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Indice pag. Introduzione

7 I FILOSOFIA DEL LAVORO

1. Filosofia del lavoro: il fondamento e il concetto 2. Filosofia del lavoro come determinazione dell’ottimo lavoro 3. Filosofia del lavoro come ricerca del suo fondamento 4. Filosofia del lavoro come individuazione della categoria del lavoratore 5. Filosofia del lavoro come metodologia delle scienze del lavoro 6. Filosofia del lavoro, analisi del linguaggio

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II IL LAVORO 1. Lavoro, valore assoluto, valore relativo III LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO

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1. La sociologia del lavoro come concetto storico: una visione integrale e i suoi criteri 67 2. La sociologia del lavoro come scienza “nomotetica” 3. L’energia e l’entropia 4. L’ordine e il disordine 5. Certezza e incertezza

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pag. 6. Il tempo della certezza: l’atto 7. La norma 8. L’oggetto dell’incertezza: il dubbio 9. Il mezzo-guida 10. Il processo: la separazione 11. L’oggetto della certezza e della norma: l’atto 12. Il contenuto della norma 13. Incertezza obiettiva e incertezza subiettiva 14. L’organizzazione 15. L’organizzazione deve creare non solo informazione ma anche conoscenza 16. L’organizzazione apprende 17. Il rapporto d’agenzia: il soggetto-agente, eclettico e omosessuale 18. L’oggetto dell’organizzazione l’obiettivo 19. Organizzazione aperta e organizzazione chiusa

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IV IL LAVORO CHE VORREI 1. L’ideologia 2. La motivazione

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3. La scelta 4. Il paradosso 5. Il metodo 6. Esser-ci e dover esser-ci

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Introduzione La scienza alla quale tutte le scienze sono subordinate, come al loro ultimo fine, è la sociologia. Compito di questa scienza è quello di “percepire nettamente il sistema generale delle operazioni successive, filosofiche e politiche, che devono liberare la società dalla sua fatale tendenza alla dissoluzione imminente e condurla direttamente ad una nuova organizzazione, più progressiva e più salda di quella che riposava sulla filosofia teologica” (A.Comte, Phil.pos., IV, p.7). Ecco che, la sociologia deve costituirsi nella stessa forma delle altre discipline positive e concepire i fenomeni sociali come soggetti a leggi naturali, che ne rendano possibile la previsione sia pure nei limiti compatibili con la loro complessità superiore. Secondo Comte, la sociologia, o fisica sociale, è perciò divisa in statica sociale e dinamica sociale, corrispondenti ai due concetti fondamentali su cui essa si fonda, quelli dell’ordine e del progresso. Se la statica sociale mette in luce la relazione necessaria, il “consenso universale”, che hanno tra loro le varie parti del sistema sociale, la dinamica sociale, invece, evidenzia il progresso cioè lo sviluppo continuo e graduale dell’umanità.


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Secondo Comte, il progresso, riferito agli stati sociali, è “il risultato necessario del precedente e il motore indispensabile del seguente, secondo il luminoso assioma del grande Leibniz: il presente è gravido dell’avvenire” (Ib.,IV, p.292). Perciò, l’idea del progresso è importante per la sociologia. Il progresso, infatti, realizza un perfezionamento incessante, per quanto non illimitato, del genere umano. Ad opera di Comte la sociologia è nata come sistema, cioè come determinazione della natura della società nel suo complesso, mediante la determinazione delle leggi di essa. La sociologia pretende di organizzarsi, in questa fase, a somiglianza della fisica newtoniana: come scienza che delinea, mediante leggi rigorose, un ordine necessario, di quest’ordine. Comte, pertanto, chiamava la sociologia fisica sociale e vedeva la prima parte di essa nello studio dell’ordine sociale, cioè nella statica e la sua seconda parte dello studio del progresso sociale, cioè nella dinamica (Course de phil.positive, IV, p.292). Comte, quindi, insieme a Spencer (v Trattato) e Vilfredo Pareto (Trattato di sociologia generale) intende realizzare la sociologia come scienza sintetica o sistematica avente come oggetto la totalità dei fenomeni sociali da osservare nel suo complesso cioè nelle sue leggi. Diversamente, la sociologia del lavoro appartiene alla sociologia analitica, che ha per oggetto, gruppi o aspetti particolari dei fenomeni sociali e da essi procedente a generalizzazioni opportune. Il passaggio dalla sociologia sintetica, a quella analitica può ritenersi segnato dall’opera di E. Durkheim che abbandona il presupposto fondamentale di quest’ultima: il presupposto cioè che la società costituisca un tutto o un sistema organico (Règles de la mèthode sociologique, 1895; 11’ ed., 1950).


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Max Weber realizza invece la netta separazione, tra la ricerca empirica o logica da un lato e le valutazioni pratiche o etiche, politiche o metafisiche dall’altro lato (Der Sinn der Wertfreiheit der soziologischen und okonomischen Wissensohaften, 1917). La sociologia del lavoro, in quanto sociologia analitica, è indirizzata allo studio dei rapporti che si sviluppano nei luoghi di lavoro, nonché l’influenza reciproca tra tali rapporti e l’organizzazione industriale. (Franco Ferrarotti, La sociologia industriale in America e in Europa, 1959). Il nostro tentativo è quello di attuare nell’ambito di questa disciplina (sociologia del lavoro) una concettualizzazione teoretica della materia, per un ritorno alla forma sistematica della stessa, per far ciò, non si può prescindere dalla filosofia del lavoro1. 1 Oggi si individuano la sociologia dell’industria, la sociologia dell’azienda, la sociologia dell’organizzazione e la sociologia del lavoro. Quest’ultima, in particolare “studia il mercato del lavoro, la formazione e l’orientamento professionale; il valore attribuito al lavoro; la formazione e l’orientamento professionale; la sua qualità il suo grado di organizzazione, automazione, parcellizzazione, alienazione, mercificazione; le sue conseguenze psicofisiche e sociali; lo status e la stratificazione che ne derivano; la conflittualità che esso scatena; i rapporti sociali che determina o inibisce” (De Masi, 1985, p.17). Due sono secondo il De Masi gli indirizzi. Un primo indirizzo che è denominato sociologia manageriale è caratterizzato, da una subalternità dell’elaborazione teorica alla ricerca empirica e alla prativa professionale, da un interesse prevalente verso la produttività, l’efficienza e il profitto, da una centratura sull’organizzazione produttiva - di solito l’azienda manifatturiera - rispetto al macro sistema sociale. In questo ambito sono individuabili: la teoria della divisione del lavoro, accompagnata dalla pratica delle human relations (Mayo, Roethlisberger, Likert, Herzberg); la teoria dei sistemi, accompagnata dalla pratica dei sistemi socio tecnici (von Bertalanffy, Emery, Trist, Woodward). Un secondo indirizzo, denominato sociologia strutturale dell’organizzazione, è caratterizzato da una prevalenza dell’elaborazione teorica sull’osservazione empirica; da un’attenzione per la


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Ecco, quindi, che l’indagine filosofica (statica) del lavoro, intende realizzare la migliore o più compiuta sistemazione esplicativa del concetto di lavoro. Di contro l’indagine sociologica (dinamica) del lavoro, è indagine metodologica sui procedimenti e le tecniche, logiche e sperimentali, di cui ci si avvale per offrire risposte. Pertanto, l’approccio con il lavoro nell’indagine sociologica è dato da un aspetto critico dell’indagine, che tende a determinare i limiti esatti della validità della scienza stessa, sottraendola, diremmo, alla pretesa metafisica della prima. Sotto questo aspetto, alla filosofia del lavoro si accompagna sempre una sociologia del lavoro; ma bisogna osservare che non ogni critica costituisce sociologia del lavoro. Ciò per affermare che non si deve ridurre al minimo o addirittura negare il valore conoscitivo della filosofia sulla sociologia del lavoro. L’intento è quello di costruire una sociologia del lavoro che non sia una scienza rigorosa, come le scienze positive della natura, e perciò escluda ogni metafisica e si limiti al riconoscimento e alla elaborazione dell’esperienza. Ogni individuo-lavoratore si trova originariamente di fronte a un ambiente circostante e di fronte ad altri individuisalvaguardia dei valori umani e dei diritti civili piuttosto che per il profitto, considerato un bene in sé ma un parametro di economicità di gestione; da una centratura sull’intera società, alla ricerca delle determinanti di un ordine sociale più adeguato ai bisogni individuali e allo sviluppo collettivo. I paradigmi della sociologia strutturale derivano da paradigmi più ampi, tesi a spiegare l’intera società e non solo i fatti che attengono all’azienda o ad altre organizzazioni. In quest’ambito è possibile individuare i seguenti principali paradigmi: il paradigma marxista; il paradigma critico (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas); quello del socialismo utopistico(Gorz, Schumaker, Illich, Gershuny); il paradigma cattolico; quello liberale (Weber, Schumpeter, Daherendorf); il paradigma post-industriale (Touraine, De Masi).


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lavoratori; ma l’individuo e il mondo ambiente non sono due realtà separate ed opposte giacché l’uomo ha esperienza dell’ambiente, proprio nello stesso senso in cui ha esperienza di se stesso: l’uno e l’altra realtà appartengono ad una sola esperienza e sono costituite dagli stessi elementi. Questi elementi dipendono dall’azione reciproca dell’ambiente e di come l’individuo-lavoratore interagisce nell’ambiente. Quindi, possiamo affermare che la sociologia del lavoro è la forma del lavoro assoluto, quella precisamente in cui il lavoro si manifesta nella forma della rappresentazione. In definitiva, il rapporto della filosofia del lavoro con il lavoro stesso sta nel fatto che la filosofia del lavoro non deve creare il lavoro, ma semplicemente riconoscere che già c’è: il lavoro è determinato, positivo, presente. Il lavoro è realtà presente; è il divenire, che già gli antichi definivano come passaggio dal nulla all’essere. Mentre, la sociologia del lavoro consente l’analisi del lavoro quale fenomeno che si evolve e muta nel tempo e nello spazio. È necessario, quindi, offrire una spiegazione razionale e compito del sociologo del lavoro, è quello di ricercare dei principi generali, con i quali tutti i fatti indagati possono essere spiegati. Ecco che, non si può prescindere dalla filosofia del lavoro come scienza dei primi principi dell’essere lavoro: le supposizioni sulla realtà ultima. In senso tecnico, la critica e la sistemazione od organizzazione di tutto il sapere dedotto dalla scienza empirica (la sociologia del lavoro), che diventa dinamicamente razionale, in relazione al tempo ed allo spazio.


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Se la filosofia del lavoro è l’aspetto teoretico del concetto lavoro, la sociologia del lavoro è l’aspetto pratico, essendo il primo l’aspetto del valore assoluto lavoro quale oggetto di conoscenza come fine a se stesso, mentre il secondo quale conoscenza del valore assoluto lavoro come guida all’azione. I rapporti della sociologia del lavoro, con la filosofia del lavoro al pari di quelli che la prima ha con altre discipline, devono essere considerati nella prospettiva analitica, perché tali rapporti appaiono assai stretti e inscindibili. L’importanza di questa affermazione, emerge da questa considerazione. Ogni indirizzo filosofico comprende in forma esplicita o implicita, e con varia accentuazione, procedure metodiche che paiono assicurare con maggiore probabilità, la elaborazione di preposizioni aventi un elevato contenuto esplicativo e previsivo. Occorre ricordare che l’indirizzo filosofico che ha coltivato maggiormente tali meccanismi è il neopositivismo (o empirismo scientifico). Ciò non significa che la ricerca sociologica debba essere subordinata all’insegnamento che proviene dalla filosofia, bensì che attraverso la critica filosofica essa può eliminare presupposti gnoseologici, epistemologici e metodologici, i quali intralciano la sua strada e nei quali rischia di ricadere.2 Qui, quello che s'intende accentuare sotto vari aspetti, è l’unità della scienza lavoro. 2 La sociologia si è dissociata dalla filosofia “.... non perché i loro problemi fossero una volta per tutte di natura scientifica e non interessassero la filosofia, e ancor meno allo scopo di attribuirsi in partenza una sorta di patente di superiore esattezza, ma semplicemente perché, se si vuole avanzare nella conoscenza, è necessario delimitare i problemi, lasciare indietro quelli su cui non è possibile sul momento alcun accordo e procedere sul terreno disponibile ala constatazione e alla verifica comuni (Jean Plaget, Le scienze dell’uomo, Ed. Universale Laterza, 1983, pag. 33).


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Esiste, per noi un’unità logica da cui filosofia e sociologia del lavoro non possono prescindere: i concetti non sono di tipo fondamentalmente diverso, ma appartengono ad un sistema coerente. Lo sviluppo conduce ad una teoria generale del lavoro come fondamento sia della filosofia, sia della sociologia del lavoro. L’attività del sociologo, non si riassume in rilevazione empiriche di fatti, né può essere una semplice enunciazioni di tesi dedotte formalmente da una teoria. Le conoscenze sul lavoro come fatto sociale, possono progredire solo se solidalmente ancorate a una teoria e se poggiano sulla raccolta di dati che la teoria servirà a guidare . Il tentativo è quello di offrire alla sociologia del lavoro, oggetti di ricerca specifici o di metodi realmente distinti da quelli usati dalla sociologia generale. Ecco che, per far questo una scienza anche se applicata non può prescindere da una sua struttura teorica e quindi secondo noi dalla filosofia del lavoro. La sociologia del lavoro, come la sociologia in genere, cerca di comprendere le collettività umane che si costituiscono nelle attività sociali e grazie alle attività sociali. Il loro oggetto di studio è il sistema concreto di interazioni che si sviluppa fra gli attori sociali nel quadro delle relazioni che le istituzioni contribuiscono a definire. Perciò la rilevazione empirica delle azioni degli individui non può essere compresa, se non nel contesto sociale all’interno del quale gli individui si collocano. Come la sociologia, la sociologia del lavoro studia i fenomeni sociali che si producono in un dato sistema. Oggetto di analisi è l’interazione fra struttura e individuo, fra il sistema di pressioni e gli attori, fra i vincoli e le strategie (Tersac).


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Quanto sopra detto, trova il suo fondamento se si pensi che il lavoro, resta fondamentale per cogliere tanto lo sviluppo della società quanto il loro funzionamento. Non bisogna dimenticare che ogni attività umana resta subordinata all’attività produttiva, grazie alla quale l’uomo si assicura beni atti a soddisfare la varietà dei propri bisogni. La posizione di rilievo accordata all’atto produttivo e alla situazione è all’origine della sociologia del lavoro. Questa disciplina è stata definita dagli autori del Trattato di sociologia del lavoro (Friedmann e Naville), sulla base di una concezione del lavoro inteso come motore della società. Per quanto ci concerne, consideriamo il lavoro, un valore assoluto e come tale la sfera lavoro, come un luogo privilegiato per analizzare le ragioni e i processi che costituiscono la collettività, i caratteri determinanti, le forme di conflittualità che si producono nel lavoro stesso, la solidarietà che si instaurano o non si instaurano per regolare gli effetti che il lavoro produce. Riteniamo, dunque, che queste due dimensioni, quella filosofica e quella sociologica, in ogni caso permettano, una visione integrale che abbracci tutte le dimensioni possibili del lavoro. Anzi, crediamo che una terza riflessione relativa all’incidenza giuridica, distinta dalla riflessione sui fattori filosofici, sociali e morali, sia imprescindibile per accostarci al concetto e al fondamento del lavoro. Questa terza riflessione, però, devierebbe l’oggetto della nostra ricerca, quello di una definizione del fenomeno lavoro. Ed allora, qualcuno potrebbe parlare di riduzionismo sociologico, portando alle estreme conseguenze la teoria che limita il lavoro al solo aspetto sociologico, come elemento imprescindibile al funzionamento e alla dinamica del sistema, al


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ruolo di una tecnica operativa estranea a qualsiasi connotazione filosofica. Un accostamento di tipo esclusivamente sociologico, che considerasse solamente l’impatto sociale del lavoro, la sua efficacia, la sua origine e i modi attraverso i quali opera nella realtà sociale, sarebbe ugualmente riduzionistico e, probabilmente, arriverebbe a considerare comunque, il lavoro come elemento del sistema, offuscando la sua connotazione filosofica. In ogni caso, questa è una possibilità e non una realtà attuale, in quanto la filosofia del lavoro è appena agli inizi. la comprensione del lavoro ha la pretesa di superare il riduzionismo fondamentalista e quello funzionalista, e implica un’attività intellettuale che porta all’integrazione tra la filosofia e la sociologia. È un punto d’incontro fra l’essere e il valore, forse il più rilevante di tutti, certamente mediato, come vedremo dalla necessità di considerare nessuna delle due costruzioni isolatamente o che una o l’altra si esauriscono in se stessa.


