoltre nel già citato Decimario di Leale Malatesti, si nota che le cinque chiese dipendenti dalla Pieve di Trapole sono elencate in ordine di distanza, dalla più vicina alla più lontana; S. Leo è al primo posto. Ma anche altre considerazioni mi portano ad optare per S. Leo quale cappella edificata dai Benedettini, ubicata all’inizio della vasta macchia d’alto fusto che 26


da qui degradava da ovest a est e risaliva a Levola. Si ha notizia, infatti, che nel 1230 una Cappella di S. Leo passò per donazione ai Canonici della Cattedrale di Rimini, i quali possedevano già altre chiese nei nostri posti, S. Colomba di Onferno, S. Paolo di Montefiore, S. Salvatore di Cerreto. Perciò l’accresciuto patrimonio del bosco costituito in netta prevalenza di querce secolari assicurava ai Canonici redditi piuttosto apprezzabili. La Cappella fu chiusa quando questi “frati bianchi” terminato il disboscamento, l’abbandonarono per trasferirsi in altre zone. Non si sa quando, ma è certo che molto del suo territorio non passò mai alla Plebale di S. Lorenzo. Anche questa in quei tempi possedeva un consistente patrimonio boschivo, che era soggetto a tassazione, ma che la Santa Sede poteva esentare a chi le concedeva il diritto di prelievo di legname da costruzione per le Basiliche e i palazzi dei suoi prelati; S. Lorenzo, facendo parte della Massa Trabaria, era esente dal detto tributo, ma pagava in natura.

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LE CHIESE Oratorio di S. Antonio da Padova, a La Rocca Dalle vestigia e da alcuni ruderi che qua e là sporgevano sopra lo scudo ed esistettero rilevantemente fino alla metà di questo secolo, si rivela e non cade dubbio che il Paese di Tavoleto costituisse un forte rispettabile del già Ducato di Urbino come è positivo che aveva due cinte di mura, cioè mura e contro mura, ponti levatoi, tre torricini sui tre angoli del Paese, uno a tramontana e ponente: altro a levante e tramontana; il terzo a mezzo dì e ponente; e più un gran maschio a levante e mezzogiorno sul quarto angolo, ossia una Rocca colossale. La Rocca formò il tipo del Paese, poiché il Comune nella sua Arma alza una Rocca come trovasi in pittura sulla parete interna del muro esterno della sala municipale. L’incuria dei pubblici rappresentanti del comune suddetto aveva ridotto in istato di disornamento minacciante la pubblica sicurezza, tanto i torricini, come la rocca, per cui il Consiglio di Tavoleto deliberò di demolire e distruggere quei rovinosi avvanzi, come venne eseguito negli anni 1865\1866 fino al 1870. Da quest’epoca a tutto il 1875 vi si sostituirono altre fabbriche e si rinnovò la cinta delle mura all’intorno ove erano diroccate. Le escavazioni all’interno del Paese fatte in occasione di porre i fondamenti a nuove fabbriche non si posson fare senza che s’incontri ben spesso delle fosse di grano, dove forse il Presidio Militare conservava le provvigioni. L’Oratorio di S. Antonio da Padova era fabbricato quasi in mezzo dè Quartieri dè Soldati, e serviva loro per soddisfare gli atti religiosi di quelle milizie stanziate, del che in quei tempi si aveva particolare cura. Questo Oratorio come si è già detto retro, fu ridotto a Chiesa matrice di S. Lorenzo di Tavoleto.

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Chiesa detta Dell’ospedale, Od Ospedale Questa antica Chiesa venne edificata in onore della Presentazione di Maria SS.ma e fu detta dello Spedale perché serviva per uso spirituale dei malati che si ritenevano nella casa annessa mantenuti col prodotto di pii lasciti di terreni. In questa Chiesa il 21 novembre di ogni anno si celebrava la festa della Presentazione della Vergine Madre di Dio, e dopo la messa cantata si dispensava a tutti i presenti un pane benedetto, e tutto a carico dell’ospedale. Il fabbricato dell’Ospedale fu convertito fino dal secolo passato ad altri usi, cioè servì per gli uffici comunali, per la scuola, per il Tribunale laico, per residenza di impiegati, e via discorrendo. Finalmente nel 1865, impossessatosi il Municipio lo riformò e ridusse a Caserma per la Stazione dei carabinieri, e tutt’ora serve per tale uso. I terreni nell’epoca suddetta, cioè nel secolo passato, e il loro prodotto non più si applicò a sollevare i malati, ma decimati per vendite, col ricavato si sostenne in parte la spesa delle campane e della Chiesa Plebale risarcita, e poi del resto dei terreni si fece cessione ai soggetti che si succedevano per l’istruzione pubblica, ossia si dettero i terreni a godere ai maestri. Finalmente furono questi capitali rustici tutti venduti, e con il ricavato si creano tanti censi. Questi censi se li è presi il Municipio di Tavoleto. La dispensa del pane è finita, ed è pure finita la celebrazione della festa, detta sopra, fino dal1861. Finalmente la Chiesa venne disfatta coi debiti eucaristici permessi, nel 1865 commutandola ad uso di scuole comunali. Chiesa al Campo Santo Disfatta la Chiesa dello Spedale, il Comune ne edificò un’altra in sostituzione, dove vennero trasportate le immagini e cose sacre esistenti nella vecchia, e si assunse 29


l’obbligo della manutenzione tabellando in preventivo un fondo apposito. Questa nuova Chiesa annessa al Camposanto posto verso Nord del Paese, ossia sotto la Cella venne edificata negli anni 1866\1867. Note di Luigi Signorotti Il cimitero di Tavoleto è stato costruito nel 1865: Questo è anche l’anno del disfacimento della Rocca che, dopo un lungo periodo d’incuria era diventata pericolante, manifestando segni di cedimento di alcune strutture: imposte, travi e travicelli a sostegno della copertura. Già dal 1862 non ospitava più gli uffici comunali e quelli della Caserma della Guardia Nazionale. E’ noto, perché riportato e trascritto su vari documenti su cui si attesta che il materiale di quest’antica costruzione è stato riciclato e utilizzato per altre “fabbriche della Comune”. Dalla relazione finale di un consuntivo di dodici anni della sua attività amministrativa, il sindaco Girolamo Ceccaroli elenca fra le tante spese anche le seguenti: Nel 1865, L.1750,19 per la costruzione del Cimitero di Tavoleto con la camera mortuaria e quello di Ripa Massana con la sua chiesola; e L. 368,53 per la riduzione della Chiesa dell’Ospedale per uso delle pubbliche scuole. Nel 1866, L.1098,57 per la costruzione del Cimitero di Torricella e per il restauro della Caserma dei Reali Carabinieri. Nel 1871, L. 1503,60 per la costruzione della Chiesola attigua al cimitero di Tavoleto. I primi loculi in muratura sono stati costruiti sul frontale, a destra e a sinistra della chiesa. Dalle date di morte riportate su queste lapidi si risale fino al 1930. Appartengono alla famiglia Bajocchi che conserva ancora la proprietà di due “forni” con le originali lapidi guarnite in ferro 30


battuto in struttura d’epoca. La chiesa ha subito una parziale ristrutturazione nei primi anni 1990, quando l’area del cimitero fu ampliata con l’accorpamento dell’attiguo territorio retrostante. Per accedere al nuovo cimitero si è dovuto ricavare un’apertura sulla parete di fondo della chiesa, spostando l’altare che vi era appoggiato, collocandolo sulla parete laterale dove è ora. Gli otto candelieri in ferro battuto, qui trasferiti dalla chiesa dell’ospedale, nel tempo che le messe nere erano tornate in voga, hanno subito ben tre furti, sempre a coppia. Ora l’altare ne è privo, perché i due residui sono stati riposti dal custode in luogo più sicuro e conservati a ricordo. In questo periodo si stanno costruendo nuovi loculi all’interno del nuovo cimitero e si riassetta la chiesa che li congiunge. Chiesa di S. Giuseppe sposo di Maria SS.ma. L’oratorio pubblico dedicato a S. Giuseppe è alla Casinella e spetta alla Compagnia della Buona Morte di Urbino padrone e garante della manutenzione, nonché dell’adempimento dei legati di messe. Dista dal Paese meno di un chilometro di strada, che tutta maestra, ossia brecciata, la quale conduce in Romagna per la parte di Monte Fiorito. Note di Luigi Signorotti Non si hanno notizie documentate sull’anno della sua costruzione, ma essendo situata al centro di una vasta proprietà di un ente religioso: Compagnia della Buona Morte di Urbino, è logico pensare che sia stata eretta in concomitanza della costruzione delle case coloniche lì appresso, con lo scopo di alleviare i sacrifici dei loro contadini che erano costretti a percorrere lunghi tratti di strada nell’assolvere i loro bisogni spirituali. 31


Aveva l’entrata rivolta alla strada, era situata dietro all’attuale cappella costruita dalla stessa Compagnia nel1950, ed era in linea con la vicina casa colonica. Questa cappella è ancora ricordata dai pochi abitanti ultra-settantenni di Casinella per i rosari del mese di Maggio e per i canti finali alla Madonna che, ogni sera poi, riecheggiavano di sentiero in sentiero lungo i percorsi al ritornare ai loro casolari. Non aveva subito danni durante il passaggio de fronte, e negli immediati anni successivi si svolse la tradizionale festa di S. Giuseppe sposo di Maria con funzione religiosa di “Benedizione”, processione con concerto bandistico e predica finale; indi, vino e ciambella, intrattenimenti con giochi vari, dei quali è rimasta storica una testa spaccata per una pignatta mancata. Chiesa di Santa Maria in Conca Questa Chiesa era veramente di antichissima erezione, e pare che già nel 1400 esistesse nella qualità di Parrocchia, la cui giurisdizione comprendeva ed aveva le case di Cappeccetto, a Nord si dilungava pel Torrente Ventena e saliva al termine di Romagna verso Monte Fiorito, ad Est includeva la villa di Cal fabbro fino sotto la Cella, al Sud confinava con una Parrocchia di San Lorenzo Martire, e forse che da questa avesse, una qualche dipendenza, certo può essere perché soggetta ai Reverendi PP. Olivetani di Scolca di Rimini. Il Parroco di questa Chiesa era obbligato ogni venti anni, di stipulare con Essi un Istrumento di rinnovazione e pagare Loro in tale circostanza un canone di scudi nove, a baiocchi; né si conosceva moneta Romana, oppure Ducale. La dotazione di questa Parrocchia consistea nei terreni d’intorno alla Chiesa detti di Santa Maria, e nel fondo in vocabolo detto di Casanchino, i quali tutti conservano il loro nome. Si ergevano Chiesa e casa del Parroco appiedi del Campo Santa 32


Maria, sopra la rupe che porta lo stesso nome, cioè rupe di S. Maria. Niun vestigia di fabbricato è rimasta in quel luogo, solo nel campo presso la rupe si rinvengono di tanto in tanto ossa e teschi di cadaveri umani. Nel 1400, senza pretesa determinare decisamente, e positivamente la precisa data, ma certo lì d’intorno, la Chiesa e la casa di questa Parrocchia minacciando rovina, non tanto per loro antichità, quanto perché, come si disse, poste sopra una franosa innoltrata rupe, fu per decreto superiore sospesa la Chiesa, ed unita, ed applicata all’altra Chiesa e Parrocchia di S. Lorenzo. Vivo e sommo fu il dolore provato in tale circostanza da quel popolo, sensibile il detrimento spirituale, quantunque l’Arciprete Plebano procurasse nei giorni festivi di far officiare la loro Chiesa con celebrazioni di messe, e funzioni parrocchiali, ma tuttavia quella immensa popolazione non si trovava soddisfatta, perché più non risiedeva il Parroco a loro appresso, ed andare a S. Lorenzo era ben lontano, con strade incomode ed impraticabili nella stagione jemale. In forza pertanto del Decreto di annessione come sopra, il parroco di San Lorenzo fu investito di tutti i beni di Santa Maria in Conca, che da quel punto sono stati sempre posseduti, ed usufruiti dai Parroci di San Lorenzo di Tavoleto. Nell’anno 1483 la Chiesa di Santa Maria in Conca cadde, così distrutta finì di esistere. Intanto la desolata popolazione di quella Parrocchia non trovava modo di migliorare la loro posizione, ma Iddio padre amoroso, e misericordioso provveditore accorse in loro aiuto e conforto, servendosi di una creatura che gli era gradita e cara Diffatti una piissima donna, della quale s’ignora il nome, compassionando lo stato infelice di esso popolo mancante di Chiesa e di Sacerdote, impotente di riedificare la caduta fabbrica, deliberò di accogliere nella Chiesetta della Madonna del Sole con reciproca soddisfazione, e contento, e così fu per quanto consta. 33


Note di Luigi Signorotti Attraverso le preziose “Memorie sul Tavoleto” del cronista U. Ceccaroli sappiamo che il territorio della Parrocchia di S. Maria in Conca, quando la sua chiesa franò scomparendo per sempre, (1483), è passato in possesso della plebale di S. Lorenzo; mentre notizie della sua costruzione non sono mai state rintracciate. Questa chiesa è citata col titolo di “S. Maria del Girone”o “Geronis Fabrica”, o Girone e Fabrica, da intendersi come chiesa del Girone e di Cal Fabbro. L’accostamento di queste due antiche comunità all’unica chiesa ci induce a ritenere che la sua erezione sia stata concordata fra questi due centri. La rupe di S. Maria su cui sorgeva era equidistante da entrambi. Risalendo a ritroso di 200 anni ci si ritrova in un periodo in cui il nostro territorio faceva parte del contado di Rimini diviso in tre “Balie”; apparteneva alla Balia-Sud del Riminese, quella di Monte Scudo. In questo periodo, si è attorno al 1230, i Castelli di questa “balia” erano organizzati a Comune la cui amministrazione finanziaria e giuridica era affidata ad un “console” locale, sulla carta autonomo, ma in realtà libero solo nelle decisioni condivise, Rimini dettava le regole ed esigeva fedeltà alle sue direttive. Infatti, il 27 gennaio 1233 i Consoli dei Comuni e delle Ville furono convocati, pena il disconoscimento della Comunità, a giurare in forma solenne fedeltà alla famiglia Parcitadi, di parte ghibellina, che reggeva la Signoria di Rimini in quei tempi. Fra i partecipanti al giuramento incontriamo due nostri conterranei: Tudino e Giovanni Bononio, consoli per il Girone e Fabrica. Sono menzionati inoltre Lauditorio, Castronovo, Ripa Massana e Valle Avellana senza riportare i nomi dei loro consoli.

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Chiesa di Ripa Massana (foto Giorgio Paolucci)

Sant’Ercolano di Ripa Massana Da un’illustrazione eseguita a mano alla fine del XVI secolo dal parroco don Silvio Bellini di Santa Colomba di Onferno si nota che Ripa Massana è collocata nel punto più elevato del crinale, oltre l’Osteriaccia per chi proviene da sud; lo schizzo mostra un castello dentro un murato. E’ tracciata inoltre una lunga serpentina che segna la strada che sale da Valle Fuini, oltrepassa la chiesa di Sant’Ercolano per congiungersi al castello in cima all’altura. Il luogo indicato col nome “Ripamassana”, oggi è detto “Castellaccio”; le sue rovine mostrano un rudere completamente sommerso da una folta vegetazione formata da piante d’alto fusto con un sottobosco di sterpaglie varie. I proprietari vi hanno costruito negli anni cinquanta una cellettina alla Madonna in adempimento di un voto per grazia ricevuta in tempo della 35


seconda guerra mondiale. Quest’ ammasso di massi costituisce i resti di quel Castello di Ripa, che non tutti i ricercatori e studiosi di quest’epoca concordano sul luogo di sua ubicazione; faceva parte di una cinta di castelli costruiti nei secoli precedenti dai vari signori del circondario di Rimini e di Urbino che si sono contesi questi territori fino all’anno 1631. Non lontano, in direzione sud, sorgeva un altro castello, a distanza di 500 metri (presso la Baita), sopra la chiesa di San Giovanni di Auditore, anche questo è ora detto il “Castellaccio”; conserva una torretta laterale rivolta a sud-est. Nel libro di Giovanni Tiberi ne illustra la copertina. Una testimonianza pervenuta attraverso la tradizione orale racconta che gli abitanti della parrocchia scrissero una lettera al Papa quando ne divenne padrone per comunicargli il crollo definitivo. (Dopo il 1631) Schizzo a penna di don Silvio Bellini, rettore della Pieve di Santa Colomba di Onferno nella diocesi di Rimini: Il castello di Ripa Massana e la sua chiesa, extra muros, di Sant’Ercolano. (Archivio Vescovile di Rimini 1580 ca.)

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Le ubicazioni di queste costruzioni in luoghi dalle grandi aperture panoramiche avevano il primario compito o funzione strategica di controllare i fiumi Conca e Foglia e le vie di comunicazione che li fiancheggiavano. Dall’alto del Castello di Ripa si controllava il corso di entrambi i fiumi, e Tavoleto, e Montefiore, e le colline degradanti fino all’Adriatico. Dal Castellaccio sul monte di San Giovanni di Auditore si controllava un lunghissimo tratto del Foglia. L’esistenza in queste zone ed in particolare sulle sue alture di tanti centri fortificati e di castelli sorti nel periodo in cui i signori della costa avevano fondato la Provincia degli Appennini, come è menzione in Paolo Diacono, per difendere l’esarcato dalla pressione dei Longobardi, ci riporta ai bizantini e al governo di Ravenna. I Longobardi erano stanziati in Toscana, in particolare nell’aretino, da cui la via più breve di accesso alla Romagna era la Val del Foglia e, dal medio corso di questa, la Valle del Conca da raggiungere attraverso queste zone, dove queste fortificazioni erano abbastanza efficienti e, nel complesso difensivo per contrastare gli attacchi e, “per servire quale punto di riferimento, di prestazioni di servizi per la popolazione civile.” Prof.ssa Fasoli (traffici, mercati). Alfredo Franchini nel suo libro “Tavoleto fra cronaca e storia” cita la strada Flaminia-Conca ;”Questa Carrozzabile venne presumibilmente realizzata nell’alto medio evo, ai tempi dell’Esarcato di Ravenna e della Pentapoli, per stabilire un collegamento più breve con i possedimenti della Chiesa Ravennate nelle alte Marche e, nel contempo un’accorciatoia della consolare Flaminia, partendo da Urbino, fino a Rimini, evitando così le zone paludose del Fanese non sempre praticabili”. Dal testo “Castelli scomparsi nella Valconca del Montefeltro” l’autore Luciano Alberelli si rifà a documenti risalenti al 1225, dove si legge che “Il Castrum Ripe Massane” era soggetto ad 37


Ugolino Ridolfi di Auditore, negli anni successivi lo contesero e la Chiesa riminese e i Comune di Rimini; la contesa accese una causa che si risolse a favore della Chiesa riminese il cui vescovo Ambrogio poté dimostrare l’ antica signoria che questa aveva goduto sui vari castelli e su quello di Ripa Massana tenuto in possesso e “Dominium”. Questo in data 1272. Ma già qualche anno prima il vescovo suo predecessore aveva preteso ed ottenuto il riconoscimento di territori o comprensori del comune di Tavoleto. L’Alberelli citando il Clementini “Giacomo Vescovo pretendeva dal Comune di Rimini la giurisdizione temporale di S: Giovanni in Galilea, di Saludecio, Castel Nuovo, dell’ Inferno, di Pian di Castello, di Ripa Massana, di Valle Avellana, di Sant’Arcangelo e del Palazzo d’esso posto in cima al Girone”. È ragione il ritenere che Castel Nuovo con la Parrocchia di S. Arcangelo e il Palazzo sito al Girone facessero parte di un corpo unico, che nel 1300 annovera 16 fuochi: famiglie censuali gravate di tassa (il focatico). Per quanto riguarda il Castello di Ripa la tradizione orale può essersi arrestata nel corso dei secoli (XVI - XVII), ovvero negli anni della sua definitiva rovina e conseguente abbandono di tutta la zona da parte di queste popolazioni. In questi anni vaste zone d’Italia, a causa di carestie dovute a mancanza di raccolti inariditisi prima della maturazione, con l’aggravante di pestilenze che colpirono in particolare questi luoghi e, per fame o, per peste subirono una vera falcidia, e qui pochi furono i superstiti. Infatti nessuno ha mai sentito menzionare da gente del posto che in questa località siano esistite contemporaneamente due Chiese, o meglio, una “Capella” S. Angelo ed una chiesa S. Ercolano “extra muros”; ma la storia le cita in atti conservati. La tradizione orale ci fa sapere invece che la prima chiesa di S. Ercolano sorgeva nel sito ora detto “Macchia di S. Ercolano”. Dal censimento operato dal cardinale Anglic Grimoard dè 38


Grisac, risulta che “Castrum Ripe Massane, situm in quodam monte, in quo est fortalitium, in quo castro sunt focularia VI”. Il riferimento al Castello di Ripa sulla sommità è preciso al pari dello schizzo di don Silvio Bellini parroco di S: Colomba (1580) e non può riferirsi all’attuale Ripamassana con le abitazioni del borgo raccolte a fianco della chiesa di S. Ercolano, a metà dell’ erta che sale al monte dove c’era il “fortalitium”. E’ tuttavia logico supporre che negli anni della sua fatiscenza, prima di essere totalmente abbandonato, le suppellettili della “Capella” con la stessa icona o urna di S. Angelo siano state trasportate nella chiesa di S. Ercolano, e i beni e il suo territorio accorpati alla stessa parrocchia. Questo periodo si può collocare, stando all’annotazione dell’Alberelli, al 27 febbraio 1558, data di un atto notarile in cui si riporta la registrazione dell’acquisto da parte di un tale Andrea Gini, di un appezzamento di terreno in “Curte Ripe Masane in Capella S. Angeli aut S. Herculani” Lo schizzo di don Silvio Bellini ci mostra inoltre, entro il murato, in primo piano, svettante su tutte le costruzioni la presenza di un campanile, quindi l’esistenza di una cappella e di un luogo di sepoltura; le cui ossa sono state raccolte dai proprietari della nuova edicola e, poste in un avello interrato antistante ad essa. Questa piccola cappella è stata eretta, come si legge nella lapide al suo interno, nel 1949 da Uguccioni Nazzareno qual dono alla Madonna Dolorosa per grazia ricevuta; si regge sulla croce di due muri maestri del diruto castello (Castrum Ripe) ora completamente sepolto da folta vegetazione. Il censimento della Cardinale Anglic viene effettuato nel 1371, è un periodo in cui, da recenti studi demografici, la popolazione della penisola era risalita sugli otto milioni di abitanti come al tempo dell’impero romano; era discesa a quattro milioni nel periodo delle invasioni barbariche dal 700 d.C. al mille. Questi sono gli altri dati del censimento relativi alla nostra zona: Tavoleto trenta fuochi, Montefiore (capoluogo di queste zone) 39


160, Saludecio 140, Montescudo 120, Mondaino 114, Gemmano 100, Monte Colombo 42, Monte Gridolfo 37, Auditore 21, Piandicastello e Inferno 20. In tutto il territorio riminese i fuochi censiti erano 5.505 che potevano corrispondere a 30-35 mila abitanti.

Gruppo delle canterine parrocchiali. In alto Filippina Baldini, da sinistra Silvana Urbinati, Eufemia Baldini, Eugenia Forlani, Anna Santi, Rosina Ronci, Giannina Paolucci, Ines Mazzoli, Norma Paolucci e Rosina Angelini. sullo sfondo Casa Ferri al castello di Ripamassana. (foto del Conte Filippo Petrangolini)

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CHIESA DI SANTA MARIA DEL SOLE ALLA CELLA Si ha da costante tradizione, non solo, ma da alcune memorie che lo scrittore ricorda di aver lette nell’archivio parrocchiale di Tavoleto in cui esistevano, che la Cella fino da remoti tempi abbia esistito, e che fosse chiamata col nome di Cella, perchè ivi eravi anche prima un piccolo Oratorio, o celletta, ed ivi presso si aveva abbitazione una pia donna come altrove si è ricordato. Questo luogo parea fosse della Parrocchia di San Lorenzo Martire, ossia della Pieve, posto tra il Paese e l’altra Parrocchia di Santa Maria in Conca. Fu nell’anno 1483 che come già si è narrato cadde la Chiesa Parrocchiale di S. Maria in Conca già sospesa ed inofficiata fin da anni avanti, ed i parrocchiani di detta Chiesa si riconobbero impotenti di rieddificare la Chiesa e casa al Parroco loro, per cui invitati dalla suddetta pia donna, che prese compassione di loro a concorrere a prestarle aiuto nell’ingrandimento della Chiesetta onde renderla capace di contenere quella popolazione. Questa zelantissima Benefattrice per testimonianza coi fatti quanto grande fosse la sua devozione alla Madonna del Sole gli donò, e costituì in dote la propria casa di abbitazione annessa alla Chiesa con tutti i mobili e tutti i terreni che aveva d’intorno. Nell’anno 1487 prima si leggeva in un’epigrafe marmorea che si trovava sopra la porta della Chiesa Cella, venuta a meno per opera dell’Arciprete don Gaspare Bajocchi circa il 1780 quando riedificò la sua facciata Chiesa: In detto anno 1487 la pia benefattrice facea pubblica e solenne donazione della Chiesa, casa, mobili e terreni ai Reverendi PP dei servi di Maria da lei procurati, che ne assumevano reale e materiale possesso. 41


Questi formarono fino d’allora una famiglia religiosa che si stabilì in detto luogo. Incominciarono tosto ad ufficiare la Chiesa, che venne nominata come oggi similmente della Madonna del Sole alla Cella, pascolarono il gregge della distrutta Parrocchia di S. Maria, amministrandogli i Sacramenti proferiti dalla divina parola, istruendogli nelle cose di Dio a salvamento delle proprie anime, il tutto, come se fosse ancora il Parroco. Questi Religiosi poscia si impegnarono a migliorare le condizioni del luogo, poiché alla loro casa diedero forma di Convento costruendo un corridore nell’interno, ed un portico all’esterno, e per tali lavori vi concorse l’obulo caritativo del popolo di Santa Maria. Non basta, procurarono di accrescere la dotazione, e vi riuscirono acquistando quà e là dei terreni spezzati. La Chiesa di S. Maria del Sole alla Cella, dopo le modificazioni fatte nel 1487, fino al 1780, era di figura bislunga, aveva tre altari. Il maggiore di facciata nell’interno della Chiesa era dedicato alla B. V. del Sole. Alla sinistra trovavasi l’altare del Rosario, alla destra quello dei Ss Antonio Abate e di Sebastiano. L’altare del Rosario apparteneva alla Compagnia annessa e l’altro dei tre santi era di proprietà della Comune, in cui facea celebrare gli uffici di S. Antonio, S. Sebastiano, e S. Rocco a proprie spese. Nel 1487 la Comune concorse nell’ingrandimento che si fece della chiesa per la ragione di Questo altare. Dal 1780, al 1875, cioè dopo le modificazioni fatte alla Chiesa dal Parroco Bajocchi, questa non aveva più l’altare del Comune. Circa il 1807 fu trasportato alla Chiesa plebale di Tavoleto, e la Chiesa Cella diminuita di lunghezza, come accennato sopra, conteneva due soli altari: cioè quello della Madonna del Sole nel cappellone, e quello del S. Rosario a muro del lato Sinistro. Venuto parroco l’Arciprete Palazzi, questi nel 1838, eresse dove era l’altare comunale, un nuovo altare al S. mo Crocifisso simulacro preziosissimo e prodigioso che si conservava ad un muro interno della 42


Chiesa Matrice. Questa chiesa della B. V. del Sole alla Cella è stata fin dalle Fondamenta atterrata, e distrutta nel 1874 e tosto riedificata al lato opposto, cioè dall’Est all’Ovest, e nello sorso anno 1875, era

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quasi totalmente compiuta (a) La devozione alla B, V. del Sole dei fedeli della Parrocchia a cui associavasi un sussidio di lire 150 dato dal Municipio, la generosità dell’immortale e S. Pontefice Pio IX° che magnanimamente concorse con £ 1450, supplicato dal Parroco di Tavoleto, la cui supplica venne efficacemente presentata dall’Ill.mo, ed Emin.mo Sig. Commendatore Vincenzo Sartori chirurgo di Sua Santità e dal medesimo raccomandata, per gli uffici ricevuti da Ubaldo Ceccaroli parente al Sartori medesimo. L’offerta di £ 2.240 fatta dai signori coniugi Petrangolini Avv. Ferdinando e Rosa Michelini vedova Falaschi; il concorso delle Compagnie unite furono i mezzi che si adoperarono per sostenere le spese della fabbrica, che a tutto il presente giorno 15 agosto, ascendono ad oltre £ 5.000. Lode si renda ai magnanimi, e la divina provvidenza concorra al totale compimento di questa magnifica fabbrica. (a) alle ore 9 antimeridiane del 16-7mbre 1874 fu posta solennemente la prima pietra questa Chiesa, e il 30-8bre 1875 la Chiesa era sul suo compimento. Il disegno e l’assunzione di tale lavoro è stato di Capo muratore Domenico Giampaoli di Peglio di Urbania. Note di Luigi Signorotti La statua di Francesco Falaschi all’ingresso del Comune. Alla morte di Francesco Falaschi 1872, non era stata ancora ultimata la nuova cella, (vedi foto a pag. 105) quella che la mia generazione ha sempre conosciuto. Quindi la statua in marmo bianco che lo raffigura era posta in una nicchia subito dopo l’ingresso della precedente Cella. Nel 1875, ultimata la nuova Cella, la vedova e il neomarito On. Avv. Ferdinando Petrangolini chiedono ed ottengono di erigere un monumento al suo interno, per collocarvi il mezzo busto del 44


Falaschi. La loro offerta di £ 2.240 è oltremodo gradita dal parroco Francesco Todrani che deve coprire una spesa di £ 5.000. La Cella con la sua canonica ha costituito per circa un secolo la dimora dei parroci. Era rimasta illesa durante il passaggio del fronte (settembre 1944), ma abbandonata negli anni ‘60, nel 1965 crollò insieme alla canonica. I pochi arredi sacri: altari, candelabri, il pulpito, le panche con i nomi delle famiglie, e il monumento di Falaschi finirono sotto le macerie. Tutta l’area fu acquistata dal comune. L’amministrazione comunale ha recuperato il piedistallo di marMezzobusto in marmo raffigurante Francesco Falaschi.

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mo e la colonna che sorreggeva il semibusto, e sul campo della rimembranza ha ricavato un cippo quale sacrario per i caduti in guerra. Indi recuperati il busto e in seguito la testa, si è ricomposta la statua come da foto (pag. 45). Incisioni sulle quattro marmette poste ai lati del monumentino.