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1. Filosofia del lavoro: il fondamento e il concetto. Stabilire con chiarezza e precisione che cosa si debba intendere per Filosofia del lavoro, non è compito facile. Così grande potrebbe essere la varietà di opinioni in proposito, che la via migliore da seguire sembra essere quella di proporre, come punto di partenza, non già una definizione a priori, ma una definizione ostensiva, cioè ricavata dall’esistenza e dalla possibilità stessa di una considerazione filosofica del fenomeno lavoro. Molti certamente potrebbero essere i modelli ideali che potrebbero ispirare la mente. Non pretendiamo certo che questa riflessione esaurisca tutti gli interrogativi, tutte le perplessità, che l’espressione Filosofia del lavoro, suscita nella mente. A motivo di ciò, è bene puntualizzare che il termine filosofia è qui utilizzato nel significato di uso del sapere a vantaggio dell’uomo (Eutidemo pag. 288 e 290 d - Platone), quindi una scienza nella quale coincidono il fare e il sapersi servire di ciò che si fa. Secondo questo concetto, la filosofia implica: 0* il possesso o l’acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile;


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1* l’uso di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo. Perciò, occorre intendere e definire la natura o se si preferisce le caratteristiche salienti, della disciplina che va sotto il nome di Filosofia del lavoro, quindi intenderla come descrizione dell’ottimo lavoro, come ricerca del suo fondamento, come individuazione della “categoria del lavoratore” e infine come metodologia delle scienze del lavoro in generale. Ad ognuno di questi modi di intenderla corrisponderebbe un significato diverso dell’espressione Filosofia del lavoro. Fino ad ora abbiamo analizzato espressioni che hanno la pretesa di abbracciare il fenomeno lavoro nella sua integrità. Ne esistono altre, come quelle sopra indicate, che si usano abitualmente nel linguaggio comune, quantunque con una polisemia linguistica possano assumere significati più precisi o più delimitati nel linguaggio specifico, e rappresentino esempi di interferenze tra due dimensioni: quella naturale e quella tecnica. In ogni caso, per di più esse si riferiscono a parti o settori della realtà dei fenomeni e non si estendono a ricomprendere tutte le possibili sfumature. Non una, quindi, ma molteplici sarebbero le definizioni che si potrebbero dare di questa disciplina, tranne che, per dichiararne legittima una sola, si dichiarino illegittime (e si dimostrino esser tali) tutte le altre. In conclusione, sembra che l’espressione Filosofia del lavoro, sia adatta per identificare il fenomeno lavoro, benché non sia nostra intenzione entrare in dispute verbali prive di significato, né di favorire alcun tipo di sostanzialismo linguistico.


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2. Filosofia del lavoro come determinazione dell’ottimo lavoro. L’ottimo lavoro è un modello ideale di lavoro costruito mediante un procedimento logico astratto e deduttivo, indifferente rispetto alle possibilità di una sua realizzazione effettiva. L’espressione indica in genere l’eccellenza di una operazione (attività), volta ad ottenere il massimo di una energia per caratterizzare la scelta con cui un soggetto (lavoratore) massimizza la sua funzione obiettivo. Certamente è un modello utopistico che descriverebbe e teorizzerebbe un modello di lavoro perfetto, espressione di una società, che si è liberata dalle catene dello sfruttamento e dell’oppressione e, quindi, passata dal c.d. regno “delle necessità in quello delle libertà”. È credere nel valore assoluto, perciò è possibile sentirsi profeti di una condizione umana immodificabile e non soggetta al divenire del tempo.3

3 Sul concetto di valore assoluto e relativo, si ritornerà più avanti.


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3. Filosofia del lavoro come ricerca del suo fondamento. Questa seconda categoria spiegherebbe il perché del lavoro. L’oggetto della ricerca non è più l’ottimo lavoro, bensì quella che con un vocabolo desueto recentemente tornato in favore, si chiama la sua “legittimazione”. Tale problema si può dire accomuni pensieri antichi e contemporanei e perciò sinteticamente la legittimità potrà essere tradizionale o razionale. Con il termine tradizionale, la legittimazione del lavoro è ricercata nella sua istituzione divina. Soprattutto su quest'aspetto, si fonda la condanna che la filosofia antica e medievale, ha pronunciato sul lavoro manuale. Nell’antichità classica, sia i greci sia i romani, consideravano il lavoro come un peso4 che deprime l’uomo. 4 ADRIANO TILGHER “Il lavoro è per il greco un malanno inevitabile almeno “.fino a quando - scrive ironicamente Aristotele - le spole andranno da sé e i plettri faranno risonare da soli le cetre”. E Platone ed Aristotele giustificano la schiavitù con la necessità che una parte, la maggiore, dell’umanità sia addetta al duro ufficio di trasformare la materia per la soddisfazione dei nostri bisogni, perché un’altra parte, la minore, gli eletti, possa esercitare le pure attività dello spirito: l’arte, la filosofia, la


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Il lavoro è legato alla produzione delle cose materiali della vita e perciò affidato ad esseri non liberi, abietti, agli schiavi. L’uomo non lavora poiché se lavora si avvilisce e perde la propria libertà. L’uomo libero è solamente impegnato nell’esercizio della politica e delle armi. L’ideale è l’uomo contemplativo perché è indipendente e come tale non condannato a lavorare, a svolgere arti vili, faticose e penose, perciò, degno dell’essenza umana: la libertà.5 In tale visione del mondo, non c’è posto per il lavoro materiale, che mescolando l’anima alla materia e contaminandola con il contatto di essa, l’allontana dalla visione dell’idea: esso è un male inevitabile da ridursi al minimo, e, al limite, da sopprimere completamente6. Non mancano però filosofi che celebrano le virtù e la dignità del lavoro anticipando certi contegni di vita che avranno diffusione e significato solo col cristianesimo in cui s'intravede

politica..........Identica in fondo, a quella dei Greci è la dottrina dei Romani sul lavoro, rappresentata specialmente da Cicerone. Per Cicerone sono degni di un uomo libero innanzi tutto l’agricoltura, poi il commercio in grande, soprattutto se mette capo a un onorevole ritiro nella pace dei campi. Tutte le altre arti sono vili e disonoranti. Le arti meccaniche non meno che il piccolo commercio, la locazione delle proprie braccia non meno che l’usura. Esse avviliscono l’animo asseverandolo alla ricerca del guadagno e ponendolo nella dipendenza d’altri (De officiis, I, 42)” In Homo Faber - Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale - Analisi filosofica di concetti affini, - pag.9-11, 1944- Roma . 5 PLATONE , Repubblica, pag. 369 e segg. Trad. it. di G. FRACCAROLI; CICERONE De Officiis I,42; SENECA De otio ad Serenum; ESODO Le opere e i giorni. “....il lavoro è necessario perché Giove lo ha imposto agli uomini in conseguenza del peccato di Prometeo...” 6 ARISTOTELE “... La costituzione perfetta non farà mai cittadino un operaio meccanico” , Politica, III, III, 5


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la mancanza in loro del vero concetto della personalità umana, che è libertà ed autocreazione7. Il senso della vita come un universale valore di tutti gli uomini noi l’abbiamo acquisito col cristianesimo. Con l’ebraismo, il lavoro è pena, fatica, travaglio, però motivata, poiché l’uomo è condannato a lavorare, perché deve espiare il peccato originale, quello che Adamo ed Eva hanno

7 Tra i sofisti si ricorda Prodico di Ceo secondo cui il lavoro è in definitiva radice che da dignità alla vita tanto da elevare Ercole, eroe delle fatiche, a simbolo di virilità consapevole, potenza efficiente, attività. Platone nel Carmine ne rimase ammirato pur essendo tale espressione frutto del pensiero di un sofista. Anche Socrate pregia il lavoro, rilevandone tutta la dignità, e non solo riferendosi all’attività intellettuale ma anche a quella manuale. Queste due teorie sul lavoro così diverse e antinomiche vanno ricondotte nel quadro della religione misterica e quindi della classe diseredata che si pregia di lavoro, cosa dura e faticosa, le cui soste sono le feste religiose, il cui riscatto è nella vita eterna, da un lato, dall’altro l’aristocrazia, olimpica essenzialmente contemplativa ed estetica. In effetti il lavoro viene celebrato proprio dalla povera gente, da scrittori come Antistene che era un plebeo, da Socrate che aristocratico non era, dai sofisti i quali appunto rappresentano la crisi della città gentilizia, della religione ufficiale, accogliendo i fermenti che venivano dal basso. Eccezioni queste, perché la diffusione nella popolazione della religione olimpica, legata alla contemplazione ed all’estetica, conduce l’uomo greco al disdegno per il lavoro che è disdegno per quanto è pratico perché manuale, non intellettuale e speculativo, versante nelle cose e non sublime nel pensiero. Perciò l’antitesi tra il lavoratore ed il pensatore è completa. Comunque il dualismo metafisico, per la prima volta, legittima dualità di ceti, per cui al lavoro triste retaggio delle masse si oppone il privilegio della cultura e dell’intellettualità riservato a pochi. Per il greco la scienza è scienza pura e non applicata. L’uomo libero pensa, si affina nel pensiero; lo schiavo lavora e si confonde con le cose, divenendo materia egli stesso. Il dualismo istituzionale di schiavi e di padroni riflette un dualismo che è nella realtà: di uomini superiori e di uomini inferiori, di pensiero e di prassi. La ragione delle antinomie evidenziate e in quelle in cui si avvolge il pensiero di Aristotele a proposito della schiavitù deve ricercarsi nella


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commesso nel Paradiso terrestre8. Attraverso il lavoro, l’uomo si riscatta e si riottiene, sul piano naturale, quel bene che si era perduto in cospetto a Dio: la dignità. Quindi, il lavoro resta come per i Greci, un duro travaglio ed è faticoso perché è il pegno della riappacificazione degli uomini con Dio.9 Non mancano nell’ebraismo antico e più recente, tendenze ascetiche dove si giunge ad identificare il ricco e potente con il malvagio e il povero e il debole con il santo e quindi viene negato il lavoro e con esso svalutata la ricchezza ed il risparmio.10 Ciò consente di affermare che la visione ebraica del lavoro rappresenta un progresso rispetto a quella classica, poiché non esclude anzi esige nel suo dominante aspetto una valutazione dell’attività umana. Il mondo così non è semplicemente essere, è dover essere; non è realtà già data e compiuto che si tratta solo di contemplare, è un ideale che deve essere realizzato dallo sforzo dell’uomo. La vita quindi, non è l’eterno ritorno delle medesime cose e dei medesimi eventi, è il continuo e graduale processo di restaurazione dell’armonia primigenia distrutta. In definitiva il Cristianesimo primitivo si pone il problema del lavoro, e lo risolve nel senso tradizionalmente giudaico che esso è imposto da Dio all’uomo come conseguenza del peccato mancanza in lui, come in altri pensatori greci del vero concetto della personalità umana, che è libertà di autocreazione. 8 Genesi, III, 17-19; TILGHER “Gli Ebrei non vedevano lavoratori intenti all’opera dei campi senza salutarli e benedirli (Salmo 129). Ma il lavoro resta pur sempre un duro giogo, pesante a portare, e l’Ecclesiaste sospira:”la fatica dell’uomo no sazia l’anima” pag. 14 op. cit. 9 Ecclesie, VI, 7. 10 Apocalisse e nel libro dei Profeti. Del resto le differenze di scuola sono molteplici: la scuola di Rabbi Simeon condanna il lavoro, mentre quella di Rabbi Ismael lo pregia.


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originale e come pena di esso. Però il Cristianesimo primitivo riconosce al lavoro anche una funzione positiva: lavorare è necessario non solo per guadagnarsi la vita e per essere in condizione di non aver bisogno di nessuno, ma anche perché chi non ha beni di fortuna possa disporre dei mezzi di fare la carità ai fratelli che ne hanno bisogno.11 Il lavoro è così strumento dell’opera di amore e di carità, su di esso cade un raggio della luce divina attraverso cui essa si diffonde. Con l’avvento del cristianesimo il regno da raggiungere che era avvolto nella materialità, diviene spirituale, fruizione spirituale non di beni materiali, bensì di beni spirituali, non per un popolo (il popolo di Israele) ma di tutti i popoli, per gli uomini affratellati nel sacrificio divino in quel Cristo, che per essi hanno saputo morire. Nei quattro Evangeli il diniego del lavoro è deciso.12 L’ordine provvidente di Dio non esige il lavoro, Dio dà ai suoi fedeli di che sostentare la vita, che tutta deve protendersi al bene supremo nel rispetto dei beni contingenti. Ciò che si condanna è l’aderenza ai beni materiali in quanto ci leghiamo alla terra, non i beni materiali in sé e per sé, e tanto meno il lavoro, che può divenire eticamente negativo. Il lavoro da maledizione divina della Bibbia che fa seguito al peccato, assume con San Paolo funzione positiva. È la famosa formula paolina: “Chi non vuol lavorare, non mangi”; nel senso che unico titolo per avere vitto sia l’avere lavorato, mentre più genericamente deve intendersi, che chi non abbia personali ricchezze quegli deve lavorare per non essere aggravio a nessuno.

11 Efesi, IV, 28; Epistola di Barnaba, XIX, 10. 12 Matteo, VI 25-34; Luca, XII, 22-34.


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È l’indipendenza che sta a cuore di San Paolo, non il diretto rapporto tra lavoro e sussistenza. Erra chi pensa che il lavoro con San Paolo e con i primi documenti cristiani assuma un valore autonomo proprio: esso ha una dignità indiretta di mezzo, non diviene mai fine in sé, è mezzo per gli scopi della vita cristiana: “Chi non vuol lavorare, non mangi,” è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la fatica e la pena del lavoro (II tessal., III 8-10). Nello stesso senso veniva prescritto il lavoro da Sant’Agostino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San Tommaso (S.th., II, q.187 a.3) come precetto religioso. Il cristianesimo è amore e carità e come tale apre la via per intendere l’uomo come persona, asserisce la personalità dell’uomo, come soggetto morale. Ne scaturiscono corollari d’alta importanza, l’uguaglianza di natura degli uomini rispetto a Dio, l’universale dignità dell’uomo, come soggetto morale, ciò che si dice la personalità. All’ozio contemplativo del pensiero classico si aggiunge la pratica caritativa cristiana che non esclude l’intellettuale godimento di Dio, ma ne è l’integrazione. Intendere l’uomo in senso cristiano significa comprendere il lavoro in maniera diversa da come era inteso nell’antichità tant’è che lo schiavo non era più cosa ma persona. La patristica e la scolastica riaffermano le antitesi, che sono nel cristianesimo primitivo e dell’età apostolica. Però i monaci e gli eremiti erano lavoratori. Le regole prescrivevano l’obbligo del lavoro e il modello della vita eremitica era il lavoro. Il lavoro serve per combattere l’ozio e serve per provvedere ai bisogni dell’anima (il lavoro intellettuale) e del corpo. Così le sette ereticali sono tutte praticanti il lavoro, nel presupposto che il provvedere alla propria sussistenza col proprio travaglio assicura indipendenza e


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come tale consente di realizzare il pauperismo, l’opposizione alla ricchezza. È in fondo la posizione di san Francesco, il quale anch'egli nella regola impone il lavoro che si colora di gioia e non è più duro e quindi penoso13. Il lavoro intanto è obbligatorio, in quanto è necessario a mantenere il singolo e la collettività di cui fa parte. Mancando lo scopo, l’uomo non ha bisogno di lavorare. Lavoro, dunque, sì, ma solo nei limiti della legge di natura, che è legge divina. E dinanzi a questa legge il lavoro non assurge mai alla dignità di fine autonomo, resta semplice mezzo subordinato allo scopo che è la vita. Il lavoro fine a sé stesso, il lavoro per il lavoro è un concetto che la Chiesa ripudia per la stessa logica interiore, per cui respinge il concetto della vita fine a sé stessa. A partire dal ‘400, la dignità del lavoro manuale, si afferma tanto che Galileo esplicitamente riconosceva il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani meccanici ai fini della ricerca scientifica (Discorsi intorno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag. 49). Ciò che caratterizza il rinascimento è il senso della dignità dell’uomo, della sua personalità, della sua creatività, possibile ove si tenga ferma l’intuizione cristiana. Così dall’oggettivismo del pensiero classico si sostituisce il soggettivismo cristiano, che il rinascimento mantiene e approfondisce. 13 TILGHER “.... Ma al fondo di questa prescrizione chi ben guardi troverà non già un cresciuto senso della dignità del lavoro, ma uno spirito di rinuncia al mondo e ai suoi beni, disprezzo della ricchezza e di esaltazione della povertà: uno spirito essenzialmente poveristico e ascetico che, credendo erroneamente di confermarsi al messaggio di Cristo, vede nella povertà un valore religioso assoluto e da esso soltanto deduce come necessario corollario il precetto di vivere del lavoro delle proprie mani”. pag.37 op.cit.


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L’umanesimo rinascimentale, dunque, valorizza l’humanitas il valore dell’uomo, in tutti i suoi aspetti, sia come ragione sia come volontà. L’uomo non è più passivo dinanzi alla natura e alle cose, è attivo ed efficace, si scopre detentore dei principi che regolano il mondo. L’uomo è un quasi-Dio, è attività. L’azione non nasce da una necessità bensì dalla scelta consapevole e responsabile dell’uomo. Il rinascimento celebra il lavoro. Il suo apprezzamento nasce spontaneo nella visione umanistica. Il lavoro, che i cristiani ritenevano conseguenza del peccato, che i pagani ritenevano indegno dell’uomo libero, si trasvaluta in un nuovo apprezzamento dell’humanitas come libera attività razionale. L’ozio è condannato come disumano, il lavoro invece costituisce la vera essenza umana. All’uomo gli occorrono gli strumenti e perciò li crea; così nascono le arti ed il lavoro diviene simbolo di civiltà e progresso14. Nel rinascimento la pratica è posta sullo stesso piano della contemplazione classica, tanto da realizzare il suo primato. Il limite di questa concezione umanistica consiste nel fatto che il lavoro che si assume è lavoro di eccezione, come eccezionale ne è il soggetto. Vi è un lavoro altamente creativo ed un lavoro inferiore, meccanico e manuale. La contrapposizione tra lavoro manuale e attività intellettuale, verrà mantenuta anche nel Rinascimento. Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha disposto che l’uomo “venga occupato ne l’azione delle mani 14 Teorici del lavoro come concetto chiave dell’etica in questo periodo ricordiamo M. PALMIERI Della vita civile, M. FICINO, Theologia platonica, XIII, 3, L.B. ALBERTI, Della tranquillità dell’animo, in “Opere volgari”, LEONARDO DA VINCI, GIORDANO BRUNO, TOMMASO CAMPANELLA.


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e, contemplazione per l’intelletto, de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione” (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital. II pag. 152). Con Giordano Bruno il concetto di lavoro assume a significazione metafisica, in un sistema nuovo ed originale, nel quale si raccolgono tutti i motivi rinascimentali, si apre la via per ulteriori sviluppi del pensiero. L’uomo partecipa alla divinità della natura ed è intelletto e volontà che come operatore e fattore si esplica nel lavoro. Però il Bruno che pur celebra il lavoro segno dell’eccellenza umana, distingue nettamente cultura e lavoro. Nessuno più di lui che certo riconosce il valore dell’operosità, eleva la visione dell’Unus però la riserva solo ad alcuni, sicché l’umanità rimane divisa in due gruppi senza alcun collegamento. Il dualismo delle facoltà, la loro gerarchia diviene gerarchia anche di ceti. Inoltre, dalla esigenza di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del lavoro manuale sono ispirate l’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Campanella, che prescrivono per tutti i membri della loro città ideali, l’obbligo del lavoro. Il Campanella nella Città del Sole fonda sul lavoro la struttura ideale della sua repubblica, infatti egli non solo idealizza la comunanza dei beni e delle donne, ma delinea tutto un sistema di educazione che si fonda sul sapere e sul lavoro, tali che non si possano dissociare. Il superamento del tradizionale dualismo di lavoro intellettuale e di lavoro manuale, di lavoro qualificato e di lavoro sordido, che poi diviene dualismo di classi e di ceti, dà insomma al Campanella un posto eccezionale nel concetto di


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lavoro, anche perché è il primo ad affermare il valore pedagogico del lavoro. Anche Francesco Bacone, ha un alto concetto del lavoro, tanto da concepire la scienza come tecnica, mezzo di dominio dell’uomo sulla natura, diversamente da Tommaso Moro che se esalta il lavoro, egli idealizza la contemplazione dello spirito15. La riforma protestante ha indirettamente generato atteggiamenti spirituali prima che pratici che sono stati favorevoli allo sviluppo di una più piena nozione del lavoro. Anche per Lutero, il lavoro non cessa di essere remedium peccati come nel medioevo, però assume un significato nuovo: il lavoro come servizio divino. Ciò significa che la professione mondana, in quanto compiuta con spirito religioso, è l’esercizio di un culto che non ha mediatori. Dio secondo Lutero e per ciò che ci riguarda, non è fuori dal mondo, si proietta nel mondo, lo dispone al suo fine: il lavoro ne è lo strumento mirabile. Il concetto di lavoro acquista nel pensiero di Lutero estensione universale. Su di esso, poggia la società; esso è fondamento della proprietà; per esso si attua principalmente la divisione degli uomini in classi sociali. Il lavoro ha per scopo soltanto il sostentamento, non il guadagno. L’originalità di Lutero sta nel evidenziare che il lavoro è servizio divino. Pertanto se l’attività, ogni attività, in quanto tale, è divina, cade ogni ragione di differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e professione.16 15 A suo dire la felicità della vita consiste non nel lavoro che è servitù del corpo ma nella libertà dello spirito e della cultura. T. MORO Utopia. 16 TILGHER “....E’ con Lutero che la parola tedesca indiacnte professione, Beruf, acquista una colorazione religiosa che non perderà più, e che dal tedesco è passata in tutte le parole analoghe dei paesi protestanti. Professione e vocazione divengono sinonimo.... “ pag. 47 op. cit.


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Il lavoro che in Lutero aveva un significato vocazionale, professionale del divino, diviene in Calvino17 lo strumento di un’ascesi mondana per cui ci si vota ad esso al fine di instaurare il divino nel mondo: il lavoro è servizio divino. Quindi lavoro per Dio in terra, tendenza al guadagno per testimoniare di una vocazione: ciò che fu detto nuova ascesi vocazionale, nuova ascesi mondana in opposizione all’ascesi medioevale. Ne vengono gravi conseguenze. Innanzitutto la razionalizzazione del lavoro. Se esso ha un così importante significato nella nostra destinazione, non converrà abbandonarlo al caso, occorrerà razionalizzarlo o come si suole dire organizzarlo. Ecco che l’esercizio di una professione non è causale, è la posizione che Dio ci assegna nel mondo per lui, perciò bisogna darsi tutto ad esso, in uno sforzo razionale, programmatico, della cui specialità siamo ben consapevoli. Il lavoro quindi è la vocazione, la ricchezza, il dono di Dio, perciò non appare, come concetto unitario, nel senso che a tutti assicuri la salvezza, ma solamente a coloro che donano tutti i beni della vita, tant’è che l’individualità qualificata è ancora retaggio di pochi eletti ed il lavoro per loro è attività e creazione. C’è dunque lavoro e lavoro, lavoro qualificato e lavoro manuale in un dualismo sempre presente ma arricchito dall’individualità della creazione segno di elezione per quei pochi che Dio appunto elegge, essendo la fede efficace solo a coloro cui è elargita. Il lavoro, quindi, che è grato solamente a Dio non è il lavoro saltuario e occasionale, è il lavoro metodico, disciplinato, razionale, uniforme, perciò specializzato. 17 TILGHER pag. 49 e ss. op. cit.


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Il lavoro viene quindi affrancato dalla soggezione alla professione come dato di natura per divenire il lavoro per il lavoro. Nel settecento il lavoro si presenta in forme nuove, tanto che viene considerato su un piano di umanità assoluta, conformemente allo spirito dei tempi che è razionalista ed illuminista e si spoglia di ogni premessa religiosa per rivelarne gli aspetti utilitari ed economici. L’illuminismo in generale segna la rivendicazione della dignità del lavoro manuale; dal quale Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della solidarietà sociale degli obblighi che essa impone (Emile - 1762, IV). Nel termine razionale, invece, la legittimazione del lavoro viene ricercata in una determinazione umana consapevole, nel culto del passato o in un calcolo utilitario. Ciò avvenne nel Romanticismo quando si cominciò a stabilire il rapporto tra il lavoro e la natura stessa dell’uomo. Queste vedute sono espresse un po’ dappertutto. Locke, considera il lavoro e la terra come i due fattori della vita economica e nel senso che il primo operando sulla seconda crea la ricchezza; l’uomo “mediante il suo lavoro rende una cosa suo bene particolare e lo distingue da ciò che è a tutti comune”. Il lavoro per il filosofo inglese è a fondamento d'ogni valore. Locke, quindi, celebra il lavoro come fonte della proprietà individuale e scaturigine di ogni valore economico18 Hume è più energico di Locke ed afferma che il lavoro distingue l’uomo dalla bestia ed attraverso il lavoro stesso s’impadronisce della natura, perché generato povero e nudo sul mondo, compra tutti i beni della natura. 18 LOCKE Governo civile cap. IV


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Rousseau è per la soluzione decadentista del lavoro, per la Natura contro la Civiltà e la Cultura ciò determina superfluo, il lusso, la ricchezza, il denaro e le arti che loro danno origine. L’industria è nata per sviluppare bisogni e passioni ignote ai popoli vicini allo stato naturale. La divisione del lavoro che stabilisce rapporti di scambio e di proprietà genera dipendenza e schiavitù, e alla ricchezza eccessiva degli uni oppone la misera degli altri. Ogni nuovo passo nella complicazione del lavoro porta seco aumento di dipendenza e d’ineguaglianza, quindi d’infelicità.19 Il lavoro che Rousseau apprezza è quello manuale e il lavoratore che apprezza di più è l’artigiano perché questi dipende solamente dal suo lavoro, più libero dell’agricoltore: egli porta via le sue braccia e se ne va. Ferguson diversamente da Rousseau, mostra nella civiltà, frutto dell’attività e del lavoro umani, la vera natura dell’uomo e celebra come Hume, Voltaire, Mandeville, il lusso e la ricchezza. Smith approfondisce il concetto lockiano per affermare che non occorre distinguere lavoro, da lavoro, in quanto esso è sempre produzione, non c’è lavoro improduttivo. Improduttivo è solamente l’ozio. Pertanto secondo Smith la vera ricchezza della nazione è nella quantità di lavoro che essa esegue e di cui è capace. È il lavoro come attività dell’uomo che crea ogni anno la massa di beni che consuma, e non le forze naturali, che, abbandonate a sé stesse, rimarrebbero infeconde e sterili. Smith, intuisce che il lavoro produttivo in quanto tale non può che appartenere a tutti i lavori che trasformano la materia, diversamente dai Fisiocratici, che ritenevano che il lavoro 19 ROUSSEAU Discours sur l’inegalité


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agricolo fosse l’unico a fornire il materiale della ricchezza, mentre l’industria e il commercio si limitano a mettere in opera. Il lavoro, viene perciò considerato nell’economia della scuola liberale fuori d'ogni preoccupazione morale, similmente a qualunque macchina che costa un capitale e che rende un interesse. Nel ‘700 il lavoro è quindi al centro dell’economia senza distinzioni di sorta, manuale e intellettuale, agricolo ed industriale commerciale e bancario; poiché lavoro significa solo e genericamente attività utile dell’uomo, di cui non si nega ma si conferma la dignità morale. Vico con la sua formula verum et factum convertuntur (l’idealità del pensiero si converte nella realtà delle storiche concrezioni e che viceversa il fatto storico, se opera dell’uomo, partecipa del valore ideale che è nell’uomo in quanto pensiero e coscienza), concretizza il concetto che conoscere e fare si rappresentano nell’attività. Si conosce ciò che si fa e solo ciò che si fa. Occorre l’opera per la conoscenza e la conoscenza è solo tale rispetto all’opera. L’homo cognoscens è altresì homo faber. Il lavoro, quindi, per Vico ha in sé la conoscenza, essendovi solo conoscenza, essendovi solo conoscenza nel lavoro. L’idealismo germanico e Kant, riprendono tale concetto, rappresentando lo spirito come attività, evitando i pericoli di qualcosa che oltre all’attività, sia passività e si riproponga come contemplazione. La coscienza assoluta che è nella coscienza comune, diviene attività costitutiva in un lavoro che è individuale, dell’individuo storico. L’attività non è attività generica, essa suscita e crea, pone ed elabora, costruisce e trasforma, il lavoro nel senso specifico.