Note relative al “Campione” di Luigi Signorotti L’autore di queste memorie preciserà, più avanti di cosa trattava questo libro chiamato “Il Campione”, poiché è certo che l’abbia ripassato più volte e custodito gelosamente, perchè, oltre a ciò che lui ha scritto, conteneva anche statuti, bolle, regole, decreti, richiami all’obbedienza e sospensioni “a divinis” a preti non sempre in linea con le direttive degli organi superiori; e siccome 46


delle quali riteneva giusto e doveroso conservare il segreto, il nome di questi preti non sono trascritti nel suo libro, per rispetto a lui non lo faccio neanche io. In origine era usato qual libro-mastro atto a raccogliere le entrate e le uscite di ogni avere e così lo è stato fino a quando l’hanno tenuto i Frati Servi di Maria alla Cella. E ora ecco ritrascritte le sue prime pagine. In nome della B. V. MARIA. d. SOLE Il convento di S. Maria del Sole del Tavoleto vicariato di Urbino et, Dioc. di Rimino è antico di150 anni ine adietro, circa l’anno1560 (così come da nota a fianco), secondo ch’io F.(rate) Gio: B.sta vidoi in una carta memoria da me ritrovata in d.to Convento quando io ne venni Priore, la qual diceva che essendo venuto a predicare al Tavoleto un F.te Todesco detto il Caramagna; egli essendo di buone idee, di buoni costumi et di santa vita, vedendo essere in d.to luogo una Beata Vergine Maria, cella dove era depinta l’Imagine dipinto su tela attrubuito della B. V. molto bella che facealla scuola di Urbino, sec. XV va molte gratie, la quale è q.ta che al presente si rittrova nella Chiesa di d.to Convento dalla parte sinistra sopra l’altare di S. Rocco, et finito di predicare si fermò al d.to Castello del Tavoleto e gli fu donata d.Cella dal Padrone di essa con un puoco di terra contigua per fare un orto ch’era della famiglia di Santini de Ciulli dal Teritorio di d. Castello del Tavoleto, qual P.(adre) col suo predicare, et buoni essempii cominciò con l’elemosine 47


de fedeli Christiani la Chiesa et un puoco di Convento et stette in esso un tempo con un compagno attendendo sempre a fabricare et augumentare il luogo, e da detta famiglia de Santini gli fu donata tutta quella terra che possedeva dietro la d. Cella. Il

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quale Convento dopo che fu principiato è sempre stato posseduto dalla Religione de Servi, standovi quando un frate, et quando dui, sino all’anno 1586, nel qual anno la d. Chiesa et Convento cominciò a ruinare et io F.(rate) Giovanbatt.a fui perciò mandato dalli PP: Superiori a ristaurarlo, sicome ho fatto e vi fui mandato e tenuto per Priore, et ho restaurata la detta Chiesa, e fattovi la Capella dell’Altare maggiore con la sacristia, e con tutti li paramenti necessarij, et masaritie del Convento, et altri bonificamenti come qui sotto apparerà. Questo Convento di S.ta Maria del Sole possede 3 tornature di terra in corte del Tavoleto, e Capella di S.ta Maria app.so di d. Convento, la strada pubblica et li beni dell’Ospetale del Tavoleto. Nelle pagine successive “il Campione” annota compere di pezze di terreni e di donazioni, tant’è che il patrimonio di questo convento si estende in ogni direzione. Sono citati luoghi che a tutt’oggi, nonostante la toponomastica sia cambiata, i vecchi paesani chiamano con il nome d’origine; l’attuale Via Barricate erano i “Muricci” come dicono ancora i più vecchi. - et possede in detta Corte, Cap.a Fondo del Muriccio Tor.e 4 di terra lavor.a comprate da me, ed altre 3 Tor.re lasciate a detto Convento dalla Perina già di Michelone da detto luogo appr.so li beni di Antonio Fabbri et di Ottavio di med.mo Marco sartoreVia fratelli Rosselli con i terreni fino in via Bernardino Santi facevano parte del “Campo della Madonna”, così come li ha sempre chiamati Emilio Magi (1916-2004) prodigiosa memoria storica di questo paese. Questi aveva memoria anche della celletta dedicata alla B. V. del Sole che si trovava davanti alla casa di Eugenio Rossi (detto Bulli); dopo la sua scomparsa, l’area su cui sorgeva si coltivò ad orto e veniva assegnata gratuitamente ad una famiglia bisognosa; di lì si dipartiva una strada che raggiungeva Ca’ Gingione. Si ritrovano cognomi come “Ciulli”, oggi abbiamo una località 49


e una via a titolo “Cal Ciullo”; la famiglia Gingioni del Tavoleto è nominata nella scrittura che fa riferimento a terreni acquistati da questo convento, si tratta di vari pezzi di terra confinanti con la strada “Laurentina”. Le donazioni arrivano anche da località fuori dai confini parrocchiali :- Due Tornature di terra lasciate da Madalena moglie di ser Bartolo da Sascorbara et acquistata da me F.Gio. Batta come appare nel suo ultimo testamento sotto rogito di ser Quirino Commandino da Sascorbara -: Queste trascrizioni, curate tutte dallo stesso priore, non riportano mai la data, ma a fianco, in margine alla stessa pagina appaiono note postume di diversa grafia e con inchiostro molto delebile e per buona parte illeggibile; è interessante quella in margine alla pagina 4 per la data: 1673. In questo tempo reggeva la Parrocchia don Pietro Piastra, poiché i frati servi di Maria, in obbedienza alla Bolla del Papa Innocenzo X che decretava l’abolizione delle conventicole, erano partiti e, l’anno prima era morto don Carlo Rossi nominato dal Comune quale “Rettore”di tutti i beni della Madonna del Sole alla Cella. La nota fa riferimento ad un lascito di una tornatura di terra trista nel fondo di Fontanello che in quel tempo viene permutata. Questa nota sbrigativa e in parte approssimativa denota che la cura de “il Campione” ha perso la tempestività e l’esattezza nella trascrizioni di ogni singolo suo atto. Questo libro, che resta l’unica fonte scritta, cita Santino de Ciulli, come primo donatore, e dell’oratorio e dei primi terreni circostanti. Non è invece menzionata, almeno nelle pagine leggibili, la pia donna, che, secondo gli scritti del Ceccaroli e supportati da una radicata tradizione orale risulterebbe essere la prima donatrice, e della sua abitazione, e della Cappella, e di tutti i suoi terreni. Ero ancora un bambino, quando sono venuto a conoscenza della storia di questa pia donna, poiché l’argomento ritornava spesso nei racconti di Emilio Magi, quando veniva 50


“a veglia” dai miei nonni. Questi abitava in una casa accanto a quella che, a quei tempi era di lei, ed era comunicante alle sue due stanze con un corridoio interno. Conoscevo molto bene quella casa, che in quegli anni, 1943-44, era abitata dalla nonna di un mio inseparabile amichetto, era molto anziana, devotissima: Loberti Benelli Erminia Tavoleto, Loc. Ca’ Caggiata, (PS) era abbonata a Famiglia Cristiana, e mi pare di ricordare che su quel giornaletto di soli due fogli ci fosse il prezzo di £ 1, ricordo inoltre che asseriva che a suo marito si rivolgeva col ”voi” in segno di rispetto. Emilio raccontava che in quelle due stanze, in tempo antico, aveva abitato “una santa che custodiva i vecchi soli al mondo” e, che l’Erminia pregava questa “pia donna” perchè se la sentiva presente in quella casa. Questa casa non ha mai subito ristrutturazioni, le stanze molto piccole sono ancora nella forma e col materiale di allora, il fondo sottostante, conduce ad un piccolo forno interno; era diviso con staccionate in tre scompartimenti, per ospitare separatamente il maiale, gli agnelli e i conigli. I terreni circostanti sono stati chiamati per lungo tempo “Campo della Madonna”. Ora hanno subito l’urbanizzazione e riportano i nomi di Via F.lli Rosselli, Via Bernardino Santi, Via Giordano Bruno. Ritorniamo al libro “Memorie sul Tavoleto” Le cose procedevano con soddisfazione generale, ma era nella volontà di Dio che questo contento non dovesse perdurare sempre e per altri secoli. Sono imperscrutabili, ma giustissimi i Divini Decreti, veneriamoli! Viene la Bolla del Papa Innocenzo X° che comincia “Instaurandum” Questa sopprime tutti i piccoli Conventi, quindi colpisce questo della Cella. I Servi di Maria sono richiamati, devono par51


tire, e partono il giorno 10 di Dicembre 1652, circa anni 165 dopo il loro possesso. Comparve tosto un’altra Bolla Pontificia colla quale, ai Religiosi partiti veniva surrogato un sacerdote secolare col nome di Rettore, che vi prese l’ufficiatura della Chiesa come per tutto il resto di uso spirituale del popolo. La nomina del Rettore, e l’amministrazione dei Beni veniva concessa, devoluta alla Comunità di Tavoleto, come meglio alla Bolla stessa “Applicamus, et applicata, ac concedimus bona illius iisdem et Locis, ubi siti sit Conventus. In detta Bolla si dichiarava che il beneficio era semplice. La carica di primo, e che fu anche l’ultimo Rettore venne conferita al Sacerdote Secolare Carlo Rossi in cui durò per circa due lustri. Questi era in continua lotta di funzioni e di discordia coll’Arciprete di S. Lorenzo. Una delle cause moventi sembrava, perchè il Rettore opinava di non avere alcuna dipendenza dal Parroco. E’ un fatto che nei giorni festivi, mentre si celebravano i divini uffici nella Pieve di San Lorenzo, anche il Rettore faceva altrettanto nella sua Chiesa di S. Maria del Sole alla Cella, pareva che uno non potesse fare le funzioni se non nel punto in cui le faceva l’altro. E questo scandaloso procedere dei due preti contendenti causava nei popoli mormorazioni, inquietezza, e quello che è peggio un danno notevole spirituale, perchè chi assisteva ad una Chiesa, non poteva trovarsi nell’altra alle preghiere comuni, e alle pubbliche funzioni. Ma ecco l’autorità ecclesiastica che vi concorre a porre fine a questo disordine. L’Eminentissimo Marco Galli, Cardinale di Santa Chiesa, Vescovo di Rimini, Patrizio comasco, venuto in detto Vescovado nel 1659, morto in detta città nel 1683, in occasione di sua visita a Tavoleto, interposta la sua autorità con decreto in forma di Bolla del 18 Maggio 1681, che “ad literam” (sic) trascrivo:

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DECRETUM IN FORMA BULLAE

DECRETO IN FORMA DI BOLLA

MARCUS GALLUS DEI, ET APOSTOLICAE SEDIS GRATIA EPISCOPUS ARIMINENSIS

MARCO GALLO PER GRAZIA DI DIO, E DELLA SEDE APOSTOLICA VESCOVO DI RIMINI

CUM IN VISITATIONE ECCLESIAE PLEBATAE S. LAURENTII TABULETI NOSTRA DIOCESIS PER NOS HABITA COMPERIMUS INTER CETERA PARROCCHIALEM IPSAM ADEO EXIGUOS FRUCTOS HABERE ET EX EIS PARROCUS PRO TEMPORE MINIME COMODE SUBSTENTARI POSSIT VOLENTES PROPTEREA PRO MUNERE NOSTRO QUANTUM POSSUMUS FRUCTUS DICTAE ECCLESIAE PLEBATAE ALIQUORUM AUGERE, ET IPSE COMODIUS VIVERE, ET CAPPELLANUM, AC CLERICUM PRO MAJORI DIVINO CULTU FACILIORI ECCLESIATICORUM ET ANIMARUM CURA ADMINISTRATIONE (UT PER NECESSE EXTIMAVIMUS) RETINERI VALEAT QUEM AD MODUM A SAC. CAN. ET A SAC. CONCIL. TRIDENTINO TRADITUM EST. IDEO TAM AUCTORITATE DICTI SAC. CON. TRIDENT. QUAM NOSTRA ORDINARIA, ET ALIAS MELIORI MODO

POICHÉ NELLA VISITA DELLA CHIESA PLEBALE DI S. LORENZO DI TAVOLETO DELLA NOSTRA DIOCESI DA NOI EFFETTUATA COMPRENDEMMO FRA L’ALTRO CHE LA STESSA CHIESA PARROCCHIALE HA ESIGUI FRUTTI, E CHE DA ESSI IL PARROCO PRO TEMPORE POSSA SOSTENERSI SENZA ALCUNA COMODITA’, VOLENDO PERCIO’ AUMENTARE UN POCO PER QUANTO POSSIAMO I FRUTTI DI DETTA CHIESA PLEBALE, E CHE EGLI STESSO VIVA PIÙ COMODAMENTE, E CHE IL CAPPELLANO E IL CHIERICO, PER UN MAGGIOR CULTO DIVINO, PIÙ FACILE DEI RELIGIOSI, E NELLA CURA E NELL’AMMINISTRAZIONE DELLE ANIME (COME STIMAMMO ESTREMAMENTE NECESSARIO) POSSA TRATTENERE COME DAL DIRITTO CANONICO E DAL SACRO CONCILIO DI TRENTO E’ STATO TRAMANDATO. PERCIO’, SIA PER AUTORITA’ DEL DETTO SACRO CONCILIO TRIDENTINO, SIA PER QUELLA

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INTERVENIENTIBUS QUIBUSCUMQUE SOLEMNITATIBUS TAM IURIS QUAM FACTI ET EXTRINSECUS IN SIMILIBUS REQUISITIS EIDEM PARROCCHIALI PLEBATAE UNIVIMUS ET APPLICAVIMUS AC UNIMUS ET APPLICAMUS BENEFICIUM SIMPLEX ET ECCLESIA BEATAE MARIAE VIRGINIS A SOLE DICTI LOCO CUM SUIS IURIBUS ET PERTINTIIS TAM SPIRITUALIBUS QUAM TEMPORALIBUS QUOD NUNC TENETUR ET POSSIDETUR A REVERENDO DON CAROLO RUBEO SINE TANTUM PRAEGIUDICIO DICTI POSSESSORIS ET SINE DIVINIUM DIMINUTIONE: IMO CUM EXPRESSA CONDITIONE QUOD IN EADEM ECCLESIA ET SUIS AEDIBUS ARCHIPRESBITER SANCTI LAURENTII TENEAT MANUTENERE CAPPELLANUM QUI ADIMPLERE DEBEAT ONERA MISSAE EIUSDEM ECCLESIA BEATAE MARIA VIRGINIS ET PRO COMODITATE ET DEVOTIONE POPULI CELEBRARE IN EIUS ALTARE SINGULIS DIEBUS DOMINICIS ET FESTIVIS. COMITTENTES PRAETEREA IN VIRTUTE SANCTAE UBIDIENTIAE ET SUB EXCUMUNICATIONIS POENA QUIBUSLIBET CLERICIS

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NOSTRA ORDINARIA, SIA PER LE ALTRE PER UN MIGLIOR MODO AI PARTECIPANTI A QUALSIASI NECESSITA’, SIA DI DIRITTO CHE DI FATTO, E ESTRINSECO IN CASI SIMILI, ALLA STESSA PARROCCHIALE PLEBALE UNIMMO E APPLICAMMO, E APPLICHIAMO IL BENEFICIO SEMPLICE E LA CHIESA DI S. MARIA DEL SOLE DI DETTO LUOGO CON I SUOI DIRITTI, E PERTINENZE SIA SPIRITUALI CHE TEMPORALI, CHE ORA SONO TENUTE E POSSEDUTE DAL REVERENDO SIGNOR CARLO ROSSI SENZA ALCUN PREGIUDIZIO DEL DETTO POSSESSORE E SENZA DIMINUZIONE DELLE FUNZIONI RELIGIOSE. PARIMENTI CON ESPRESSA CONDIZIONE, CHE NELLA STESSA CHIESA E SUE CASE L’ARCIPRETE DI S. LORENZO SIA TENUTO A MANTENERE IL CAPPELLANO, CHE DEBBA ADEMPIERE ALLA S. MESSA DELLA STESSA CHIESA DELLA BEATA MARIA VERGINE, E PER COMODITA’ E DEVOZIONE DEL POPOLO DEBBA CELEBRARE SUL SUO ALTARE IN OGNI GIORNO, DOMENICALE E FESTIVO. ORDINIAMO INOLTRE IN VIRTU’ DELLA SANTA OBBEDIENZA E SOTTO PENA DI


CIVITATIS ET DIOCESIS IN SOLIDUM QUAETENUS AC OMNEM DICTI ARCIPRESBITERATUS REQUISITIONEM DEBEAT EUN NOMINEE SUO ET SUORUM SUCCESSORUM IMPONERE ET INDUCERE IN ET AD CORPORALEM, REALEM ET ACTUALEM POSSESSIONEM ET TENUTAM DICTAE ECCLESIAE BEATAE MARIAE VIRGINIS A SOLE IURIUMQUE ET PERTINENTIARUM EIUSDEM INDUCTUM MANUTENENDO ET DEFENDENDO A MOTO EX INDE QUOLIBET ALIO DETENTORE QUEM ET NOS PER PRESENTES AMOTUM DECERNIMUS ET DECLARAMUS. IN QUORUM FIDEM HAS PRESENTES IN FORMA BULLAE EXSTENSAE EDIRE NOSTROQUE SOLITO SIGNO QUO IN TALIS UTIMUR MUNIRI IUSSIMUS. Datum Tabuleti die 18 Maji 1681

SCOMUNICA CHE A QUALUNQUE CHIERICO DELLA CITTA’ E DELLA DIOCESI IN SOLIDO FINO ALLA COMPLETA REQUISIZIONE DEL DETTO ARCIPRESBITERATO DEBBANO DI SUO NOME, E DEI SUOI SUCCESSORI IN DETTA CHIESA PLEBALE O PROCURATORE SUO IMPORRE E INDURRE IN E ALLA CORPORALE, REALE E ATTUALE POSSESSO, E TENUTA DELLA DETTA CHIESA DELLA BEATA VERGINE DEL SOLE, DEI DEBITI, E DELLE PERTINENZE DELLA STESSA MANTENENDO L’INDOTTO E DIFENDENDO DAL CAMBIAMENTO DA QUALSIASI ALTRO DETENTORE CHE A NOI ATTRAVERSO I PRESENTI STABILIAMO, E DICHIARIAMO RIMOSSO. IN FEDE DEI QUALI QUESTE PRESENTI STESE IN FORMA DI BOLLA EMETTIAMO E CON IL NOSTRO SOLITO SIGILLO, DI CUI IN TALI CASI CI SERVIAMO ORDINIAMO DI MUNIRE.

Fir. Tus = Marcus Episcopus Arimini

Dato a Tavoleto il giorno 18 maggio 1681

Loco + Sigilli = Fir. tus Seraphinus Antonelli secretarius

Firmato Marco Vescovo di Rimini Luogo del sigillo firmato Serafino Antonelli segretario

Nota: la traduzione in lingua italiana è del Prof. Angelo Chiaretti 55


Con questo decreto l’eminentissimo Marco Gallo tolse al Comune il diritto di nominare il Rettore ed amministrare i beni, tollerò in carica, vita durante, il rettore Rossi, applicò a favore della Pieve di S. Lorenzo Chiesa, casa, mobili, e terreni della B. V. del Sole, così venne arricchito il patrimonio parrocchiale, talchè da quel decreto ne derivarono i suddetti capitoli, che fecero aggiunta ai possedimenti che erano derivati dalla Parrocchia di S. Maria in Conca, oltre a quelli antichi di S. Lorenzo, le decime a grano di staia riminesi fissi N° 25 di libbre 400 l’uno, e così grano libbre 10.000, e la decima del lino per riscosso. Veniva però il Parroco pro tempore di Tavoleto esonerato di pagare annualmente a titolo di mensa vescovile grano di staia sette e mezzo per libbre 3.000, e una regalia in denaro per titolo di cattedratica in Roma libbre 2,80. Così del pari è obbligato strettamente di mantenere un capellano officiante la Chiesa della Madonna del Sole che giusto il costume di quei tempi, e la consuetudine doveva in tutte le domeniche e feste celebrare la S. messa ad un’ora di sole; ed inoltre un chierico per il servizio di Chiesa e sacristia. E qui lo scrittore di queste memorie crede di lasciare al giudizio dei saggi uomini, se quell’Inprelato, cioè quel Principe di Santa Chiesa era in diritto ed aveva autorità tanta, che bastasse a distruggere una Bolla Pontificia, privando per sempre la Comunità di Tavoleto della nomina del Rettore, e dell’amministrazione dei beni della B. V. del Sole che servivano al mantenimento del sacerdote ufficiatore ammesso per causa unica procuratrice tale da deliberare le provocazioni che avevano luogo fra l’Arciprete ed il Rettore, anzi di questi le continue discrepanze, di funzioni, di urti. Contro note del trascrittore Luigi Signorotti Caro Ubaldo, la tua voce è uscita dal deserto e ci è giunta come un urlo soffocato, perchè tenuto in gola da troppo tempo e ora 56


reso libero per gridare contro questa grande ingiustizia che si abbatte sulla tua comunità. Hai raccontato con meticolosa documentazione i nefasti effetti di quel decreto. Non hai potuto precisare come di dovuto le cause, perchè l’emancipazione del popolo ha avuto bisogno di un più lungo tempo per la sua realizzazione. A quell’ “Inprelato” (sic) da dove gli era derivato il “potere” di tassare questa povera parrocchia di montagna? A coloro che l’hanno informato di questa situazione anomala (secondo la tradizione), ha voluto fare intendere che sarebbe stato più redditizio per loro e per la comunità, se avessero accettato e tollerato i fatti che riguardavano i preti e gli arcipreti. Salendo in carrozza, da Rimini a Tavoleto, a fianco del suo segretario, prendendosi beffe di quei poveracci senza scarpe e pochi stracci, conoscendo il contenuto della “Bolla” da essi confezionata, poteva ben dire che il viaggio era già pagato da chi lo aveva richiesto. Va spiegato che i beni, dopo il crollo della chiesa di Santa Maria del Conca, erano passati in “comodato” ai frati della cella e da questi al comune in seguito ad una bolla papale con la quale il comune era tenuto a nominare un prete col titolo di rettore per i servizi religiosi ed amministrativi. Questo rettore non era tenuto a versare decime sul riscosso e altre gabelle come imponevano le diocesi ai parroci di loro nomina. Ti sei chiesto con quale diritto; ma l’”Autorità tanta” di imporre direttive se l’era data da solo, perchè altri suoi pari agivano allo stesso modo; era derivata dalla tradizione, secondo il cui costume a una persona colta, a un uomo di legge e, ancor più a un “Principe di Santa Chiesa” era attribuito questa facoltà che il popolo ratificava adempiendo gli “ordini superiori” supinamente e chinando il capo. La quantità di grano e la decima sul riscosso del lino che ogni 57


parrocchia doveva versare alla diocesi, o meglio al vescovo, era eccessiva, anche dopo la decurtazione operata all’arrivo del nuovo parroco. Questo Marco Gallo vescovo di Rimini era un esperto nell’arte del profitto, la sua scaltrezza è rivelata nell’obbligare la parrocchia a devolvere una somma, a titolo di regalia, anche a favore della “cattedra” di Roma. Favore che gli poteva tornare utile. La causa fondamentale che ha permesso e tollerato per secoli questi soprusi o abusi di potere su gran parte della popolazione e su tutto il popolo minuto, è da rilevare sull’alta percentuale degli analfabeti che, a quei tempi, nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie, era calcolata su livelli superiori al 90 %. Il fatto era causato dalle condizioni sociali di una popolazione rurale costretta al largo impiego della mano d’opera minorile, con un atteggiamento acquiescente dell’Autorità costituita, a cui conveniva che questa società rurale non avesse a differenziarsi emancipandosi. Chi nasceva contadino aveva un figlio contadino; il dottore, il notaio, il giureconsulto avevano figli che avrebbero da grandi assunto il posto dei padri. L’eccezione era data dai preti delle parrocchie di campagna, molti dei quali erano di estrazione contadina, ma molto difficilmente potevano percorrere i gradi superiori di una scala gerarchica riservata a chi aveva titoli nobiliari. La vita nelle nostre campagne si svolgeva in ambiti molto ristretti e circoscritti, riguardanti soprattutto interscambi di mano d’opera e matrimoni. Su questo solco, per secoli, la tradizione fedele a se stessa, ha percorso il suo lineare cammino identico per ogni anno dei vari calendari che annotavano oltre le stagioni e i mesi, anche giorni di mercato e di feste religiose per le poche gioie di queste genti. La loro esistenza era improntata ad una mentalità religiosa che ne condizionava tutti gli aspetti, e anche questa era una causa nel ritardare i tempi della loro emancipazione. 58


MIRACOLOSO RITROVAMENTO Miracoloso ritrovamento della prodigiosa Immagine di Maria SS.ma venerata sotto il titolo del Sole nella sua Chiesa alla Cella, che è soccorsale della Pieve di S. Lorenzo del Tavoleto, che a noi viene tramandato per costante tradizione, con aggiunta di notizie anche storiche. La Miracolosa Sacra Effigie di Maria Santissima del Sole ha in braccio il Divino Figliuolo pargoletto, che nella sua sinistra mano porta il mondo, e colla destra sta in atto di benedire. Sembra dipintura di stile greco. L’aspetto di questa Immagine è nobile, maestoso, toccante, ispira rispetto, venerazione, amore. Di chi fosse il penello che la pinse s’ignora. Avvi chi la ritenne opera di S. Luca, neanche si conosce l’epoca in cui fu dipinta, non è meraviglia, ma cosa ben naturale, che tanto la mano artistica del dipinto, come l’epoca di questa siano sempre rimaste nascoste, ammesso per fatto innelutabile, come non cade dubbio che questa immagine in tela fu trovata in rotolo fra un ceppo di ginestre sul vicino colle chiamato Monte del Sole, da un pastorello abbitante nella villa la Serra di questo luogo, che in un bel giorno pascolava i suoi armenti su quel colle che si elleva presso il confine con Montefiore. E di un fatto cotanto raguardevole e a dolere, perché i nostri maggiori antenati non abbiano negli Archivi, né altrove lasciata memoria, onde perpetuare l’evento fortunato fra posteri; o le memorie stesse siano perite, com’è molto possibile, nelle invasioni, e negli incendi di Tavoleto, ripetutamente avvenuti, poiché questa posizione fu sempre il teatro della guerra fra i signori di Romagna, e quelli di Umbria, e solo per tradizione passata da bocca in bocca, da secolo a secolo, via via, giunta fino a noi. E qui torna a bomba rimontare alla storia delle epoche dei primi 59


periodi dell’era nostra per istabilire la verità, cioè ai tempi orribili, all’epoca infausta degli Iconoclasti. Con piena convinzione, e positivo fondamento si argomenta che, appunto in quei lacrimevoli tempi luttuosi degli Iconoclasti, in cui Iddio disponeva e permetteva che le sacre Immagini del Signore, della Sua Divina Madre, e dei Santi del cielo prodigiosamente si sottrassero da quella sacrilega persecuzione, miracolosamente pellegrinassero, e pervenissero qua a salvamento, come paesi eminentemente cattolici, fu giunta fra noi la nostra B, Vergine del Sole. E la divina provvidenza che vigile la accompagnava, disponeva altresì che dette Sacre Immagini un modo, o nell’altro, si manifestassero e prodigassero grazie, e favori straordinari a quei fedeli che ad Esse facean ricorso, e ciò a giusto risarcimento di quel culto e venerazione niegata loro altrove. Dunque la nostra Madonna del Sole è una di quelle venuta dall’Oriente durante l’accennata persecuzione, la quale si posò, come si disse, fra le vermene di alcune ginestre sul colle del Sole, dove il pastorello della Serra la rinvenne, come fin dalle prime si è narrato. Con quanto giubilo il fortunato garzoncello avverasse in essa il rinvenuto Tesoro, è più facile immaginarlo, che descriverlo, e con quanta meraviglia, rispetto, e devozione non fosse accolta la sacra effigie della vergine in quella religiosa famiglia. Non è a dirsi. Ed ivi serrarsi intorno al gaudente pastorello, avvicendarne le domande, tosto rivolgersi alla Santa Immagine, stringerla al seno, coprirla di affettuosi baci, bagnarla di lacrime attestanti una estrema consolazione; questo, sì questo era l’intendimento, l’attitudine di quella pia famiglia. Quindi esporla in convenevole posto di quella rustica casa, accendergli lumi, alternare laudi tenere, e sincere espressioni, profumarla dagli odorosi aromi dell’orazione, fino a tarda sera, in cui tutti si diedero al conveniente riposo. 60


Nel mattino poco dopo l’aurora, la buona famiglia si leva, ma, oh Dio! Più non trova l’ospitata sacra Effigie, poscia cade affranta in cuore dalla più angosciosa amarezza, e si reputa indegna di possedere il prezioso tesoro. La ricerca la rinviene nel luogo del primo ritrovamento sul Monte del sole. Quivi ciascuno la saluta prostrato a terra, la prega del suo patrocinio. La fama si sparge fra vicini e lontani, e si ode lacrimare per ogni dove il prodigioso ritrovamento. E’ voce che i Montefioresi fossero i primi ad arrivare in devota processione sul monte del sole e trasportassero nella loro Pieve di S. Paolo la prodigiosa Immagine; ma la mattina seguente avesse ripreso il suo posto sul colle fortunato. Viene assicurato dalla Storia, e dagli atti di questo Archivio Parrocchiale, che Tavoleto era stato ripartito in due Parrocchie, ambedue fuori del murato, la maggiore sotto il titolo di S. Lorenzo Martire, e l’altra di Santa Maria in Conca, che i due parroci colla rispettiva popolazione si credettero in diritto di avere nella propria Parrocchiale Chiesa la prodigiosa Immagine: S. Lorenzo, perché Chiesa principale e plebale; Santa Maria, perchè nella sua cerchia si trovava Monte del Sole; ma pero venne deciso a favore della Matrice di S. Lorenzo, dove la Vergine sarebbe esposta ai pubblici omaggi e a singolare venerazione. Diffatti, Parrochi, Clero, e popolo muovono con devota solenne esultanza, in ordinata processione alla volta del Monte del Sole, ed ivi giunti si prostrano profondamente inchinati d’innanzi alla Vergine e la salutano: ”Ave Maria”. Quindi la supplicano ferventemente, perché voglia degnarsi di trasferirsi fra stabile dimora tra loro, e fin da quell’istante, a voto unanime la chiamano “Madonna del Sole” titolo desunto a ricordo del monte di sua manifestazione. Trionfalmente fra inni e cantici di laude, commiste alle lacrime di tenerezza, e consolazione, clero e popolo tavoletano si incamminano in processione. 61


Allora la Vergine Maria dava l’addio al fortunato Monte del Sole, e nel dividersi da quello il benedicea. L’ordinato stuolo dè fedeli passava per la Cella, e giunti i portatori dell’Immagine di Maria del Sole a questo piccolo Oratorio si arrestano, perché da incognita mano trattenuti. Romoreggiano voci diverse lungo la fila della processione…:- che cosa è stato? Quale inciampo?? Ma l’ostacolo continua, non si può fare un passo innanzi, una forza maggiore incognita e misteriosa li arresta, non vale sostituirvisi novelli portatori, perché anche per questi si rinovella l’impedimento. –Miracolo!, gridano,- miracolo!! Ciascun s’avvede, comprende e confessa che la taumaturga del Sole aveva scielto quel luogo per sua permanente dimora. Sull’unico altare di questa Chiesuola viene collocata l’Effigie, e qui è dove la Madre di Dio innalza il suo inno di misericordia, e a milliaia spande le sue grazie, i suoi segnalati favori, e i miracoli i più stupendi. E già i voti appesi a quelle interne pareti che la ornano, e le molte offerte che da ogni parte pervengono, sono testimoni parlanti di grazie ricevute. Intanto colla raccolta obblazioni, l’angusta Chiesetta si amplia un poco, e si presta ad accogliere il popolo che affluisce. E da allora, al giorno presente si è sempre conservata una singolare devozione, tanto in Tavoleto che altrove, a questa S. Immagine di Maria del Sole, ed un impegno ben grande di onorarla. E non solo a Tavoleto è viva e fervorosa la divozione alla Madonna del Sole, ma si è diffusa anche fuori dove si vuol propagato il culto. I parroci di Mulazzano, Diocesi di Rimini, Rossi don Domenico, oriundo di questa terra trasportò copia della S. Effigie, e la collocò sopra apposito altare nella sua Chiesa Parrocchiale, ed altrettanto fece nel 1784 don Gaspare Bajocchi qui Arciprete, poi parroco di Cerasolo nella stessa Diocesi. Cerasolo e Mulazzano venerano con energica divozione la B. V. del Sole., alla quale fanno ricorso in tutti i loro spirituali, e temporali bisogni con 62


prodigiosi successi, e ne solennizzano nel modo più splendido ogni anno una festa, la di cui spesa si sostiene con più lasciti e si sopperisce dal popolo grato verso la loro celeste Benefatrice. E qui lo scrittore per farla almeno da mediocre cronista, non passerà sotto silenzio un fatto che come torna a laude e gloria della Madre di Dio, restituisce un tratto di storia patria, e prova altresì dé tavoletani l’amore, la divozione, e il rispetto a questa loro potente avvocata che veglia su questo paese e lo protegge. Era di nostra salute l’anno 1797, e già le armi francesi sotto il comando del I° Napoleone, irrompendo per la bella Italia, ovunque assoggettavano regnanti e popolo al loro impero. Lo stesso Romano Pontefice, il Capo della Cattolica Cristianità, il Maestro infallibile della Chiesa di Cristo, il Vice Dio veniva, come ognuno sa, da quel autocrate cacciato dalla Città Eterna Capitale del Mondo, dalla bella Roma, Sede del Papa Re, e quindi vivea imprigionato, o in esilio. Le straniere galliche legioni procuravano il terrore, lo spavento delle tranquille contrade di terra nostra, e gli animi dei pacifici cittadini erano talmente concitati al nome solo di quella nazione, che si considerava al pari e nel conto, che oggi si ha dei popoli barbari del mondo dove la civilizzazione mai ha penetrato. Tale e non diversa era l’opinione di tutti questi popoli circonvicini, i quali si andavano ammutinando, armati di tutto punto, con in animo di resistere all’invasione Francese; facean capo al Tavoleto, principale Paese, e più ben munito dei Castelli, e Parrocchie che lo circondavano. Questo inesperto presidio, che niun idea aveva di truppa regolare che marcia convenientemente preceduta di materiali da guerra, e, altresì ignorava del tutto l’arte, la strategia militare, né prevedeva le conseguenze di un conflitto, (mai si arrese) e serrandosi dentro le mura del Paese, ivi attendea il nemico, che già marciava per assalirlo.

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La mattina era dell’ultimo giorno e dell’ultimo venerdì di marzo del 1797, quando il Generale Lamonier con un corpo di oltre 1000 soldati della Repubblica Francese si appressa a Tavoleto, dalle cui mura; e dalla Rocca contro di essi, parte una salve di palle al fragoroso rombo di moschetti, a cui le schiere galliche rispondono con uguale rintuono, e tosto alzano il vessillo bianco. Non comprendono i resistenti l’esser questo il segnale di pace, ma ripetono uno scoppio d’archibugiata. La milizia francese a fronte di tanta ostinata resistenza si spinge innanzi sventolando ancora il bianco segnale, e riscuote risposta simile alla prima, perdendo ogni volta buon numero di soldati al grandinar delle palle. Allora il Generale condottiero sfila avanti la cavalleria, che marcia minacciosa verso le mura: mentre i difensori interni, a tale vista, perduto ogni coraggio, dopo sì breve resistenza, si danno senz’ordine a precipitosa fuga, gridando: Chi può salvarsi, si salvi ,- e Tavoleto abbandonato rimase vittima innocente dell’altrui audacia. I francesi scalate le mura In un baleno invadono il Paese, e la Rocca, e quali fieri leoni scaricano il loro furore sopra ventidue terrazzani senz’armi, e parte infermi e mancanti di qualche senso, fra quali un sacerdote ceco ed allettato, che non si erano potuti sottrarre colla fuga, quali furono fatti morire a colpi di sciabola, a qualcuno anche in barbari modi, ad uno gli era stata carpita la lingua, Commisero anche profanazioni sacrileghe, e giunsero a tanta empietà che, tolte nella Chiesa Plebale dal Sacro Ciborio le sacrosante consacrate particole furono sparse sul cadavere ancora fumante del Diacono Santi di Tavoleto, caduto morto presso i portici di Piazza grande di mercato, allora Giuoco da pallone. Fatto da queste furenti truppe, delle cose migliori, saccomanno, misero a fuoco e a ruba l’interno fabbricato, i suoi Borghi compresa la Cella, ma rinvenuto nelle tasche di un cadavere dei ventidue una lettera scritta da Macerata Feltria dal Comandante 64


Marelli, nella quale assicurava tra breve il suo arrivo a Tavoleto con un nervo di truppa, furono invasi da timore di essere sorpresi e schiacciati, ciò fu sprone a tosto partire a marcia forzata, come fecero prestamente alla volta di Rimini. Intanto le fiamme distruttrici s’innalzavano al cielo commiste di globi di fumo, ed ogni cuore trepidava di terrore, mentre l’occhio vagava intorno, vi scorgeva che le truppe nemiche si allontanavano con velocità. Allora due piccoli possidenti di Tavoleto, (1) l’uno dimorante alla villa del Girone, e l’altro in quella di Calciullo, si accorsero che il nemico a marcia atterita si allontanava, sicché si rincorarono alquanto, e tosto al pensiero dell’uno, come dell’altro, quantunque divisi di personalità, e lontani di domicilio, ossia di dimora, si affacciò che nel generale incendio del paese e dei borghi fosse compresa la Chiesa della Cella, e stasse pericolante, se non più di tutto il preziosissimo Tesoro di quella Taumaturga. Sono qui presso questi due, in atto di esplorare, perché non bene sicuri se il nemico distruttore era completamente partito, giunti nel momento stesso, sebbene provenienti da opposta via, in faccia alla Chiesa della Cella. Ma, oh Dio che orrore! Chi può resistervi? Si guardano stupefatti, abbattuti, e manca loro la parola. (1) Piselli, sopracchiamato Carloccino del Girone e Ciulli, sopracchiamato Belancino di Calciullo.

Le appicate fiamme avean consunto di questa Chiesa, porte, finestre, altari, suppellettili, ed il fuoco sterminatore investiva il tetto, gli stessi travi mandavano fiamme. Ardea il Cappellone, ardea l’ornato della B. V. Immagine di Maria Madonna del Sole, e restando le fiamme attorno attorno rispettavano miracolosamente la tela del dipinto. I due spettatori stupefatti si guardano, si inspirano e si investono di quel sovrumano corraggio di cui il giovanetto Davide era ri65


pieno nell’abbattere il Gigante; e di questi due prodi, uno è l’intendimento, uno il desiderio, una l’impresa, ma questa, ahi! …è Ardua, spaventevole, pericolosa, perché il coperto del tempio grandina legni incendiati, tegole , pianelle, travi, quindi è impedito il primo passo; ma questi pietosi si guardano, s’incamminano, anzi si slanciano dentro, invocando l’aiuto di quella che appellano col dolce nome di madre ed avvocata, e giunti intrepidamente a quell’Altare, salgono le ammonticchiate ardenti materie, impalmano l’Immagine Taumaturga, la callano al seno, l’abbracciano, la stringono al cuore, e trionfanti al possesso di questo tesoro che tutto compensava i danni di tanta catastrofe s’inviano frettolosi verso la porta……. , ma oh Dio!....., uno scoppio di polvere zolfurea, con poca avvertenza, e molta balordaggine riposta sopra il soffitto del cappellone, a cui è già penetrata la fiamma del totale incendio, fa saltare in aria cappellone, volta, arcata con un rintronamento orribile. È un fatto innelutabile, confermato da essi, e da altri testimoni, e che ha lo scrittore sentito affermare varie volte, anche pubblicamente, che questi due campioni riavutisi dallo sbigottimento, dal terrore e dalla meraviglia, si trovarono fuori da ogni cimento, e pericolo, sani, e salvi circa venti passi lungi dal luogo della rovina, senza la più lieve fenditura, al possesso della loro Signora Vergine Madre Maria che avevan tra le mani. Oh prodigio inaudito! Oh miracolo Straordinario!... E come i tre fanciulli Babilonesi usciti incollomi dall’ardente fornace, così d’essi dalle cadenti macerie, e confessandone il prodigio, come quelli, ringraziavano e benedicevano il Signore, e così innalzavano ancora alla gran loro avvocata e protettrice Maria del Sole per l’ottenuto salvamento. E quanto questo fatto loro raccontavano, o sentivano raccontare si vedevano commossi sino alle lacrime. Grato il popolo di Tavoleto a questa gran Signora cercò sempre di onorarla nel modo il più conveniente e devoto, introducendo 66


sotto l’adorabile nome della Madonna del Sole pratiche di pietà. È già erretta una Confraternita canonicamente, che i Sommi Pontefici hanno arricchita di privilegi e d’indulgenze. Ogni anno si solennizza una festa alla Medesima che, innamovibilmente viene alla seconda domenica di Giugno, e con pompa straordinaria ogni terzo anno, premesso sempre un Devoto Triduo, parimente solenne nei tre giorni avanti la Domenica. Il tutto nel maggior Tempio di questa terra, dove la Sacra Immagine viene processionalmente trasportata, donde poi riparte in precessione il lunedì mattina immediato, per restituirsi alla sua Chiesa. La questua di diversi generi che si raccolgono annualmente in Tavoleto, e nelle Parrocchie circonvicine, (cioè: Auditore, Castelnuovo, Piandicastello, Torricella, Ripamassana, San Giovanni, Cerreto, Levola, di questa diocesi di Rimini; indi S. Silvestro, S. Maria in Foglia, Monte Calvo, Schieti, S. Barbara in Campitelli, Archidiocesi di Urbino), come si era soliti, in onore della Madonna del Sole, serviva a sostenere tutte le spese di culto, che occorrono in quel Santuario e per celebrare l’annuale festa, come il disposto, cioè oltre la tassa di centesimi trenta del confratello e di centesimi quindici della consorella, ascritti nella Compagnia della B. V. del Sole. Quindi giova sapere che ogni aggregato ha inoltre l’obbligo di un digiuno a pane ed acqua, o ogni anno in un giorno a sua scelta, recitare nel dì della festa una terza parte di Rosario pei fratelli e sorelle defunti. Conseguiva peraltro indulgenza plenaria confessato e comunicato, pregando secondo la mente dei Sommi Pontefici e visitando la Sacra Immagine di Maria del Sole dai primi Vesperi del giorno precedente la festa a tutta la seconda Domenica di Giugno, e dopo morto, l’ascritto è partecipe dei suffragi che ogni anno si fanno dalla Compagnia consistenti in messe numero venti-20.

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PREDICHE E SERMONI SONO IL SEME DELLE TRADIZIONI. Ubaldo Ceccaroli, dopo aver descritto il miracoloso ritrovamento della prodigiosa Immagine di Maria Santissima, si dichiara addolorato del fatto che i nostri antenati non abbiano lasciato documenti scritti o memorie su questo straordinario evento, pensa però che sia stato altrettanto plausibile ritenere che ci fossero stati, ma andati perduti per le ripetute battaglie, per le devastazioni e i conseguenti incendi patiti da Tavoleto a causa della sua posizione militarmente strategica. Allora, mi chiedo: come ha potuto la sua penna descrivere un racconto così coinvolgente e interessante, qual è “il ritrovamento” di quest’immagine della B. V. del Sole? Afferma di aver sposato la costante ed ininterrotta tradizione orale, di secoli in secoli, fino a noi. Nelle parrocchie di periferia e in quelle dell’entroterra, come nel caso di Tavoleto, il predicatore, quello la cui bravura aveva varcato i confini della diocesi, quando arrivava il suo turno di predica, procurava una mobilitazione collettiva che coinvolgeva anche i centri circostanti. Questi arrivava il giorno prima, aveva perciò modo di informarsi sul curriculum già noto del Santo o della Madonna, indi si scriveva la sua predica, “la provava” impersonandosi nella parte dei protagonisti e cercando di memorizzare le successioni degli avvenimenti. È sicuramente capitato che copie di queste prediche siano rimaste in sacrestia e finite in fondo ai suoi cassetti; si può anche pensare che il parroco le abbia riposte per suo uso. Allora è molto probabile che lo scrittore delle “Memorie sul Tavoleto”, essendo di casa in sacrestia, specie negli anni in cui è stato parroco don Marino Palazzi, cugino di sua madre Francesca Galuzzi, qualcuna di esse sia venuta in suo possesso e 68


l’abbia mandata a memoria, oppure l’abbia ascoltata con tanta attenzione e partecipazione, da poterla fedelmente trascrivere in queste pagine con le dovute pause, le ripetute esclamazioni ed invocazioni: Ah Dio !… Miracolo!... Miracolo!. Invocazioni che se pronunciate con fede, sono per il misero l’unica speranza. E, tutto ciò trova fondamento su quella che egli ha chiamato “la costante ed ininterrotta tradizione orale”. Nelle ricorrenze annue della festa della Madonna del Sole, il predicatore preposto, oltre a riproporre la storia con i soliti fatti, già noti e consolidati con tutti gli accadimenti miracolosi narrati nelle prediche degli anni precedenti, aggiungeva anche qualcosa di suo, e così, di anno in anno. Nel corso dei secoli il corredo della storia di questo suo ritrovamento e del suo trasporto si è arricchito di fatti oltremodo strabilianti, che l’enfasi, il calore, la vis dicendi hanno contribuito a radicarsi in modo duraturo nel solco in cui la tradizione aveva posto il suo seme. La predica, che faceva seguito alla Benedizione in Chiesa e alla processione, era il momento “clou” della festa. In quell’epoca, ma anche in tempi non molto remoti i bravi predicatori, (mi sovviene padre Lombardi), riempivano le chiese per serate di seguito, e la loro fama era pari a quella dei più noti e popolari personaggi della nazione. Non ricordo di aver ascoltato questo racconto in una rielaborazione perfettamente idonea per una predica da grande effetto, ma rileggendolo così, come proposto dal manoscritto del Ceccaroli, riesco a costruire il ritrovamento di quest’immagine di Madonna nascosta o abbandonata fra i cespugli delle ginestre di Monte del Sole; mi figuro i luoghi di allora, il sentiero che scorreva sul crinale, passava per la Serra e, toccando poveri casolari, proseguiva per la campagna verso Montefiore. La strada provinciale che ora fiancheggia il Monte del Sole è stata costruita alla fine del 69


1800; e nell’anno primo del ventesimo secolo, i tavoletani hanno eretto, nel luogo del suo ritrovamento, la celletta che la ricorda. Ora sul Monte del sole sono sorti grandi opifici e ville, allora era terra di confine tra i Signori di Rimini e quelli di Urbino. Su una carta geografica risalente al 1600 questo luogo di confine è chiamato Madonna del Sole. La casa di quel fortunato pastorello potrebbe essere una di quelle ancora esistenti in questa località, con le stesse pietre e infissi originali e nella stessa forma architettonica di allora. Rivivo l’eco di questi avvenimenti che si spande di famiglia in famiglia, da cascina a cascina, e oltrepassa i gualdi per raggiungere luoghi e gente sconosciuta; e infine, ho davanti agli occhi l’ordinata processione che si diparte dal Monte del Sole alla volta della chiesa plebale di S. Lorenzo sul colle omonimo. Ritorniamo a rileggerla insieme e, nell’immaginario, disponiamoci all’ascolto del predicatore:- Trionfalmente tra inni e cantici di laude, commiste alle lacrime di tenerezza, e consolazione, il commosso Clero e popolo Tavoletano, s’inviano in processione… L’ordinato stuolo di fedeli saliva per la Cella, e giunti i Portatori dell’Immagine di Maria del Sole a questo piccolo oratorio si arrestano, perché da incognita mano trattenuti. Romoreggiano voci diverse lungo la fila della Processione,“che cosa è stato, quale inciampo??” Ma l’ostacolo continua, non si può dare un passo innanzi; una forza maggiore incognita e misteriosa li arresta, né vale sostituirvisi novelli portatori, perché anche per questi si rinovella l’impedimento. “Miracolo! Gridano, Miracolo!!... Ciascun s’avvede che la Taumaturga del Sole aveva scielto quel luogo per sua permanente dimora. Da un lontano ricordo d’infanzia mi è presente un predicatore che salito sul pulpito (entrambe le chiese di Tavoleto erano cor70


redate di pulpito) prese ad arringare i convenuti con un crescendo d’accuse e minacce di pene dalle sofferenze atroci, ero seduto accanto alla nonna che per farsi coraggio mi stringeva forte a sé. Ho il ricordo inoltre di una predica alla chiesa della Casinella, a metà degli anni quaranta. Terminata la processione il predicatore era salito in piedi sopra un tavolo e nella mimica del padre del figliol prodigo che, nel tentativo di scorgere in lontananza il figlio di ritorno a casa, si contorceva da destra a sinistra e viceversa, nel momento della sua apparizione sullo sfondo di una scena lontana il predicatore imita una sortita da quel pulpito per correre ad abbracciare il figlio. “Eccolo, e lui, fatemi scendere, voglio essere il primo ad abbracciarlo!” Ricordo inoltre questo simpatico aneddoto che, ancora oggi, qualche paesano ama raccontare: Quella Domenica don Alberto spiegò il brano del vangelo e poi aggiunse qualcosa di suo con un calore che gli veniva da motivazioni molto sentite. Biagio, il contadino delle suore, che aveva condiviso quel tono accorato, lo attese sul sagrato per congratularsi con lui. << Don Alberto, che bel sermone che avete fatto>>. -Ma cosa ho detto che ti è piaciuto tanto?<<Che cosa avete detto non lo so, ma il sermone è stato bello un gran bel po’>>.

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PARROCI DI TAVOLETO DAL 1572 AD OGGI Nell’interno dell’ultima copertina de “il Campione” qualcuno (ma la stilografica è quella di don Alberto), ha avuto cura di elencare un indice di tutti i preti di questa parrocchia. 1572 - Alessandro Galeati 1613 - Giannantonio Galliati 1657 - Francesco Merli 1670 - Michele Antonini 1672 - Pietro Piastra 1696 - Matteo Marchetti 1726 - Jacopo Buda 1760 - Gaspare Bajocchi 1784 - Nicola Coscio 1789 - Pietro Galuzzi 1811 - Domenico Galli 1835 - Marino Palazzi 1844 - Mauro Amati 1847 - Giovanni Barbieri 1868 - Francesco Todrani 1904 - Paolo Bacchini 1929 - Primo Clari 1935 - Luigi Fabbri 1943 - Alberto Franchini 1987 - Alessandro Crescentini 1997 - Roberto Battaglia 2006 - Giuseppe Giovanelli Ora impariamo a conoscerli attraverso le “memorie patrie” di Ubaldo Ceccaroli.

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Il parroco di San Lorenzo in quell’epoca era un tale Piastra, il quale lasciò che venisse meno per morte Don Carlo Rossi Rettore e quindi tosto mandò ad esecuzione il decreto emanato di annessione come sopra, e senza tanti riguardi Egli stesso passò ad abbitare la casa della Cella addetta al cappellano e non all’arciprete, abbandonando una reale sua residenza posta presso la Chiesa nell’interno del Paese di Tavoleto, la quale assegnò, e volle che servisse per uso del Cappellano come avvenne, e questo cambiò di residenza. La popolazione tollerò per riguardi dovuti all’avanzata età di quest’Arciprete (era stato vicario delle otto parrocchie con sede in Auditore). Cessato di vivere il Piastra, successe ad Arciprete un tale Marchetti. Questi come il suo antecessore si mansionò alla Cella, e fece anche di peggio, per tre anni non volle tenere il Cappellano. Era la prima dolcezza che assaggiarono i popoli di Tavoleto, loro appioppata dal fatale decreto dal Vescovo Marco Gallo. Allora il Municipio ed il popolo con unissonità di deliberazione ne fecero ragionevole risentimento al Vescovo di Rimini appoggiando le loro ragioni al soprascritto Decreto, dopo che per reiterate volte si erano presentati bonariamente al Marchetti pregandolo di osservare quel tanto che era stato ingiunto nella Bolla 18 Maggio 1681. E perché comprendesse lo stesso Arciprete quali sarebbero stati i diritti del Municipio e del popolo relativamente all’ufficiatura della Chiesa della B. V. del Sole, affidarono in mano a questo Arciprete Marchetti un libro autografo manoscritto che si denominava “il Campione”. Non quasi dopo il Marchetti prese il Cappellano e lo mandò ad abbitare nella residenza Parrocchiale in Paese e così proseguì fino alla sua morte. Ricostruì due muri cadenti alla Chiesa della B. V. del Sole con una spesa di circa Romani scudi duecento, concorrendovi con una giusta tangente la Comunità, per la ragione che in essa 73


Chiesa vi aveva appoggiato ad un muro un suo altare. Racconta lo scrittore di aver letto, forsi nell’archivio parrocchiale di Tavoleto, che il Marchetti spontaneamente si mise a restaurare la Chiesa Cella visto l’obbligo di manutenzione che aveva e sì per risarcire ed acquietare la sua coscienza pel tempo che non aveva adempiuto l’obbligo di tenere il Cappellano. E qui giova non poco parlare del “Campione” per chiarire e perché ciascuno sappia cosa era questo “Campione”. Il Campione veniva chiamato un libro manoscritto che aveva fatto un religioso dei Servi di Maria, mentre si trovava infamigliato nel convento della Cella, circa cento anni dopo che venne dichiarato convento, vale a dire intorno al secolo XVI. Conteneva tutte le memorie antiche che precedettero quell’epoca con le date positive dei fatti avvenuti in Tavoleto e singolarmente trattava della Chiesa, canoniche, convento e rispettivi capitoli e possessi, passaggi e variazioni che avevano subito, come da una piccola relazione che lo scrittore (U. Ceccaroli) poté a stento leggere perchè logora dal tempo. Questo libro o Campione venne naturalmente da Servi, nella loro partenza dal convento della Cella, avvenuta come si disse nel 1632, ceduto e consegnato ai Pubblici Rappresentanti del Municipio di Tavoleto, ai quali in seguito apparteneva, subentrando in forza della Bolla Pontificia nei diritti di nomina del Rettore che amministrava i capitali rustici, convento, chiesa come sopra citato. Il Marchetti fece buon viso e fu ben contento di ricevere “il Campione” a farlo servire ai suoi disegni, comprendendo che quel libro era un’arma potente che lo aveva fatto stare a dovere, obbligandolo a prendere e mantenere il Cappellano ufficiatore, perché metteva nel più lucido, a bel punto di vista l’origine, il possesso, i passaggi dei beni delle Chiese di Tavoleto, e la prescritta applicazione in forza delle fasi in cui erano andati soggetti, e in conseguenza anche pel tratto successivo poteva obbligare 74


i parroci del Tavoleto all’osservanza esatta del proprio dovere verso la Chiesa, verso il Comune, e verso il popolo. Insomma il Marchetti stimò prudente consiglio di sottrarlo e farlo per sempre scomparire, per cui mai più lo restituì al comune che glielo affidava, sebbene sotto richieste di restituzione di libri si facesse più volte a domandarglielo. Si lusingava il Municipio che il Marchetti avesse depositato questo libro nell’ Archivio Parrocchiale, ma nulla di questo lasciò, e in tale modo privò Tavoleto della Storia Patria! La posterità delle più importanti cognizioni e memorie. Così il Campione miseramente fini. Dopo morto Marchetti venne Buda che per alcuni anni interpretatamente non volle tenere Cappellano, e quando l’autorità Ecclesiastica lo costringeva gli assegnava un tenuissimo emolumento, e così scarso, che il Cappellano per vivere era costretto a dozzinarsi presso qualche benefattore parrocchiano, che lo accoglieva, e in conseguenza il sacerdote se ne stava lungi dalla residenza assegnatagli in paese dal parroco. Al defunto Buda vien dietro l’Arciprete Bajocchi don Gaspare, che assume il popolo della parrocchia nel 1760. Questo Parroco abbolì, e tolse del tutto la residenza del Cappellano dal Paese, lasciando abbandonata e la chiesa matrice e il SS.mo Sacramento, e senz’altro infamigliò il Cappellano stesso alla cella con Lui. Questo parroco, non quasi dopo, in occasione di Sua visita in Tavoleto provocò ed ottenne da Monsig. Francesco de’ Conti Castellini, il quale dal Vescovado Tiburtino nel1764, venne traslatato in questo di Rimini, dove morì nel 1777, di rendere sospesa la Chiesa Cella dove pericolava un tratto di muro della facciata, pel cui ristauro, aveva nell’assunzione di possesso Della Parrocchia, ricevuto la perizia dalla stessa Curia Eucaristica tutrice dei diritti della Chiesa, contro gli eredi del Buda. 75


Il fine che ebbe Bajocchi di ottenere questa sospensione fu, perché aveva deliberato di accorciare nella facciata la stessa Chiesa, abbreviandola di due metri, come fece. E poi del proprio riedificò la facciata di essa Chiesa. Il fatto sopra nomato produsse dei disgusti fra il Parroco, il Comune, e il popolo. Ciò si deduce, e rileva da una esposizione relativamente scritta , ed esistente nell’archivio della Parrocchia di Tavoleto. Bajocchi resse qual Parroco questo luogo per circa ventiquattro anni. Volle permutare Parrocchia, e nel 1784 cambiò, con Don Nicola Coscio, Tavoleto con Cerasolo, e nell’anno stesso venne Coscio, e Bajocchi migrò per l’altra Parrocchia. In seguito tutti i parroci, come i nominati hanno mantenuto la loro residenza, e quella del Cappellano alla Cella, cioè dopo Coscio , Galuzzi, Galli, Palazzi, Amati, Barbieri, ed oggi Todrani, ma non tutti scrupolosamente hanno mantenuto il Cappellano, come per coscienza e debito di giustizia dovevano, essendosi verificata l’assenza anche per qualche anno di tale necessario collaboratore. Giova il conoscere che il caso sopra nomato non si verificò che per qualche giorno sotto gli Arcipreti Galuzzi, Galli, e Palazzi. E siccome si scrive ai presenti che possono rettificarlo e lo conoscono al pari dello scrittore, in qualche anno è stato vacante il posto di Cappellano sotto le Arcipreture successive.

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CONCLUSIONE Dulcis amor Patriae Poche parole di un Tavoletano Rammenta lo scrittore che un giorno, trovandosi nella Curia Vescovile di Rimini, gli fu richiesto da un tale, come se la passa a Tavoleto il Parroco X (ICS), poiché quella popolazione ha sempre inquietati, e perseguitati i suoi Parrochi. A questa calunia si fece lo scrittore stesso di fuoco, e ostentando tranquillità di animo che in realtà era in tempesta, riuscì a persuadere il temerario colla cittazione di fatti contemporanei che le cose stavano, per la verità, diametralmente opposte a quanto vien figurato. Per togliere ed eliminare per sempre questa striscia di disonore a questo povero popolo, prendiamo la storia dei primi parrochi che si conoscono in questi cenni, e vediamo quali essi furono, e come si comportò la popolazione coi medesimi. Viene in scena per primo l’arciprete Piastra. Piastra è in continue discussioni col Rettore Rossi. Questi due si contrastano i diritti Parrocchiali, fanno frequenti scandalose liti. Privano il popolo di notevoli vantaggi spirituali, e gli producono gravi incomodi. E il popolo? Il popolo tace. Un Vescovo Cardinale con Decreto in forma di Bolla annichilisce i diritti del Comune di Tavoleto, perchè lo esautora della nomina del Rettore, e dell’amministrazione dei Beni della B. V. del Sole, distruggendo una Bolla Pontificia, ed è tutto dire, e a questo che può chiamarsi mosso e indotto dalle discordie dei due accennati Sacerdoti, contro de quali unicamente doveva scaliarsi il rigore di un Vescovo, come i soli colpevoli, e questo popolo si contenta di fare sentire le sue ragioni con tutta mitezza, e poi senza altra resistenza, china rispettoso il capo, e si assoggetta a queste funeste conseguenze, che fin dai primi anni gli derivan, come si vedrà. 77


Nota del trascrittore Luigi Signorotti Il nostro Ubaldo, testimone degli eventi a lui presenti, è oltremodo risentito dell’esautoramento subito dalla Comune; questa mutilazione gli pesa più di tutte le altre prodotte dal “decreto”, essendo, con grande probabilità, membro della commissione preposta alla nomina del rettore. Morto il Rettore Rossi ecco che il Piastra, in signatura dell’ultimo Decreto dell’Emin.mo Marco Gallo, vescovo, come si è detto, di Rimini, arbitrariamente abbandona la sua chiesa Plebale, la sua vera residenza, (nel Murato presso la chiesa, N.d.T.), e va ad abbitare nella casa del Cappellano alla Cella, e questo lo destina e colloca nella sua canonica. Questo inquieto popolo cosa fa? Ammutolisce, non si risente, perchè riguardi nutre pel suo vegliardo Piastra, che non riceve il più minimo ostacolo. Piastra non è più. Viene Marchetti a succedergli, e comincia la sua cariera coll’appioppare al popolo le dolcezze di far mancare per tre anni alla chiesa della Cella il Cappellano ufficiatore. E se il popolo questa volta si duole, si risente, si potrà calunniarlo di persecutore del parroco? Non fu il Marchetti che fece per sempre scomparire il prezioso Libro Campione, come si è detto retro, e tradì la propria coscienza, e i diritti di questo popolo? Buda successe al Marchetti; ed oh, quanto si peggiorò di condizione! Questo arciprete si ostina, e non vuole tenere il Cappellano. Dopo una lotta inevitabile, l’ecclesiastica Autorità Diocesana ve lo costringe. E lui per ciò, non gli dà il conveniente mantenimento da vivere nella casa parrocchiale in Tavoleto; è costretto il Cappellano raccomandarsi a questo popolo, a qualche famiglia di questo cattivo popolo, come si appella per non vedere privata 78


la Chiesa della B. V. del Sole di chi la uffici, divide col parroco l’onere del Cappellano stesso. Bajocchi don Gaspare segue l’Arciprete Buda, e all’atto di possesso riceve dalla stessa Curia vescovile amministratrice dell’eredità del Buda che ha sequestrata, il prezzo di una rigorosa perizia, che comprende il risarcimento del muro della facciata della Chiesa della Madonna del Sole e del suo coperto. Il Bajocchi priva la Pieve anche della residenza del Cappellano, che lo richiama e ritiene presso di sé alla Cella. Si rifiuta di ristaurare la facciata della suddetta Chiesa, quando gli si permette di accorciarla per circa due metri, e per maggiormente facilitare il suo progetto, procura di ottenere dal Vescovo un Decreto col quale sospende la Chiesa, e tanto fa, e tanto vi maneggia, che finalmente riedifica la facciata a quella Chiesa, ritirandola pel disegnato accorciamento. E da tutto ciò che ne deriva? Il paese perde la residenza nel suo seno del Sacerdote; con l’abbreviare la Chiesa, diminuisce la capienza pel popolo; i sepolcri primi perdono la loro posizione vantaggiosa, ed onorifica, mentre gli ultimi che stavano appiedi della Chiesa, restano totalmente fuori; insomma produce questo Parroco vari disordini e causa molti dispiaceri, ma questo popolo indomito, come si calunia, si rassegna e tace alla volontà del suo pastore. Coscio Parroco di Cerasolo cambia con Bajocchi, e viene a Tavoleto. Galuzzi don Pietro viene dietro al Coscio. Galuzzi trovasi alla catastrofe avvenuta a Tavoleto nel 1797. Lo scrittore non conobbe alcuno di questi Parrochi, ma va per costante tradizione che il Galuzzi fu Sacerdote di vero entusiastico zelo, di esemplare condotta, modello dè Preti. Dopo l’incendio del 1797, questo buon Ecclesiastico tutto si diede per rinovare le Chiese incendiate, e le varie suppellettili al divino culto necessarie, e per giungere allo scopo, si racconta che egli si privava anche di quel sostentamen79


to conveniente al suo grado. Fu il vero candelabro che ardeva nella casa del Signore e alla santificazione del suo Gregge che tenne pascolato colla divina parola in tutto il corso della vita, e anche negli ultimi suoi istanti, al letto di morte, prima di ricevere il Sacro Viattico, con voce tremante che ben si facea sentire esortava e scongiurava il suo popolo a mantenere inviolata la religione, Gesù Cristo, e la fedele sommessione alla voce del Capo Supremo, infallibile della Somma Chiesa. Egli mentre fu Parroco di Tavoleto fece dare al suo popolo corso spirituale di istruzione, e fra questi è singolarissimo quello dei due santi uomini don Giuseppe Righetti romano, e don Giovanni Battista Morettoni mantovano nel 1807, nel quale milliaia furono le conversioni avvenute di più peccatori traviatissimi, e fra essi vi furono anche di quelli, che, abbandonato il peccato, si ritirarono nei Chiostri, e hanno menato una santa vita, e fatta una felice morte. Il Galuzzi moriva in Tavoleto il 23 dicembre 1811. Tra le altre virtù ebbe un’abilità singolare nel canto. Galli venne dopo Galuzzi, e fu uomo di bontà, il quale resse questa Parrocchia per circa ventidue anni, e lo scrittore conobbe. Palazzi Don Marino, dopo la morte del Galli successe Parroco. Era oriundo di Auditore. Venne con sinistra prevenzione, poiché alcuni paesani, ligi di altro soggetto avevano per questo preso impegno. Ma Dio volle che il Palazzi superasse altri quattro concorrenti alla Parrocchia, e che il desiderato riportasse una assoluta esclusiva, e tosto i fanatici dovettero confessare, che i Vescovi nella scelta dei Parroci sono illuminati dall’alto. Il Palazzi riuscì un Parroco che superò per sapere, per pietà, per zelo e premura molti dei suoi predecessori, forsi ancora non ha avuto chi precisamente lo somigli. Ed era ben naturale che egli dovesse riuscire tale, poiché fu allie80


vo di questi grandi uomini che erano Monsignor Lorenzo Sartori, Vicario Generale di Cagli, Luigi Canonico Sartori, zii di lui, dai quali aveva appreso un tenore di vita, che quantunque non di stessa età, mostrava senno ed operava da uomo maturo. Appena il Palazzi giunto in Tavoleto, trova nello squallore la sua sposa: la Chiesa, al cui decoro tutto si dedica. Il campanile della Pieve (Chiesa Plebale di S. Lorenzo in paese N.d.T.) risarcisce, ed in quella Chiesa fa internare due laterali muri, i confessionari, il battistero, fa imbiancare l’intera Chiesa e, il tutto in migliore forma rinova e abbellisce. Penetra in sacrestia, provvede e colloca il lavamani con vaschetta di marmo, e ritornando nella Chiesa stessa rinova tutte le lapidi sepolcrali che riordina con semetria. Trova la Chiesa della Madonna del Sole senza campanile, con un vergognoso pavimento, vi edifica il primo, e al secondo prepara e dispone quanto occorre. Erige un terzo Altare, nel 1838 e vi colloca il suo Crocifisso che con poco culto esisteva ad un muro vicino al campanile nella Pieve, e così lo pone in venerazione, fissandolo a quell’altare festa, funzioni, e procurando indulgenze dal Sommo Pontefice. Non ha altro aiuto nelle spese di questo altare, che le oblazioni di Francesca Galuzzi vedova Ceccaroli, che tutto impegnò col medesimo in questo altare. Colloca in una rossa e magnifica urna e, in vesti preziose le sacre ossa taumaturgiche di s: Vincenzo martire, e tutto ripone in un altare di legno elegante. Risarcisce, rinova ed accresce la chiesa di nuove suppellettili, cioè apparati, biancheria, ornati, e infine rinova il cero Pasquale che lo accresce di altra metà di sego. Nella sua residenza alla Cella fa modificazioni, e migliorie per la forma, per i soffitti, i pavimenti; ristaura le case coloniche, fa benefici sui beni della Chiesa, e tutto questo che si è detto di Lui fino qui, nel capo di soli otto anni, con dispendio ingente che lo aveva necessariamente ridotto nei debiti, i quali sono stati corri81


sposti con tutta puntuale onestà. Anche la campana seconda della Pieve fu rifusa sotto di Lui. Il Palazzi, ogniun il vedea, con quale decoro, dignità di presenza al pubblico, con quanta gentilezza riceveva. Era sempre in veste talare, e ordinatamente poi in Chiesa. Oh, come gli stava a cuore questa sua sposa! Giunto appena sulla soglia di Essa e girati gli occhi, era un rimprovero e dato con risentimento al sagrestano, se una ragnatela vi scorgeva, se un candeliere non era ben collocato, se una tovaglia penzolava disordinata. L’Ufficiatura, a l’ora fissa, le campane si movevano a solennità, a festa ordinata, a festa feriale ossia a mezza festa, con tutta distinzione, come del pari si distinguevano gli uffici generali da quelli d’invito, il triduo per i bisogni pubblici da quelli del privato, insomma le campane dicevano al popolo quale era la funzione che lo appellava alla Chiesa, e pari distinzione si aveva nell’uso dei mobiliari e suppellettili e paramenti di Chiesa, insomma di tutto. E come affluivano alle funzioni i popoli, non solo della Parrocchia, ma dalle circonvicine, e con tanta soddisfazione intervenivano, che si sentiva dovunque dire che in Tavoleto si fanno funzioni da Cattedrale, poiché non ha mai mancato in questo Paese un bel corredo di secolari in aiuto, abili nel canto ed anche abbastanza istruiti per le cose di Chiesa, propensi a rendere decorose le sacre funzioni. Non ci sarà chi voglia accusare di fantastiche e di esagerate le cose che lo scrittore asserisce, che in Tavoleto, vedendosi celebrare una qualche straordinaria festa religiosa ogni Paesano presta con tutto l’impegno l’opera sua per qualunque deputazione gli sia stata affidata, più generosamente se concorre con obblazioni, e sacrifici, onde riesca decorosa, massime se a capo vi sia l’Arciprete locale, come se ne sono avuti esempi innelutabili sotto il Palazzi, da molti anche oggi ricordati. 82