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Conoscere è fare, è agire, è produrre è generatrice d'unità, ordine e armonia. Fichte formula con chiarezza la funzione demiurgica dello spirito. L’uomo deve trovare nell’attività e solo in essa la felicità. La fonte di ogni vizio è la pigrizia, l’inerzia, inerente alla materialità. Per soddisfare i propri bisogni l’uomo non ha altra risorsa che lavorare la natura, e deve ridurla in sua soggezione. Secondo Fichte, ognuno deve poter vivere del proprio lavoro e lo Stato ha il diritto di vigilare, che ognuno lavori quanto può e chi non ha fatto tutto il possibile per mantenersi e non ha potuto ha diritto al soccorso. Perciò, lo Stato deve assicurare ai cittadini il diritto al lavoro, perché ognuno guadagni con il lavoro quanto è necessario alla sua esistenza.20 Con Bergson la conoscenza riceve una soluzione pratica tant’è che il lavoro si relaziona con l’intelligenza umana, che è caratterizzata dall’invenzione meccanica: l’intelligenza è essenzialmente artigiana e meccanica. L’intelligenza è l’utensile che consente all’uomo di conquistare la libertà dalla servitù e dall’azione determinata e identica e lo mette in grado di cavarsela in ogni situazione e di superare indefinitamente sé stesso.21 È grazie a Bergson che l’Homo faber diventa Homo sapiens. Nessuno prima di lui aveva detto, che in quanto fabbro l’uomo celebra la sua divinità. Fichte afferma che anche l’occupazione ritenuta più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la libera attività degli essere mortali, è santificata allo stesso modo dell’azione più elevata (Sittenlehre,III, § 28). 20 TILGHER, op.cit. pag. 86 ss. 21 TILGHER, op. cit. pag. 89


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Ed Hegel, ha dato la prima dottrina filosofica del lavoro che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith nell’economia politica. Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel considerava il lavoro come “la mediazione tra l’uomo e il suo mondo”; difatti, a differenza degli animali, l’uomo non consuma immediatamente il prodotto naturale ma elabora, nei modi e per fini più diversi, la materia fornita dalla natura, dando così a tale materia, il suo valore e la sua conformità allo scopo (Ved. Filosofia del diritto, $196). Hegel ha anche messo in luce la crescita indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del lavoro e il rilievo che acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib. §§ 195,241,245). Ha visto pure che la divisione del lavoro porta alla sostituzione della macchina all’uomo. Difatti con quella divisione, si accresce sì la facilità del lavoro e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una sola abilità e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso sociale. L’abilità stessa, quindi, diventa meccanica e ne deriva la possibilità di surrogare al lavoro umano la macchina. Marx accetta questi capisaldi di Hegel, però insiste sul carattere naturale o materiale del rapporto che il lavoro stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il carattere spirituale espresso dal primo. Infatti, i sistemi socialisti del XIX secolo rifiutano la concezione giudaico-cristiana del lavoro come espiazione, la quale presuppone la dottrina del peccato originale, ma privilegiano la filosofia di cui il Progresso è il concetto cardinale.


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Il lavoro è obbligatorio ma è una piacevole occupazione poiché la soppressione dei lavori più duri per opera delle macchine e la loro sostituzione con lavori più facili e piacevoli renderà il lavoro un gioco, una passione. Tale socialismo utopistico si contrappone a quello di Marx ed Engels dove il lavoro assume un significato più realista e non cedono all’utopia del lavoro attraente, del lavoro gioco. Per essi, nella società nuova, il lavoro, quantitativamente ridotto al minimo del tempo e l’affermazione normale dell’uomo. Nella società socialista il lavoro tende a liberarsi da ogni connotazione, scompare il contrasto tra lavoro intellettuale e manuale e diviene puramente tecnico e produttivo. Il lavoro diventa il modo normale di agire dell’uomo. L’uomo tipo secondo Marx, non è più il saggio o l’asceta o il cittadino, è il lavoratore inteso come produttore, il lavoro assume nella sua filosofia, significato e importanza metafisica. In questa concezione di Marx il lavoro assurge ad importanza demiurgica. Filosofare è lavorare. Il vero filosofo è il lavoratore. Il lavoro diventa così la più alta dignità e nobiltà dell’uomo. Secondo Marx, il lavoro non è solo un mezzo di sussistenza ma è il mezzo che consente all’uomo di esser tale, il suo modo specifico di essere e di farsi uomo (Ideologia tedesca, IA; trad. it. pag. 17; Manoscritti economico-politici del 1844, I trad. it. pag. 230 sg.). Questa stretta connessione del lavoro con l’esistenza umana, che nobilita il lavoro stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della filosofia e in generale della cultura temporanea.


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E anche al di fuori dell’ambito marxista, il carattere penoso del lavoro è messo sul conto, non del lavoro stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società industriale e, quindi, ritenerlo “l’ottimo lavoro”. Dice Dawey “È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a trovare una via d’uscita e il trovarla è in sé soddisfacente perché segna una riuscita parziale. Se l’attività sia piacevole, essa tende a trovare una via d’uscita e il trovarla è in sé soddisfacente perché segna una riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti a impegnarsi in essa, questo fatto è un'ampia prova che le condizioni sotto le quali il lavoro è svolto impediscono il complesso delle attività invece di promuoverle, irritano e frustano le tendenze naturali invece di indirizzarle verso la fruizione (Human Nature and Conduct, II, 3, pag. 123124). Lo stesso Marcuse concepisce “l’ottimo lavoro” come un ordine d'abbondanza che si ha “quando tutti i bisogni fondamentali possono soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo” (Ero e civiltà cap. 9, trad. it. pagg.212-213) Questi concetti si rifanno ad una premessa di valore e sono una semplice sottospecie di quelle dell’ottimo lavoro tanto che il lavoro ha assunto nella civiltà contemporanea, il mezzo che riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto. Forse non è Adamo il primo lavoratore? Tentato staccò la mela ! Quindi, la categoria della legittimazione consente una maggior latitudine di interpretazione e di applicazione di quelle del lavoro ottimo, per limitarsi a indicare quali condizioni il


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lavoro deve ottemperare per essere (o meritare di essere) accettato come valido, lasciando indeterminati i modi in cui tali condizioni possono essere, di fatto, realizzate: si pensi alla varietà e molteplicità delle soluzioni oggi proposte e giustificate in nome di questo o quel principio. Ancora tale categoria consentirebbe anche il sovrapporsi dei principi di legittimità o di vivere, fianco a fianco, senza che l’essere lavoratore si renda conto della loro possibile incompatibilità. Dunque, la categoria della legittimazione, è teoria dell’ideologia del lavoro ottimo, è quindi, teoria dell’utopia.

3. Filosofia del lavoro come individuazione della categoria del lavoratore. Terza possibile accezione della filosofia del lavoro è, come s’è detto la determinazione del concetto generale di lavoro; di ciò che caratterizza il fenomeno lavoro e lo fa tale, distinguendolo e differenziandolo dagli altri fenomeni sociali. È scoprire l’autonomia del lavoro, che significa individuazione delle caratteristiche proprie dell’attività lavoro e delle leggi da cui questa è governata, che sono diverse da quelle proprie ad altre attività umane.


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Ciò significa proporre una nozione confusa di quello che il lavoro è: descrivere i caratteri e segnare i confini. Certo è che in ogni pensatore, il concetto del lavoro che gli è proprio, costituisce indubbiamente un'ideologia, quindi un valore relativo. È l’ideologia della forza, l'elemento costitutivo e ad un tempo stesso legittimante del lavoro. Anche in questo caso alla filosofia del lavoro, viene assegnato un compito di determinare i caratteri differenziali del fenomeno lavoro, per essere ricondotto ad un rapporto di forza. Ecco l’affermarsi che l’assenza del fenomeno lavoro consiste nell’imposizione del potere da parte di una minoranza (chi offre lavoro) sulla maggioranza (chi domanda lavoro). Ecco l’affermarsi che la categoria dell’essere-lavoratore è individuata in un rapporto amico-nemico. Ma vi è di più! Heidegger22 nel ricordare il concetto di lavoro osserva che la questione della tecnica assume un significato importante, tanto da divenire la manifestazione più vistosa, di ciò che l’uomo è divenuto, con la fine della metafisica, e soprattutto di cosa è divenuto il rapporto dell’uomo con l’essere non “ciò che è”, ma “ciò che appare all’uomo”. Il lavoratore, l’uomo che si è dotato della tecnica, diviene la misura di tutte le cose e mentre l’uomo si erge a soggetto pienamente cosciente di sé, si costituisce innanzi a lui, un mondo-oggetto, privato di vita e di essere, suscettibile di essere dominato. Questo nuovo rapporto tra uomo-soggetto e un mondooggetto, Heidegger lo chiama tecnica, ma si potrebbe chiamarlo anche umanismo.

22 M. Heidegger, La questione dell’essere in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p.341 e ss.


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L’umanizzazione del mondo e tecnica sono la stessa cosa, perché umanizzare significa il potere dell’uomo sulla natura e questa operazione si realizza attraverso la tecnica. Ci troviamo quindi nell’era della tecnica e con tale termine dobbiamo designare, non solo l’insieme delle procedure meccaniche miranti a rendere il mondo più confortevole. Si tratta di un tipo di rapporto con il mondo-oggetto in cui quest’ultimo, viene considerato a un tempo come un campo da trasformare, come una riserva da cui l’uomo-lavoratore trae ciò che gli è utile. La tecnica non è quindi un semplice mezzo che l’uomo potrebbe dominare o controllare a suo piacimento: la tecnica moderna non è un utensile. Si comprende meglio adesso come il lavoro, che è in qualche modo la forma concreta della tecnica, possa rappresentare per Heidegger l’essenza del mondo moderno. Il fatto che l’uomo sia in rapporto con la tecnica, significa anche che è in relazione con sé stesso, atteso che la tecnica è una sua creazione, una forma forgiata per controllare il mondooggetto. La scienza, perciò, ha perduto la propria dimensione di conoscenza e di critica per divenire un apparato di dominio, un apparato d’azione. In tale processo il lavoro è strumento per controllare la natura ed è il nuovo organizzatore dei rapporti sociali, divenendo così esso stesso il fine. Dunque, si comprende a questo punto perché il lavoro abbia potuto occupare la totalità dell’attività umana. Se così fosse il lavoro rimane un fattore, subordinato allo sviluppo tecnico dell’industria e dei servizi e l’organizzazione del lavoro è retta dal principio di efficacia, che a sua volta deriva dall’imperativo assoluto di accrescere sempre la ricchezza.


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La cosa in fondo più sorprendente non è tanto che ogni “opera divenga lavoro” (Hannah Arendt)23 ma soprattutto che ogni lavoro possa essere considerato come un’opera. Perché sono proprio le categorie dell’opera che sono oggi impiegate per descrivere il lavoro, il quale permetterebbe a ciascuno di esprimere la propria singolarità attraverso oggetti, servizi, rapporti e, contemporaneamente, sarebbe profondamente socializzante. Non è possibile ricondurre tutta l’attività umana al concetto di lavoro. È su questo punto che il pensiero umanistico si rivela estremamente imbarazzante, in quanto usa il termine lavoro in senso generale, omettendo di precisare le condizioni del suo realizzarsi. Il lavoro resta concepito in modo meccanico e astratto, e la sua natura non è mai analizzata in quanto tale. Soprattutto, il lavoro non viene fatto oggetto di una valorizzazione particolare, ed è ancora interpretato come potenza creatrice per eccellenza tant’è che è al centro della meccanica sociale, divenendone il suo strumento di elezione: è a un tempo lo sforzo umano che trasforma e lo strumento di misura che indica, scientificamente, quanto valga questo sforzo. Il lavoro, quindi, è il mezzo concreto attraverso cui si persegue l’abbondanza e lo scambio.24

23 H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, p.4 24 D. Méda La società senza lavoro - Per una nuova filosofia dell’occupazione - Feltrinelli 1997, pag. 68


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4. Filosofia del lavoro come metodologia delle scienze del lavoro. Giungiamo così al quarto modo di intendere la filosofia del lavoro: di intenderla così come semplice metodologia, come riflessione critica intorno al discorso lavoro, sia questo il discorso del moderno scienziato oppure dei teorici del passato. La filosofia del lavoro in tal senso è una ricerca di secondo grado che mira ad analizzare, chiarire e classificare il linguaggio, gli argomenti e i propositi di tutti coloro che del lavoro hanno fatto o fanno oggetto di discussione e di studio.


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In questo senso si può parlare della filosofia del lavoro come di una “metascienza”, cioè di un accertamento rigoroso dei procedimenti con cui è condotta la ricerca della scienza del lavoro empirica; più in generale si può attribuire il compito di individuare le componenti del pensiero che si rivela appunto all’analisi come metodologicamente “impuro”, risultando nella maggioranza dei casi dalla confluenza di tre propositi diversi tra di loro, e cioè: 2* l’assunzione di concetti non sempre criticamente accertati; 3* una descrizione sedicente oggettiva e “avalutativa” di situazioni fattuali e delle leggi che regolano il corso; 4* una indicazione dei fini ai quali tende o dovrebbe tendere l’attività lavorativa, fini che a loro volta vengono usati come metro per vagliare e giudicare la realtà del lavoro esistente. È questa una concezione positivista del lavoro, che considera la filosofia del lavoro, come metascienza alla quale spetterebbe il compito di appurare per prima cosa il concetto di lavoro e di delimitare il campo in cui si esercita o può esercitarsi, la ricerca empirica. 3. Filosofia del lavoro, analisi del linguaggio. Al termine di questo rapido giro d’orizzonte, non si può non concludere, che è dalla posizione esaminata per ultimo che occorre partire. Oggi, infatti, non è possibile prescindere da quella chiarificazione preliminare del linguaggio che è un'esigenza prima del pensiero filosofico. Potrebbe darsi tuttavia che l’analisi del linguaggio conducesse a risultati anche più radicali delle osservazioni neopositivista, per essere un linguaggio che, nell’atto stesso in


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cui viene usato, compie funzioni diverse: designa, valuta e descrive, ma anche ad un tempo prescrive; e ciò per la ragione molto semplice che i vocaboli di cui si vale sono parole apprezzative che non è possibile eliminare. Gli esempi che vengono alla mente sono numerosi: basta pensare all’uso delle parole “libertà” o “uguaglianza, che designano ad un tempo un fatto e un valore o alla possibilità di dare allo stesso termine un significato diverso e talora opposto chiamandolo con un nome piuttosto che con un altro. Vista in questa prospettiva, la filosofia del lavoro appare come un’operazione critica mirante a mettere in questione qualsiasi discorso che abbia per oggetto il lavoro. Come tale, essa si distingue quindi anzitutto dalla scienza del lavoro che attiene a problemi politici, sociali e economici. Essa, inoltre, se ne distingue, perché può ben avvenire che la critica filosofica non si limiti a chiarire e ad affinare i procedimenti e gli strumenti della ricerca scientifica, ma ne contesti o addirittura ne vanifichi i propositi. Può essere rilevato che l’ambiguità del linguaggio che ha referente il fenomeno lavoro, e l’incapacità sin d’ora apparente della scienza del lavoro di crearsi un linguaggio appropriato, cioè privo di ogni impurità valutativa e puramente fattuale. La conclusione obiettiva di quanto sosteniamo e che è difficile ridurre il linguaggio e i vocaboli che vengono ricondotti al lavoro, ad un significato solo. Quindi, non è possibile offrire una definizione scientificamente pura e quindi obiettivamente valida del concetto lavoro. Ma l’esempio più probante e decisivo dell'impossibilità per lo scienziato di prescindere nella determinazione stessa del proprio compito, da una presa di posizione valutativa (o, se si


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preferisce affermare, ideologica) si può trovare nell’attribuzione, di un significato particolare e specifico alla parola “lavoro”. Attribuire a determinati fenomeni il carattere lavoro, non è, infatti, altro che dare ad essi una rilevanza particolare rispetto ad altri fenomeni, rilevanza che è di per sé stessa una connotazione di valore. Definire il lavoro, è dunque già per se stesso prendere posizione, circa i fini dell’agire umano, è stabilire una gerarchia fra diverse forme, è una scelta di valore, gravida di una particolare visione della vita e dell’uomo. Posto ciò come non chiedersi se l’intento di trattare scientificamente il lavoro, in maniera del tutto distaccata e imparziale, non sia anch’essa il risultato di una scelta, diciamo pure il segno di una particolare ideologia? Di questo passo si finirebbe per considerare il prodotto “lavoro”, come il prodotto di un contesto storico e sociale ben determinato. Nasce perciò l’esigenza di stabilire esattamente che cosa significa l’attribuzione lavoro, quali conseguenze ne derivano. Occorre dunque affrontare finalmente l’uso che si fa di tale parola, per poi attribuire ad essa, “ragioni” che non descrivano dei fatti, ma prescrivano delle scelte, propugnare dei valori. Ecco che occorre essere coscienti dei nostri limiti e delle difficoltà che ci provengono dall’imperfezione degli strumenti che disponiamo. Abbiamo pure il dovere di ammettere, che il lavoro esiste soltanto in quanto ci sono degli uomini che lo riconoscono e che lo fanno tale. La nostra civiltà è la civiltà del lavoro, perché è nata e progredisce con il lavoro.