Il Palazzi conserva il costume delle processioni della Compagnia del Rosario nella prima Domenica di ogni mese alla Cella, e della Compagnia del Suffragio annessa all’Altare di Loreto nella Pieve nell’ultima Domenica, Introduce la divozione con processione al SS.mo Crocifisso alla Cella e di celebrare la messa in quell’Altare la terza Domenica, e quindi a mezzogiorno nella Pieve, e la processione col Venerabile dentro il Paese, e poi nella sera Benedizione con la Pisside. Fa risorgere l’abbandonata Compagnia dei 300 che durò finché Egli stette in Tavoleto. Volle che si facesse l’Ottavario, e poi il mese dei morti. Alle prime messe festive si doveva recitare una corona al Preziosissimo Sangue, e la raccolta delle offerte del popolo. Palazzi, oh! Come ogniun poté dire: vero Sacerdote di Dio, non vile mercenario. E pel bene delle anime, che non fece Palazzi? Non giorno trascorreva, senza che almeno una messa fosse celebrata nella Pieve per devozione del popolo, correndo al confessionale se né era richiesto, e nel festivo, se la sua salute non troppo felice il permetteva, mai nasceva il sole che non lo trovasse nel sacro tribunale per ascoltare le confessioni, non solo dei suoi figli, ma di moltissimi forastieri che affluivano, essendovi d’ordinario quattro confessori (cioè il Parroco, il Cappellano, il Beneficiato di S. Giuseppe, il Maestro di scuola comunale.) Alle Domeniche istruiva i fanciulli nella dottrina Cristiana e gli adulti col Catechismo e solo rare volte lasciava le spiegazioni del S. Vangelo. Era dall’Altare che avvertiva il popolo delle feste, delle vigilie, e se qualche Santo distinto ricorreva fra le letture, ne raccontava le gesta per infervorare il popolo alla pietà e alla divozione, e gli invitava alla S. messa all’ora stabilita da Lui. Inculcava la frequenza dei Sacramenti della Confessione e Comunione istruendoli anche nelle indulgenze che nei dati giorni avrebbero potuto lucrare. Al letto delle agonie, dove pel primo accorreva, confortava il 83


paziente con tanta dolcezza ed umanità e l’unzione faceva sembrare meno penosa la morte. Talvolta era invidiabile solo perché un sì compito Parroco, ma siccome non poteva isfugire all’occhio linceo del Superiore Primario Diocesano, allora Francesco Gentilini Vescovo di Rimini questo esemplare Parroco lo volle a se d’appresso in quella città, e lo volle Parroco della più antica Parrocchia: S. Agnese, dove in meno di un anno, da fiero morbo colpito, nel 1845 cessò di vivere. Lode a chi lo merita. Lo scrittore professa di avere fatto la biografia del Palazzi senza spirito d parte, di averla scritta in un’epoca in cui vivono milliaia di conoscenti tali fatti, e certo di non dir menzogna, e altresì sicuro che non vi sarà chi voglia contradirlo o di chiamarlo mentitore, anche di una virgola, essendo la stessa narrativa, la sola, la nuda verità. ”Veritas est una”. Amati don Mauro viene dopo la partenza di Palazzi. Barbieri don Giovanni succede all’Amati emigrato per Misano. Todrani don Francesco rimpiazza il Barbieri passato Parroco A Castiglione, ed è il Todrani l’attuale Arciprete. Per l’amore addunque che lo scrittore porta alla Patria sua, fece questa rassegna di Parrochi e di fatti contemporanei ai medesimi, crede che il lettore debba senza altro confessare che, se in qualche tempo vi fu lotta fra Parrochi e Parrocchiani in questo luogo, debba incolparsi quelli che rinunciando ai propri doveri, e sottraendosi dagli obblighi assunti, hanno tradito se stessi e la giustizia, e non quelli che così trattati, talvolta si sono risentiti stimulati dalla propria coscienza e dal desiderio di mantenere il bene spirituale alle loro anime. Volesse Iddio che tutti i Parrochi avessero fatto altrettanto, quanto ora ha fatto il Palazzi, e per la Chiesa e per le anime, e allora si vedrebbe con piena prova che il popolo di Tavoleto è sommesso 84


al suo Pastore. Concittadini unite le vostre voci a questa, dite alto, e dite franchi a chiunque vi insulta chiamandovi inquietanti e persecutori dei vostri Parrochi, che voi siete docili, affezionati, rispettosi ai Parrochi, non solo, ma a tutto il sacerdozio, purché Egli sappia essere un vero Ecclesiastico nella sua sfera dove la provvidenza lo ha collocato. Concittadini, ricevete il saluto, e l’amplesso dal Vostro affez.mo U. C. Tavoleto 15 Agosto 1876 Note di Luigi Signorotti Caro Ubaldo, con questa tua ultima rassegna sulle chiese, sui parroci e cappellani, hai completato la storia della terra che ti ha visto nascere, crescere e morire. Terra dei luoghi della tua vita religiosa nelle istituzioni preposte, che tu ci hai tramandato per le tue conoscenze del presente e, dalle memorie dei tuoi avi, per il passato. Memorie sul “Paese” del tuo presente e, quelle di un tempo passato, nei suoi giorni di gloria e in quelli della sconfitta, in quelli della festa e in quelli del dolore, ma nell’una e nell’altro, questo “Tavoleto” e stato sempre la tua “Patria”, al di sopra di tutte le altre patrie che, probabilmente, non hai mai conosciuto. In questa rassegna il tuo cammino a ritroso ti ha portato in tempi lontani, dove i soprusi e le ingiustizie hanno sempre pesato sui più deboli, ti porgo un plauso per il coraggio dimostrato nel citare i responsabili di queste angherie, anche quando questi erano al vertice delle istituzioni civili o religiose. Nella presentazione ai posteri dei parroci susseguitisi nella parrocchia, la tua verve mi fa apparire ognuno di questi nell’imma85


gine fedele al tuo giudizio critico; per alcuni sono state sufficienti poche e veloci pennellate:-“Viene in scena per primo l’arciprete Piastra…che è in continua discussione col Rettore Rossi; questi due si contrastano i diritti Parrocchiali fanno scandalose liti”. “Piastra non è più. Vien Marchetti a succedergli, e comincia la sua cariera coll’appioppare al popolo la prima dolcezza di far mancare per tre anni alla Chiesa della Cella il Cappellano…”, di nascondere il Campione, il libro contenente i beni e i capitali della chiesa e le relative rendite. “Buda succede a Marchetti, ed, oh, di quanto si peggiorò di condizione! Rifiuta il cappellano, e quanto ne è obbligato dal vescovo, non gli dà il necessario per vivere, e ha costretto il Cappellano raccomandarsi a qualche famiglia di questo cattivo popolo”. Un episodio molto somigliante a questo era spesso raccontato nelle veglie delle case di campagna. A me è pervenuto dai ricordi di Emilio Magi con questo racconto :- In tempi remoti era arrivato a Tavoleto un cappellano che è vissuto per più di un anno presso una famiglia di contadini e, passava la giornata lavorando nei campi e nelle stalle al modo dei garzoni. Potrebbe trattarsi dello stesso personaggio? Io, non trovo motivi a escluderlo. È la volta di don Gaspare Bajocchi. Per questi la presentazione è più consona alla figura di un sacerdote, e si distingue dalle precedenti, dove i parroci sono stati citati col solo cognome, trascurandone il nome di battesimo e l’appellativo di “don”. Ma, appena inizi ad elencare le sue innovazioni, trovi che è tutto sbagliato: il cappellano fuori dal paese, la Cella accorciata ha diminuito la sua capienza per il popolo, alcune sepolcri in fondo, sono finiti fuori, e i primi hanno perduto la loro posizione di prestigio; critichi il decreto che ha sospeso l’ufficiatura per il tempo dei lavori; insomma, ne vien fuori un prete faccendiere e 86


maneggione che, a tuo dire, ha scontentato il popolo. Di Coscio che cambia parrocchia con Bajocchi, citi solo l’arrivo e la partenza; si intuisce che sei impaziente di presentarci don Pietro Galuzzi, il prete più famoso di Tavoleto e di tutto il movimento antinapoleonico, che va sotto il nome di ”Insorgenza”. Questo sacerdote “trovasi alla catastrofe avvenuta a Tavoleto il 31 marzo 1797”. (Sarà il protagonista della seconda parte di questo libro.) Una sola riga per il successore: “Galli fu uomo di bontà, e resse questa parrocchia per ventidue anni” E’ stato il prete che ti ha battezzato, cresimato e comunicato, ma ti sei limitato a dire che “lo scrittore ha conosciuto”. S’intuisce che hai fretta di tessere tutto il bene possibile per don Marino Palazzi, il tuo beniamino. L’antefatto della sua nomina. Durante il lungo periodo di sede vacante succedutosi alla morte di Domenico Galli, la popolazione della parrocchia di Tavoleto, man mano che veniva a conoscenza dei concorrenti alla nomina dei parroci, si divideva in diverse fazioni a sostegno di questo o di quello, come se la scelta spettasse a loro. Dallo scritto del Ceccaroli si intuisce che gli aspiranti fossero almeno cinque, e il meno papabile fosse proprio don Marino Palazzi; ma questi li “superò tutti con una assoluta esclusiva, e tosto i fanatici dovettero confessare che i Vescovi, nella scelta dei Parroci, sono illuminati dall’alto”. Sono nel giusto, o sparlo, se il mio pensiero va dritto a monsignor Lorenzo Sartori vicario generale di Cagli, e al canonico Luigi Sartori suoi zii, e senza correre lontano, fermarsi a Francesca Galuzzi, figlia di Marta Sartori, originaria di Auditore, sorella di sua madre, quindi sua cugina; due donne di questa famiglia figurano come madrine di battesimo di Francesca Galuzzi nel 1788, anno della sua nascita. Sono pienamente convinto che i buoni uffici degli autorevoli zii, uniti a quelli di Francesca Galuzzi siano stati determinanti, e 87


hanno posto in secondo piano le petizioni a favore degli altri pretendenti. Il nostro scrittore, alla fine della cronistoria in cui viene elogiato il quotidiano impegno del Palazzi, per le anime e per la chiesa nel tempo in cui è stato parroco, teme di essere accusato di uomo di parte. È doveroso ricordare che la comunità del Tavoleto ricorrerà ai buoni uffici della famiglia Sartori, negli anni in cui l’auditorese Vincenzo Sartori era il medico personale del papa Pio X, per ottenere un sostanzioso contributo di £ 1450, per la ricostruzione della Cella nel 1878. La testimonianza ci è data dal suo libro “Memorie sul Tavoleto”: La generosità dell’immortale e S. Pontefice Pio X° che magnanimamente concorse con £ 1450, supplicato dal Parroco di Tavoleto, la quale supplica venne efficacemente presentata dall’Ill.mo, Ecc.mo, Sig. Cav. Commendatore Vincenzo Sartori chirurgo di Sua Santità, e dal medesimo raccomandata per gli uffici ricevuti da Ubaldo Ceccaroli parente del Sartori medesimo.

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CHIESE E PRETI DEL VENTESIMO SECOLO La nostra cronistoria delle chiese e dei sacerdoti di Tavoleto si è fermata alla morte del suo estensore. Ubaldo Ceccaroli è morto all’età di anni 71, il 7 Marzo 1884. Anche il famoso ed antichissimo libro: ”Il Campione”, riporta all’ultima pagina annotazioni con grafia simile alla sua a significare e consolidare il presupposto che l’autore del libro “Memorie sul Tavoleto”, non solo ne era informato dei suoi contenuti, ma anche lo custodiva segretamente e con cura. L’elenco dei preti si è arrestato all’arrivo di don Francesco Todrani nel 1868. Questi tenne la parrocchia fino 1904. Mi faccio premura di dare un continuo a questa cronistoria, per riportarla alle future generazioni, attraverso le notizie a me pervenute dalle memorie sul passato, e da quelle del mio presente che abbraccia settanta anni di ricordi. In questo stesso anno (1904), prese possesso della parrocchia don Paolo Bacchini, che assunse dimora nella casa canonica della Cella. Da quello che si è sentito raccontare dagli anziani del paese e dai miei famigliari pare sia stato un prete conformista per quanto concerne il rispetto delle tradizioni locali nel loro svolgersi, e nei modi e nelle date prestabilite nel corso dell’anno liturgico. Da quanto, invece, si riscontra da documenti di perizie e di spese per ristrutturazioni e migliorie di beni parrocchiali, ricco di iniziative e concreto nelle attuazioni. Nell’archivio comunale, fra le delibere di Consiglio degli anni 1912 e del 1916 si possono leggere due istanze presentate da questo parroco, volte ad ottenere l’autorizzazione dei lavori e di due distinti contributi, un primo per l’esecuzione dei lavori e un secondo, per la costruzione della nuova torre campanaria. La prima è del seguente tenore: 89


“Ill.mo Signor Sindaco, Il sottoscritto Parroco di S. Lorenzo di Tavoleto, nell’intendimento di ampliare la Chiesa Parrocchiale resasi insufficiente a contenere il popolo che con progressivo aumento interviene alle funzioni religiose; visto il progetto opportunamente redatto dal professore Gaetano Tiberi in data 12 Marzo u. s. con relativa perizia che ascende a lire 25.000; considerato che esistono solo lire 12.000 di fondi disponibili, comprese le elargizioni del Parroco, dei parrocchiani e di poche altre benemerite persone; visto l’art 320 della legge comunale e provinciale; si rivolge alla S. V. ill.ma affinché gli sia concesso di chiudere l’angolo di fronte alla proprietà di Eugenio Rossi per allargare le cappelle e restaurare il campanile.” Si chiede inoltre di allargare un muro perimetrale di altri 50 cm, infine un contributo di lire cinquemila. Il Consiglio delega l’apposita Commissione Tecnica per l’autorizzazione dei lavori, mentre, a seduta stante stabilisce in lire 600 (seicento) il contributo da devolvere al Parroco. Nella seconda lettera rivolta al Sindaco il 30/08/1916 si precisa chiaramente che in quella data il restauro era stato ultimato. “Dopo l’ampliamento, ben riuscito, della Chiesa parrocchiale del capoluogo, il Parroco ha riconosciuto l’opportunità di costruire quasi di nuovo la torre del campanile, valendosi dello spontaneo contributo del benemerito avv. Ferdinando Petrangolini. Avendo però la spesa superato il fondo disponibile e, tenuto conto della nuova armatura interna necessaria per il piazzamento delle campane, il detto parroco ha presentato domanda al Municipio, di cui è data lettura, per ottenere un sussidio che valesse ad alleggerire in parte i sacrifici pecuniari che egli aveva dovuto sostenere per rendere completo il lavoro”. Il Consiglio ritenendo reali i lavori eseguiti adotta la seguente deliberazione: “Considerato che la nuova torre del campanile, oltre ad essere di speciale ornamento, e anche di difesa del pae90


se, essendo stata munita di parafulmine, considerato che il suono dell’orologio comunale con l’alzamento della torre potrà meglio essere udito da tutti i punti del Comune, con vantaggio della popolazione, con voti unanimi delibera di offrire un sussidio di lire 100 (cento) per una volta solo. In pari tempo incarica la Giunta di disporre di concerto col Parroco, nell’atto in cui verrà rimesso a posto l’orologio comunale, il martello, che prima batteva sulla campana mezzana, si faccia battere sulla campana maggiore”. Nel tempo in cui don Bacchini fu parroco di Tavoleto, un esiguo numero di Suore delle Maestre Pie dell’Addolorata si trasferì da Rimini nel nostro paese e si stabilì nella casa di proprietà della parrocchia in via Piccola dietro la chiesa. La famiglia dei conti Petrangolini si era assunta l’onere del loro mantenimento e dell’istituzione dell’Asilo infantile in quella sede. E’ molto probabile che la promotrice di questa benefica istituzione sia stata la contessa Rosa Michelini Petrangolini, qualche anno prima di sua morte, avvenuta nel 1924. I conti Petrangolini sono stati sempre molto sensibili alle necessità della popolazione di questa comunità ed hanno provveduto al mantenimento di questa famiglia di religiose per tutto il tempo in cui, questi, hanno conservato il castello e la grande tenuta circostante. (1963) N.d.A. Ho avuto modo di leggere lo stralcio del testamento del conte Vincenzo Maria Petrangolini che riguardava il caso in oggetto. Così parla: “Sia elargito all’Asilo Parrocchiale, tanto caro alla povera mamma, grano, vino ed olio necessari per il sostentamento annuale, più un maiale grasso di circa due quintali”. Dopo la ricostruzione della vecchia sede delle suore completamente distrutta durante i bombardamenti del settembre 1944, le suore delle Maestre Pie ritornarono a Tavoleto e riavviarono la scuola materna. Su una targa marmorea posta all’ingresso si leggeva: SCUOLA MATERNA ROSA MICHELINI PETRANGOLINI 91


Ricordo che in casa i nonni parlavano spesso di questo prete; i loro racconti però, come quelli degli anziani del paese si riferivano quasi sempre alla sua lunga e penosa sofferenza prima dell’arrivo di sua morte. Allettato, e incapace di muoversi, le sue grida di dolore si udivano a distanza ed erano motivo di fastidio per i vicini che protestavano contro chi lo custodiva ed assisteva. Morì il venerdì santo del 1929. Durante il suo funerale, con un passa parola lungo le fila si ripeteva il detto che chi muore in questo giorno non subirà il disfacimento del corpo. Fu sepolto in una normale cassa di legno. Nel 1946 il Comune fece lo spurgo del cimitero di Tavoleto, dopo aver riesumato da sotto le piccole croci bianche i resti mortali di tanti bambini, detti angeli, consistenti in una manciatina di ossa, gli addetti a questo lavoro invitarono gli astanti, convenuti appositamente, memori della particolare sepoltura del povero don Bacchini, di stare a dovuta distanza con particolare divieto per i bambini per motivi igienici e pornografici. Dopo diciassette anni dal suo sotterramento il corpo era quasi intatto, la pelle, e carni e la veste lo avevano ricoperto di una suola scura e spessa; lo trassero su ugualmente, si staccò subito il cranio, e dopo i primi spostamenti anche gli arti superiori e quelli inferiori. Il tronco con le carni insodite aveva assunto la forma della cassa. Si diceva che con l’aria e il sole quella carne dura come il cuoio sarebbe diventata cenere dopo poche ore; ma dopo due giorni quel corpo era ancora lì ritto, appoggiato ad una lapide. Don Primo Clari assunse subito la titolarità di arciprete della parrocchia di S. Lorenzo di Tavoleto, poiché era il coadiutore del parroco nel periodo della sua infermità. Proveniva anch’esso dalla vicina Romagna, rarissime sono state le eccezioni di preti non romagnoli. È il prete di cui ho sentito parlare più spesso, in particolare dai nati nell’immediato primo dopo-guerra (1919 /1926), i quali era92


Don Primo Clari (al centro) in un giorno di festa, con gli amici (da sinistra) Quirino Piselli, Giovanni Paolucci, Davide, Riccardo, Federico Urbinati, Oliviero Tardini, Giuseppe Tiboni, Mario Alessandrini (anno 1935)

no giovani quand’io ero bambino. Questi, in particolare i paesani, avevano trascorso la fanciullezza e l’adolescenza con lui. I ricordi li riportavano con manifesta nostalgia a quei tempi e alla canonica e, al campo sportivo dietro di essa, realizzato dal parroco appositamente per loro. I giovani, nati in quegli anni demograficamente prolifici, erano molto numerosi e don Clari aveva comprato il pallone di cuoio che era disponibile in orari stabiliti, o prima, o dopo le funzioni religiose e del Rosario nel mese di Maggio. Ricordavano spesso, e i toni riacquistavano la rianimazione per l’appartenenza ad una delle due squadre: la Vigor e la Robur che si disputavano in un torneo il premio messo in palio dal prete. I racconti dei più anziani facevano spesso riferimento sulla sua arte oratoria, ricca di calore e di motivazioni forti, capace di coinvolgere gli astanti e portarli alle lacrime. Nelle parrocchie dei dintorni non vi era festa cui non fosse chia93


mato don Clari per la predica. Si ricorda che nel 1935 in occasione del centenario dell’arrivo a Tavoleto della reliquia di San Vincenzo Martire fu organizzata ed allestita una festa strepitosa che è rimasta memorabile e, per la fastosità, e per il grande afflusso di gente venuta dalle campagne e dai paesi circostanti. Dopo questa grande festa, forse troppo dispendiosa, come afferma qualcuno, o forse a causa di gelosie fra alcuni notabili del luogo che non avevano ricevuto gli adeguati onori al loro rango, don Clari chiede di essere trasferito. Ogni qualvolta che il prete lascia la sua parrocchia, il dispiacere di quella popolazione non è mai unanime. Ma alcuni ragazzi sono andati a trovarlo, almeno in un paio di volte, facendo il percorso Tavoleto-Savignano sul Rubicone in bicicletta; in un’ occasione per rinforzare la sua squadra di calcio in una sfida importante con una parrocchia di quella zona. Per i suoi buoni uffici alcuni di questi hanno trovato lavoro stabile. È nominato parroco don Luigi Fabbri, che si trasferisce nel frattempo dalla parrocchia di S. Colomba di l’Onferno a quella di S. Lorenzo Martire di Tavoleto. Lo trasporta con la propria macchina il Conte Vincenzo Maria Petrangolini; è il 25 Luglio 1935; prende dimora nella casa canonica della Cella con tutta la famiglia di suo fratello Martino, composta da moglie e quattro figli. Don Fabbri da piccolo era stato colpito da poliomielite e aveva difficoltà a camminare, attaccava il cavallo anche per brevi trasferimenti. Dopo qualche anno la zoppia si accentuò e la salute si fece più cagionevole; l’assistenza del nipote Piero che gli faceva da scudiero e da chierico era provvidenziale, ma per il regolare svolgimento delle funzioni religiose nelle due chiese: S. Lorenzo in paese e Madonna del Sole alla Cella, gli era indispensabile l’ausilio di un cappellano. Aveva cantato messa in quell’anno don Gino Bruscoli, nativo e cresciuto in Tavoleto. (l’unico parroco che ha dato questo Comune alla diocesi di Rimini nel secolo ventesimo); nel secolo 94


precedente era stato ordinato prete don Gaudenzo Zazzarini, celebrava in chiesa all’altare di S. Giuseppe quale “Beneficiato”, poiché fruiva del beneficio dei poderi di Ca’ Peccetto di sopra e di Ca’ Peccetto di sotto. Don Gino Bruscoli in occasione della sua ordinazione a sacerdote fece il pranzo nel salone della casa canonica della Cella, indi rimase con don Fabbri a dargli una mano in attesa di una chiamata da parte del vescovo che lo avrebbe sistemato all’incarico di cappellano in una sede della diocesi. Si sa che don Fabbri ne aveva fatto richiesta per trattenerlo. Don Gino però, nello spazio di pochi mesi fu nominato cappellano a Misano Monte dove il parroco era lo zio che portava il suo stesso cognome. Alla Parrocchia di Tavoleto le mansioni di cappellano vengono affidate a don Pietro Montemaggi che resta fino all’arrivo di don Alberto Franchini. Dal libro “STORIA E STORIE DEL TEMPO CHE FU” Durante il passaggio del fronte (1- 4 settembre 1944) la chiesa di S, Lorenzo era andata completamente distrutta, mentre la Cella aveva subito lievi danni, così per oltre due anni, fino al 25 marzo 1947, è stata l’unica chiesa in cui si celebravano le funzioni religiose. Oltre al nuovo parroco vi officiava don Luigi Fabbri che abitava nella canonica a fianco, era molto cagionevole in salute e raggiungeva l’altare sorretto dai nipoti Piero e Tommaso; vi si appoggiava e per tutto il tempo del rito rimaneva sempre rivolto all’altare. Al “Dominus vobiscum”, apriva un braccio e girava appena il capo da un lato. Mantenne la messa fino al 1951. Poi si aggravò l’infermità e si allettò definitivamente. Morì nel 1953. Le ultime messe le officiò dal letto per i famigliari. Don Alberto Franchini, nominato coadiutore col diritto di successione, arriva a Tavoleto il 25 luglio 1943, (data storica per gli italiani), prenderà possesso con l’ufficio di parroco nel 1949; 95


proviene dalla vicina parrocchia di Cerreto di Saludecio. Arriva all’insaputa di tutta la popolazione, e qualche notabile se ne adombra. In passato la Curia vescovile richiedeva un suo “placet”. In questa occasione se ne è fatto a meno. Il neo arrivato è immune da colpe, ma l’attrito rimane. Lo stesso don Franchini in merito a questo disguido, o scavalcamento, o ritocco alla tradizione, lascerà una memoria scritta in bella vista nel primo cassetto della sua scrivania. Prende provvisoriamente alloggio presso l’abitazione di Agostino Ceccarini, in piazza, di fronte al castello, poiché la sistemazione della casa che doveva essere la sua dimora e quella della sua famiglia, (genitori e il fratello) non era ancora ultimata. Ma già prima dello sfollamento dal paese, in occasione dell’arrivo del “fronte”, don Alberto Franchini abitava con la famiglia nella casa di Antonietta Baffoni ved. Rossi, proprio di fronte alla porta del campanile. (Questa casa è stata poi acquistata dal Martino Fabbri, fratello di don Luigi). Da una memoria scritta dallo stesso don Alberto pubblicata da “L’ amico” del 23/ 07/ 1947 si deduce che in quel tempo lì avesse a risiedere, poiché la sua porta di corte era dirimpettaia della camera del maestro Italo Gentilini. “La sera dello sfollamento del paese. Vi ho visti, carissimi, partire ad uno ad uno; alcuni con gli occhi lustri, tutti col cuore in tumulto. I miei passi avevano nel paese deserto una risonanza cupa che si ripercuoteva nello spirito terribilmente triste, quasi annientato. La sentinella tedesca acquietò con un cenno il grosso cane lupo che ringhiava minaccioso. La chiesa era aperta, buia. La lampada spenta. Mi inginocchiai davanti a Gesù rimasto solo nel suo tabernacolo. Non potei pregare, l’affanno nel cuore non permetteva le parole. Ma quello che nei momenti più complessi non si può esternare solo il Signore comprende. Mi alzai avviandomi come un automa nella mia casa. Ma lo squallore di essa, le pareti nude mi impedivano quasi di respira96


re. Sospinsi l’uscio di corte ed una luce in una casa prospiciente mi fece ricordare che non ero proprio solo. Era stato permesso al caro Maestro Gentilini di rimanere nella sua abitazione per chiudervi gli ultimi giorni di vita. Il dovere che mi chiamava presso di lui mi fu di sollievo, ma non potei trattenere il singulto davanti a quel soffrire paziente e sereno. Mi capì, mi abbracciò e si pianse insieme. Volle poi che lo confessassi e lo fece con la sincerità e l’abitudine che gli erano notoriamente abituali. Quando mi alzai e gli strinsi la mano ero un altro. Sentivo che il Signore era con me, con la sua forza, con la sua gioia. Voi non avete dimenticato che nei nostri frequenti incontri nelle dimore precarie e nei rifugi, la mia presenza costituiva la nota allegra. Il mio coraggio veniva scambiato per incoscienza da quanti non potevano conoscere la fonte. Il mio comportamento sembrava ad alcuni eccessivo. Non me ne adombravo. E davanti alla morte, alla distruzione, alla dispersione delle cose più care, all’incomprensione, alla calunnia dicevo:<< vincerà il Signore!>>. I fatti, da quella lontana estate ad oggi, hanno confermato ancora una volta che non è vana la confidenza in lui. La ricostruzione materiale. Dopo il ciclone impetuoso e devastatore della più grande guerra, vi parlai- il vostro parroco parla sempre e dappertutto- di rinnovazione, di progetti. I più scettici ritenevano trattarsi di sogno e vaniloquio. Quando poi i sogni stavano concretizzarsi in pietra, legnami e milioni si pensò,- o meglio alcuni dissero, - che c’era dell’interesse e della speculazione. I migliori parlarono di fortuna. Ma, quelli che mi sono stati vicino- vicino soprattutto nello spirito- e si sono resi 97


conto della fede, della costanza del sacrificio, della fatica fisicamente patita, hanno detto:<<E’ la Provvidenza!>>. Perchè tutta la nostra chiesa se è bella, se è degna, se è veramente la casa di Dio e la casa del suo popolo, deve portare la scritta che alcuni di voi, in recente pellegrinaggio, mi chiesero di tradurre “Divinae Provvidentiae dono” - per dono della Divina Provvidenza-. Ciascuno di noi con il suo spontaneo contributo si è reso strumento della Provvidenza la quale ha avuto come interprete un povero sacerdote. Don Alberto Franchini è stato il Parroco che mi ha impartito le prime nozioni di catechismo, confessato e comunicato per la prima volta e, quando sono diventato adulto, mi ha confidato parte delle sue ansie e dei suoi progetti, e mi voleva con sé quando andava a colloquio con i locali parlamentari e quando scendeva in Curia a “bussare cassa”, o a farsi dilazionare qualche pagamento. Era solito ripetere che il suo libretto di risparmio era il più povero della banca; il cassiere sapeva che era la verità. Don Alberto Franchini, parroco di Tavoleto dal 25 luglio 1943 all’agosto del 1987, verrà ricordato come il prete della ricostruzione della chiesa di S. Lorenzo Martire di Tavoleto ultimata Vista castello e chiesa di Tavoleto (foto Neil Howlett)

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ed inaugurata il 20 marzo 1947 in festa solenne con la presenza del vescovo Monsignor Emilio Biancheri e la somministrazione dei sacramenti della cresima e della prima comunione (anche la mia). Vi riporterà inoltre un nuovo restauro nel 1969, con il quale, in ottemperanza alle indicazioni del Concilio Vaticano II, furono rinnovati completamente l’altare maggiore e tutta la zona absidale; e furono eliminati anche i quattro altari laterali, divenuti superflui con l’introduzione del rito concelebrativo della messa. Al termine di questi lavori don Alberto Franchini, nell’intento di lasciare ai posteri una testimonianza più duratura della memoria, fece murare sopra l’acquasantiera a destra dell’ingresso una lapide riportante la seguente incisione: L’ ANTICA PIEVE DI TRAPPOLA SAN LORENZO IN BARCOLA, VIII SEC. FATISCENTE PER VETUSTA’ E FRANE VIENE TRASFERITA DALL’ OMONIMA LOCALITA’ NELL’ ORATORIO DI S. ANTONIO DA PADOVA DISTRUZIONI E RIATTAMENTI SEGUIRONO LUNGO I SECOLI FINO ALLA TOTALE RICOSTRUZIONE NELL’ ATTUALE FORMA ARCHITETTONICA PER OPERA DI PAOLO BACCHINI 1916 1918 E, RISORTA DALLE IMMANI ROVINE DELLA PIU’ GRANDE GUERRA E PER UNA RINNOVATA LITURGIA A CURA DI DON ALBERTO ARC. FRANCHINI E DELLA COMUNITA’ DEL TAVOLETO 1946-69 Don Alberto Franchini persona oltremodo precisa e rispettosa della rigorosità storica, nella composizione di questa scritta era preoccupato per l’esattezza delle date; in particolare a riguardo della ristrutturazione della chiesa operata da don Bacchini, non 99


esistevano nell’archivio parrocchiale note o carte; e si chiedeva come questo prete avesse potuto rimediare i fondi in quel periodo di grande crisi economica e, per di più in pieno tempo di guerra. Laura Giampaoli, avanti negli anni, ma di buona e lucida memoria gli ricordò che nel 1916 c’era stato il terremoto da queste parti, così collegò un possibile risarcimento dei danni alla parrocchia per quella calamità, e decise di optare per la data 1916 -18. Nell’archivio comunale si possono leggere delibere del Consiglio e della Giunta che permettono di venire a conoscenza di tutto ciò che ricercava di sapere. Ora chiudo gli occhi per vedere meglio il nostro don Alberto di fronte al fascicolo con le date “inizi lavori 1912- termine dei lavori 1916”, prendere coscienza del suo errore e mordersi la falange dell’indice e chiedere perdono ai posteri. Iniziative in parrocchia. Nel 1950 si era costituita l’opera dei Ritiri di Perseveranza (O.R.P.) che riuniva ad ogni prima domenica del mese, uomini e ragazzi ad una messa mattutina senza donne, era presente il frate confessore, si preparavano letture e canti. Al convegno regionale tenutosi a Loreto il 1° Maggio 1954, la nostra parrocchia vinse il secondo premio consistente nella statua di Santa Teresa di Lisieux. Nel 1953, dopo la morte di don Luigi Fabbri, la canonica della Cella fu abitata da don Alberto che arredò la sala centrale con panche laterali e un congruo numero di sedie per riunioni e manifestazioni varie. Si era prelevato dalla parrocchia di Laureto di Mondaino il tavolo del ping pong che dopo una prima permanenza in garage trovò sistemazione al centro del salone. In quegli anni 1954-55 si era costituito il primo nucleo di Azione Cattolica comprendente un gruppo di una ventina di ragazzi dai 12 ai 19 anni e un secondo di adulti. Si dispersero dopo qualche anno, a causa soprattutto della chiusura di quel salone per l’ab100


bandono da parte del parroco della canonica che necessitava di profonde ristrutturazioni. Nel 1952, don Alberto permise che si costruisse su un terreno di proprietà della parrocchia, sul fianco destro della provinciale per Morciano, (ora via Verdi e via Garibaldi) un campo sportivo che vide una rapida realizzazione perchè su una superficie di circa mezzo ettaro quasi pianeggiante. Altrettanto breve è stata la sua esistenza. Io e i ragazzi della mia età lo abbiamo goduto solo per una stagione. In quegli anni il comune deliberò di costruire un nuovo lotto di case popolari, e su quelle 50 are del campo sportivo già spianate era il luogo ideale per ubicarle. Don Alberto, sempre affamato di soldi, concluse le trattative che reputava vantaggiose. Non incontrò, naturalmente, il favore dei giovani che nelle prime nottate dei lavori si adoperarono in atti di sabotaggio, cancellando le planimetrie disegnate in gesso e asportando fili e paletti, poi ancora distruggendo gli scavi delle fondamenta. Non ci furono denunce scritte. Da tutti si sapeva chi erano gli autori ed i motivi che li avevano spinti a tali atti. L’impresa edile riempì quelle fondamenta e procedette speditamente evitando altre azioni disfacitrici. Don Alberto capì la rabbia dei suoi ragazzi, li convocò e promise loro, senza parlare del caso, di far spianare un terreno dietro la Cella. Dopo due anni fu realizzato, infatti, un nuovo campo da gioco, dalle dimensioni ridottissime, 60 per 30 metri. La scomparsa della Cella Dal libro “STORIA E STORIE DEL TEMPO CHE FU” (pagine 103/105) Nei primi anni sessanta don Alberto Franchini traslocò da questa dimora ed andò ad abitare la casa ereditata dalle suore dalla famiglia Maccagli-De Carolis. Nel 1964 con parte del ricavato 101


dalla vendita dei terreni (lire 5 milioni) acquistò lo stabile a fianco della chiesa parrocchiale “palazzo vecchio” casa avita dei Falaschi. Intanto il tetto della canonica della Cella incominciava a dare segni di cedimento in più parti; anche all’interno della chiesa “pioveva” il crollo era ineluttabile e, vista la totale indifferenza di tutti, indistintamente, lo si attendeva, come liberazione di una colpa la cui espiazione si cercava di affrettare. Don Alberto aveva speso molto in quei difficili anni del dopo guerra, a volte aveva improntato di tasca propria; non possedeva un conto in banca, in quel momento della sua vita non aveva più gli entusiasmi della giovane età, era appagato della sua nuova dimora, non si sentiva più di indebitarsi; anche se avesse venduto tutti i poderi, (come di fatto è stato), in quel periodo al massimo storico di svalutazione, non sarebbe riuscito a rimediare i fondi per quelle ristrutturazioni Nei primi mesi del 1965 era crollato il tetto della canonica della Cella, da anni lasciata nell’abbandono e nell’incuria generali. Durante l’estate, con l’aiuto di volonterosi ragazzi, ricordate il sermone della messa delle undici? .<< Lembo di Sicilia trasferito a Tavoleto>> venne giù anche il tetto della Chiesa e sotto non si salvò nulla. Tutto il materiale fu venduto. La sua area, comprensiva del cortile antistante e del campo sportivo fu acquistata dall’ Amministrazione Comunale la quale, nel 1975 vi ha costruito il palazzo del municipio. Ora di questa Chiesa, che era stata riedificata per onorare la memoria di quella voluta e ricostruita dopo l’incendio del 31/03/1797, dall’obolo dei tavoletani e delle parrocchie vicine unite nella devozione della Madonna del Sole e che rappresenta una pagina preziosa della storia di questo paese, rimane solo “l’immagine” su qualche vecchia fotografia che la riporta sullo sfondo di volti non sempre a tutti noti. Don Alberto Franchini era uomo dal carattere impulsivo, poco propenso ad accettare la critica; abituato a dare ordini e non a ri102


La sarta Cecilia Cipriani Guerra e sullo sfondo la Chiesa della Cella (foto archivio famiglia Geom. Cesare Guerra)

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ceverli, facile allo scatto d’ira e allo sproloquio, incapace in quei momenti di trattenere lo scoppolotto o il gnocchetto rincalzato con il dito medio, sulla testa dei suoi chierichetti od alunni, ma di un ritorno immediato alla ricomposizione dei suoi sentimenti più interiori che gli facevano ricercare il perdono. Nel giorno della sua consacrazione aveva espresso un desiderio, aveva chiesto al Signore che nessun parrocchiano avesse a ricusarlo nell’ora della morte. Il Signore lo aveva finora esaudito; sapeva però che una pecorella era da tempo smarrita e, interrogandosi sul perchè, provava un lacerante turbamento interiore e, nei momenti di questo stato angoscioso, gli sembrava di vederla scappare per terreni accidentati e guadare torrenti turbinosi per non farsi raggiungere da un pastore vestito di nero e armato di un bastone. Anche se proveniva da un quadro surreale, la lettura era chiara; ora sentirsi in colpa costituiva l’avvio di un cammino che aveva per meta l’umiliazione in ginocchio. La pecorella smarrita era un suo parrocchiano di nome Germano Zeppa alla fine di sua vita. Don Alberto e Germano non se “l’accoglievano”. L’attrito era prima di tutto d’ordine caratteriale, ad entrambi non andava d’esser comandati, ma comandanti. Negli anni 1946-47 il falegname Germano aveva ultimato i lavori interni alla chiesa parrocchiale e, in più occasioni, per contrasti sull’esecuzione dei lavori, furono sul punto di venire alle mani; se non si arrivò allo scontro fisico, non fu per rispetto del luogo sacro o della veste, ma dal timore reciproco di prenderle invece di darle. Quando per la settimana santa il prete passava a benedire le case, la sola famiglia che saltava era la sua. Germano pativa lo scorno e ci soffriva dentro, perchè si sentiva in colpa anche del turbamento che colpiva l’Erminia. Quest’uomo, che era stato ligio alle leggi e all’autorità costituita e, soprattutto, alla parola data, riteneva ingiusta e sproporzionata l’emarginazione, per tutte le negative implicazioni di quel tempo, che gli si voleva far subire 104


dalla comunità parrocchiale, poiché il fatto di non esser registrato nel libro dei matrimoni lo riteneva un cavillo che non poteva aver titolo per intaccare la moralità di una persona. In realtà la sua convivenza con l’Erminia era da tutti considerata come una normale famiglia composta di marito e moglie; nessuno in paese ha mai visto questa donna come la sua “amica”, essa era per tutti la sua moglie e, che moglie! Paziente, fedele amorosa, sottomessa, sempre disposta all’obbedienza, così come si legge nella lettera di S. Paolo ai Colossesi. Germano e l’Erminia convivevano da oltre cinquant’anni, e per tutto quel tempo non hanno mai avuto l’onore di ricevere una sua visita. Si era nell’anno 1968, Germano, ultra ottantenne, dal letto si alzava solo per sedersi su una sponda, sembrava non temere la morte, anche se la sentiva vicina. Era venuto il dottor Ceccaroli che gli trovò il cuore molto debole. Nel giorni appresso due vicine di casa, dopo la visita del dottore, sono salite in camera per avere notizie dirette della sua salute e, avuta conferma della sua lucidità di mente, gli chiesero se aveva piacere di confessarsi e ricevere la comunione. :- Da don Alberto?- rispose, :- Mandatelo a chiamare. Don Alberto che aveva concertato con quelle persone questa possibilità, ed era in spasmodica attesa, scese subito e, come entrò in camera si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto. Poi si udirono voci rotte dal pianto e singhiozzanti, la voce più straziata era quella del confessore che implorava perdono per sé e per la sua anima. Non c’era mai stato nella vita di queste due persone un atto penitenziale più desiderato e quindi purificatore e liberatorio di questo. Ne uscirono mondati entrambi, ma don Alberto ne trasse il sollievo maggiore, poiché in questa catarsi si sciolse in lacrime e rimase muto ancora per un altro po’ di tempo, a piangere sulle mani e sul petto di quella pecorella ora conciliatasi col suo pastore. Si udì ancora un “Deus absolvat nos a peccatis nostris”. Seguì un’altra pausa di silenzio, poi la porta 105


della camera sospinta dall’Erminia si aprì. Don Alberto si asciugò gli occhi e si sollevò; una volta in piedi si sentì rasserenato e una parvenza di sorriso balenò dai suoi occhi: << Signora ci vogliamo sposare e metterci in regola anche per l’eredità? :- Se German è contento, mi son pronta; - si tolse lo zinale, si accomodò una ciocca di capelli sotto il fazzoletto da testa e si accostò alla spalliera, assunse una posa convenevole al rito, e stringendo una mano al suo German si preparò per il suo sì. Negli ultimi anni della sua vita don Alberto cercava una riabilitazione per la perdita definitiva del complesso chiesa e canonica della Cella. I più anziani avevano tanti bei ricordi legati a questa: le funzioni, le prediche, il giorno del matrimonio, il rosario nelle sere di maggio, i preti, il salone e tant’altre cose perse per sempre. Temeva, e questo era il suo più amaro rammarico, anche se mai espressamente manifestato, ovvero, che questo fatto avrebbe offuscato tutto quanto aveva fatto per la chiesa della parrocchia negli anni precedenti, e che, soprattutto la posterità lo avrebbe ricordato come il prete del tempo della perdita della Cella, e non come il prete della ricostruzione e della ristrutturazione della chiesa di S: Lorenzo Martire e dell’acquisto della nuova casacanonica al suo fianco. Quando si entrava in quest’ argomento, anche se si era d’accordo nel considerare che le colpe erano plurime e di tutta la collettività parrocchiale, tuttavia capiva che il responsabile principale era lui. Almeno in un paio di queste occasioni avevo avuto modo di venire a conoscenza che era suo desiderio di edificare una celletta con dedica alla Madonna della Strada, e collocarla sul Piazzale S. Vincenzo, all’inizio della strada di Cal Fabbro. Oggi, proprio sopra l’ossario che raccoglie i resti mortali rinvenuti sotto il pavimento della prima Cella e quelli dispersi nel 106


campo, dove una volta, sorgeva la chiesa di Santa Maria in Conca e qui collocati, è stata edificata, nell’anno giubilare del 2000, da don Roberto Battaglia parroco di Tavoleto, un’edicola con una scultura in bronzo del dipinto della Madonna del Sole. Alle soglie del 2000 I parrocchiani di Tavoleto nell’ultimo anno di vita di don Alberto Franchini erano molto preoccupati poiché temevano di venirsi a trovare da un giorno all’altro senza il sacerdote. Durante la predica alla messa festiva il loro prete aveva espressamente rivelato che il suo stato di salute era minato da un tumore in fase avanzata. Anche il fratello Alfredo e i suoi figli erano in ansia per questa malaugurata situazione, e con alcuni paesani pressarono il vescovo affinché nominasse per Tavoleto un coadiutore in tempi brevi. Si era in un tempo di crisi delle vocazioni e, in modo più accentuato delle ordinazioni sacerdotali; i seminari vicini andavano svuotandosi; Urbino aveva chiuso, da Rimini ne uscivano cindon Alessandro Crescentini con il suo gruppo di ragazzi (foto Stefano Paolucci)

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que o sei l’anno. In quel periodo era ritornato dagli Stati Uniti, a causa di una malattia là contratta, don Alessandro Crescentini missionario comboniano, ed era in procinto di essere incardinato nella diocesi di Rimini come sacerdote. Era la manna desiderata. Dopo breve tempo fu inviato dal vescovo Giovanni Locatelli alla nostra parrocchia. Era un atto dovuto, con questa nomina il vescovo si riabilitò completamente del fatto che un paio d’anni prima aveva concordato col nostro parroco, impossibilitato a provvedere ai versamenti dei contributi previdenziali della scuola materna parrocchiale, al dislocamento ad altra sede delle suore: (maestra e addetta alla cucina e alle pulizie). Era l’anno 1986. Don Alessandro Crescentini, fra breve tempo solo don Sandro, prese e svolse di fatto le funzioni di parroco, anche se la nomina fu resa definitiva nel 1991. Questo giovane prete, appena ventottenne, era originario di San Clemente (RN), dove era nato e cresciuto, fruitore quindi di tutte quelle esperienze e conoscenze acquisite da un ambiente molto simile a quello di Tavoleto. In questo particolare momento l’esperienza missionaria lo aveva temprato dandogli sicurezza nel proseguimento del suo cammino. Durante questa esperienza trascorsa con altri compagni fra gli indiani d’America, ha avuto modo di mettere a confronto i principali valori costitutivi di due civiltà apparentemente distinte tra loro. Ha portato il vangelo e la speranza della vita eterna, ha fatto loro conoscere Gesù e la sua parola, ha ricevuto in cambio, in modi non predicati ma praticati, la condivisione dei beni e delle risorse, il rispetto della natura, la solidarietà, la sacralità della parola data. Il suo impatto con la comunità parrocchiale aprì una finestra ad un’aria nuova come quella che si respira a primavera. Anche don Alberto ne era contento, anche se il tirarsi da parte, richiedeva qualche rinunzia personale. Si avvertiva che la vita della parroc108


chia, nutrita da nuova linfa, rinvigoriva. Nacque spontaneamente un coro di oltre venti ragazzi, guidati ed intonati dalla voce e dalla chitarra di don Sandro. S’impararono nuove preghiere e canti liturgici sulle note di ritmi musicali aperti alla gioia. Si rinnovò il catechismo per la preparazione dei ragazzi ai sacramenti di prima comunione e cresima. Don Sandro soleva ripetere a questi che l’amicizia consiste nel donare al prossimo la propria gioia, le proprie preoccupazioni, ed al tempo stesso essere compartecipe delle sue. Il gioco è uno stare insieme nella gioia. Si dà avvio ad un rito nuovo nell’impartire questi sacramenti. In quel giorno il centro della chiesa era riservato alla mensa eucaristica contornata dai partecipanti in attesa del convito. Dietro di questi, sedevano i genitori; le altre panche erano più discoste. Don Sandro era ed è un ottimo conoscitore dei testi sacri, abituato a preparare i commenti alle letture domenicali e al vangelo con studio costante per l’approfondimento degli argomenti. Dai paesi circonvicini molti fedeli venivano a messa a Tavoleto per ascoltare le sue prediche. La vita con i ragazzi occupava tutte le ore della giornata. Il mattino era impegnato con l’incarico d’insegnante di religione alle scuole superiori; il pomeriggio: lezioni private, chitarra, canti, materie scolastiche; in tempo di vacanze dei mesi estivi: turni di campeggio, escursioni varie nei dintorni, partite a calcio e soprattutto la pesca per fiumi e laghi che si protraeva fino a notte inoltrata. Un residuo nucleo di quei pescatori è tuttora attivo. Era stato istituito, per la prima volta in parrocchia, il consiglio pastorale e quello economico. Il secondo lo liberava da un impegno di contabilità amministrativa che ripudiava. Preferiva che le offerte per le messe a suffragio dei defunti fossero versate nelle cassettine apposite che nelle proprie mani. Aveva dato inizio ad incontri di catechesi per le coppie in procinto del matrimonio. Era inoltre la persona più idonea cui ricorrere quando i rapporti 109


matrimoniali entravano in crisi ed era necessario ricomporli, o ricevere parole di conforto nelle situazioni disperate Si preparava con passione, zelo e in modo meticoloso ai continui incontri per l’approfondimento della religione su episodi e personaggi del vangelo e della bibbia, sovente il corso di queste lezioni era seguito da partecipanti provenienti dai vicini centri, dagli insegnanti dei comprensori circostanti in procinto di ottenere un attestato d’idoneità all’insegnamento della religione nelle scuole di Stato. Don Sandro però non amava la pratica amministrativa, anzi la odiava, avrebbe molto volentieri fatto a meno di immischiarsi in questioni di soldi: riscuotere, pagare, saldare e altre pratiche simili. Purtroppo la guida di una parrocchia imponeva di occuparsi anche di queste pratiche che esulavano dal suo ideale di “missione sacerdotale”, che aveva per fondamenta capisaldi meno materiali, ma che risiedevano nell’uomo su quattro piloni basilari: povertà, carità, fraternità, letizia, da sole capaci di fargli raggiungere la completa libertà interiore. Don Alberto Franchini non gli aveva lasciato grossi impegni concernenti l’amministrazione dei beni della parrocchia, ma in questo campo, anche i piccoli gli sembravano pesanti. Poco prima che questi morisse, i campanari della ditta “Al Ba”, in un pomeriggio afoso di Luglio gli suonarono alla porta per proporgli di installare un meccanismo d’azionamento automatico delle campane, la risposta che arrivò da quella finestra aperta di malavoglia è rimasta proverbiale: “Ma andate al mare”. Era il mese e l’ora più idonea. Don Alberto tornò a letto a godersi il suo riposo pomeridiano; forse meditando che con le corde o senza, i lugubri rintocchi per la sua morte non li avrebbe potuti sentire. La messa in atto dell’automazione delle campane avvenuta qualche anno dopo è da considerarsi il primo impatto con una realtà 110


Chiesa di San Martino (foto Neil Howlett)

amministrativa che esulava dalle sue precedenti esperienze missionarie che gli avevano affinato il carattere già di per sé mistico rivolto a purissimi ideali. Le maggiori difficoltà, ovvero quelle che gli toglievano la tranquillità, sono state di ordine amministrativo: affitti di terreni spezzati, di cu ignorava l’esistenza, altri terreni della parrocchia sui quali si minacciava il diritto di usucapione da parte dei possessori. Ma una volta composta, con l’aiuto di esperti, quest’ultima contesa ritrovò la sua serenità che gli derivava dall’esser in pace con tutti. 111


Chiesa di Santa Maria in Silvis (foto Neil Howlett)

In questi dieci anni di sua permanenza in Tavoleto è stato gettato un buon seme, specie fra la gioventù. Forse il raccolto non è stato nella misura desiderata, ma è lecito sperare, molti di quei giovani sono ora genitori, quindi il seme è in grado di rifiorire. Amava trascorrere qualche ora del giorno, e altre più lunghe della notte, a pesca in località di S. Martino di Castelnuovo, immerso dalle sole voci di quest’oasi di pace. Il coro del cinguettio degli uccelli e del gracidare delle rane accompagnato da altre voci tutte naturali, rendeva più intensi e intimi questi momenti di amata solitudine. Era innamorato di quella chiesetta e della sua Madonna dall’aspetto umile, senza gemme e ori, solo madre e niente regina, che col capo reclinato su una sua spalla, mostra il figlio a chi la prega. Vedeva in questa località ancora incontaminata dalla presenza umana con i suoi traffici, rumori, e le sue deturpazioni, il luogo 112


ideale per una vacanza salutare per i ragazzi al termine dell’anno scolastico. Sperava che qualche ente o parrocchie ricche della vicina riviera avessero a creare in questo luogo un piccolo accampamento di tende mobili, e anche qualcosa di più solido, atti a offrire ai ragazzi accoglienti campeggi estivi. Questa chiesetta che, in alto sul frontale, conserva ancora il mattone con la data della sua costruzione: A. D. 1840, è stata per oltre un secolo, la custode dell’immagine ritenuta prodigiosa da queste popolazioni che le prestavano una particolare devozione. Dal Decimario di Leale Malatesti, un manoscritto conservato nella Biblioteca Gambalunga di Rimini, riferente al tempo in cui i Malatesta avevano consolidato il dominio su tutto questo territorio: (1350 - 1400), si riscontra la seguente situazione delle Chiesa di Valle Avelana (foto Neil Howlett)

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chiese e cappelle dipendenti dalla Pieve di Trapole: S. Leo, S. Maria in Fabrica (Gironis Fabrica, che può intendersi Girone e Cal Fabbro, centri principali della Parrocchia detta anche S. Maria in Conca); S. Giovanni e S. Donato di Auditore, S. Martino in Ventena dipendente dalla Pieve di Onferno, insieme con S. Biagio di Castelnuovo, con S. Salvatore di Pian di Castello, S. Angelo e S. Ercolano di Ripamassana e S. Giorgio di Valle Avellana. Da un atto di donazione registrato in data 7 ottobre 1409 dal notaio Giuliano di Accorselo, giacente presso l’archivio notarile di Forlì e riportato sulla rivista- calendario “Madonna di Bonora” per la penna di don Pier Giorgio Terenzi che l’ha richiamato a seicento anni dalla sua stesura, si viene a conoscenza che “Bonora del fu Ondidei Bonora della contrada di Levola della giurisdizione del Castello di Monte dè fiori e attualmente abitante nella cappellina di San Martino nella giurisdizione di detto Castello.”... dà conferisce e dona... a frate Pietro... ministro del terzo Ordine della Somma Penitenza di S. Francesco... cella con tre stanze separate, una delle quali dipinta con figura di nostro Signore e della sua Santissima Madre la Vergine Maria. La dicitura “abitante nella cappellina” può significare anche vivere nei suoi pressi, ma è più precisa con vivere dentro; ed è da ritenersi molto attendibile questa seconda ipotesi se si pensa alla vocazione “monacale”: eremita in solitudine, del nostro personaggio. Nell’arco di quindici anni, dall’inizio del 1950 al 1965, queste zone si sono completamente spopolate per la fuga quasi totale verso la costa adriatica dei loro abitanti, e la chiesetta, sempre più sola e abbandonata, è finita nel degrado più squallido. Il portone, chiuso la prima volta a chiave, poi sbarrato fu più volte scardinato con atti vandalici, cui seguivano ruberie all’interno di varie suppellettili. A questo punto è emersa la memoria della sua ex popolazione 114


emigrata in cerca di occupazioni più redditizie della costa romagnola, che ha reso viva e operante la riconoscenza dei suoi ex parrocchiani. Si organizzarono dandosi appuntamento per ritrovarsi in questo luogo nel loro tempo libero portando con i propri mezzi il materiale necessario a ristrutturarla e dotandola di sacrestia laterale e di altri servizi. Sul portale una pietra con la data A. D. 1981 sta a indicare la nascita della sua seconda vita. Ora la persona che ha tenuto sempre unite le fila di questi emeriti volontari è morta; Cesare Muratori n. 8-01-1931 m: 18-10 -2005 in un’immagine come lo si ricorda negli ultimi anni di sua vita, rivive in una cornice posta in bella vista nella sua chiesetta; un “requiem” lo riceve da tutti. Negli ultimi anni della sua permanenza, in seguito ad una ricerca promossa dall’insegnante di religione per i suoi alunni di quinta, si riscoprì dal libro di Ubaldo Ceccaroli e da altre carte manoscritte dell’archivio parrocchiale la storia del ritrovamento della tela col dipinto della Beata Vergine del Sole. La sera della vigilia di questa festa, che è per istituzione la più antica della parrocchia, don Sandro si recò sul luogo per la recita di un rosario presso la cellettina a lei dedicata La celletta è stata eretta, come dice l’incisione sul frontale, nel primo anno del secolo ventesimo, sul sito dove fu trovata “in tempo antico” la tela con l’immagine di una Madonna col bambino; la s’incontra venendo da Morciano poco dopo l’insegna che indica: Casinella località di Tavoleto. A quei tempi l’odierna arteria stradale non esisteva, la strada proveniente dalla Serra raggiungeva la Fornace passando a est del Colle del Sole, oggi su quest’area sorgono grandi opifici industriali, allora qui poteva esserci una scorciatoia su un sentiero di fianco a una siepe di ginestre. La cellettina porta nella sua parte alta tre edicole, in quella frontale c’è la riproduzione del quadro della Madonna del Sole, nelle due laterali, le immagini di S. Vincenzo Martire e di S. Eurosia. Il luogo rappresentava uno dei quattro Corpi Santi in cui si svol115


geva la funzione delle rogazioni. Alla riscoperta di questa storia, la celletta che per lo stato di abbandono mostrava un degrado miserevole, ricevette un primo piccolo restauro, ne beneficiarono le tre edicole e la scritta che ritornò leggibile. Questa celletta, nel 2001, primo centenario di sua costruzione, è stata ulteriormente abbellita e dotata di un ulteriore spiazzo a formare un cortile con aiuole e panche. Ora quel semplice rosario recitato da don Sandro la sera della vigilia della festa della Madonna del Sole e riproposto dai suoi successori: don Roberto Battaglia e don Giuseppe Giovanelli, si è trasformato in una solenne processione che rappresenta una data molto importante per la vita religiosa della parrocchia. Questo evento, ora fissato per il venerdì sera precedente la festa (prima domenica di giugno), si rinnova ogni anno con una cornice anche troppo sfarzosa. Il percorso di ritorno con il quadro della Madonna del Sole è seguito da una processione che intona canti alternati da brani musicali della banda. La strada è fiancheggiata da fiaccole e piazzuole per le luminarie, per i lanci di razzi scoppiettanti e piogge fantasmagoriche che non aiutano a considerare che questa immagine porta il titolo di “Madonna del Sole”, con lei il cammino è nella luce. Dopo due chilometri, l’effige della Madonna in processione si arresta sul piazzale S. Vincenzo davanti all’edicola a lei dedicata, per la predica finale. Una sua lezione. Luglio 1994. Campeggio presso un casolare nelle campagne di Strabattenza di S. Sofia coi ragazzi delle scuole medie dei comuni di Tavoleto ed Auditore. Quella mattina qualcuno era entrato nella camera di don Sandro e aveva sottratto qualcosa (non ricordo cosa), era logico pensare ad un nascondimento più che a un furto, ad uno scherzo di breve durata, ma era già mezzogiorno e ancora nessuno si era fatto 116


avanti. Si era a tavola, arrivarono le pietanze, ma ne mancava una, la cucina aveva rispettato l’ordine impartitole. Don Sandro si alzò per la preghiera, ma prima disse :- Oggi qualcuno non mangerà, e sapete il perchè.L’atmosfera era tesa. Un ragazzo di Casinina rispose:- Perchè chi è stato non ha il coraggio di parlare- . Un altro replicò:- Io quando ero in fallo ho parlato ed è finita lì-. Don Sandro, - Non so come potrà mangiare sapendo che qualcuno sta senza per colpa sua!Qualcuno replicò:- Gliene diamo un po’ ciascuno-. Don Sandro :- Il pensiero è apprezzabile, ma non educativo e non risolve il problema, l’ingiustizia rimane, poi aggiunse:- per questo pomeriggio è programmata l’escursione fino alla diga di Ridracoli, quello che non riceverà il piatto non potrà venire. Si recitò una breve preghiera. :- Sedete, vi do un minuto di tempo, poi inizierà la distribuzione dei piatti. Quei sessanta secondi scorrevano lenti in un silenzio di tomba, che si ruppe quasi al loro scadere da un:- Sono stato io.- Quella voce fu subito coperta da un’approvazione corale mista ad applausi, mentre il ragazzo raggomitolato dentro la sedia, veniva ricoperto da pacche in segno di incoraggiamento e di un’amicizia consolidata. Don Sandro in tono sereno:-Ed ora è come se non fosse successo niente- e rivolto alle cuciniere in attesa -iniziate pure la distribuzione e portate un piatto anche per me.-

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Parte Seconda DIES IRAE (31 marzo 1797) Noi conosciamo i fatti tragici di questa storica giornata, in parte a seguito delle testimonianze degli scampati e, pervenuteci attraverso un’ininterrotta tradizione orale passata di generazione in generazione. Il racconto più completo è indubbiamente quello scritto nel 1876 dal nostro compaesano U. Ceccaroli e trascritto su queste pagine. E’ bene e doveroso però, far notare che la meticolosa ricerca operata da storici ha offerto conoscenze precise riguardo alle cause e agli avvenimenti di questo filone di storia italiana, che a molti sono ignoti e che hanno assunto il nome di ”Insorgenza”. E’ bene considerare che in merito a questo nostro preciso evento che pone Tavoleto al vertice della resistenza anti giacobina, Napoleone Bonaparte legittimava, in cambio del dono dell’importazione della “sua libertà”, il diritto di comandare in casa altrui, che si traduceva nel diritto di trafugare le nostre opere d’arte e i nostri tesori, testimonianze di un grado di civiltà che la Francia non aveva ancora raggiunto. Alessandro Petrucci ha ricercato e divulgato gli avvenimenti storici relativi all’insorgenza italiana, e in modo più dettagliato per quello che ci riguarda sul nostro territorio. Questi si è anche assunto lo scopo di precisare e fatti e gli antefatti, i luoghi, i percorsi, le date, il numero degli aggressori e quello dei difensori, i torti e le ragioni degli uni e degli altri. Rappresaglie franco-cisalpine in questo periodo 1796-1810 erano già state condotte contro gli insorgenti di Bagnasco, centro lombardo che subì incendio e devastazione, ma il 31 marzo 1797, giorno dell’’incendio e del saccheggio di Tavoleto, fu considerato esemplare dalle Autorità militari francesi che, nel periodo successivo a quella data, minacciavano rappresaglie a quei pa118


esi dove il fermento di rivolta era duro ad assopire col monito: “Come fu fatto a Tavoleto.” I soldati cisalpini che parteciparono a quell’impresa presero a ricordarla nella lotta contro le insorgenze. Da una nota di C. Natali che riporta notizie e documenti sulla Legione Cisalpina 1796-97 e riportata da Petrucci in (“come fu fatto a Tavoleto) si legge “Finalmente a S. Elpidio e a Tavoleto ne furono per vostra mano distrutti gli ultimi avanzi, assicurando così alla nostra repubblica l’unione dell’Emilia rigenerata.” La giunta cisalpina che fa questi elogi ai suoi soldati, non accenna che a S. Elpidio queste truppe subirono molte perdite, circa 200 morti, inoltre, si premurarono bene di non riferire le numerose diserzioni avvenute nelle loro file. A Tavoleto poi, erano oltre mille gli assalitori e, meno di un centinaio i difensori. L’antefatto Il Vicariato di Tavoleto compare la prima volta col nome ”Vicariatus Tabuleti sive Auditorii” in una relazione manoscritta del vescovo di Rimini mons. Ferretti della sua visita pastorale negli anni 1780- 81, sono elencate anche le nove parrocchie in esso comprese, in quegli anni non si era ancora distaccata S. Colomba; doveva essere un Vicariato di recente istituzione e subentrava a quello con sede in Auditore. Anche se nessuna delle otto parrocchie incorporate fosse in territorio romagnolo, apparteneva ecclesiasticamente alla diocesi di Rimini, il cui vescovo, Vincenzo Ferretti (1740-1806), prevedendo la mala parata, all’arrivo dei Franco repubblicani, appena avuto sentore delle loro prime scorrerie in zona, lasciò la curia e trovò un sicuro rifugio in un centro della montagna, c’è chi afferma che fosse riparato in una parrocchia della Repubblica di San Marino cui Napoleone aveva offerto la sua personale amicizia, dove: “Stesse fino il 13 Aprile”. Fu anche per l’impossibilità di ricevere iniziative da Rimini, che per il vicariato di Tavoleto, nei mesi di febbraio e marzo, il centro 119


degli interscambi di comunicazione e, per ricevere disposizioni per come organizzare gli insorti, rimaneva Urbino. Infatti, il 12 marzo dopo aver discusso in un consiglio popolare come organizzare la difesa in caso di aggressione s’informava delle decisioni prese dal gonfaloniere di Urbino, e gli si chiedevano inoltre informazioni sulla pace tra il Papa e il Bonaparte. Queste notizie (sul trattato di Tolentino 19-02-1797) giunsero troppo tardi o non furono prese in considerazione dalle popolazioni già in armi. (*1) Un aneddoto ricorda che Napoleone, al termine di una seduta nella quale non aveva ottenuto tutto quello che voleva, fosse fuori di sé, giunto in fondo alla scala, con atto rabbioso scagliò la boccetta d’inchiostro personale contro una parete dell’atrio, imbrattandola con una macchia ancora visibile. (*1) Pace di Tolentino – Conclusa (come il ”dettato”) di Napoleone, tra la Repubblica francese rappresentata dal Bonaparte in persona, e i delegati di Pio VI, cardinale Mattei, dal duca Braschi, da Mons. Caleppi e dal marchese Massimo. Il Papa, oltre pagare i 16 milioni di franchi promessi con l’armistizio di Bologna, e aumentati di altri 15, s’impegnò a rinunciare ai suoi diritti su Avignone, sul contado Venassino e sulle tre legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna; accettò l’occupazione di Ancona, consegnò molti importanti manoscritti e opere d’arte.