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Si parla ancora di dignità, del lavoro, di dovere del lavoro, di diritto al lavoro, affermandosi con ciò che il lavoro è un valore nell’ordine etico giuridico tale che all’uomo conferisce e l’uomo eleva. Si accenna persino ad una religione del lavoro, nell’intento di collegarlo ad una veduta, se non più trascendente, immanente della vita e del nostro destino, sì da farne un culto, una specie di rivelazione, appunto la religione del lavoro, una religione laica ed umana. Da questi punti di vista: economico, tecnico, giuridico, etico, religioso, il lavoro acquista un’importanza sempre maggiore nel senso che non se ne può prescindere per l’intendimento della vita. Che cosa è il lavoro, che cosa comporta, quali aspetti presenta e tra questi quelli che ne costituiscono l’essenza, sono interrogativi a cui, non è agevole dare una risposta. Il termine “lavoro” ci appare di per sé polisenso, tale da corrispondere ai più diversi concetti. Esso denota tanto la forma o l’azione generale del lavoro, quanto la cosa lavorata o prodotto, quanto infine lo sforzo sostenuto per produrre, essendo sinonimo di fatica. Inoltre nella sua generalità congloba l’attività della mente e quella della fabbricalità, la fatica fisica e l’intellettuale, tutte da noi dette genericamente lavoro o lavori. Dunque lavoro è termine sintetico dell'atto del costruire, del prodotto ottenuto, della fatica compiuta; è termine sintetico dell’atto del costruire, del prodotto ottenuto, della fatica compiuto; è termine sintetico dell’oggetto, dell’azione e della relazione di produzione tra soggetto e oggetto. E se tanti punti di vista diversi si assommano nel termine comprensivo di lavoro, in un sostantivo, è evidente che questo


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va chiarito concettualmente, va arricchito di predicati perché possa intendersi. La parola lavoro rivela la complicazione di attribuzione di significato specifico atteso che anche gli idiomi antichi e quelli moderni stranieri rivelano la stessa complicazione. Basta pensare al greco, topos che significa in primo luogo fatica, quindi lavoro, e per traslato, opera faticosa, cosa conseguita con il lavoro che è fatica, ove, come si è tante volte notato, l’aspetto dominato e primario è ciò che noi diciamo travaglio, gli aspetti derivanti tutti gli altri. Osservano gli etimologisti che la radice del greco topos, è lo stessa del latino poena. E analogamente si dica del latino labor, e del fr. travail deriverebbe da travailler dal basso lat. tripaliare “torturare col tripalium” e poi “faticare, lavorare”. Così pure bisogne (cfr. it. bisogna) è ciò che occorre fare in quanto è dovere fare, anche se volentieri ne faremmo a meno, lavoro doveroso e però non piacevole. Anche il tedesco arbeit, l’inglese labour e work, presentano la stessa problematica, cosicché occorre concludere che non è il termine ad illuminare il concetto o sono i concetti a dar senso ai termini a dar senso al termine.25 Se si dovesse stare a quanto sopra detto, il termine lavoro dovrebbe riferirsi solamente ad una cosa: lavoro è attività del produrre e cosa prodotta e ancora la relazione produttiva del soggetto e dell’oggetto in quanto impegni fatica o pena; ma questa veduta, non è esatta, perché il lavoro non ha solo aspetti penosi, produce anche gioia. Questi attributi del concetto, questa qualificazione ulteriore della nozione, non appare nel termine chiarito etimologicamente e nel suo significato lessicale, il quale si rivela da tale punto di vista del tutto insufficiente. 25 Vedi nota 26


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Lavoro è concetto complesso, perché impegna i più diversi aspetti della vita, però riguarda le più diverse scienze, ciascuna delle quali si occupa di esso diversamente. La filosofia diversamente dalle altre scienze mira a rilevare tutti gli aspetti ed ad unificarli in una nozione integrale, il concetto di lavoro come essenza dell’uomo che sia attività, che in sé attinge l’oggetto e lo costituisce. L’atto di consapevolezza e di creazione che dà inizio allo spirito è già lavoro. Data una definizione filosofica del lavoro, vedremo come questa unifichi i vari aspetti del lavoro, quali sono definiti dalle altre discipline. Perché la nostra indagine non permanga sterile, svolgeremo diverse trattazioni di filosofia del lavoro per arrivare ad una definizione del concetto lavoro. La definizione si ha col progresso dello studio, si integra e si rileva chiara alla fine dello studio. Si muove da una nozione provvisoria, presupposta, e la si saggia nell’esperienza, negli aspetti vari che offre, la si cimenta con le difficoltà, se ne eliminano le aporie, si affina nelle sfumature, e infine si rileva il concetto, si attinge la definizione, non un concetto chiuso, una definizione esauriente per sempre, ma tale che appaghi l’ansia presente, valida in relazione ai nostri attuali problemi.26

26 FELICE BATTAGLIA - Filosofia del lavoro - Bologna 1951


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I IL LAVORO


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1. Lavoro, valore assoluto, valore relativo.


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In senso lato il termine lavoro27, indica qualsiasi esplicazione d'energia colta a un fine determinato. Tale significato porta con sé il concetto d'energia e di forza che produce un risultato. Il lavoro, quindi è collegato allo sforzo che l’uomo compie, in un certo periodo di tempo, e in un certo ambito spaziale, per conseguire un risultato.

27 “La parola lavoro, come il corrispondente vocabolario labour, deriva dal latino labor -fatica, pena sforzo - riconducibile, presumibilmente, al verbo labare, vacillare sotto un peso. In Francia, intorno al XII secolo, compare sia il termine labeur, per designare le attività agricole che ouvrier, dal latino operaius. Il vocabolo attualemnte in uso, travail, apparso nell’XI secolo, si afferma - nell’attuale significato - solo verso la fine del XVII secolo. Già nella metà del XV secolo entrano nell’uso corrente anche la parola salaire razione si sale, poi indennità sotitutiva della razione destinata all’acquisto del sale - e prolétaire, da proletarius, cittadino che conta solo per la sua discendenza (proles), in quanto privo del censo richiesto per l’iscrizione in una delle classi in cui era diviso il popolo. Tali termini, tuttavia, assumeranno il loro significato moderno solo verso la fine del XVII secolo. Nella lingua spagnola il vocabolo trabajo significava originariamente mettere al mondo, essere partoriente ma da alcune fonti viene ricondotto al latino tripalium, uno strumento di tortura composto di tre pali. Non sorprende, pertanto, che in alcune regioni dell’Italia nord-occidentale e nelle isole il verbo travagliare sia ancora oggi impiegato per designare un lavoro faticoso, duro, pericoloso. Questi brevi accenni storici sull’etimo del termine lavoro consentono, anzitutto, di rilevare che i momenti cronologici di affermazione dei relativi vocaboli, in diversi contesti geografici e culturali, sono situabili nel XII e nel XIII secolo, in pieno sviluppo della società feudale; verso la fine del XV e nel XVI secolo, in un momento di grande espansione economica e di avvio al modo di produzione capitalistico; nel XVII secolo, epoca di importanti rivoluzioni economiche, politiche e sociali. In secondo luogo, il contributo degli etimologi mostra inequivocabilmente che le idee più antiche legate all’attività lavorativa rinviano alla sofferenza, alla pena al dolore, alla dipendenza, allo sfruttamento. Esiste, dunque, un significato arcaico e primitivo del lavoro che sottolinea la dimensione della fatica, della onerosità,


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In genere, è stato affermato per modificare in un determinato modo le proprietà di una qualsiasi risorsa materiale o simbolica, per conseguire beni economici onde accrescere l’utilità per sé (soddisfare i suoi bisogni) o per altri (come sacrificio che la collettività richiede al singolo per il soddisfacimento anche degli interessi collettivi). Questa è una concezione finalistica del lavoro, in cui ha rilievo non solo l’attività (umana), che rappresenta l’elemento fisiologico del lavoro, ma anche la sensazione penosa che a tale dello sforzo, del peso, insiti nel lavoro, con una variabilità di natura quantitativa, fino al limite di usare il lavoro come pena e come restrizione della libertà personale. ......... In un primo senso generico, lavoro è qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato. Già in questa sommaria concezione è presente l’idea del movimento, della trasformazione, della finalizzazione. In un senso più specifico, lavoro è l’applicazione delle potenzialità psico-fisiche dell’uomo diretta alla produzione di un bene o di un servizio o, comunque, ad acquisire un risultato tangibile di utilità individuale o collettiva. In questo senso il lavoro viene concepito come un processo dinamico: è un movimento chesi conclude in un prodotto o un servizio; è un mezzo di espressione delle risorse fisiche, intellettuali ed emotive dell’individuo; è un intervento di cambiamento sia dell’oggetto su cui si esercita l’attività lavorativa sia del soggetto che la compie il quale, nello scambio con l’ambiente fisico e sociale, sviluppa capacità e affina sinsibilità che altrimenti potrebbero rimanere sopite; è una sequenza produttiva in quanto finalizza a conseguire un risultato utilizzabile e consumabile, direttamente o indirettamente, dal suo autore; è un territorio nel quale si attivano rapporti e stili di relazioni e di convivenza caratteristici di uno specifico e determinato contesto politico, economico, culturale e sociale....... In questo senso la vecchia concezione del lavoro come pena, sofferenza, disagio, dovere, sembra sfumarsi dovendo coesistere con una visione del lavoro come diritto, desiderio, investimento, creatività. Dobbiamo, cioè, abituarci a considerare il lavoro come un processo complesso, multideterminato, carico di significati simbolici sia individuali che collettivi...” F. AVALLONE Psicologia del lavoro- Ed. La Nuova Italia Scientifica - 1994 pagg. 15-17.


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attività si accompagna e che rappresenta l’elemento psicologico del lavoro. Codesta concezione finalistica, comporta che l’attività è la somma di tutti gli atti sistematicamente volti a procacciare e distribuire i beni necessari al soddisfacimento dei bisogni umani. L’evoluzione che ha compiuto il genere umano, nella sua prestazione d'attività, è caratterizzata dalla scomparsa dell’isolamento individuale e dallo sviluppo di forme associative. In quasi tutte le attività lavorative, si maturò presto la debolezza e l’insufficienza del singolo nell’ottenimento dei beni occorrenti al soddisfacimento dei bisogni, per cui si ricorre all’associazione tra coloro che si dedicano a uno stesso tipo di lavoro. Ecco che il funzionamento dell’associazione di attua, mediante la scomposizione dell’attività in atti singoli organizzati per la realizzazione di un risultato, ciò che nella sociologia del lavoro è indicato come “divisione del lavoro” e “coordinamento del lavoro”. Il primo vantaggio della “divisione del lavoro”, è quello di rendere più agevole a ognuno la possibilità di seguire nelle scelte dell’attività lavorative, l’inclinazione derivante dalle qualità naturali. Ecco che attraverso la scelta, il lavoro diventa utile per soddisfare il bisogno. La scelta è una manifestazione connessa ad un fatto organizzativo, che conduce, determina e costituisce il fine. La scelta dunque è sempre una scelta utile, perché collegata finalisticamente ad un bisogno. Essa consente di liberare l’energia, che consente la determinazione produttivistica del bisogno in termini d'obiettivo quantitativo e qualitativo.


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Si comprende, perciò, la rilevanza della “macchina” quale mezzo che libera l’uomo dallo sforzo fisico e lo vincola alla sua tecnica, e perciò diviene rispetto ad essa, un soggetto fungibile. Ecco che l’energia è rappresentabile e riproducibile nella forma che sono “le mansioni”, che poi vengono qualificate e livellate. Il concetto di forma è utilizzato per configurare la rappresentazione dell’energia che assume concretezza e consistenza. Mutando una espressione cara al diritto, è la veste esteriore di un atto (energia), necessaria perché’ l’ambiente sociale ne venga a conoscenza. perciò essa è rilevante. Ecco che l’energia diviene atto formale, cioè una forma sostanziale che determina l’energia e quindi il lavoro ad essere ciò che è, piuttosto che qualcosa d’altro. Per esempio la forma sostanziale del fuoco fa sì che il composto, nel quale essa esiste, sia fuoco e null’altro. L’atto è anche un'operazione mentale o fisica che costituisce una fase del processo entelechiaco, compiuto con l’intenzione di creare un comportamento modificativo, spazialmente e temporalmente determinato, quindi finalizzato al risultato. Per atto intendiamo, un momento del comportamento o della condotta, la creazione o tentata creazione di un mutamento da parte di un agente, l’esecuzione della scelta o decisione fatta da un agente (così il non agire può essere un atto). L’atto è lo strumento che soddisfa i flussi di bisogni umani e riesce a coinvolgere molti interessi, sia convergenti sia contrastanti fra loro, poiché in tale ottica, tutti i portatori d'interessi immediati o mediati, sono meritevoli di tutela. Ecco che possiamo a questo punto, occuparci dell’oggetto del concetto di lavoro.


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Per oggetto intendiamo sia l’entità cui è rivolta l’attività del soggetto, (oggetto materiale) entità intesa nella sua concretezza, sia la modalità con cui tale entità è termine dell’attività del soggetto (oggetto formale) Per cui lo stesso ente può essere oggetto materiale di più atti, che hanno però un oggetto formale diverso ,in quanto lo considerano sotto aspetti diversi. L’oggetto del concetto lavoro come termine di una qualsiasi operazione, attiva o passiva, si esprime in tre elementi: un agente, un obiettivo, una linea di azione a cui, in ogni caso, è ricondotta una forza, quindi un potere. L’agente del potere (o della forza) può essere una persona individuale o collettiva operante come entità singola. Il detentore di tale potere (o forza), si pone sempre degli scopi, determinando le linee d’azione per raggiungerli. Il potere-oggetto non potrebbe, infatti sussistere senza finalità, quali che siano, né vi sarebbe potere-oggetto se per conseguire queste finalità non si potesse scegliere una linea d’azione, intendendo per tali le possibili sequenze d’azione idonee a condurre alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Queste affermazioni sono vere e proprie astrazioni e resterebbero tali, se considerate nel loro aspetto statico. Oggi quello che rileva non è tanto come ed a chi è stato distribuito il potere-oggetto, aspetto statico, ma come esso è esercitato, aspetto dinamico. Quindi, ciò che rileva è l’attività. Attraverso l’attività è possibile misurare il grado di subordinazione al potere e all’obbedienza. Infatti, è anche attraverso l’attività, ove sussista una legittima investitura ad esercitare il potere-oggetto, che si individua chi di fatto lo esercita.