Da alcuni testi di storia per le scuole superiori, si apprende che Pio VI, (Gian Angelo Braschi), cesenate, papa dal 1775 al 1799, ebbe occupata dai francesi parte della Romagna, e dovette sottoscrivere il trattato di Tolentino (1797), gravosissimo. Nel 1799 fu fatto prigioniero e morì in esilio in Francia. Lo Stato Pontificio fin dal 1796 aveva costituito un esercito attraverso l’arruolamento di volontari e la coscrizione di un uomo ogni cento uomini, con l’intento di sbarrare la discesa delle trup120


pe franco-repubblicane che si apprestavano a entrare nel territorio pontificio nei pressi di Faenza. Gli invasori superarono facilmente l’ostacolo opposto sul fiume Senio da questo improvvisato esercito con pochi mezzi e armi arrugginite per due secoli d’inerzia. Da cronache del tempo si è appreso che si batterono coraggiosamente sia gli ufficiali, sia i soldati, anche se da stampa avversa furono degradati da papali a “papalini”. Alcuni di questi, specie i volontari in difesa della “causa” li ritroveremo nelle file delle varie formazioni delle Insorgenze. In una cronaca riguardante il saccheggio di Tavoleto, se ne fa cenno; si ripete che le loro azioni militari erano dettate da uno spirito di lealtà verso la “fede”e di attaccamento al loro sovrano. Anche Tavoleto, con tutte le Comunità del Vicariato rispose agli ordini di arruolamento provenienti da Roma. Nacque in questi giorni l’arte del confezionare cartucce. A quei tempi i fucili erano tutti ad avancarica e, preparare un colpo richiedeva diverse operazioni, mentre la cartuccia spinta nella canna sveltiva i tempi. Da una relazione del comandante dei cispadani Paolo Calori, collega del generale francese Sahuguet nel giorno dell’assedio e dell’incendio, è riportato testualmente che “Tavoleto era la sede dei briganti, o la piazza d’armi, questo paese era quello, dove si fabbricavano le cartucce da fucile, le palle; erano gli abitanti ben forniti d’armi”. Ritiene convintamente che questo paese fosse il centro operativo dell’insorgenza diffusasi ovunque, in quel turbolento mese di marzo, specie nelle colline della valle del Conca, fino a scendere al piano e ai centri della riviera romagnola. Noi conosciamo, attraverso altre fonti, che Domenico Galuzzi, fratello del parroco di Tavoleto, aveva fatto buona scorta di polvere sulfurea e la teneva nascosta sopra il soffitto della Cella, che, una volta incendiata dai francesi fece saltare tutta la chiesa e la canonica annessa, dove questi abitava. Questo prepararsi alla difesa va collegato al proclama emesso dallo Stato Pontificio nel 121


settembre del 1796 e spedito a tutte le parrocchie affinché lo diffondessero. L’appello alla difesa ebbe un ruolo primario nell’episodio di Tavoleto, perché ordinava la resistenza armata in caso di attacco francese e finiva con l’appello “a Vescovi, Parroci, Magistrati civili d’ingaggiare i popoli, da loro dipendenti, a prendere l’armi, ed a eccitarli anche al suono delle campane a martello”. L’arciprete di Tavoleto, al tempo anche vicario delle otto parrocchie a lui soggette, fu un solerte esecutore di quest’ordinanza pontificia e, quando i francesi, nel febbraio del 1797 diramarono l’ordine di depositare e consegnare le armi in possesso dei cittadini o della Comunità, questi, in qualità di Vicario, indisse un consiglio a Ripamassana il 12 febbraio 1797, dove si deliberò di chiedere alle autorità franco-cispadane l’esenzione per tutto il vicariato, non per opporsi a loro, ma per difendersi dai malviventi che infestavano queste zone. Pochi giorni dopo, il sedici dello stesso mese, alcuni soldati di Urbino, in seguito ad ordini provenienti da Pesaro, ma con buona probabilità, concordati col vescovo, arrestarono un abitante di Auditore che si era opposto alla consegna delle armi e aveva incitato alla lotta contro i francesi, immediatamente, come si legge in Petrucci, “Insorgenti Marchigiani” citando il Fiorini (Diario pag. 7) a Tavoleto i contadini: “Nemici acerrimi dell’odiata novità, Cattolici e attaccati al legittimo nostro sovrano si armarono quasi in ottocento e insieme agli uomini di Auditore diedero la caccia ai soldati urbinati”. Se il numero corrisponde alla realtà, si deve supporre che non furono solo le due comunità citate, ma tutto il vicariato a parteciparne, anche con l’apporto di altri centri; ma mi resta più razionale ritenere che la cifra di 800 armati sia stata gonfiata. Questo episodio fu considerato come un fermento d’intolleranza che poteva far da miccia e divampare con ampio raggio nei dintorni, perciò l’amministrazione repubblicana centrale di Pesaro si prese immediatamente cura di avvertire che un contingente di 122


600 uomini francesi e cispadani era sul piede di trasferirsi ad Auditore “per l’esecuzione militare” se non si fosse eseguito l’ordine del disarmo, “nonostante il rumore popolare”. Auditore non si mosse, ma a Tavoleto, quando si venne a conoscenza di questa truppa franco-cispadana che minacciava Auditore, ci si accinse a studiare un piano di difesa condiviso da tutte le comunità. Da una relazione del Capitano del luogo Guido Verzolini, prodotta il 26-10-1797, quindi dopo la battaglia, si apprende che la mobilitazione per la difesa in armi è conseguenza del fatto che la circolare romana ritorna di nuovo ad essere affissa dall’arciprete don Galuzzi, la popolazione del vicariato allora, si pose in difesa del paese, gli abitanti si misero agli ordini dei priori che rappresentavano la comunità e, al conduttore del forno pubblico, fu ordinato di tenere pronto il pane per gli uomini in armi. Erano i giorni in cui i francesi assalivano Urbino con colpi di artiglieria pesante. E’ di questi giorni la scorreria che, secondo l’accusa del generale Sahuguet, è opera dei tavoletani, discesi da qualche giorno al piano, armati, per derubare i pacifici carrettieri che percorrono la strada marina nei pressi di Cattolica. Se un fatto simile è accaduto, è reso possibile solo in considerazione che i derubati delle colline fossero stati costretti con soprusi, prepotenze e minacce di soldati armati, a una contribuzione oltre il sostenibile, che andava a favore degli invasori e di chi li spalleggiava. Il tentativo di riprendersi ciò che era stato tolto rappresentava per loro “l’ultima ratio” vitale per la loro sopravvivenza. L’atto d’accusa del Sauhguet, datato 1-4-1797 (il giorno dopo l’incendio di Tavoleto), sa tanto di un pretesto per giustificare la sua rappresaglia di fronte al vescovo di Urbino col quale, in quel periodo, era in buoni rapporti. Notificandogli la distruzione di Tavoleto, poiché credeva fosse una parrocchia della sua diocesi, così si esprimeva: “Sono stato in necessità, Monsignore, 123


di adempiere nella vostra diocesi un dovere molto disgustoso, sono stato obbligato di far marciare delle truppe sopra Tavoleto per sterminare gli abitanti e bruciare il villaggio”. Giustificava la sua azione poiché rivolta contro un sacerdote che, secondo le sue convinzioni, aveva traviato tutta la sua popolazione facendosi promotore dell’insorgenza; “Suppongo che il curato Galluzzi sia stato bruciato con gli altri nel villaggio dove doveva essere nascosto”. Da Petrucci “Insorgenti Marchigiani”, citando Paci (Berioli pag. 308)- L’arcivescovo Berioli, che riteneva Sahuguet “un militare pieno di cuore e di umanità”, rispose alla lettera del generale perché “sommamente tenuto” a causa della notizia ricevuta e inviò alla moglie del francese un “buon numero di sacre reliquie”, verso le quali, la donna, conosciuta a Pesaro, aveva mostrato interesse. Don Galuzzi, in una lettera del 7 giugno dello steso anno, escluse la presenza dei suoi parrocchiani a quell’impresa. Ma, come si legge su altre fonti, trattavasi di ”discoli del Tavoleto e di S. Giovanni, insieme a molti della Romagna per appropriarsi delle contribuzioni dovute ai francesi”, è doveroso valutare le due affermazioni, poiché entrambe potrebbero essere considerate, in parte, vere. In altri documenti si legge che in questo periodo a Tavoleto c’erano diversi “forastieri”, le cui azioni non potevano essere controllate o guidate dai capi della comunità, questi mescolandosi a chi tentava di recuperare il maltolto, facevano passare da “discoli” anche chi non lo era. Don Galuzzi ribadisce in un’altra sua lettera che erano gruppi che agivano autonomamente, “a capriccio”. Come ci racconta Francesco Maria Agnoli nel libro-romanzo “Gli Insorgenti” che le città, dopo un lungo inverno seguito da un autunno e un’estate durante la quale poco si era lavorato nei campi e ancora meno si era raccolto, “avvertivano sul collo il fiato gelido della carestia e della fame”. A questo punto per fron124


teggiare la fame nelle città, specie a Pesaro l’amministrazione giacobina, che governava la città, al fine di conservare ad ogni costo l’appoggio delle borghesie cittadine, le quali, per convinzione o anche per convenienza, si erano dichiarate per le nuove idee, aveva promosso apposite ordinanze per requisire il grano e altri generi alimentari reperibili nelle campagne. Dopo che i contadini avevano fatto di fronte a queste ordinanze <<orecchie da mercante>>, la guardia civica pesarese e quella urbinate, appoggiate dalle truppe, appositamente inviate da Napoleone Bonaparte, comandate dal tenente col. Paolo Calori, avevano eseguito l’ordine con rigore militare. E qui si prende a pretesto la scorreria dei “discoli tavoletani” a Cattolica per dare una qualche giustificazione alla feroce e sproporzionata rappresaglia operata a Tavoleto. Queste contribuzioni carpite col fucile puntato sono da ritenere come la goccia che fa traboccare il vaso. A Tavoleto, come si legge in “Gli Insogenti“ (Agnoli) ”Don Pietro Galuzzi, uomo di carattere impetuoso, zelantissimo nella difesa intransigente del cattolicesimo e del potere temporale, che, giudicava, secondo le idee del tempo, inseparabili, non riusciva ad adattarsi ai consigli dei superiori e, per esprimere con chiarezza ciò che sentiva, con le sue prediche, più di una volta aveva infiammato il gregge dei fedeli a tal punto che, alla fine della Messa, si sentiva in dovere di aggiungere che, a dispetto di tutto, occorreva pazientare, non abbandonarsi a gesti avventati e lasciare che il Signore tessesse la lunga, ma sicura trama della sua tela”. A questo punto, dacché lo spettro della fame incombe anche sui contadini della sua parrocchia, le sue prediche non si concludono più con l’ammonimento alla pazienza. Anche nelle campagne e nei centri collinari dell’entroterra pesarese, sulle colline attorno ad Urbino, nel Montefeltro, fino in terre di Romagna queste contribuzioni estorte dai franco-cispadani con metodi militari alimentano i focolai delle insorgenze in molti 125


centri, dove, al solo pensiero di non aver più pane per figli, anche i più pavidi sono pronti ad armarsi. Ora gli insorgenti hanno un doppio motivo di contrastare gli invasori, sono in armi in difesa della loro fede religiosa e della salute del corpo. Combattono, infatti, contro quella borghesia cittadina che aveva dato l’appoggio ai nuovi padroni per convinzione, ma anche per convenienza. Alcuni ricercatori storici quali Elisabetta Rauti, Sandro Petrucci, M. Viglione, Angelo Varni, Roberto Balzani, Paolo Giannotti e altri presenti a Tavoleto in occasione del bicentenario della battaglia del 31-3-1797, hanno posto Tavoleto tra le roccaforti della “Vandea italiana”. Come ho già avuto modo, (nel 1999), di scrivere (Vedi: Storia e Storie del tempo che fu), ribadisco di non condividere l’accostamento delle insorgenze nel nostro territorio alla reazione antirivoluzionaria della Vandea. La popolazione di quella regione scese in armi per restaurare la monarchia, opponendosi a una rivoluzione in atto. L’”Insorgenza” nelle nostre zone era una sollevazione spontanea di masse popolari senza capi che aspirassero a diventare “padroni”; lottavano sì, in difesa del loro sovrano e della loro fede religiosa, ma soprattutto in difesa delle loro parrocchie e Comunità auto-amministrate, contro chi aveva invaso il loro territorio, contro chi imponeva con la forza i suoi voleri, contro chi voleva sottomettere questi uomini, e con modi coercitivi asservirli, vedi le contribuzioni forzose delle loro provviste e dei futuri raccolti. Se un accostamento si vuole riportare ad avvenimenti storici similari, mi pare che la nostra insorgenza si possa avvicinare a quelli del “Giuramento dei liberi comuni a Pontida” e alla battaglia di Legnano 29.05.1176 La discesa di Napoleone in Italia va giudicata con mente libera da idee e pregiudizi politico-filosofici; non sono contro “i lumi” di una ritrovata illuminazione della ragione, ma reputo che Napoleone, alla loro esportazione dalla Francia, non abbia mai pensato. 126


A lui interessava solamente importare. Si rilegga “il Trattato di Tolentino”. In quegli anni dall’Italia sottomessa partono in continuazione, alla volta della Francia, carri carichi di opere d’arte di valore inestimabile; l’erario di quella nazione dispone di un introito pari a tutto il gettito delle contribuzioni dei suoi cittadini. Chi abbatte il tiranno e prende il suo posto, non è portatore di libertà, anche se troverà sempre un popolo pronto ad applaudirlo. Il nostro arciprete non si allineò; avrebbe potuto agire alla maniera del suo confratello don Domenico Antonio Fronzoni, parroco di Saludecio, il quale, saputo che i francesi erano sulla strada in marcia alla volta di quel paese, riempì una zuppiera con scudi d’argento e altre monete d’oro e, seguito da altri religiosi e diaconi, varcò il portone delle mura e andò loro incontro facendo atto di sottomissione. Ciò significava trasgredire il dettato dell’ordinanza di Roma, azione improponibile a un sacerdote come don Galuzzi, ligio al suo dovere e fedele esecutore delle direttive pontificie; nel momento decisivo si trovò senza una protezione dai diretti superiori che ritennero opportuno e politicamente più vantaggioso allinearsi ai nuovi padroni. Don Galuzzi non nutriva queste mire, non era interessato alla politica dei concistori e, tanto meno, a quella dei conclavi, era il buon pastore che è stato costretto a ricorrere al randello, allorché i lupi famelici, prima gli sottrassero le scarse provviste, poi minacciarono e aggredirono il suo gregge. Il suo paese lottò fino allo stremo delle forze, fu saccheggiato e bruciato, venti Tavoletani, caddero “in pugna pugnantes”, lasciando al loro paese una grande e peritura testimonianza di coraggio. Io sto dalla sua parte. Mi sentirei molto onorato di poter leggere su un testo di storia a uso scolastico, che il 31 marzo 1797, Tavoleto, paese in provincia di Pesaro-Urbino di 465 abitanti, con una cinquantina di uomini armati, tenne testa fino alla caduta dell’ultimo difensore, a un esercito di due truppe coalizzate: franco-cisalpine e franco-cispadane, forte di oltre 1000 fanti e 200 dragoni agli ordini del generale francese Sahu127


guet e del tenente col. Paolo Calori di Ferrara. È sempre dietro l’angolo il giorno dello scatenarsi dell’ira francese. In questo fine mese di marzo il territorio delle montagne tra Marche e Romagna, a quanto afferma in una sua lettera il vescovo di Fano mons. Gabriele Antonio Severoli, sarebbe stato il teatro degli scontri dei due schieramenti. La lettera portando la data del 31-3-1797 fa presumere che non gli era ancora pervenuta la notizia dell’incendio di Tavoleto, ma era informato di una colonna di 2000 francesi in marcia contro gli insorgenti di Romagna. Non è provato però che sia la stessa che ha raggiunto Tavoleto. “Die trigesima tertia Martii millesimo septingentesimo nonagesimo septimo (1797). In pugna pugnantes Galli contra Castrum Lune Tabuleti die Veneris 31”. È Tavoleto il luogo dello scontro degli opposti schieramenti, siamo al giorno dell’ira (Dies irae). L’impatto fra Insorgenti e Franco-Cisalpini fu di breve durata, ma cruento. Il paese, nel pomeriggio del 31 marzo 1797 fu raggiunto da due colonne, entrambe partite da Rimini. La prima guidata dal Generale Sahuguet al comando di una truppa franco-cisalpina di 800 fanti, 200 dragoni a cavallo e cani mastini che avevano il compito di finire i feriti azzannandoli alla gola. La seconda composta da franco-cispadani, (300 fanti e 60 cavalieri) al comando del tenente col. Paolo Calori. Dalla cronaca dello scrittore riminese Michelangelo Zanotti, che risulta essere un cronista molto informato di questi avvenimenti, Sahuguet si recò per primo a Cattolica, poi a Morciano, Monte Scudo, Mondaino, Sogliano e infine a Tavoleto. A me pare un percorso troppo contorto, ed è probabile che per un errore grafico di trascrizione si sia confuso Sogliano con Saludecio. Dalla relazione di Paolo Calori. ”La mattina del 30 marzo, partiti da Rimini si recarono a Cattolica, inseguirono gli insorgenti fino a Morciano dove si erano rifugiati, ne trovarono circa venti, che pur scappando continuavano a sparare”. Quest’episodio è ricordato anche nella lettera-procla128


ma del Sahuguet al vescovo di Urbino: “Molti ne sono stati uccisi a Morciano”. La marcia, proseguiva nella sua relazione il Calori, continuò per Saludecio e raggiunse Mondaino il 31 marzo, dove catturarono diversi ostaggi e saccheggiarono la casa di un abitante accusato di aver sottratto alla contribuzione buoi non suoi. Saludecio era stato risparmiato dalla loro rappresaglia per il noto intervento del parroco Domenico Fronzoni. Tra Francesi, Cisalpini e Cispadani, quanti furono gli armati che raggiunsero Tavoleto? Le fonti offrono informazioni diverse, ma i numeri non divergono di molto. Secondo la cronaca del riminese Zanotti, Sahuguet comandava 800 fanti e 200 uomini a cavallo, l’altro comandante Calori aveva agli ordini 300 fanti e 60 uomini a cavallo; don Giacomo Vanni cappellano della parrocchia di S. Giovanni di Auditore riporta sul libro dei morti 700 francesi; in una relazione di don Pietro Galuzzi si legge “mille uomini tra fanti, dragoni francesi, sgherri della Romagna preceduti da cani mastini” una simile cifra è riportata nel libro “Memorie sul Tavoleto”, scritto da U. Ceccaroli dopo ottant’anni ”1000 soldati della Repubblica francese” dal vescovo di Fano mons. Gabriele Severoli si ha conoscenza di 2000 franco repubblicani operanti nel territorio di Mondaino, Gaifa, Saludecio , Montetizzi. Notizie di queste truppe che erano in marcia alla volta del paese erano sicuramente arrivate da varie staffette e, confermate all’arrivo, il giorno prima, da molti insorgenti in fuga davanti agli aggressori. Zanotti racconta che questi, “qui si fecero forti aspettandoli a piè fermo” Infatti a Tavoleto si sentivano più sicuri per la natura del luogo munito di mura e di una rocca. Il comandante dei franco cispadani Paolo Calori, che in quel 30 marzo, giorno della vigilia dello scontro, si trovava con tutta la sua truppa nei pressi di Mondaino, dove, molto probabilmente bivaccò, in attesa dell’arrivo del Sahuguet, scrive nella sua relazione: “fino alla notte precedente fu sonata la campana a martello”. Ciò fa pensare che, nel timore che a Tavoleto si fosse 129


concentrata gran parte della “Insorgenza” armata, non tentò con le sue sole forze di assalire il paese. Il paese di Tavoleto era sicuramente in armi, erano accorsi al suono della campana altri coraggiosi dalle comunità del vicariato, erano arrivati, in quest’ultimo giorno insorgenti da varie località, si ha notizia di un gruppo di persone che, poiché ricercati dalla Guardia repubblicana, aveva lasciato Rimini, questi sbandati erano qui da alcuni giorni, però, temendo lo scontro armato si misero in salvo di buon mattino in luoghi più tranquilli dell’Appennino con gli sfollati del paese. Il comando militare di tutto l’organico delle varie truppe dislocate in questo territorio era convinto che Tavoleto fosse il centro d’iniziative, non solo degli insorgenti del vicariato, ma anche della Romagna, del Montefeltro e di “piccole squadre” di gente senza banda. Lo scontro, “...il totale esterminio”, il saccheggio, l’incendio, i morti. Come si svolse la battaglia? Del suo svolgimento bisogna attingere alle relazioni dei due comandanti Jean Sahuguet francese, e Paolo Calori cispadano; s’intuisce che sono notizie di parte che tendono a colpevolizzare l’avversario per sminuire l’aspetto di un’aggressione per rappresaglia che doveva anche conseguire lo scopo di “atterrire il partito contrario” ai francesi in una zona dell’urbinate in cui, da diversi mesi, si contrastava la loro presenza. Il primo: Sahuguet, ancora “gonfio” per la vittoria, così la declama al suo amico vescovo: “Sono stato obbligato di far marciare delle truppe sopra Tavoleto per sterminare gli abitanti, e bruciare il villaggio“ e, continuava: “e fortunatamente ho trovato gli altri al Tavoleto, dove si erano fortificati e trincerati; si sono difesi per un momento; ma ben presto gli assassini, e le loro tane sono stati ridotti in cenere. Suppongo che il curato Galuzzi sia stato bruciato cogli altri nel villaggio, dove doveva essere nascosto”. 130


Nella relazione del secondo comandante: Calori, si legge: ”L’uccisione di tutti quei malandrini, il sacco e l’incendio totale del paese è stato un solo momento”. Precisava inoltre che gli insorgenti accolsero i franco- cispadani sparando, finché la fanteria di Sahuguet non riuscì ad arrampicarsi sulle mura del castello e a penetrarvi. Il capitano Guido Verzolini, in quel giorno ospite del suo collega in Auditore, in una sua lettera in cui sosteneva la causa del conduttore del forno pubblico Guidubaldo Ceccaroli, che aveva subito molti danni, scrive: ”Entrati gli Inimici in questo Castello, cercarono l’esterminio di tutti coll’incendio, che avvaloratosi in un istante, ridusse in cenere la maggior parte delle Abitazioni con quanto era rimasto al saccheggio preventivamente da essi dato”. Lo Zanotti nella sua cronaca precisa che quanto asportato fu rivenduto a Rimini, dove i francesi ritornarono ”baldanzosi” e ”carichi di spoglie di que’ meschini terrazzani e ne fanno pubblico mercato”. Tutte le fonti finora citate concordano nel ricordare che gli assaliti tentarono una difesa. L’arciprete Galuzzi in una sua lettera annota che gli insorgenti uccisero sessanta francesi e alcuni cani mastini. Lo storico Zannotti, pur non precisando il numero, ammette che quel breve scambio di fucilate procurò molti morti anche fra le file dei franco-cisalpini. Il racconto di Zanotti che inizia con l’avanzata dei francesi e il ripiegare degli insorgenti fin dentro il castello di Tavoleto, ove “si credevano più sicuri perché fortificati dalla natura”...”si fecero forti aspettandoli a piè fermo”, riporta nella la cronaca di quel giorno dell’ira francese: “Giunti i francesi in prossimità del Castello, attaccarono furiosamente gli insorgenti, i quali ferocemente rispondono e si battono per qualche tempo più col coraggio che coll’esperimento dell’arte, ma conoscendo di non potersi sostenere ulteriormente, dopo un vicendevole replicato scarico di fucileria con reciproca perdita, si danno a precipitosa fuga verso a più alta montagna”. 131


Abbiamo letto nel libro “Memorie sul Tavoleto” uno svolgimento della battaglia non molto dissimile da come descritto dalle fonti ufficiali dei vincitori, però è doveroso valutare ciò che è stato sottaciuto o non combacia nelle due versioni. Il cronista tavoletano riporta episodi di sevizie e atti sacrileghi e, un altro più discutibile, di segnali di resa da parte dei francesi alle prime scariche degli insorgenti. Nella relazione del Calori si fa menzione di campane a martello che suonarono nella notte precedente; Ceccaroli non ne parla, e il motivo potrebbe essere quello di non contraddire il proprio parroco del quale sua madre Francesca Galuzzi era la nipote. L’innalzare vessilli bianchi in segno di resa da parte dei francesi di fronte alla prime scariche dei tavoletani e, poi ancora una seconda volta, a un’altra ripetuta scarica, ne fa cenno solo il suo libro. E’ impensabile che una truppa così agguerrita e arrivata con deliberato intento di rappresaglia e di avido saccheggio, prenda ad arrendersi alle prime schioppettate. Il cronista tavoletano, più che da documenti, ha raccolto testimonianze di persone che erano a conoscenza di questi fatti a loro pervenuti dopo le generazioni dei padri e dei nonni. Attribuì il comando della colonna francese al generale Lemonier; un nome con un’assonanza simile era molto noto in quegli anni a cavallo del 1800, nel novembre 1799 aveva posto l’assedio ad Ancona, ma si chiamava: Monnier (Jean Claude). Era diventato famoso per aver istituito le famigerate “colonne infernali”; erano composte di cento volontari provenienti dalle più disparate nazioni e, a ogni defezione era pronto il sostituto. Indossavano corte divise dai colori neri e blu. I loro componenti avevano fatto un patto con Lucifero, erano acerrimi nemici dei preti e di tutte le forme del cristianesimo; le loro “infernali incursioni nei villaggi avevano come primo obiettivo l’incendio della chiesa e l’uccisione del parroco”. Si servivano di “sbiraglie” per compilare liste con i nomi dei capi degli insorgenti, e di sicari ben prezzolati per raggiungerli. Si era sparsa voce che in una di queste liste ci 132


fossero i nomi di Carlo Baldini, curatore dei beni della famiglia Staccoli di Urbino, officiale di Pietracuta, quale presunto capo delle “piccole squadre di Tavoleto” e dell’arciprete di Tavoleto, il quale, oltre ai tanti guai che gli erano piovuti addosso, ora è costretto anche a vivere nel terrore di un agguato mortale che teneva in apprensione tutta la sua famiglia. E’ mia convinzione che il nome di questo Monnier ricorresse spesso nei discorsi di sua madre, specie quando raccontava al figlio questo tragico giorno. Francesca Galuzzi era nata nel 1788, in quella famiglia è stata fino al 1811, anno della morte dello zio don Pietro. Ha vissuto questo tempo con la paura di una nuova sciagura per la sua casa, già una volta distrutta e, lo associava sicuramente al nome di Monnier che per assonanza è diventato Lamonier. Ceccaroli, non conoscendo Sahuguet, era convinto che il famigerato comandante delle truppe francesi che avevano incendiato Tavoleto fosse lo stesso che terrorizzava i villaggi con le sue “colonne infernali”. Non si hanno notizie da dove siano arrivati questi due contingenti di truppe; i franco-cispadani, al comando di Paolo Calori, é presumibile, da Mondaino che dista otto chilometri a est. Sahuguet potrebbe aver seguito lo stesso percorso sopraggiungendo da Rimini, per Cattolica, Saludecio, Mondaino, indi, unito al collega, alla volta di Tavoleto. Ci sono però buoni motivi per prendere in considerazione che il Sahuguet possa essere salito a Tavoleto direttamente da Morciano passando per Montefiore. Nella sua relazione- proclama scrive di aver attaccato una ”piccola squadra di briganti del Tavoleto”, poi averli ritrovati in quel castello dove si erano rifugiati “ove si sentivano più sicuri”. C’e anche un altro motivo che può avvalorare questo percorso. Secondo l’arciprete Galuzzi, da come emerge in una sua lettera, ad assalire Tavoleto, oltre “a più di mille Francesi”, c’erano anche “sgherri della Romagna co’ cani mastini”; a capo di queste compagnie di “sbiraglie” composte di conoscitori di questi luoghi e di percorsi abbreviati, c’era un sacerdote originario di 133


Montefiore ma abitante a Rimini: don Vitali, che ”andava avvanti ai dragoni Francesi con la sciabla(sic) sfoderata”. Don Pietro Galuzzi era al corrente del salto di fosso di don Vitali che ora agiva apertamente a favore dei francesi. Quando gli insorgenti di queste zone riuscirono ad arrestarlo, non poteva negare che uomini del Tavoleto non avessero appoggiato l’iniziativa promossa dai montefioresi. Ma, di rimando all’insinuazione di una sua “impulsa” all’ istigazione, rispondeva che egli esortava i suoi parrocchiani “a badare ai loro lavori” e ribadiva ”io non sono comandante, né sottocomandante”. Dopo il saccheggio, ognuno ha preso in spalla il sacco del suo bottino: biancheria, stoviglie, conigli, galline, agnelli, porcellini e altri animali e cose a portata di mano: formaggi, vino ed olio. Completato il “repulisti”, questi ebbero cura di incendiare le case e, così fecero, iniziando da quelle dentro il murato, poi la rocca e quelle tutt’attorno. Forse l’ultima fu la Cella che divampò con un grande scoppio, perché sul soffitto del cappellone c’era un deposito di polvere sulfurea nascosta da Domenico Galuzzi fratello dell’arciprete. Il ritorno può aver preso avvio da qui, scendendo per Cal Fabbro-Morciano-Rimini. Ci sono due buoni motivi ad avvalorarlo, primo, il ritornare a Mondaino obbligava passare fra le case in fiamme, il secondo motivo il considerare che la truppa avesse fretta di raggiungere Rimini per la via più breve per monetizzare su quella piazza il loro bottino, prima di perderlo in eventuali imboscate. Da testimonianze raccolte personalmente ho appreso da Rossi Bruna in Gualandi, originaria del comune di Auditore, ma residente in Tavoleto, che uno dei 20 morti di quel 31 marzo 1797, Marco Rossi era un suo antenato. Anche suo marito Alfredo aveva il suo antenato Amato Gualandi, morto all’età di anni cinquanta in quel giorno, in difesa della stessa causa. Un racconto che si riferiva a quei lontani tempi di quella tremenda sciagura era spes134


so riproposto a titolo di schermo per noi “bruciati” tavoletani, ma la Bruna dava al ricordo un sapore d’incommensurabile spianto: <<Le grida di disperazione, le urla strazianti, le invocazioni di aiuto si udirono da Auditore che dista oltre tre chilometri in linea aerea, altrettanto si raccontava a Cerreto e in altre località del circondario. >> Il dottor Mario Bajocchi, persona ben informata di questa vicenda storica nei nostri luoghi, mi ha riferito che, nella grotta che allora si dipartiva da una stanza sotterranea della sua casa dentro il murato e scendeva fino al fondo delle mura sul fossato attorno alla rocca, grotta tuttora esistente, si erano rifugiate le donne della sua famiglia e altre del vicinato. Dal libro dei morti della chiesa di S. Lorenzo di Tavoleto In pugna pugnantes: die Veneris 31. 3. 1797. De hac parocia S. Laurentii. Alii secti gladio, alii sclopii majoris glandibus confixi, diem caluserunt extremum. Et quorum corpora in supradicta Ecclesia Plebali S. Laurentii Tabuleti tumulata fuere. 1- Don Gregorio Giannini di anni 70 cieco e infermo ucciso poi bruciato sul suo pagliericcio. 2- Giulio Filippucci di anni 70. 3- Vincenzo Filippucci di anni 30 figlio di Giulio. 4- Giovanni Filippucci di anni 35 figlio di Giulio. 5- Pietro Gentili Romagnoli di anni 60. 6- Marco Rossi di anni 80. 7- Giuseppe Giuliani di anni 60. 8- Luigi figlio di Matteo Battelli di anni 23. 9- Giuseppe Santi di anni 40. 10 -Vincenzo Santi di anni 42, fratello di Giuseppe. 11- Bernardino Santi di anni 18 figlio di Giuseppe, chierico. Questi colpito nel campo del gioco del pallone, l’attuale piazza antistante al castello, prima di morire chiese la comunione, ma 135


era già morto quando gli misero l’ostia in bocca e gli versarono addosso tutte le altre della pisside. 12- Innocenzo Pacini di anni 50. 13- Giuseppe Zucchini di anni 45. 14- Andrea Botticelli di anni 40. 15- Vincenzo Lunedei di anni 60. 16- Giovanni Cantelli di anni 56. 17- Amato Gualandi di anni 53. 18- Angelo Ceccarini di età ignota. Molto precisa e dettagliata è anche la stesura dell’atto di morte da parte del cappellano Giacomo Vanni dei suoi due parrocchiani che, udendo le campane a martello di Tavoleto, erano accorsi da S. Giovanni di Auditore, per portare il loro soccorso. “adì Venerdì 31 Marzo 1797 Tommaso figlio di Alessandro Alessandrini della villa del Poggio, essendosi portato nel giorno sud. to in soccorso del castello del Tavoleto nell’atto che veniva assalito da una truppa di 700 Francesi, che lo incendiarono dopo il combattimento di un’ora, resto ferito, e morto sotto le mura di quello nell’età sua di anni 60 alle ore circa 16 del giorno sud.t°. Chiesa San Giovanni di Auditore (foto Neil Howlett)

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La stessa funesta sorte accadde in detto combattimento nell’ora e giorno sud.t° a Cristofaro, figlio di Pier Francesco Bidassi (o Budassi) oriundo da Gemmano, che al momento era pigiorante nelle case di Chatonto (sic) in questa Parrocchia nell’età sua di circa anni 35.Tanto del primo, quanto del secondo i cadaveri furono sotterrati nella Chiesa Plebale di detto Castello insieme ad altri circa 22 persone che restarono morte nel sud.t° conflitto. In fede”. È mia convinzione che negli archivi di altre parrocchie circostanti si possono trovare registrati dei morti periti qui a Tavoleto in quel giorno. Le fonti che riferiscono sulle perdite di vite umane tra i difensori non sono sempre concordi nel precisare il loro numero. Per don Pietro Galuzzi, che ha registrato nel libro dei morti solo quelli residenti nella sua parrocchia, sono 18; nella relazione del capitano del comune di Tavoleto Guido Verzolini sono 23. Nel suo manoscritto “Memorie sul Tavoleto” U. Ceccaoli, in data 15 agosto1876, riporta “22 terrazzani” il cappellano di S. Giovanni di Auditore Giacomo Vanni nella stesura dell’ atto di morte di due suoi parrocchiani caduti in questo giorno, scrive che ”i due cadaveri furono sotterrati nella Chiesa Plebale di detto Castello (Tavoleto) insieme ad altri circa 22 persone che restarono morte nel sud.t° conflitto” L’interpretazione più corretta è il considerare 2 + 22= 24 Dal computo delle stesure di questi venti atti di morte rinvenuti nelle chiese di San Giovanni di Auditore e di Tavoleto si precisa che i morti seppelliti a Tavoleto sono ventiquattro; quindi quattro di essi dovrebbero risultare nei libri dei morti delle parrocchie vicine, alcune delle cui chiese (Torricella, Castenuovo, Levola, San Gaudenzio, etc) non esistono più. Ciò avvalora quanto asserito dalle lettere di don Galuzzi, in cui si ripete che in difesa del castello di Tavoleto parteciparono anche uomini delle parrocchie del vicariato. 137


E i morti degli assalitori? Quanti furono? Le cronache tacciono. U. Ceccaroli, in sintonia con Galuzzi, cita sessanta morti franco repubblicani e alcuni cani mastini. Lo storico riminese Michelangelo Zanotti scrive: “quello scambio di fucilate provocò molti morti tra le file dei franco-cisalpini”. Questi dove sono stati sepolti? E da chi? La truppa di Sahuguet aveva troppa fretta di rientrare, non si prese cura di questo pietoso ufficio che espletarono sicuramente i tavoletani subito dopo il rientro nel castello, scavando un fossato capace di accogliere quei corpi e quelli dei loro cani mastini. Un forte sentimento di compassione, misto a un interiore turbamento m’invade quando ripenso alle famiglie Santi e Filippucci, alla morte degli uomini e al pianto rabbioso e disperato delle loro mogli e delle loro madri. Con i discendenti della famiglia Santi sono stato legato da un forte vincolo di corrisposta amicizia e, lo sono tuttora con i viventi: l’Anna e nipoti. I nomi dei loro antenati: Giuseppe, Vincenzo e Bernardino sono stati riproposti ai loro discendenti fino alla fine del millenovecento, Santi Giuseppe (Pippo), celibe, è morto nel 2006. Questa famiglia, fin da quel lontano tempo è stata sempre al servizio di manutenzione delle chiese; Mario Santi ha occupato il posto del padre Giuseppe quale sagrestano e lo mantenne fino agli anni “Cinquanta”. Il figlio Pippo è stato organista di chiesa per lungo tempo. La loro casa è fuori del murato, penso sia la stessa di allora, quindi è probabile che all’arrivo degli assalitori Bernardino 18 anni, col padre Giuseppe e lo zio Vincenzo, facesse parte dei difensori in armi. Ma dopo le prime scariche trovandosi nell’impossibilità di contrastare il grande numero degli assalitori abbia tentato di salvarsi con la fuga. Vedo il ragazzo correre velocemente verso il campo del pallone luogo a lui familiare, zigzagando e cercando un varco per guadagnare la campagna e, l’onda nemica che gli si 138


stringe sempre più d’attorno. Ora mi pare di scorgere anche il padre e lo zio che gridano il suo nome e sgomitano facendosi largo fra gli invasori al fine di raggiungerlo. Non so vedere più oltre se non un agonizzante “presso i portici di Piazza grande di mercato allora Giuoco da pallone” che chiede perdono e la comunione per la salvezza dell’anima. Della morte dei tre membri della famiglia Filippucci non ci sono memorie scritte di come sia avvenuta. La mia età di ultra settantenne mi porta a pensare che il padre Giulio (70 anni), sia accorso in difesa dei figli Vincenzo di anni 30 e di Giovanni di anni 35, mi pare di vedere la loro resistenza ad oltranza e l’intervento disperato del vecchio padre che nella difesa della vita dei figli non gli pesa, anzi, gli è di sollievo il sacrificare la sua. I francesi accertatisi che nel paese, dentro il murato e nei borghi non v’era più segno di persona vivente, si diedero in fretta e furia al saccheggio, indi all’incendio di ogni casa trafugata. La fretta pare sia dovuta al fatto ricordato anche in “Memorie sul Tavoleto”, che questi avendo rinvenuto nelle tasche di un morto una lettera spedita da Macerata Feltria, in cui si leggeva che un nucleo di insorgenti di quella zona, “nervo di truppa”, agli ordini del comandante Marelli avrebbe dato aiuto ai tavoletani nel momento del bisogno. È altresì logico il supporre che i fanti e altri componenti di queste truppe, fatti esperti da precedenti agguati e imboscate proditorie, nel timore di doversi privare dei sacchi del bottino, hanno ritenuto più sicuro e proficuo il ritorno immediato a Rimini. In merito al comandante Marelli, Petrucci cita alcune fonti che gli assegnano il ruolo di ufficiale dell’esercito pontificio sconfitto e disperso nella battaglia del Senio. Il giorno dopo. Don Pietro Galuzzi, dalla sua ex parrocchia di S. Martino in Mandarelli dove si era rifugiato dopo la precipitosa fuga da Tavoleto, 139


fa ritorno in sede il mattino seguente, e, costatate di persona le immani rovine, lo stesso giorno si premura di informare le superiori autorità civili e religiose, presentando loro un rendiconto dei danni subiti il giorno avanti. La lettera datata Tavoleto, 2 aprile 1797 è conservata presso (A.S. Ps, Legazione Lettere della Comunità, Urbino, busta n. 104). Nella sua relazione l’arciprete denuncia l’incendio delle due chiese principali (la plebale e la Cella), da cui sono stati rubati tutti gli arredi sacri. “Insomma siamo tutti in mezzo una strada, senza chiesa, senza sagri altari, senza vasi sagri, senza sagri Aparati, senza casa d’abitare, senza sostanze e vesti, perché tutto consumato dal fuoco” Segnala inoltre episodi con atti sacrileghi perpetrati dagli aggressori. Presenta una stima dei danni subiti pari a 800 scudi. Anche il Capitano Guido Verzolini, ancora presso il suo collega di Auditore Vincenzo Guerra dove si era riparato il giorno dell’invasione del suo paese, è incaricato dalla luogotenenza di Urbino di redigere una relazione “sul miserabile avvanzo” di Tavoleto. Ne emerge un quadro desolante. La residenza vicariale era distrutta; l’archivio della cancelleria, i catasti e le altre carte costituivano “un mucchio di cenere”. Tutte le case, tranne tre o quattro, erano andate distrutte, ”han dovuto soffrire la voracità delle fiamme” così come il carcere. Per quanto riguardava le chiese, era rimasta illesa quella dell’ospedale, pochi danni aveva subito la parrocchiale, mentre era smantellata e consunta la Chiesa della Madonna del Sole alla Cella con la canonica annessa. Una perizia di esperti aveva valutato i danni pari a scudi 30.000. La lettera contenente la relazione è datata: -Auditore 14 aprile 1797. Il paese era precipitato nella più profonda miseria che si protrasse per anni. Molte case furono solo rabberciate con materiali di fortuna, Ancora nel 1802 crollò, una casa fra le tante 140


“biscottate” nell’incendio del 1797. La popolazione del vicariato di Tavoleto 1788 / 1803: Località Anime (1788) Anime (1803) Tavoleto 465 302 Auditore 465 410 Pandicastello 209 200 Ripa Massana 161 172 San Giovanni 210 278 Torricella 84 84 Valle Avellana 248 (1782) 248 Totale 1842 1779 Nel 1803, a sei anni dall’incendio e dal saccheggio la popolazione della parrocchia di Tavoleto era diminuita di circa il 30%, pari a 163 persone in meno, tenendo conto dei 20 morti in battaglia, 143 paesani, una volta distrutte le loro abitazioni, le chiese e gli uffici pubblici, presero dimora nelle vicine località del vicariato. S. Giovanni di Auditore, in base ai dati del censimento di quell’anno aveva avuto un notevole aumento di popolazione residente. Il Consiglio del Vicariato deliberò che il capitano G. Verzolini, anche senza più la sua “caserma”, dovesse tornare a Tavoleto, poiché quella popolazione era la più bisognosa dei suoi uffici, e si prese cura di rimediargli una stanza e un letto. L’arciprete Galuzzi, in attesa di migliore sistemazione, deve avere preso dimora presso la canonica di Torricella (Torre), una delle poche parrocchie senza cappellano, e la più vicina da raggiungere; ci avvalora questa deduzione la spedizione di alcune sue lettere da questa località nel mese di aprile 1797 e rintracciabili presso l’archivio di Stato di Urbino ”Legazione Lettere della Comunità, Urbino, per Torre di Tavoleto, 10 aprile 1797.” Domenico Galuzzi è accertato che fosse il fratello dell’arciprete di Tavoleto e vivesse con lui nella canonica della Cella. La sua fi141


gura appare solo di riflesso a un episodio che è riportato nel libro “Memorie sul Tavoleto” (1876) di Ubaldo Ceccaroli che aveva sposato sua figlia Francesca: “Uno scoppio di polvere zolfurea, con poca avvertenza, e molta balordaggine riposta sopra il soffitto del cappellone a cui è già penetrata la fiamma del totale incendio”. Sandro Petrucci, storico dell’Istituto delle insorgenze, dopo avere citato la frase, si pose la domanda del perché il cronista non avesse “fatto menzione del fratello di don Galuzzi”. Ricordo di aver interrotto la lettura per porre sulla pagina un asterisco con la chiosa di - so io il perché - a rammentarmi di darne una spiegazione esaustiva. Ubaldo Ceccaroli, se avesse riportato tutto quanto era a sua conoscenza, ed essendo questi il padre di sua moglie, questo personaggio misterioso apparirebbe in un contesto più reale in una sua collocazione di “Primo Priore” fra le file dell’insorgenza paesana. Non poté però farlo, perché avrebbe danneggiato l’arciprete. Si noti che il cronista tavoletano, nella descrizione degli avvenimenti accaduti circa ottant’anni prima, è solito ripetere le versioni sostenute dal suo parroco, tutte rivolte a dimostrare che la reazione francese non è stata provocata dalla sua intransigenza ostinata, ma, come si legge nelle sue lettere, da facinorosi infiltrati, ovvero gli ”emiliani”. Nelle sue “memorie patrie” non cita e, quando lo fa, minimizza l’apporto degli insorgenti locali. Non fa cenno della partecipazione dei parrocchiani di Tavoleto nelle imboscate tese ai carriaggi che trasportavano le contribuzioni. Non scrive delle campane che suonarono a martello nella notte della vigilia della battaglia. Il campanaro era forse suo suocero? Dal contenuto di una lettera spedita da don Galuzzi datata: Tavoleto 28 marzo 1797, si viene a conoscenza di un fatto in cui potrebbe aver avuto una parte preminente il fratello Domenico 142


che non viene però nominato. L’officiale Carlo Baldini, che aveva avuto l’incarico dalle autorità del territorio, di mantenere la tranquillità di queste popolazioni, aveva raggiunto il nostro arciprete, ma non è dato sapere come, (lettera scritta, messaggio orale a seguito di un colloquio col fratello), con l’esortazione a collaborare a frenare i suoi parrocchiani. Ciò fa pensare che la fama del suo impegno nella mobilitazione antifrancese era nota anche oltre il vicariato. Nella lettera di riscontro don Galuzzi spiegava che dopo aver saputo della pace “stabilita tra il Ducato di Urbino, e il Comandante Francese 12 marzo”, indi, (Trattato di Tolentino, 19 febbraio 1797), (*1 pag. 123), non aveva”mai, e poi mai esortato più veruno ad allarmarsi, ma solamente guardare il nostro Stato di Urbino in caso di nova invasione”. I due fatti descritti nella lettera di riscontro datata: Tavoleto 28 marzo 1797, ai quali ha sicuramente partecipato il fratello Domenico, anche se non ne è fatta menzione, erano tesi ad attestare la sua nuova condotta di pacificatore. Dalla loro descrizione, s’intuisce quanto fosse alta la tensione psico-fisica del curato Galuzzi, in quei giorni di fine marzo. Questi, avendo appreso che un gruppo d’insorgenti di diverse parrocchie feltresche erano intenzionati di recarsi a Mondaino, era sceso, in piena notte, a Cal Fabbro, sotto la croce. (Cal Fabbro era, ed è ancora oggi, una borgata di una decina di famiglie), poco sotto la Cella, sulla strada che viene dal Montefeltro per Gemmano e Montefiore. In quei giorni gli erano pervenute richieste di esortare i volontari a partire alla volta di Pesaro anche da Montegrimano, ma a suo dire, la sua presenza sul posto era per “impedirli”. La lettera continuava per riferire un secondo episodio del 27 marzo. La sera precedente si erano ”visti molti armati” provenienti da Montefiore (stesso percorso e stessi luoghi), gli abitanti di Ta143


voleto, sospettando che fossero francesi, “corsero tutti ai posti”, anche “sulla mia Conserva della Cella” dalla quale, la strada che sale da Cal Fabbro era sotto tiro per un lungo tratto. Don Galuzzi era in casa con un “bestiale raffreddore” che, forse, si era buscato nelle notti precedenti sotto la croce di Cal Fabbro. Questi fatti mi portano a considerare che l’arciprete non si fosse solo premurato di porre guardie in difesa del Castello, ma anche della sua abitazione sita in un posto molto strategico. Chi poteva essere il capoposto di questa “posta” sulla conserva della canonica, se non il fratello Domenico? Si è anche a conoscenza, poiché riferito dallo stesso don Galuzzi, che l’arciprete di persona, le notti precedenti, era sceso sulla strada per distogliere gli insorgenti feltreschi di raggiungere Mondaino, ma a chi non salta alla mente il ritenere, non probabile, ma quasi certo che qualcuno l’abbia accompagnato? Anche in questo episodio la partecipazione del fratello resta “fuori quadro”. È difficile approdare alla verità attraverso le relazioni: (Sahuguet, Calori, e, sull’altra sponda, don Galuzzi), che trattano gli avvenimenti di questo 31 marzo, poiché ognuna tende a giustificare le proprie azioni. Nel proclama- lettera del 1 aprile 1797 Sahuguet scrive al vescovo Spiridone Berioli di Urbino per informarlo che il suo “curato” di Tavoleto lo aveva costretto a quella soluzione, che lo aveva inutilmente fatto cercare per giustiziarlo e lo riteneva bruciato nell’incendio del suo paese, proseguiva: “Cotesto scellerato aveva fatta traviare tutta la parrocchia predicando al Popolo l’omicidio, e il saccheggio. Aveva affisso sulla sua porta un proclama incendiario, ed era riconosciuto in tutto il distretto, come il promotore de’ delitti, che si sono commessi”. Dalla relazione del comandante cispadano Paolo Calori: “L’uccisione di tutti quei malandrini, il sacco e l’incendio totale del paese é stato un solo momento”. Tra le tante accuse che gli sono mosse e, dai francesi e dai con144


fratelli, l’arciprete non nega il fatto di aver ordinato di porre armati in guardia del castello e dei suoi villaggi, poiché lo ritiene giustificato con la sua assoluta fedeltà e obbedienza alle direttive impartite dal suo sovrano. In difesa della sua innocenza e di quella dei suoi parrocchiani, don Galuzzi spedì una serie di lettere ai suoi superiori, le quali, anche se non furono efficaci a ottenere quanto richiesto, ovvero i fondi per la ricostruzione delle chiese, gli procurarono un riscontro di apprezzamento per la sua condotta di sacerdote quale: ”Ottimo pastore di anime”. In una lettera al pontefice, si appella affinché questi possa intervenire, altrimenti gli sarebbe stato impossibile tornare alla sua parrocchia presso le “sue amate Pecorelle” che sarebbero rimaste senza pastore e senza sostanze. Quasi tutte le sue lettere spedite nei mesi del dopo incendio tendono a smentire quanto è affermato da Sahuguet nel suo proclama del primo aprile. In una sua spedita da Tavoleto il 18 agosto 1797 a mons. Saluzzo presidente della Legazione di Urbino e Pesaro, riferendosi alle accuse del generale francese gli ripeteva la sua versione che ribadiva essere falso il sostenere che il popolo di Tavoleto “avesse prima cimentato coi saccheggi i Francesi”; lo invitava a inviare in questo paese un commissario per fare un’inchiesta e un processo, a spese della comunità: “Sono sicuro, che chiaramente si vedrà, che i Forastieri, e per lo più gl’Emiliani, a nome del Tavoleto, anno (sic) commesso contro i Francesi molti saccheggi, ed omicidi, ma non il Popolo di Tavoleto”. Per don Galuzzi i guai non sono finiti. In questo immediato “dopo incendio” l’arciprete si sente solo e abbandonato, vive nel timore di nuove rappresaglie francesi nei confronti della sua persona. Con l’instaurazione della Repubblica Romana (1798-1801), le autorità militari francesi, ora padrone incontrastate in queste nostre contrade, diedero l’avvio a una vera persecuzione nei confronti dei preti emanando disposizioni di questo tono: ”Ministri 145


del culto, voi sarete responsabili del Sangue che va a colare, voi avreste potuto arrestarne l’effusione”, la firma era del generale Monnier, quello delle “colonne infernali”. Per oltre un paio d’anni, vuoi per la mancanza della canonica e delle due chiese principali, vuoi per il timore di essere arrestato dalla polizia repubblicana, l’arciprete è stato costretto ad allontanarsi dalla sua parrocchia e vivere fuggiasco, riparando presso il confratello di Torricella, con la precauzione di un alloggio notturno or presso una famiglia or presso un’altra di quella parrocchia. La sola colpa che si può imputare a don Galuzzi è quella di essere stato ostile al movimento rivoluzionario importato da Napoleone, con l’averlo rigettato “in toto”, poiché totale è stata la difesa del suo “credo” quando era messo in discussione dalle imposizioni repubblicane. Ma se ci convinciamo che quel suo agire si possa giudicare “colpa”, dalle litanie dei santi dovrebbero scomparire i martiri della fede. Si è a conoscenza che altri suoi confratelli di parrocchie rurali di queste zone hanno saputo agire con più prudenza, consistente all’accondiscendere al ricatto. Nello specifico è il caso del parroco di Saludecio don Domenico Antonio Fronzoni, il quale, saputo che i Francesi erano sulla strada in marcia alla volta del suo paese, riempì una zuppiera con scudi e altre monete d’oro e d’argento e, seguito da altri religiosi e diaconi, varcò il portone delle mura e andò loro incontro facendo l’atto di sottomissione. Questo prete, per avere spogliato la chiesa di quel suo tesoro non deve accusarsi di un peccato tanto grave da ritenere inficiate le sue convinzioni religiose, (dare a Cesare quello che è di Cesare, è vangelo), ma è ben più grave il suo atteggiamento genuflesso nell’atto della consegna. La parrocchia di don Galuzzi non possedeva tesori in oro e argento; il parroco permetteva che, nella sua dispensa in canonica, molto più sicura delle loro case nella difesa del furto, alcune famiglie del vicinato depositassero i loro miseri raccolti consistenti 146


in pochi sacchi di cereali, piccole quantità di legumi e di frutti secchi. Era la loro piccola “banca del grano” che dava loro una certa tranquillità, poiché sapevano che quando le loro provviste fossero state tutte consumate il loro parroco avrebbe provveduto alla bisogna. Don Galuzzi aveva ancora davanti agli occhi le suppliche accorate, le lacrime, la rabbia gridata a tutto fiato, dei contadini della sua parrocchia, il pianto di paura dei bambini, il giorno in cui i francesi, con l’uso dell’intimidazione armata, avevano saccheggiato le loro provviste alimentari e, prelevato dalla stalla i loro buoi. Avrebbe potuto don Galuzzi consegnare queste sue provviste? A questo punto, anche se non condivideva l’azione della resistenza in armi, non ebbe la forza di arrestarla, perché alla scelta di una morte in “pugna pugnantes” si prospettava la morte per fame. Per la decimata popolazione della parrocchia di Tavoleto, questi primi anni del dopo incendio sono tempi difficili con incombenze spettrali. Il parroco, il capitano, le famiglie che hanno subito danni ingenti, compreso i lutti, si rivolgono in alto nella speranza di ottenere un aiuto. Le petizioni di questo popolo analfabeta, raccolte dalle due principali autorità locali (il vicario e il capitaBorgo di Auditore (foto Neil Howlett)

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no), rappresentano il contenuto dettagliato delle relazioni spedite agli uffici di competenza territoriali, fino a raggiungere la “Sacra Congregazione del Buon Governo” (Roma). Nella relazione, in data Tavoleto, 26 ottobre 1797, in cui Guido Verzolini sosteneva la causa del conduttore del forno pubblico Guidubaldo Ceccaroli, si leggono queste precise parole “Entrati gl’Inimici in questo castello, cercarono l’esterminio di tutti coll’Incendio, che avvaloratosi in un istante, ridesse in cenere la maggior parte delle Abitazioni, con quanto era rimasto al Saccheggio preventivamente da essi dato”. In altre lettere del 1804 e del 1805, si chiede il rifacimento del Catasto di Tavoleto con la seguente relazione: ”La sua residenza era distrutta, con il carcere, l’Archivio, la Cancelleria, i catasti e altre carte costituivano un mucchio di cenere”.Tutte le case del paese, eccetto tre o quattro, erano bruciate; “han dovuto soffrire la voracità delle fiamme”. Ancora nel 1818, quindi, dopo oltre Chiesa di Piandicastello (foto Neil Howlett)

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venti anni, si richiede il rilascio di un attestato comprovante l’antico diritto di Tavoleto di essere residenza del governatore, poiché con l’incendio erano andate perdute tutte le memorie attestanti i privilegi di questo comune. Si temeva la palesata concorrenza di Auditore. In questi anni i dissidi fra Tavoleto e Auditore si accentuarono, dal momento in cui questa fece causa comune con le altre sei comunità del vicariato, opponendosi alla spartizione della spesa per la ricostruzione delle chiese di Tavoleto. Queste erano sostenute dal capitano e giudice Luigi Grazia, accusato e bollato da don Galuzzi e da molti tavoletani, di faziosità e crudeltà, in particolare gridatogli in faccia pubblicamente da Antonia Santi, che, nel giorno del sacco e dell’incendio, aveva perduto il marito Giuseppe di 40 anni e il figlio Bernardino di 18 anni e la casa. Nell’attestato di accusa è definito quale “Officiale civile che disanguina le intere famiglie” senza più niente per vivere. Il capitano Verzolini e don Galuzzi si adoperano con tutte le loro risorse a rendere più sopportabile le immani tragedie familiari di questi miserabili compaesani, ma non sempre le loro lettere spedite ai diretti superiori ottennero riscontri positivi. S’intentarono cause contro i responsabili di queste rovine, producendo testimonianze con dettagliate relazioni con firme autorevoli, tendenti a dimostrare che le provocazioni non erano opera dei tavoletani, ma di forestieri; questa versione era però contraddetta dalle altre sei comunità del vicariato che si rifiutavano di ripartire il rimborso all’erario statale dei cinquecento scudi che don Galuzzi aveva ottenuto, tramite il pontefice, per la riparazione della Chiesa d S. Lorenzo, dalla Congregazione del Buon Governo: detta somma doveva ricavarsi per metà dalla tassa sul macinato, per metà dall’estimo. Dalla relazione di Sandro Petrucci, membro dell’Istituto delle insorgenze, tenuta a Tavoleto in occasione delle rievocazioni storiche, promosse dal parroco don Roberto Battaglia e dal Comu149


ne di Tavoleto, siamo venuti a conoscenza di preziosi documenti spediti dalle sei comunità del vicariato giacenti presso l’archivio di stato di Roma: S. Congregazione del Buon Governo, serie II, busta 4816: “Selva di ragioni per sventare le pretese del parroco del Tavoleto che vuole scudi 500 per il restauro della di lui chiesa”. Questo breve appunto sul fascicolo spiega in modo esauriente il suo contenuto. L’arciprete di Piandicastello, Matteo Fabbrucci, risulta essere uno dei più agguerriti sostenitori dello schieramento anti Galuzzi. In una sua del 22/10/1803, scrive che don Galuzzi era pieno di zelo per la causa: difesa dello Stato e conservazione della fede. Aveva inoltre appreso, dal racconto dei suoi parrocchiani, che incitava i parroci e le autorità civili a convincere le popolazioni a prendere l’armi al suono delle campane a martello. “Chi non vede, e chi non sa ch’Egli era Capo animatore de Popoli, ch’egli con Cristo in petto, e schioppo in spalla, andava girando, perorando, animando, benedicendo, gridando, che si armasse, si tirasse, che guerra era di Religione, e che perciò si stasse forti, che si moriva per la Fede, che già Esso da parte del Cristo l’assicurava, e alla Porta del tempio il precedente ordine dello Stato, si era di nuovo affisso…?” Il documento continuava, descrivendo il parroco che entrava nel santuario armato con ”un’aria d’eroismo e di Religione”. E, la popolazione rozza ed idiota, al parere delle sei comunità, non poteva che ubbidirgli ciecamente. Don Galuzzi era anche accusato della polvere sulfurea riposta nel soffitto della chiesa della Cella (Madonna del Sole). “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, sentenziavano i firmatari della relazione che si avvicinava al monito francese esposto anche nel Trattato di Tolentino: per il tuo tranquillo vivere, non porre nessun ostacolo al volere di Napoleone. (*1 pag. 120) Don Fabbrucci ritorna sulla “Bolla della crociata” affissa sulla porta della chiesa, senza fare menzione che ciò non era un’iniziativa di don Galuzzi, ma un adempimento prescritto da una circo150


lare governativa e, essendo questi, il vicario delle sette comunità, lo aveva assolto con zelo. In questa “selva di ragioni” si riscontrano attacchi personali che rasentano la calunnia nei confronti di don Galuzzi. Riguardano la cattiva amministrazione dei sussidi che il vicariato gli aveva procurato, ma che aveva utilizzato per il complesso chiesa-canonica della Cella, piuttosto che per la parrocchiale di S. Lorenzo, la quale, a loro parere, non aveva subito ingenti danni per l’incendio, e doveva essere restaurata a causa di una trascurata manutenzione relativa a tempi trascorsi. Non è difficile intuire che le relazioni delle sette comunità tendono a mettere in cattiva luce don Galuzzi nell’immagine del sacerdote fanatico e intransigente, hanno il preciso scopo di contrastare le richieste di pagamento a favore delle sue chiese. Il vicario confutò le pesanti accuse e l’illazione di fanatismo religioso, in una lettera del maggio 1801 al pontefice Pio VII, gli ricordava il furore dei francesi contro il paese di Tavoleto e la sua persona. Spiegava che ai suoi parrocchiani aveva solo spiegato “il nono Articolo del Credo” e li aveva esortati ad allarmarsi, leggendo “una circolare” del suo predecessore Pio VI “che così esortava tutti i Parochi”. Nella lettera chiedeva anche aiuti finanziari e il sostegno delle sue ragioni nel contenzioso con le altre comunità del suo vicariato. Don Galuzzi aveva dalla sua parte, almeno moralmente, anche l’autorità civile urbinate e la diocesi di Rimini, il cui vescovo, coinvolto nella complessa causa relativa al riparto delle spese per il restauro delle chiese, così ebbe ad esprimersi: “Il povero, e ottimo Parroco Galuzzi” … indi, nel prosieguo precisava che aveva sostenuto grosse spese per riadattare una piccolissima chiesa: quella dell’ospedale. Riteneva ingiuste le accuse delle altre comunità del vicariato. In questi primi anni del milleottocento l’arciprete di Tavoleto, a sostegno della “sua causa” spedì molte lettere in diverse direzioni. La contesa aveva coinvolto diversi soggetti, oltre a quelli 151


locali: suo fratello Domenico, il capitano Verzolini e le altre comunità, anche il distretto, i vescovi di Urbino e di Rimini, la romana Congregazione del Buon Governo, dove si può rintracciare buona parte di quel materiale cartaceo prodotto dalle parti interessate. L’accusa era tutta rivolta al ruolo svolto da don Galuzzi, quale guida dell’insorgenza. In queste sue lettere, l’arciprete di Tavoleto ribadiva che ad opporsi ai francesi vi avevano preso parte uomini di tutto il vicariato, ovvero: “La coalizione delle sette comunità”, anche se ad essere stato attaccato e incendiato fu solo il castello, dove era la residenza vicariale, questo costituiva la “frontiera” di tutto il territorio del vicariato, e, una volta avvenuto il suo annientamento, “il furor di quelle truppe si sazio (sic) sul Tavoleto”.Queste, infatti, ripiegarono immediatamente facendo ritorno alle loro basi. Tutte le altre comunità ne risultarono salve, e illese le loro chiese. Ma i parroci e i rappresentanti di queste, lungi dall’essere grati per lo scampato pericolo, continuarono a sostenere che solo il castello di Tavoleto era stato protagonista della sollevazione antifrancese, e perciò, da solo doveva sopportare le spese dei danni subiti, senza tenere in nessun conto che anche il vescovo di Rimini avesse confermato la loro compartecipazione. Don Galuzzi ricordava ai confratelli del vicariato che la Repubblica Romana, (*2) nel periodo in cui tenne il governo di queste terre, a motivo della precaria situazione economica in cui si era venuta a trovare la popolazione di alcune zone, nostra inclusa, aveva provveduto ad esentare tutte le comunità dalle tasse. Di conseguenza ne beneficiarono tutte le comunità del vicariato. (*2) Nel 1797, dopo che la Francia aveva rotto le relazioni diplomatiche con lo Stato Pontificio, anche a Roma si registrano dei moti antifrancesi, l’uccisione dell’addetto militare francese Leonard Duphot fu il pretesto per un intervento militare francese. Occupata Roma, si provvide alla repressione di alcune insurrezioni rionali, con la conseguente fucilazione degli insorti in Piazza del Popolo. Il 15 Febbraio1798 i patrioti filo-repubblicani, con rogito notarile proclamarono decaduto il potere temporale,

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cinque giorni dopo il papa Pio VI (Gian Angelo Braschi di Cesena) fu espulso e si rifugiò in Toscana; morirà esule in Francia. Il 20 marzo fu consacrata solennemente la Costituzione, modellata su quella francese del 1795, della Repubblica Romana, la quale assorbì l’anconitano e tutte le Marche. Si costituì un governo che solo formalmente era affidato a ministri locali, poiché ogni loro decisione dipendeva dai francesi. Infatti le proposte dei patrioti romani di ridistribuire la terra nelle campagne per costituire piccole proprietà contadine non ebbero seguito e dure furono le repressioni contro i promotori. La Repubblica riuscì a non soccombere ad una spedizione di Ferdinando IV di Napoli. Ma le continue insurrezioni dei contadini, lo scarso seguito che a Roma avevano i giacobini, una volta esautorati dal governo, avendo i francesi proclamato lo stato d’assedio e, soprattutto le continue disfatte napoleoniche ad opera della coalizione austro- russa decretarono la sua fine. Il 29 settembre 1799 il generale Garnier cedeva Civitavecchia agli inglesi e Roma alle truppe napoletane sulle sue porte in attesa di entrare. Ancona, dove era stata proclamata la repubblica, cadeva il 13 novembre; l’ anconitano e tutti i restanti territori delle Marche ritornarono nello stato pontificio. Si concluse così l’esperienza repubblicana che, seppur limitata e imposta dalle armi straniere, aveva scosso ed eccitato un ambiente indifferente preparandolo a nuove responsabilità politiche.