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Abbiamo così individuato le strutture formali che rappresentano i possibili modi di organizzare i contenuti del concetto lavoro e le vie per trovarli. Certo è che non occorreva inventare nulla: le cose da dire, infatti, si trovavano già in partenza nella materia del nostro discorso, purché fosse interrogata opportunamente. A questo punto possiamo dare una risposta alla seguente domanda: che cos’è il lavoro ? Il lavoro è entità eclettica di incondizionata condizione. Il termine entità qui indica un modo d’essere specificatamente definibile, cioè ogni oggetto del quale si possa definire lo status essenziale. Nel nostro caso indica che l’oggetto del lavoro è il nucleo in cui è contenuta l’energia cioè qualsiasi forza, atta a produrre un effetto o a compiere un’attività che rispetto allo spazio ed al tempo è, e non può non essere. In definitiva l’insieme di eventi che sono nel cono di “luce” dell’ens e sono suoi possibili effetti. Tali eventi sono legati all’ens, da rapporti temporali di successione di tipo “invariante”, ovvero sono dopo l’ens per ogni soggetto agente. Quindi, similmente alle cellule animali e delle piante il nucleo è la struttura interna più grande e meno visibile, nonché quella che è stata scoperta per prima: lo indica il termine stesso “eucariote” (dal greco karyon = nucleo). Il nucleo presenta una serie di proprietà che si muovono. Il nucleo scambia sostanze con l’ambiente esterno, può essere stimolato a reagire in modo complesso a influssi esterni, sintetizzando e adeguando l’energia occorrente per produrre ciò che soddisfa il bisogno. Ciò ci consente di riferire la distinzione tra energia potenziale (o di posizione) ed energia cinetica ( o di movimento)


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dovuta al Leibniz che la esprimeva nel 1686 in una memoria intitolata Demostratio erroris memorabilis Cartesii, che a noi serve semplicemente a comprendere il momento statico e quello dinamico del lavoro. L’inevitabile schematismo staticità e dinamicità, rappresenta opposizioni concettuali e stereotipate per rappresentare la filosofia dell’essere, il cui capostipite è Parmenide e la filosofia del divenire, il cui corifeo è Eraclito. Sebbene tali due tipi di modalità - staticità e dinamicità siano da tenersi rigorosamente distinte, è importante qui ricordare che entrambe sono legate all’enigma del tempo. Non è compito nostro offrire una risposta a tale enigma, ma richiamare l’attenzione su tale aspetto, ci consente di affrontare gli interrogativi di cui sopra.28 Eclettico è termine che indica il metodo che consente di produrre l’effetto, perché porta alla luce la scelta dell’attività che offre minor dispendio di energia, per produrre il fine determinato. Si è detto che l’atto tende al risultato. Ecco che il movimento è divenuto “entelechiaco”29, poiché al momento di attualità, succede l’altro di attuazione. Questi due momenti sono tra loro collegati da un nesso causale. Ecco che quando uno accade l’altro segue necessariamente (condizione sufficiente), quando il secondo avviene, il primo deve averlo preceduto (condizione necessaria), quando l’uno accade sotto determinate condizioni, l’altro necessariamente ne consegue.

28 Riguardo la filosofia del tempo vedi: Mauro Dorato Futuro aperto e libertà - Un’introduzione alla filosofia del tempo - Editori Laterza 1997. 29 L’epressione è stralciata dal pensiero di Aristotele).


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Ecco che l’incondizionata condizione, non solo indica, la relazione teologica tra energia-attività e risultato, cioè ciò che ci spinge a dirigere l’energia incondizionatamente verso il risultato, ma anche l’invarianza cioè l’indipendenza dell’ens rispetto alla descrizione del fenomeno.. Per quanto sopra riferito possiamo affermare che il lavoro è valore assoluto se riferito al suo ente, mentre è relativ, se riferito alla forma storicamente e spazialmente data. Considerando perciò la forma nei suoi aspetti tipici e nelle sue integrazioni atipiche possiamo distinguere tra elementi essenziali (c.d. elementi o essentialia) ed elementi non essenziali (c.d. coelementi). Gli elementi costituiscono il nucleo centrale, mentre i coelementi influiscono dall'esterno al raggiungimento del risultato, essendo solamente delle concause. Tutto ciò chiarisce come pur distinguendosi, elementi e coelementi, per il loro contenuto e per il loro diverso scopo, sono legati da nessi strettissimi e da una coordinazione necessaria.


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III SOCIOLOGIA DEL LAVORO


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1. La sociologia del lavoro come concetto storico: una visione integrale e i suoi criteri. Sociologia del lavoro è un'espressione verbale, che serve ad indicare una disciplina, che ha avuto in questi ultimi anni un notevole sviluppo nel campo delle ricerche empiriche e che si presenta oggi in una veste diversa da quella che aveva in passato, quando con tale denominazione ci si riferiva a delle trattazioni prevalentemente analitiche, collegate ad alcune concezioni specifiche della sociologia generale30. Per le trasformazioni subite, per le discussioni tuttora aperte, sui rapporti della sociologia del lavoro con le scienze sociali e la sociologia generale e per le difficoltà che in genere si presentano nel definire questa disciplina nella sua essenza e nei suoi propositi, non è stata tracciata ancora e non sarebbe certo facile, tracciare una storia della disciplina stessa. La maggior parte degli Autori che si sono occupati di questo argomento, si sono, infatti, limitati ad indicare alcuni precedenti e, nel far ciò, hanno seguito vie diverse di ricostruzione.31 30 La sociologia del lavoro per molti aspetti si caratterizza come qualcosa di più di un semplice ramo specialistico nell’ambito degli studi sociologici. Il suo oggetto di studio, il lavoro umano, le ha fornito, fin dagli inizi del periodo classico della tradizione sociologica, uno status del tutto particolare, ovvero un punto di osservazione privilegiato su tutta la vicenda della nascita e della affermazione della società industriale. Gian Primo Cella in Guida alla Laurea in sociologia, Ed. Mulino, 1996, pag. 93. 31 Il lavoro acquista una posizione nei percorsi di riflessione di molti sociologi dell’età classica (in primo luogo Durkheim, in La divisione del lavoro, I ed orig. 1893), e della fase matura della società industriale (Ferrarotti, Gallino, Touraine).


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La via che seguiremo qui, è una via intermedia ricordando che tra i precursori della sociologia del lavoro si possono annoverare anzitutto maestri dell’economia, che indirettamente si sono occupati della nostra materia: da un lato, quelli del sorgere del lavoro nella società, dall’altro lato quelli della posizione e della funzione del lavoro nella società.32 Relativamente al primo ordine di problemi, è interessante rilevare come alcuni studiosi di questa scuola, per approfondire e risolvere i medesimi, si siano avvalsi talvolta di strumenti certo meno perfezionati, ma forse non molto diversi da quelli di cui si avvalgono i moderni sociologi del lavoro. Adam Ferguson, (1767), ha esercitato un'enorme influenza nel determinare l’oggetto della sociologia del lavoro, nonché il modo di accostarlo (A.Ferguson - Saggio sulla storia della società civile, cap.IV, sezz.i e ii). Adam Smith (1776) è il primo ad occuparsi della divisione del lavoro, nel suo libro le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Karl Marx, un secolo dopo Ferguson precisamente nel 1867 pubblica il primo libro del capitale dove analizza, ai capitoli XII e XIII della IV sezione, l’avanzamento della divisione del lavoro nella manifattura, ponendola in rapporto con la divisione del lavoro nella società, e lo sviluppo del macchinario nella grande industria. È il precursore dell’aspetto dinamico della sociologia del lavoro, in particolare là dove si occupa del processo attraverso il quale il talento dell’operaio viene progressivamente soppiantato dal perfezionamento delle macchine. 32 Ved. tra tutti, Max Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 2 voll; 1968, pp.4 e 19-24; Karl Marx, Lineamenti della critica dell’economia politica (1857-1858), La Nuova Italia, Firenze, vol. II, pp.389403.


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Emile Durkheim nel 1893 ne La divisione del lavoro sociale, interpreta la differenza del lavoro in settori di cui già Ferguson e Smith avevano evidenziato alcuni effetti sulla produttività, tanto da assumere il lavoro a fattore di solidarietà delle società moderne, mettendo in luce anche gli effetti patologici cui essa può dar luogo se spinta all’eccesso. Sia Marx, sia Durkheim, considerano l’individuo come il prodotto di una socializzazione e partono dal pensiero individuale come origine della realtà collettiva.33 Il 1903 segna una nuova era per la sociologia del lavoro. Infatti Frederich Wislow Taylor pubblica il manuale Divisione d’officina in cui per la prima volta l’attività di preparazione e programmazione del lavoro vengono separate scientificamente dalle attività di esecuzione, fornendo anche un metodo pratico e riproducibile, per applicarlo a qualsiasi tipo di lavorazione e quindi, l’aver scoperto la dimensione comparitivista sforzandosi di accumulare i fatti e non soltanto le idee. Ancora, nel 1913 l’industriale Ford inaugura a Detroit il lavoro a catena: il prodotto in fabbricazione scorre ora davanti agli operai, ciascuno dei quali deve compiere la medesima operazione, o un breve ciclo di operazioni, entro un tempo che è determinato dalla velocità di avanzamento del nastro trasportatore. È di fatto impossibile allontanarsi dal posto di lavoro senza chiedere ed ottenere di venire sostituiti, anche solo per alcuni minuti. L’esperienza lavorativa perde ogni significato; compiere per anni le medesime operazioni non soltanto non qualifica per mansioni più complesse, ma deteriora le capacità manuali e intellettuali dell’individuo.

33 Di fatto viene abbandonata quella che fino a poco tempo prima costituiva la riflessione iniziale sulla sociologia, denominata sociocentrismo ideologico. I fatti vengono analizzati secondo una logica comparativista e sistematica.


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Henry Fayol ne L’amministrazione industriale e generale (1916), propone un metodo di analisi del lavoro atto a razionalizzare dall’alto l’organizzazione del lavoro al contrario di quanto aveva fatto Teylor. Gli anni ‘20 e ‘30 sono caratterizzati dalle ricerche di Hawthorne, ispirate all’opera di Elton Mayo e dalla pubblicazione di due rapporti dettagliati, fase per fase delle ricerche di Hawthorne (Whithead, 1938;Roethlisberger e Dickson, 1939). Il fine di queste ricerche è quello di scoprire il c.d. “fattore X” che condiziona la produttività di operai e operaie. Tali ricerche sono importanti perché rivelano l’importanza del comportamento di gruppo, delle relazioni interpersonali che si erano stabilite tra i loro membri, nonché tra questi ed i ricercatori. Gli anni, ‘40 e ‘50 sono caratterizzati delle analisi della trasformazione del lavoro, partendo dall’analisi degli effetti negativi del “lavoro in frantumi” (G. Friedmann, Problemi del macchinismo industriale), per arrivare alle conseguenze economiche e sociali dell’automazione (Friedrich Pollock), preceduta dall’analisi di Alain Touraine sullo sviluppo delle macchine utensili nell’industria meccanica di serie 34 La qualità della vita di lavoro influenzano gli studi negli anni ‘60 e ‘70, mentre successivamente fino ai giorni nostri il concetto di qualità del lavoro e le sue dimensioni (ergonomica, della complessità, dell’autonomia, del controllo) sono al centro delle indagini dei sociologi del lavoro, con particolare attenzione alle relazioni industriali.35 34 Alain Touraine, L’evoluzione del lavoro operaio della Renault, 1955, Torino, Rosenberg & Sellier, 1974. L’autore si occupa in tale pubblicazione dell’analisi dell’evoluzione della tecnologia industriale e dei suoi effetti sulla qualificazione professionale. 35 I contributi terorici, fondativi più importanti, appartengono alla scuola di Oxford; Ved. H.A. Clegg., Sindacato e contrattazione collettiva, Milano,


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2. La sociologia del lavoro come scienza “nomotetica”. Si definiscono scienze “nomotetiche”, le discipline che s’impegnano nella ricerca delle “leggi”. Ciò comporta che nella ricerca vengono utilizzati sia metodi di sperimentazione stretta, in quanto specialistica, per es. nella sociologia del lavoro essa avviene nel e per il lavoro, sia di sperimentazione intesa nel senso più ampio di osservazione sistematica con verificazioni statistiche, analisi delle varianti, controllo delle relazioni d’implicazione, ecc. Pertanto, essa si discosta dalle scienze storiche dell’uomo, cioè di quelle discipline, il cui oggetto è di ricostruire e comprendere l’evoluzione di tutte le manifestazioni della vita sociale nel corso del tempo. Occorre anche far rilevare che quando le discipline nomotetiche considerano uno svolgimento temporale, lo si chiami o no “storia”, il loro sforzo è costantemente quello di stabilire delle leggi e, funzionalmente a questo scopo, di isolare nella misura del possibile le variabili che permettono di ottenere tale risultato.36 Angeli, 1980; H.A: Clegg, A. Flanders e A. Fox, la contesa industriale, Roma Ed. Lavoro, 1980; A Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Bologna, Il Mulino, 1980. 36 “Pur essendovi uno stretto rapporto che stabilisce tra le scienze nomotetetiche e quelle storiche un’esigenza di continua integrazione, i loro orientamenti rimangono distinti in quanto complementari, anche nel caso si diano contenuti comuni: all’astrazione necessaria che caratterizza le prime corrisponde la restituzione del concreto nell’ambito delle altre, una funzione certamente fondamentale nella conoscenza dell’uomo, ma una funzione distinta dalla determinazione delle leggi. E’ pur vero che si parla spesso delle << leggi della storia >>.... cis i vuol riferire in realtà a regolarità effettive, di ordine sociologico, economico, ecc.: in questi ultimi casi le regolarità osservate rientrano ipso facto nel dominio delle scienze nomotetiche particolari, i cui metodi, che possono naturalemente essere praticati dallo


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L’oggetto d’indagine non è soltanto un soggetto individuale, ma collettivo. Tale oggetto é molto più difficile da spiegare, in quanto il soggetto sociologo stesso ne fa parte direttamente o indirettamente. In una situazione come questa, il sociologo stesso è costantemente modificato dall’oggetto della sua ricerca. A sua volta, il sociologo modifica i fatti che osserva. Non che si dedichi a sperimentazioni che pongono il soggetto in situazioni nuove per lui e trasformano per questo, in parte, il suo comportamento: non si sperimenta, infatti, sulla società nel suo insieme. La sociologia del lavoro, quindi, coglie l’insieme e non si limita ad analisi microsociologiche di rapporti particolari, un tale problema può essere risolto facendo appello a concetti, operazionali o teorici, metasociologici o fondati sui fatti. Non si deve dimenticare del resto che tale attiva strutturazione del reale è inerente ad ogni scienza sperimentale, giacché non esiste lettura dell'esperienza, per precisa che sia, senza un quadro logico-matematico. Quanto sopra detto, ci consente di evidenziare che la sociologia del lavoro, ha delle zone intermedie con le scienze giuridiche.37 storico stesso se egli opera in veste di sociologo o di economista, sono esclusivamente attia fornire le verifiche necesarie e sono ben distinti dai metodi di semplice critica o di ricostruzione di cui appena abbiamo parlato.” (Jean Plaget, Le scienze dell’uomo, Ed. Universale Laterza, 1983, pag. 15 e ss.). 37 Quest’ultime occupano una posizione differenziata, per il fatto che il diritto “costituisce un sistema di norme e una norma si distingue per suo stesso principio delle relazioni più o meno generali ricercate sotto il termine di << leggi >> dalla scienze nomotetiche. Una norma, infatti non dipende dalla semplice constatazione di relazioni oggettivamente esistenti, ma da una categoria a parte; quella cioè del dover essere (J. Plaget, op. cit.).


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Infatti, il compito del sociologo del lavoro non solo è quello di considerare la validità delle norme accettate dai soggetti che lavorano, bensì di appurare in virtù di quali processi si considerino obbligati da quelle norme o, ancora, di spiegare perché detti soggetti, finiscano per considerare valide e/o necessarie delle norme e non altre e l’incidenza che queste hanno nelle relazioni tra oggetti e soggetti di lavoro. Ecco che la sperimentazione in senso stretto, del fenomeno collettivo (sociologia del lavoro), intesa come modificazione dei fenomeni, con libera variazione dei fattori, è evidentemente impossibile e non può essere sostituita che da un’osservazione sistemica che utilizza le variazioni di fatto analizzandole in modo funzionale, nel senso della logica e della matematica.