Don Galuzzi aveva più a cuore che si ristrutturasse subito la chiesa della Cella e, in un secondo tempo la chiesa parrocchiale di S. Lorenzo. Nel momento dello scoppio della polvere sulfurea e del conseguente incendio, tutta la chiesa andò distrutta, e la canonica, che faceva parte dello stesso edificio, aveva subito gravi lesioni. Per ritornarvi ad abitare necessitava di riparazioni urgenti. Anche per questi motivi è spiegabile lo zelo che l’arciprete poneva nel ricercare i finanziamenti necessari. Temeva che le sue richieste di sussidi alle istituzioni preposte, non avessero seguito, finché “la causa in piedi” non lo avesse scagionato della colpevolezza della repressione francese. Il vescovo di Rimini mons. Saluzzo e il legato pontificio presero una decisione così riassumibile: considerando che il danno patito dalla chiesa della Madonna del Sole alla Cella era tale “che converrebbe rifabbricarla quasi da fondamenti” e, “data la povertà 153


della popolazione”, si doveva restaurare solo la chiesa di S. Lorenzo, “la più grande, la più comoda e meno danneggiata”. Era una saggia e realistica soluzione. Per quanto riguardava la Cella, si cercò di coinvolgere sia le congregazioni dei fedeli e devoti alla Madonna del Sole, molti residenti nelle parrocchie vicine. Questi, sotto la spinta dei “capi possidenti” si ritennero a viva voce risoluti di risarcire a proprie spese la ricostruzione della chiesa della Madonna del Sole. Questa lodevole iniziativa non ebbe immediata attuazione, ma concorse in modo sensibile al ”pro bono pacis” dei loro preti litigiosi, si realizzerà con il contributo di tutti, preti compresi, dopo la morte di don Pietro Galuzzi. (*3). A distanza di oltre 200 anni da questa dolorosa vicenda tavoletana, nel bicentenario della morte del suo protagonista, dopo aver valutato tanti “pro” e altrettanti “contro”, sulla condotta di quest’uomo, riconosco che la sua peculiarità si è caratterizzata e resa comprensibile nella sua missione di parroco- pastore. La sua lealtà e obbedienza all’autorità di Roma non vacillarono mai, come non si incrinò mai la fede per il suo credo. La fermezza nell’agire e sostenere la causa, la voce stentorea e il calore delle sue prediche insignirono la sua persona di un potere carismatico proprio del leader; soprattutto per questo motivo è stato tanto avversato, combattuto e tacciato di fanatismo religioso. Per me resta un buon pastore, anche se mi appare con il randello in pugno, vigile e pronto nella difesa delle “sue amate pecorelle”. (*3) Don Pietro Galuzzi muore il 20/12/1811; il corpo fu tumulato nel sepolcro dei sacerdoti nella chiesa plebale di S. Lorenzo di Tavoleto. L’atto è stato steso e firmato da Domenico Angeli arciprete di S. Giovanni di Auditore. Per oltre tre mesi gli atti di morte sono trascritti dall’economo Serafino Balsamini.

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LA BATTAGLIA DELLA PIEVE Nell’anno scolastico 1995-96 l’amministrazione comunale di Tavoleto bandì un concorso per una ricerca storica a tema: “Lotte tra Malatesta e Montefeltro”. Erano state invitate a parteciparvi le scolaresche degli Istituti e Comprensori dei dintorni. Trascrivo buona parte del lavoro prodotto al termine della ricerca operata dalla nostra scolaresca: (classe quarta elementare di Tavoleto, guidata dai maestri Giovanna Basili e Luigi Signorotti).

Piero della Francesca (1415/20-1492): ritratti di Federico III di Montefeltro (1422-1482) e di Sigismondo Pandolfo Malatesti (1417-1468).

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****** In una rigida mattina di febbraio, il signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta inviò il suo cancelliere Giovanni da Sassoferrato a consegnare una lettera di sfida “a singular tenzone” al suo acerrimo nemico Federico da Montefeltro. Fra i due esisteva un antico rancore alimentato dal fatto che le loro terre erano vicine, perciò ciascuno voleva ingrandire il proprio territorio a scapito dell’altro, occupando soprattutto le zone di confine, come Tavoleto, “per assicurarsi il dominio dei castelli eretti a presidio di alcune importanti vie di comunicazione tra la Romagna e le Marche”. Nella “lettera filzia” Malatesta scrive tra le altre cose: “…Novamente havite scripto in una calunnia in Corte di Roma, et facto dire male di mi. Delibero non lo comportare più, anze mostrare de la persona mia a la vostra che son più valente homo, che non site voi, anzi site un cattivo, et fare male ad oltraggiarme…” Un anno dopo fu Federico a lanciare il guanto di sfida a Sigismondo tramite una lettera, ma quest’ultimo lo rifiutò con molto sussiego perché si riteneva, nella gerarchia nobiliare, di grado superiore a quello dello sfidante. L’uno era duca, l’altro conte.(N.d.A.) Comunque accettò la battaglia generale. Nella primavera del 1446, sia Federico, sia Sigismondo, si accamparono con i loro eserciti nel nostro territorio. Il conte Federico, assieme all’esercito di Sforza, di cui era alleato, ”si accampò in un luogo chiamato Montecalvo del Contà di Urbino ma de là del Foglia in Romagna”. Sigismondo Malatesta, allora capitano generale della Chiesa,”era a Tauleto, non più di tre miglia distante dal campo avversario”. La battaglia fu più che altro una scaramuccia, che gli storici hanno ritenuto fosse avvenuta presso la Pieve del Castello di Trapole. ******

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Notizie storiche di questo scontro. In merito a questa battaglia, la cronaca di Luigi Tonini, lo storico del tempo, di parte riminese si limita a raccontare che lo scontro avvenne “presso la Pieve di Trapole e furono morti de valenti homini” Lo storico Pierantonio Paltroni, di parte urbinate, precisa che il conte Federico aveva lanciato una sfida al suo contendente a sortire dal forte di Tavoleto in campo aperto ; “Che comparisseno al luogo deputato de la battaglia, cioè in mezzo la collina infra uno campo e l’altro: li quali campi, cioè quello di Francesco Sforza et del conte Federico”. Su questa terra di confine i due schieramenti erano separati da uno steccato, quale limite invalicabile da non violare. Il Paltroni così’ scrive: ”si lassarono urtare fino a dentro le sbarre et cum assaj vergogna, virilmente li fu tolte due sbarre non senza loro danno et mancamento et occisione de multi homini. Era el luogo del campo inimico multo forte de la natura e per arte el perché non parve a loro seguitare più innanzi…” In questo periodo la forza militare di Sigismondo, in virtù delle nuove alleanze, in particolare quella col Papa che lo aveva nominato Capitano Generale della sua fanteria, era superiore a quella messa in campo dagli alleati Francesco Sforza e Federico da Montefeltro. Il Malatesta, in quella stessa primavera, movendo da Tavoleto, dove il 28 marzo aveva posto il campo, si spinse nell’oltre Foglia, e dopo lo scontro a Monte Fabbri a lui favorevole, si riappropriò dei castelli procurati dagli avi della sua casata. Mentre la truppa antagonista, il 30 settembre del1446, levato il campo da Montecalvo, si accampò nei pressi di Gradara per operare un attacco a quel castello, che però rimase nelle intenzioni. Era evidente che Federico, per la conquista del castello di Tavoleto doveva approfittare di una qualche mossa falsa del Malatesta. 157


Tavoleto nella morsa delle lotte fra Malatesta e Montefeltro. Come riportata dalla ricerca storica della classe quarta nell’anno scolastico 1995/96: Durante le lotte tra Malatesta e Montefeltro, il Castello di Tavoleto fu preso e ripreso per ben cinque volte, nel periodo che va dal 1439 al 1459. Le cronache malatestiane riportano che Guidantonio di Urbino, padre di Federico, riuscì a prendere la Rocca: (1439) “Addì XXIV de novembre. El conte de Urbino venne a campo al Tauleto la mattina in suso il dì, et avelo per forza e messo al sacco”. Fu Balduccio d’Anghiari a saccheggiare la rocca, per vendicarsi dell’uccisione precedente di alcuni suoi uomini. ”E fonno morti tri di principali omini del ditto conte, cioè Colloccio, capitano so generale, Paulocio, soe scalco, e Battista de Nolfo. Addì xxv de novembre del ditto millesimo, el nostro magnifico signore miser Sismondo Pandolfo di Malatesti cavalcò cum tutte le soe belle e pollite gente d’arme per vendicarse de la ingiuria ricievuta del Tauleto, et andò in Montefeltro contra le costella del ditto conte, e tolse nove castelle al ditto conte”. Il 30 agosto1441 i Brancaleoni per vendicarsi di Guidantonio, spalleggiati da Sigismondo, conquistarono il castello di Tavoleto. ”Addì 30 de agosto, Roppe Guerra Almerigo dei Brancaleoni cum lo conte de Urbino, e tolseglie Monteloco e molte altre castella, e tolse el Tauleto.” Verso la fine del mese successivo Federico corse in aiuto di suo padre con quattrocento fanti e duecento cavalieri e riconquistò il castello di Tavoleto, allora difeso da Riccio di S. Arcangelo Alla fine dello stesso anno 1441 si dà avvio ad una trattativa di pace promossa da Alessandro Sforza che fu proclamata a Rimini il 22 novembre, che contemplava la restituzione dei castelli, sottratti in quell’anno, ai precedenti possessori. San Leo costituì un’eccezione, poiché rimase in mano Feltresca e, per Tavoleto, tacendo le cronache, si può pensare ad un ritorno dei Branca158


Conte Vincenzo Maria Petrangolini cameriere di sua SantitĂ in uniforme da parata

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leoni. Comunque nella primavera del 1446 Sigismondo con la fanteria pontificia aveva posto il campo a Tavoleto. Quello di Federico era a Montecalvo. Nel decennio successivo le alleanze politiche e militari erano totalmente mutate. Il neo papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini), succeduto il 19 agosto 1458 a Callisto III, detestava il signore di Rimini e, dopo averlo scomunicato, (per credenza dannabile), aggravata da una lunga serie di accuse, arrivò al punto di inscenare una condanna simbolica, bruciando in una piazza di Roma tre fantocci raffiguranti Sigismondo Malatesta. Ora la sua fanteria era nelle mani del capitano di ventura Jacopo Piccinino al cui fianco combattevano fanti e cavalieri di Federico Montefeltro, i quali, in un’azione congiunta avevano appena restituito alla Chiesa il Ducato di Spoleto. Approfittando dell’assenza in zona delle forze che Sigismondo teneva impegnate in Carpegna, nonostante il parere contrario dei suoi collaboratori, e consci della superiorità delle nuove tecniche militari, per un’artiglieria d’avanguardia, con macchine capaci di catapultare un proiettile per una gittata di oltre quattrocento metri, i due condottieri, “nella lusinga di farsi uno stato su quello di Sigismondo”; il più speranzoso era naturalmente il conte di Urbino, al cui disegno mirava da anni, nell’autunno del 1458 cinsero d’assedio il castello di Tavoleto. Questo era difeso da Giobattista di Stabia che resistette nel presidio ben munito per alcuni giorni, ma non avendo possibilità di ricevere rinforzi per la concertata interdizione messa in atto dai mercenari del Piccinino (figlio), e soprattutto, per il continuo martellamento delle efficientissime catapulte feltresche,”alla fine fu combattuto et vinto per forza et misso a saccomanno et bruciato”.

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Tavoleto nel Ducato di Urbino. Pace fra Malatesta e Montefeltro mediata dal Papa. Dopo oltre cento anni dalla sua costruzione, veniva così distrutto questo fortilizio capace di monitorare spazi dal Monte Catria, al Sasso Simone a Cesena e su una lunga fascia dell’Adriatico. Il conte Federico, nel periodo fra 1459 e il 1474 ricostruì, su progetto di Francesco di Giorgio Martini, architetto alle sue dipendenze, su basi nuove, la rocca. Questo progetto è riportato nel suo “Trattato di Architettura”; opera, dirà poi un cronista tavoletano: ”di migliaia di braccia e di scudi” (Alfredo Franchini, Tavoleto tra cronaca e storia). In questa sede, nel giorno della inaugurazione, Federico festeggerà nel 1474, l’onorificenza del titolo di Duca, conferitagli dal Papa Sisto IV. Vi prenderà sede un presidio di ottocento soldati agli ordini di un Capitano, avente giurisdizione podestarile sui circostanti Castelli. (A. Franchini, op. citata). Nel frattempo Federico è nominato comandante generale delle forze pontificie, e Sigismondo subisce una grave sconfitta sul fiume Cesano, che gli costò la perdita dei castelli confinanti o vicini a noi: Saludecio, Mondaino, Montegridolfo, indi Montefiore, Macerata Feltria e Sassofeltrio. In questo scontro avvenuto al chiaro di luna il conte Federico mise in atto il meglio del suo acume di strategia militare, sopraffacendo con una carica impetuosa l’avversario che dispiegava un esercito quasi tre volte superiore al suo. Tavoleto, incorporato nel Ducato di Urbino, poiché nella nuova rocca si erano locati gli uffici che amministravano la giustizia e i beni pubblici di un territorio che si estendeva oltre i suoi confini, divenne il punto di riferimento per tutte le comunità circostanti. Dopo le ripetute escursioni militari di eserciti che, nello spazio di tempo dal 1439 al 1459, quivi si contrapposero per ben cinque 161


volte, questi poveracci, senza pane, senza tetto e senza stracci, ogni volta, con rinnovata caparbietà, erano riusciti a riemergere dalle ceneri delle loro case. Ora però, tolto il breve scorcio di tempo del raid di Cesare Borgia,“Duca Valentino”, del tutto indolore per questa comunità, che avvertì solo un diplomatico scambio del capitano e del picchetto di guardia alla Rocca, gli abitanti di Tavoleto trascorreranno un lungo periodo di tranquillità e pace. Questo piccolo Stato, infatti, era da tutti rispettato, poiché costituiva, secondo la citazione di A. Franchini tratta da: (T.C.I Città da scoprire)” una entità politica che poteva uscire dagli angusti ambiti medioevali, con un’organizzazione amministrativa, giuridica e militare, e una cultura e un immagine completamente nuove”. La sua vocazione culturale, testimoniata dalla fama di molti suoi figli e dalle loro opere d’arte e dai fasti della sua corte, era invidiata dagli Stati più estesi e potenti d’Europa. Morto il grande Federico nel 1482 e, nel 1624 Francesco Maria, l’ultimo dei Montefeltro, questa casata si estinse. In virtù di una delle varie disposizioni dei trattati di pace, quasi sempre condizionati dalla volontà dei Papi che li presiedevano, passò definitivamente nello Stato Pontificio. Una clausola di un vecchio trattato di pace fra Malatesta e Montefeltro, prescriveva che i territori contesi e, al momento in possesso temporaneo delle due famiglie, avessero ad essere incorporati nello Stato della Chiesa all’estinzione delle rispettive casate.

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ARAZZO DELLA SFIDA Il dipinto nel castello dei conti Petrangolini per la “Lettera finzia” Il conte Vincenzo Maria Petrangolini, a metà del secolo scorso, volle istoriare il suo castello in Tavoleto; ne affidò l’incarico al pittore Canzio Bardozzi di Montecerignone. Questi vi lavorò per oltre un anno, affrescò la saletta del camino che guarda sulla piazza principale, disegnò un possente armigero sul frontale della sala delle armi e, infine un bellissimo arazzo in tela murata nella sala d’attesa, alla quale si accedeva dal sottostante loggiato, salendo per un imponente scalone in pietra. Questa stanza comunicava con il salone delle armi con un’apertura sulla quale, dietro un massiccio portone, incombeva la minaccia di una pesante grata di sbarre appuntite rivolte verso il basso, che scendeva rapidamente all’azionamento di una leva. Nella “Lettera finzia” si vuole che fossero riportate “le altre cose che havite scripto a calunnia in Corte di Roma, et facto dire male di mi”. Se queste cose si riferiscono alle vicende dell’aneddoto a seguire non vi vedo calunnia. In quella mattina brumosa di febbraio il signore di Rimini si era svegliato di cattivo umore, non aveva dormito a sufficienza a causa di un assillo che gli procurava quello di Urbino. Parlava a voce alta: “È ora di finirla, o io o lui, in due siamo troppi!” Ordinò carta, penna e calamaio e buttò giù la lettera di sfida. La rilesse, ma il malumore non si sopiva. Ordinò un altro foglio e vi scrisse un invito a Isotta nella solita alcova. Chiamò i messaggeri e si dispose ai soliti impegni di ogni giorno. Ma subito la campanella dello studio tintinnò nervosamente; era il latore della lettera ad Isotta che la invitava ad un duello a singolar tenzone. Maledizione! Avete scambiato le lettere, prendi il cavallo più 163


DOPO LUNGA OPPUGNATIONE INTRA LI DOI CONDOTTIERI PER DESPUTARSI EL DOMINIO DE LE CIRCOSTANTI TERRE DE ROMAGNA ET DE LA MARCA, SISMONDO RIPIENO DE COLLERA ET SDEGNO INCREDIBILI PER SATISFARE A SE STESSO SFIDA CON SUPERBE PAROLE FEDERICO A BATTAGLIA SINGULARE. NE IL CONTE

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RECUSO’ L’INVITO ET EL DÌ DEPUTATO A LA TENZONE COMPARVE AL LEVAR DEL SOLE ARMATO SUL CAMPO CHE SECONDO LA CONVENTIONE ERA SITO A UN TRAR DE SAETA LONTANO DA LE MURA RESURTE DE LA TRAPPOLA DE TAULETO.

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veloce e raggiungi il Sassoferrato prima di Urbino, a quest’ora sarà lungo le strade per Coriano o per Montefiore. Ora è opinabile credere che il Petrangolini fosse a conoscenza dell’aneddoto e abbia voluto dargli credito, appropriandosi del luogo con un’illustrazione pittorica della scena del duello nei pressi del suo castello. In primo piano emergono le figure imponenti di Sigismondo Malatesta armato di stocco, e alla sua destra, di Federico Montefeltro, entrambi ben saldi sui loro destrieri rampanti. Sono uno di fronte all’altro e si scrutano con sguardi minacciosi Nei riquadri laterali alti che fanno da sfondo all’opera, sono ben visibili due castelli merlati; quello a sinistra rappresenta Tavoleto, quello alle spalle di Federico, dovrebbe raffigurare Urbino o Montecalvo. Al centro si nota distintamente uno steccato, a sottintendere la presenza di due campi militari contrapposti. Da quello di Tavoleto partono frecce e lance. Conte Vincenzo Petrangolini e don Alberto Franchini nel cortile del Castello di Tavoleto con i bambini della scuola materna instestata a Rosa Michelini Petrangolini (1958-59)

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Sotto questa lettura, tutta la scena assomiglia alla cronaca dello storico urbinate Pierantonio Paltroni in merito alla battaglia della Pieve il 28 settembre 1446. Al tempo della ricerca scolastica si era convinti che, quanto riportato nella didascalia, si dovesse riscontrare nelle memorie storiche conservate in qualche archivio delle nostre zone; ma, né a Urbino, né a Rimini, né a Cesena, si è trovato un documento che comprovasse la sua veridicità storica. Sovvenendomi il tempo in cui il pittore Canzio Bardozzi intendeva a questi lavori nel castello (1953-54), saputo che ora viveva presso la famiglia della figlia a Serravalle di San Marino, si prese accordi per un’intervista filmata; sebbene novantenne, ricordava perfettamente quei suoi lavori nel castello di Tavoleto: si dimostrò molto rammaricato nell’apprendere che alcune di queste sue opere non c’erano più, come l’armigero sul frontale del salone delle armi. (Ricordava che gli piaceva chiamarlo col nome di “l’uomo di Fossombrone”.) Quando gli si chiese da quale libro o documento avesse trascritto la didascalia dell’arazzo, rimase per un tempo pensieroso, poi gli s’illuminò il ricordo e gli tornarono chiari e presenti quei giorni del suo lavoro. -: Già, ricordo bene, ecco, me la dettava lettera per lettera il conte vecchio (Vincenzo Maria, n.d.a.), aveva nel taschino un foglio compilato da lui stesso. Il conte Vincenzo Maria Petrangolini era un uomo molto colto. Nel suo palazzo in Urbino teneva salotto il fior fiore della cultura urbinate; Carlo Bo, il rettore dell’Università degli studi, suo intimo amico, ne era di casa. Il conte era sicuramente a conoscenza della cronaca del Paltroni concernente lo scontro della Pieve.

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Vincenzo Maria e Giuseppe Petrangolini figli dell’avv. Ferdinando da cui hanno ereditato il titolo nobiliare di conte Giuseppe Petrangolini ha ereditato i beni della nobile donna Teresa Gioia che era andata sposa ad Antonio Falaschi. Questa porta in dote case, palazzi e terreni in quel di Rimini pari ai beni in Tavoleto. Da questo matrimonio, nel 1907, nasce Francesco Falaschi unico ereditiere. Questi in tarda età sposa Rosa Michelini, la quale diventerà unica erede.

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MOTIVAZIONE DEL TITOLO NOBILIARE Riconoscenza e gratitudine motivano l’onorificenza Nel 1885, Papa Leone XIII conferisce il titolo di conte all’on. avv. Ferdinando Petrangolini. 11 settembre 1860: truppe piemontesi varcano il Tavollo. Nei giorni precedenti, patrioti e volontari filo piemontesi guidati dal conte Gommi di Bologna, oltrepassano Tavoleto nella totale indifferenza, dacché il cronista locale Ubaldo Ceccaroli, di fede papalina, non ne fa menzione, e raggiungono Urbino, dove il 18 dello stesso mese viene proclamato un governo provvisorio filo piemontese alla cui testa è posto Francesco Ubaldini. L’autorità ecclesiastica della città si sente in dovere di recriminare quel sopruso che non è spiegabile, ed è tale da un punto di Conte Filippo Maria Petrangolini posa con la figlia Rosanna, prima a sinistra, poi Filippina Baldini, Anna Santi, Silvana Urbinati e Ines Mazzoli.

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vista della legalità. Alle reiterate proteste di monsignor Luigi Petrangolini, che, provvisoriamente reggeva l’archidiocesi urbinate, in assenza del titolare monsignor Angeloni, i piemontesi reagirono e, per porre fine alla questione lo condussero in prigione. Al rientro dall’Umbria dell’arcivescovo Angeloni, questi reagì in modo ancor più energico e pronunciò la scomunica contro gli autori di quel sopruso. I piemontesi tagliarono corto con l’assegnargli la cella del suo vicario; indi lo assicurarono che sarebbe stato sottoposto a un regolare processo da svolgersi, non in quella sede, ma in Piemonte, dove fu “trascinato a forza”. “…Furono giorni amari per questo presule che non voleva sottostare alle nuove autorità civili”. (La mia vita con lo zio Monsignore, Petrangolini) Nel primo parlamento costituitosi dopo la proclamazione del Regno d’Italia, 17 marzo 1861, in un collegio che comprendeva, oltre ad Urbino, anche Auditore, Tavoleto, Colbordolo, Petriano, Fermignano, Montecalvo, era stato eletto l’avv, Ferdinando Petrangolini, che aveva prevalso sul repubblicano Romani per 467 voti contro 281. In questi anni il Vaticano affida all’on. avv. Ferdinando Petrangolini il patrocinio della causa in difesa dell’arcivescovo Angeloni, ancora recluso in una prigione del Piemonte. Questi parla della questione trattandola col Rattazzi, al tempo Presidente del Governo. Tra due avvocati, anche se su sponde opposte, l’intesa è facile, e l’accordo si raggiunge subito senza che alcuno ne debba subire discapito. Alla prima seduta il verdetto dice:”Esilio dal Regno d’Italia”. Sentenza accolta con generale soddisfazione. Nell’anno 1885, il papa Leone XIII, memore di quest’atto meritorio e di giustizia operato dall’avv. Ferdinando Petrangolini a favore di un prelato della Chiesa, conferisce il titolo nobiliare di “conte” a lui, alla famiglia e ai discendenti.

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23 settembre 2003 sul piazzale della cittadella inaugurazione e posa della targa a titolo “Belvedere Conte Petrangolini” da destra Sindaco Dott. Maurizio Paolucci, Vicesindaco Stefano Pompei, Contesse Manuela, Rosanna, Carolina, Nicoletta

Nel 1963 il castello con la sua grande “tenuta” circostante fu venduto e trasformato dal nuovo acquirente in ristorante albergo col nome di “Trappola”. La sua posizione dominante su vasti spazi montani e marini, la salubrità dell’aria, la quiete della notte, i saporiti piatti a base di selvaggina, procacciata nella locale riserva di caccia della tenuta, dava ospitalità a una clientela d’elite. Alla morte del proprietario Antonio Cerri fu acquistato e riven171


duto più volte subendo continue e dannose trasformazioni nella sua struttura interna, e perdendo, a ogni passaggio di proprietà gli arredi e le cose più preziose. Il riccionese Andrea Stefanini, l’attuale possessore riuscì a recuperare solo l’arazzo che ora è collocato sul frontale di un’ampia sala a pianterreno. La fascia sottostante unita alla tela murata col dipinto, sulla quale era riportata la didascalia, è finita fra le macerie. Sono stato tentato di recuperarla, tirandola fuori da sotto quel mucchio di calcinacci e immondizie maleodoranti, desistetti nel tentativo per un senso di pudore, poiché erano presenti le nipoti del conte Petrangolini: Manuela e Rosanna. Si era infatti saliti su al “loro” castello, in occasione di una loro fugace visita a Tavoleto. Manuela, disgustata da quella vista, si arrestò nella corte senza salire nelle stanze. Vi salimmo Rosanna ed io, ma fu un impatto penoso e ripugnanVista della cittadella con Belvedere Petrangolini e giardini pubblici.

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te per entrambi. Questo castello nel duemila era nel degrado più assoluto, inoltre, alcune strutture e infissi minacciavano l’incolumità dei passanti. L’attuale proprietario, gli ha apportato un totale restauro, riportandolo nella forma e stile architettonici del tempo della famiglia Petrangolini. Anche le innovazioni all’interno della corte, ora molto più vasta, i nuovi ingressi e il materiale usato nel restauro, si richiamano alla prima costruzione. La nuova gestione, che si occupa di “location”, ha predisposto le stanze di questo castello all’accoglienza di avvenimenti e ricorrenze celebrative: sfilate, meeting e congressi, mostre, degustazioni, matrimoni, battesimi, cresime, comunioni. Riporta nelle sue locandine e nelle più aggiornate ed efficaci vie di comunicazione, annunci pubblicitari che sono a fondamento del “buon vivere”…

IN CIMA AD UNA COLLINA, A POCHI PASSI DAL MARE, DISPERSO NELLA TRANQUILLITÀ,’ AL DI LÀ DEL TEMPO E DELLO SPAZIO ESISTE UN LUOGO INCANTATO DOVE IMMERGERSI NELLA QUIETE PIÙ ASSOLUTA ED ASCOLTARE L’ECO DEI TUOI SOSPIRI. Oltre al Castello, all’Antica locanda della Posta da Renata, al Bed&Breakfast Casa Fiorita e al Bed&Breakfast Alberto House, la ricettività turistico alberghiera il 10 giugno 2011 in questo paese si è arricchita di una nuova struttura Il Poggetto Piccolo Hotel. 173


Il Poggetto Nome dal sapore antico: piccolo poggio... ...così le generazioni passate hanno chiamato il parapetto che, proprio al centro del paese, sporge con ampia panoramica sull’Adriatico. Il Rio ventena che di qui inizia il suo corso disegna una serpentina verde-scuro che si perde nei pressi delle “Navi” di Cattolica. Tanto verde, tanto ossigeno; oltre le colline il mare confonde il suo colore con quello del cielo. A sera appare un giro di luce del faro di Pesaro che scivola veloce sulle case per ritornare sul mare... …a sera si respira una fina e fresca aria di levante... ...le voci della natura allietano il risveglio... Quante buone ragioni avevano i nostri nonni ad amare questo “Poggetto”.

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Inaugurazione belvedere Conte Petrangolini 23/09/2003: RuggeroUrbinati, Contessa Manuela Petrangolini, Sandro Riminucci, campione del basket e gloria paesana, e Luigi Signorotti, l’autore.

Il libro è terminato, ma oggi 15 giugno 2011, Tavoleto con tutte le istituzioni: Amministrazione Comunale, Pro Loco, Società Sportive, Artigianato Provinciale è compartecipe del dolore della sua famiglia. L’ultimo saluto al caro Adriano è sincero. Ha onorato il suo diploma di maestro d’arte, poiché è stato un vero artista dell’arte dell’intarsio. Un pezzo di legno nella sua bottega, indi in quella Adriano Falasconi 3 agosto 1938 - 15 giugno 2011 del figlio, diventava un oggetto animato al pari del Pinocchio collodiano. E’ depositato nel suo laboratorio il Pinocchio ligneo protagonista del film di L. Comencini. 175


L’Autore porge un sentito ringraziamento a don Giuseppe Giovanelli per la disponibilità concessa agli archivi della parrocchia, all’amico Giorgio Paolucci esperto informatico, a Diego Federici per i preziosi suggerimenti. Un particolare grazie va alla Fondazione Cassa dei Risparmi di Pesaro che con il suo contributo ha permesso al Comune di Tavoleto a cui il libro è stato donato, la sua stampa e la sua divulgazione. L’autore ringrazia inoltre tutti coloro che hanno fornito ricordi, testimonianze e materiale fotografico, ed in particolare il patrocinio offerto dal Presidente del Consiglio Regionale delle Marche. Luigi Signorotti è nato a Tavoleto (PU) il 14 luglio 1936 ove risiede in via Giordano Bruno, 5 – Tel. 0722.629249 Maestro elementare in pensione. Ha dato alle stampe: Storia e storie del tempo che fu, Ed. Giorgio Paolucci (PU) - 1999

Stampa “Arti Grafiche della Torre” - Casinina (PU)

Il mulino nel Foglia, Ed. Il Ponte (RN) - 2005

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