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3. L’energia e l’entropia. L’idea di ordine porta con sé quella di organizzazione. Ciò significa che il sistema non può non essere concepito come luogo della creazione e della organizzazione. Il termine chiave dell’era industriale e post-industriale è energia. Sussumendo una definizione che la termodinamica dà al termine, intendiamo per energia un’entità indistruttibile, dotata di un potere di trasformazione polimorfo. Questo principio offre al sistema una garanzia di autosufficienza e di eternità per tutti i movimenti e i suoi lavori. È possibile che l’energia degradi, cioè perda una parte della sua capacità di svolgere un lavoro. L’indice che misura questa diminuzione di capacità sempre in termodinamica si chiama entropia. Ogni crescita dell’entropia è una crescita del disordine interno, e l’entropia massima corrisponde ad un disordine completo nell’ambito di un sistema. Quindi, l’entropia è generatrice di disordine all’interno del sistema, perciò di disorganizzazione, atteso che l’ordine di un sistema è costituito dall’organizzazione. L’entropia è dunque una nozione che significa: degradazione dell’energia, dell’ordine, dell’organizzazione. In microfisica, invece, il disordine è costitutivo, non è elemento di degradazione e di disorganizzazione e fa parte di ogni sistema.


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In genesica, il disordine è un disordine di genesi e di creazione. È stato poi dimostrato sperimentalmente che certi flussi termici, in condizioni di fluttuazione e d'instabilità, cioè di disordine, possono trasformarsi spontaneamente in “struttura” o forma organizzata. È quindi possibile che perturbazione generi una struttura, vale a dire un’organizzazione e un ordine nello stesso tempo. Quanto sopra esposto ci porta ad affermare che non si può pensare ad un ordine senza un disordine e viceversa, indipendentemente dall’accettare una definizione di morte (termodinamica), di essere (microfisica), di creazione (genesica), di organizzazione (teorica), dell’entropia. L’ordine, il disordine, la potenzialità organizzatrice, devono essere pensati, insieme, contemporaneamente nei loro caratteri antagonistici ben noti, e nei loro caratteri complementari ignoti. Questi termini si richiamano l’un l’altro e formano una specie di anello in movimento. Per comprenderlo, è necessario un principio e/o un metodo. L’idea, è quella di considerare il lavoro come forza matrice e motrice che contiene dentro di sé il concetto di energia e di entropia e quello che lo fondamenta è il concetto di ineguaglianza. L’ineguaglianza del lavoro è l’espressione di una ineguaglianza nei movimenti. Le agitazioni e le turbolenze creano le condizioni di scontro, di dissociazione, di morfogenesi e le turbolenze rinascono nel cuore del sistema, divenendo origine di un nuovo ente. La turbolenza diviene, così, motore di un meccanismo interno spontaneo che produce energia, che “innaffia” con la sua energia l’ambiente.


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Si attua così ciò che prima sembrava inconcepibile: il passaggio dalla turbolenza all’organizzazione. E questa sbalorditiva attività di disordine, (perché ineguaglianze, turbolenze, agitazioni, etc. sono forme di disordine) “è la fucina cosmica dell’ordine e dell’organizzazione”. Questa ineguaglianza multiforme è nello stesso tempo matrice della diversità e condizione perché nasca l’ordine, quindi occorre che vi siano delle interazioni. Le interazioni sono delle azioni reciproche che modificano il comportamento o la natura degli elementi, corpi, oggetti, fenomeni che sono presenti o che hanno effetto. Secondo Edgard Morin ne Il metodo - ordine, disordine, organizzazione - Ed. Feltrinelli, 1992 - pag.65 -, le interazioni: 1) presuppongono elementi, esseri od oggetti materiali, che si possono incontrare; 2) presuppongono delle condizioni di incontro, cioè agitazione, turbolenza, flussi contrari; 3) obbediscono a determinazioni/vincoli relativi alla natura degli elementi, oggetti o esseri che si trovano ad incontrarsi; 4) diventano, in determinate condizioni, interrelazioni (associazioni, connessioni, combinazioni, comunicazione, ecc.), danno cioè origine a fenomeni di organizzazione. Ecco che perché vi sia organizzazione vi siano delle interazioni, perché vi siano interazioni bisogna che vi siano incontri, perché vi siano incontri bisogna che vi sia disordine (agitazione, turbolenza). Le interazioni, per Morin, costituiscono una sorta di nodo gordiano di ordine e disordine. Gli incontri sono aleatori, ma gli effetti di questi incontri, su elementi ben determinati, in condizioni determinate, diventano necessari, e fondano l’ordine delle “leggi”.


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Le interazioni relazionali sono generatrici di forme e di organizzazione. Fanno sorgere e mantengono quei sistemi fondamentali. Ciò significa, continua l’Autore, ad un tratto, che questi termini di disordine, ordine e organizzazione di trovano ormai connessi, via le interazioni, in un anello solidale, in cui nessuno dei termini (disordine, ordine e organizzazione) può essere compreso indipendentemente dal riferimento agli altri, e in cui essi si trovano in relazioni complesse, cioè complementari, concorrenti ed antagonistiche. Ecco, quindi, che ordine, disordine e organizzazione si co-producono insieme, simultaneamente e vicendevolmente secondo, un gran gioco cosmogenesico del disordine, dell’ordine e dell’organizzazione. Si può dire gioco perché vi sono i pezzi del gioco (elementi), le regole del gioco (vincoli iniziali e principi di interazione). Possiamo adesso mettere in evidenza, l’anello tetralogico disordine interazioni organizzazione

ordine

Costituita in tal modo, l’organizzazione permane relativamente stabile. Perciò una volta costituiti, l’organizzazione e l’ordine, suo caratteristico sono in grado di resistere a un gran numero di disordini.


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L’ordine e l’organizzazione, nati con la cooperazione del disordine, sono in grado di guadagnare terreno sul disordine. L’anello tetralogico significa che le interazioni non possono essere concepite senza disordine, cioè senza ineguaglianze, turbolenze, ecc., che provocano gli incontri. Significa che ordine e organizzazione sono inconcepibili senza le interazioni. Nessun corpo, nessun oggetto può essere concepito indipendentemente dalle interazioni che l’hanno costituito, e dalle interazioni a cui esso necessariamente partecipa. Quanto sopra detto significa che i concetti di ordine e di organizzazione sbocciano l’uno in funzione dell’altro. L’ordine sboccia soltanto quando l’organizzazione crea il proprio determinismo e lo fa regnare nel suo ambiente. L’organizzazione ha bisogno di principi d’ordine che intervengano attraverso le interazioni che la costituiscono. L’anello tetralogico significa anche che più l’organizzazione e l’ordine si sviluppano, più diventano complessi, più tollerano, utilizzano o anche necessitano del disordine. Detto altrimenti, questi termini ordine, organizzazione, disordine, e naturalmente interazioni, si sviluppano reciprocamente gli uni con gli altri. L’anello tetralogico significa dunque che non si potrebbe isolare od ipostatizzare nessuno di questi termini. ognuno prende il proprio senso nel suo rapporto con gli altri. Bisogna concepirli insieme, cioè come termini nello stesso tempo complementari, concorrenti ed antagonistici. Dunque, inteso in termini di organizzazione, il concetto di entropia indica una tendenza irreversibile alla disorganizzazione propria di tutti i sistemi e di tutti gli esseri organizzati. Essa rappresenta una tendenza universale, non


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limitata cioè ai “sistemi chiusi” tropo astratti, ma che interessa anche i “sistemi aperti”, ivi compresi gli esseri viventi.. Ma, per comprenderla, bisogna complessificare il quadro di osservazione dell’entropia e la nozione stessa di entropia. Bisogna anzitutto prendere in considerazione un sistema non più in isolamento, ma in un ambiente. vediamo allora che la formazione di un fenomeno organizzato, corrisponde ad una diminuzione locale di entropia, ma questa diminuzione comporta, con lo stesso processo delle trasformazioni organizzatrici, un aumento di entropia nell’ambiente. Si può dire che ogni regressione di entropia (ogni sviluppo organizzatore), od ogni mantenimento (tramite lavoro e trasformazioni) di entropia in uno stato stazionario (vale a dire ogni attività organizzativa) si paga in e con un aumento di entropia (o neghentropia) aumenta l’entropia nel sistema. Il messaggio di Morin: 5* C’è e ci sarà sempre, nel tempo, una dimensione di degradazione e di dispersione; 6* Nessuna cosa organizzata, nessun essere organizzato può sfuggire alla degradazione, alla disorganizzazione, alla dispersione: nessun vivente può sfuggire alla morte; 7* Ogni creazione, ogni generazione, ogni sviluppo, e anche ogni informazione devono essere pagati in entropia; 8* Nessun sistema, nessun essere, può rigenerarsi isolatamente; 9* Vi è disordine nel disordine. Vi sono ordini, nel disordine. 10* Il disordine esiste soltanto nella relazione e nelle relatività


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4. L’ordine e il disordine. Quanto sopra esposto, ci consente di esaminare l’ordine e il disordine e la loro relazione. Intanto ordine e disordine controllano le nozioni derivate e conseguenti, certezza e incertezza, da una parte di determinismo (legame fra un ordine semplice e una causalità semplice) e di necessità (in cui è messa in primo piano la caratteristica del vincolo ineludibile), dall’altra di indeterminismo (nozione puramente negativa), di caso (nozione che mette in risalto l’imprevedibilità) e di libertà (possibilità di decisione e di scelta). La relazione tra ordine e disordine è di natura ripulsiva. L’idea di ordine e l’idea di disordine si oppongono, si negano, però presentano, complessi momenti di interazione. Il rapporto tra ordine e disordine necessitano, quindi, di nozioni mediatrici, come quelle indicate nel precedente paragrafo: l’idea d'interazione, che innesca, in determinate condizioni, effetti necessari; l’idea della trasformazione; l’idea chiave di organizzazione. Ma, che cos’è l’ordine e il disordine? È ordine una qualsiasi relazione tra due o più oggetti, o tra soggetti o tra uno o più soggetti e uno o più oggetti, che possa essere espressa con una regola.


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È disordine non l’assenza assoluta di ordine, ma solo l’assenza dell’ordine cercato, e la presenza di un ordine diverso. Perciò, non si può non convenire con Morin che la relazione fra ordine e disordine è nello stesso tempo: 11* una; 12* complementare, perché tutto ciò che è organizzato o organizzatore lavora, nelle e per opera delle sue trasformazioni, anche per il disordine (aumento d’entropia); 13* concorrenziale: sotto un altro punto di vista, il disordine da un lato, l’ordine/organizzazione dall’altro sono due processi concorrenti, cioè concorrono nello stesso tempo, quello della dispersione generalizzata e dello sviluppo dell’organizzazione sotto forma di arcipelago; 14* antagonistica: il disordine distrugge l’ordine organizzazionale (disorganizzazione, disintegrazione, dispersione, ecc.) e l’organizzazione reprime, dissolve, annulla i disordini. Cosi disordine e ordine, nello stesso tempo, si confondono, si richiamano, si necessitano, si combattono, si contraddicono. Detto altrimenti, l’ordine e l’organizzazione sono un principio di selezione che diminuisce le occorrenze possibili, del disordine, aumenta nello spazio e nel tempo le loro possibilità di sopravvivenza e/o di sviluppo, e permette di costruire su uno sfondo di improbabilità generale diffusa e astratta una probabilità concentrata, locale temporanea, concreta. Sulla base di una tale probabilità locale e temporane,a può costituirsi una nuova organizzazione improbabile, minoritaria, che, beneficiando della stabilità delle fondamenta organizzazionali, potrà essa stessa costituire la propria probabilità e così di seguito.


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5.Certezza e incertezza. Il termine che viene utilizzato per indicare il capovolgimento od almeno il naturale turbamento di una situazione di un equilibrio è crisi. Tutto ciò che è espressione di vita e di movimento subisce delle perturbazioni dette crisi, fenomeni complessi di cui non è facile individuare le cause. Anche il lavoro subisce delle perturbazioni dette crisi, che incidono sulla situazione di equilibrio, che cessa di essere tale per l'alternarsi dell'andamento dei principali aspetti della vita sociale. Non esiste un lavoro statico, perché' evolve con l'evolversi della società. La crisi è propria delle società dinamiche capaci di avere delle fasi di espansione e di certezza, alle quali seguono fasi di incertezza. La crisi è certamente caduta dell’attività sociale. Poiché' non è possibile stabilire la caduta dell’attività sociale, che segna l'inizio della fase dell'incertezza, non si può parlare di vera e propria periodicità della crisi, ma di un ritorno della crisi ad intervalli di tempo molto irregolari.


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Perché' la crisi fosse esattamente periodica occorrerebbe che le cause determinanti, operassero sempre nella stessa tempestività e con uguale intensità. Il che non è, perché' in ogni istante, la vita sociale è influenzata da fenomeni infinitamente mutevoli. Se la crisi fosse anche soltanto approssimativamente periodica, l’osservatore si troverebbe facilitato nella sua previsione. Ma se non è possibile stabilire una periodicità della crisi, si riesce in base alle passate esperienze, a prevedere il probabile manifestarsi di una prossima incertezza allorché' la vita sociale giunge a forme più o meno artificiose di prosperità. Nell'intervallo di tempo che intercorre tra i due momenti è facile rilevare un flusso di interessi, bisogni e valori, tesi al perseguimento del loro fine. Da tale situazione si rileva che, per effetto di questo mutamento, nella società si formano continuamente flussi di valori, interessi e bisogni, che permangono in diverse forme, più o meno durevoli. Il senso di crisi si ripercuote nelle relazioni sociali ed è generatrice dell'esigenza di certezza e di verità. Non c'è temporalità storica in cui non è evidenziata una crisi.


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6.Il tempo della certezza: l’atto. Al tempo della crisi, generatrice d'incertezza, succede il tempo della certezza, movimento costante di potenzialità e di attualità. Il passaggio all'atto (certezza) è compiuto soltanto ad opera di un fattore: la consapevolezza dell'incertezza. L'atto in questo senso è anteriore non soltanto per sua natura, ma anche perché' temporalmente presente nel momento della crisi. In definitiva l'incertezza nasce dalla certezza e la certezza dall'incertezza. Il tempo è l'unico fattore caratterizzante il movimento (tempus regit actus) ed i due momenti di potenzialità ed attualità, consentono anche di indicarci le tappe del loro sviluppo dialettico. Dialettico perché' il momento della consapevolezza dell'incertezza è la domanda (fatto) mentre il momento della consapevolezza della certezza è la risposta (atto).


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7. La norma La risposta all'imprevedibile generato dall'incertezza è la norma. La norma è lo strumento che soddisfa i flussi di bisogni umani e riesce a coinvolgere molti interessi, sia convergenti sia contrastanti fra loro, poiché' in tale ottica, tutti i portatori di interessi immediati o mediati, sono meritevoli di tutela. La norma, poi, consente la separazione di classi di valori, interessi e bisogni, che concorrono alla formazione dello stato di certezza, da quelli che non la determinano. È opportuno chiarire che l'incertezza non è un momento negativo, al contrario, positivo. Infatti, lo stato di dubbio creato dall'incertezza è condizione indispensabile per la ricerca, la quale ha precisamente lo scopo di rimuoverlo. La norma, quindi, è l'insieme delle regole, che consentono all'individuo di conquistare lo stato di certezza e perciò di indirizzarlo verso la consapevolezza che la ricerca intrapresa è quella giusta e che gli darà una risposta.


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Non è rilevante che la risposta sia positiva o negativa, l'importante è che il movimento produca nell'individuo la consapevolezza dello stato di certezza. Non è neppure rilevante il metodo impiegato, per raggiungere lo stato di certezza, ma il mezzo: la norma. Il metodo pero' per sua definizione non può che essere normativo, perché' ha a che fare con una regola stabile, la norma. La norma è la virtù della certezza, perché' ne costituisce la sua eccellenza peculiare e ha la capacità di adempiere bene la sua funzione. Ecco che il movimento è divenuto "entelechiaco" (l'espressione è stralciata dal pensiero di Aristotele), poiché' al momento di attualità, che corrisponde alla fase della domanda (fatto), succede l'altro di attuazione, che corrisponde alla fase in cui conclusosi il ciclo dell'attualità subentra quello della risposta al dubbio (atto). Questi due momenti sono tra loro collegati da un nesso causale. Ergo propter hoc, quando uno accade l'altro segue necessariamente (condizione sufficiente), quando il secondo avviene, il primo deve averlo preceduto (condizione necessaria), quando l'uno accade sotto determinate condizioni, l'altro necessariamente ne consegue. In questo divenire di momenti la norma attua l'esigenza di certezza.


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8. L’oggetto dell’incertezza: il dubbio Si è affermato che l'incertezza genera la certezza e che la consapevolezza dell'incertezza genera il dubbio e stimola la ricerca, quindi la risposta. Ma che cos’è l'incertezza ? E il dubbio? Per quanto detto, l'incertezza è il fatto, il dubbio l'oggetto dell'incertezza. Quindi lo stato di dubbio è la condizione indispensabile per la ricerca, che ha precisamente lo scopo di rimuoverlo. Si è anche detto che la certezza si attua con la norma e che nel medesimo tempo, la norma attua la certezza. Preciso che la norma è lo strumento che consente di uscire dallo stato di incertezza, di liberarci dal dubbio e perciò la norma attua anche l'esigenza di certezza. La norma è la regola che esprime la relazione tra l'incertezza e la certezza, quindi attua l'ordine, garantendo la risposta al dubbio.


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Quindi l'ordine è la virtù della norma, la sua eccellenza peculiare, che dà ad essa la capacità di adempiere bene alla sua funzione di certezza e di salvezza dall'incertezza. In questo consiste la trascendenza della norma, cioè l'indipendenza della norma, rispetto al risultato, cioè rispetto alla sua applicazione. Non è importante che la norma esista per il risultato a cui è destinata, ma è importante che essa esista, per essere capace di produrre un risultato. Pertanto la trascendenza della norma consiste nella sua peculiarità ad eliminare lo stato d'ncertezza, in quanto strumento per la certezza. La norma, quindi, afferma l'assolutezza della risposta al dubbio, riconosce che la risposta non deve essere messa a prova, quindi eventualmente modificata, corretta o abbandonata. Si può anche parlare di immanenza della norma, nel senso del permanere nella norma del risultato e affermare che la norma è causa immanente, e non già transitiva della certezza, intendendo dire che la norma è causa della certezza che è in essa e che non c’è nulla al di fuori della norma. Trascendenza ed immanenza della norma , sono le due facce della certezza. Infatti, è solo la norma in quanto tale ad eliminare il dubbio, la consapevolezza dello stato di incertezza e non esiste altro che possa eliminare il dubbio al di fuori di essa, perché portatrice di certezza, nel senso che facendo parte di quest'ultima, non può sussistere fuori di essa. Ricordo infine che la norma è anche una regola che concerne le azioni umane ed in genere si ritiene che abbia valore necessitante, nel senso che è il criterio infallibile per il riconoscimento e la realizzazione della certezza e nello stesso


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tempo il criterio che garantisce lo svolgimento efficace dell’attività che determina la risposta; l'atto. Quindi, al fatto succede l'atto, all'incertezza determinata dal fatto (dominio empirico) succede la certezza, determinata dall'atto (dominio razionale del "dover essere").

9. Il mezzo-guida. Dobbiamo adesso trovare una risposta adeguata al problema, dello stato originario dal quale i dubbi sono usciti e della forza che li ha prodotti. Il mezzo che ci conduce dallo stato originario dell'incertezza a quello dell'ordine dato dalla certezza, non può che essere la norma. Perciò possiamo attribuire alla norma un valore orfico, cioè il mezzo che dalla ricerca ci guida alla verità della certezza. L'unità normativa è il compito della norma, cioè quello di riconoscere, al di là delle apparenze molteplici e continuamente mutevoli dello stato di incertezza. È l'unità che fa della norma stessa un ordinamento, l'unica sostanza che costituisce il suo essere, l'unica legge, che regola il suo divenire.


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La norma è quindi principio non solo nel senso che spiega l’origine della certezza, ma anche e soprattutto nel senso che rende intelligibile e riconduce all'unità la molteplicità e la mutevolezza prodotta dal dubbio. Da qui, deriva il carattere attivo e dinamico che la norma ha sia per l’ordine, sia per la certezza. Essa non produce immobilità, ma è principio di azione e di intelligibilità di tutto ciò che è molteplice e in divenire. Di qui deriva la convinzione implicita che la norma abbia in sé una forza che la faccia muovere e vivere; la riduzione della norma all’oggettività della certezza. 10. Il processo: la separazione. Il processo attraverso cui si passa dall'incertezza, alla certezza è costituito dalla separazione. Ciò si attua nel momento in cui si ha la consapevolezza dell'incertezza (dubbio). La separazione quindi è il momento in cui si determina la condizione che consente il subentrare della diversità (certezza), quindi del contrasto generatrice dell’omogeneità e dell'armonia (ordine). In effetti, si è sempre alla ricerca dell'unità che produce l'ordine. Nel divenire ciclico della norma il tempo assume una rilevanza, poiché' consente di individuare l’effettività della norma ed è la misura del mutamento della certezza all'incertezza. La norma come sostanza della certezza è l'ipotesi dell’ordine misurabile dei fenomeni, quindi il modello


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originario, giacché costituisce, nella sua perfezione ideale, l'ordine in sé implicito. La norma consente perciò di alimentare l’ambiguità prodotta dal dubbio e plasma l'ordine. Se la norma è la sostanza della certezza, tutte le opposizioni tra fatto ed atto. Ora l’opposizione fondamentale del fatto rispetto all'atto (ordine misurato) determina tutto ciò che sta dalla stessa parte del fatto è male (illecito), ciò che si trova dall'altra parte è bene (lecito). Questo processo ripetuto più volte conduce alla formazione dell'ordine sociale (ordine sociale universale), nel quale l'armonia non è al principio ma al termine. L'ordinamento è concepito, come una sfera dove al centro c’è la norma e intorno a questo si muovono il fatto e l'atto. Il carattere normativo che la certezza qui riveste, è assunto come la definizione stessa della certezza è ciò che è e deve essere. È la certezza nella sua necessità, nella sua unità e nell'immutabilità (temporale).


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11. L’oggetto della certezza e della norma: l’atto La certezza e la norma devono avere in ogni caso un oggetto e questo oggetto è l'atto. Il valore di certezza (verità) della norma dipende dalla realtà dell'oggetto, la norma vera, non può essere che la conoscenza dell'oggetto. Dunque la stessa cosa è la certezza e la norma, la stessa cosa è la certezza e l'atto (oggetto della norma); senza la norma nel quale la certezza è espressa non si potrebbe trovare la certezza, giacché niente altro c’è o ci sarà fuori dalla certezza. La struttura della norma, è caratterizzata dalla categoria della modalità. La necessità è l'unica modalità fondamentale, che consente di superare il dubbio, perché' rispetto al tempo è eternati', rispetto al molteplice è unità, rispetto al divenire immutabilità.


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La norma è compiutezza e perfezione e in questo senso finitezza. L'ordine, è un ordine misurabile. Lo spazio ed il tempo, sono la condizione del mutamento dell'oggettività della norma. Il divenire può essere spiegato per la molteplicità di elementi qualitativamente e quantitativamente diversi, certezza ed incertezza sono due forze del sistema, le cui azioni si avvicendano, determinando, con tale avvicendamento le fasi del ciclo normativo. L'ordinamento ritorna, dopo un certo tempo, al caos generato dall'incertezza, dal quale uscirà di nuovo per ricominciare il suo corso, per riaffermarsi nella sua uniformità normativa. È il rapporto dialettico tra certezza ed incertezza che produce civiltà e ci conduce nel suo divenire verso la ricerca di norme logiche e metodologiche, rigorosamente "razionali", secondo l'ordine dato. Forze che non implichino alcun appello sull’evidenza e possono valere, quali regole di un sistema universale e necessario. Ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo nella fase di costituire il potere generatore dell'ordine sociale e della certezza torna a ripetersi, senza alcuna differenza nella forma. Ma, che cos'è la forma, se non la norma. Nell'ambito di questo significato, il termine, indica l'essenza necessaria della certezza. In questo senso, non soltanto si oppone all'incertezza, ma la richiama tanto da costituire una relazione o un complesso di relazioni, che può mantenersi costante col variare dei termini.


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In altri termini, la forma è la risposta al dubbio ed esprime il condizionamento che il potere esercita attraverso di essa in virtù del radicarsi della certezza, cioè la ragione giustificativa. Questo è il momento di attualità, propriamente l'azione causale atta a garantire immancabilmente un effetto o che pretende di garantirlo. In questo senso si dice "il lavoro come forza", per sottolineare l'immancabilità della realizzazione del lavoro. La forza ci consente di effettuare i calcoli sulla durata del ciclo di certezza, ma non di comprendere la natura del movimento stesso. Possiamo, quindi, afferma che la forza è funzione della certezza, per esprimere l'interdipendenza tra di loro che consente la determinazione quantitativa di quest'interdipendenza, senza presupporre o assumere nulla circa la produzione dell'uno da parte dell'altro. 12. Il contenuto della norma La norma è uno strumento dell'operare umano nell'ambito del contesto sociale e deve adempiere ad una funzione sociale, soddisfacendo le attese di tutti i soggetti che vengono con essa in contatto. Le attese di conoscenza sono soddisfatte dal suo contenuto. Le singole classi di portatori di interessi legati alla norma ricercano in essa, risposte al dubbio (la certezza). Ecco che la norma è fonte d'informazioni diverse in relazione ai diversi interessi che i soggetti destinatari vogliono perseguire.


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I portatori dei flussi d'interessi sono interessati alla realizzazione di condizioni di equilibrio che consentono loro di conoscere se la norma sarà in grado di soddisfare e accrescere l'esigenza di certezza. I vari gruppi di portatori di interessi, divergono tutte le volte in cui tendono a favorire i propri interessi rispetto a quello degli altri. Ecco che tutte le volte che la norma è strumento di conoscenza, viene piegata a mezzo per rappresentare più facilmente i propri fini di alcuni gruppi di interessi e cosi' trasformata in strumento di comportamento. Ciò attua la norma, in riferimento al soggetto destinatario, come mezzo diretto o indiretto a soddisfare i propri interessi. La dichiarata responsabilità sociale della norma, richiede che il documento che ne rappresenta all'esterno la realtà, sia concepito quale fonte di informazione, per tutti coloro che in qualche modo sono legati alla norma, senza che nessun gruppo venga privilegiato rispetto agli altri. Il soggetto quindi trova nella norma il punto di riferimento, più importante per la soddisfazione dei suoi interessi.


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13. Incertezza obiettiva e incertezza subiettiva. In precedenza si è detto di alcune implicazioni che l’incertezza ha per quanto riguarda il comportamento degli operatori, in genere della risposta che il fenomeno determina. Ricorderemo le considerazioni fatte sull’impossibilità di conoscere con certezza, tutte le norme a cui in un certo momento è possibile ottenere una risposta ad un dato problema e sulla necessità, quindi, di comparare i vantaggi che può comportare una più prolungata e più estesa esplorazione dell’impianto normativo e con i problemi che essa implica, per la difficoltà della risposta che l’operatore si attende da questa ricerca.


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Cercheremo adesso di fornire qualche ulteriore chiarimento sulle considerazioni che comporta l’incertezza nell’analisi del comportamento. Dell’incertezza che può guardare gli interessi, che possono assumere determinati comportamenti o eventi che possono verificarsi nel futuro, possiamo distinguere due specie: a) l’incertezza circa eventi futuri che nessuno è in grado di prevedere anche nell’ipotesi che sia possibile utilizzare validamente tutte le informazioni disponibili e quelle ottenibili; questo attiene alla fase di ricerca e conoscenza del dato sociologico, quindi possiamo parlare d'incertezza obiettiva. b) l’incertezza che, invece ,investe la sfera del soggetto e che è dovuta a insufficienza di informazioni, possiamo definirla soggettiva. L’incertezza obiettiva può essere dovuta alla inadeguata conoscenza scientifica dei fenomeni che concorrono a determinare gli eventi di cui si tratta. Siamo in presenza di un fenomeno che potremmo ricondurre all'inadeguata conoscenza dell’impianto normativo, né è pensabile che si possa realizzare il sogno che al vertice del sistema so collochi una norma che spieghi l’universo tale per cui, note tutte le condizioni iniziali possiamo prevedere ogni rilevante sviluppo futuro del sistema. Certo il tempo storico si caratterizza per le discontinuità, che possono essere spiegate ex post, ma che non erano prevedibili ex ante. È quello che si è detto sulla crisi del sistema determinato da innovazioni imprevedibili prima del loro accadimento, anche esse la loro imprevedibilità, può nascere per deficienza di conoscenza. È in genere sempre incerto se un'innovazione è veramente tale o tale a noi appare a causa della nostra ignoranza dei modus operandi del sistema. stesso.


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Dobbiamo subito osservare che l’incertezza obiettiva, non deve essere considerata una caratteristica negativa del sistema. Senza voler aderire alle concezioni evoluzionistiche, possiamo, infatti, osservare che nessuna attività innovativa (e creativa) sarebbe possibile, se non si desse la possibilità di incertezza obiettiva non eliminabile, per quanto possa progredire la scienza. Neppure l’incertezza soggettiva deve considerarsi in ogni caso un aspetto negativo del sistema. È certo desiderabile che ogni soggetto conosca quale comportamento caratterizza il sistema normativo e quindi esso è spiegato. Vi sono eventi e comportamenti singolarmente incerti per i quali, però se considerati in un numero sufficientemente ampio, con riferimento ad un’opportuna regione dello spazio od arco temporale, sono possibili previsioni sufficientemente accurate. Non possiamo né dobbiamo intrattenerci sulle teorie della probabilità: considerare le aporie che si incontrano nel tentativo di fondare la nozione di probabilità su osservazioni empiriche. Basterà ricordare l’impossibilità concettuale ancora prima che pratica, di definire eventi elementari equiprobabili, come è necessario che si faccia, per poter contare gli eventi favorevoli e quelli non favorevoli. Né, vogliamo discutere il fondamento epistemico delle teorie della probabilità soggettiva. Ai fini dell’analisi del comportamento per ciò che ci interessa, è sufficiente sottolineare le interazioni che si stabiliscono tra le osservazioni empiriche e la formulazione di congetture. Ogni stima della probabilità di un evento futuro (del grado di fiducia con cui ci si aspetta che quell’intervento avvenga) non


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è mai il risultato meccanico di osservazioni sugli accadimenti passati, ma non è neppure svincolata da tali osservazioni. Affermano i teorici delle aspettative razionali, che ogni informazione è utile e va valorizzata. Quest'affermazione, può essere condivisa con alcune annotazioni. La raccolta d'informazioni comporta sempre una capacità di selezione. L’associazione di congetture alle informazioni opportunamente elaborate riflette non solo le conoscenze che l’agente ha dei meccanismi che concorrono a configurare gli eventi che si cerca di prevedere, ma anche certe capacità di intuito per cui la stima non è operazione meccanica. La rapidità con cui le congetture sono formulate (che ai fini di certe decisioni assume un valore fondamentale) e il grado di fiducia che viene riposto nelle stime su cui le congetture si formulano riflettono queste capacità d’intuito. Le stesse propensioni all’ottimismo e al pessimismo si riflettono nel processo di formulazione delle congetture. Anche la conoscenza scientifica, prende le mosse da un’attività di selezione e di interpretazione delle informazioni che coinvolge conoscenze preanalitiche più o meno consapevoli. Severino (E. Severino, Legge e caso, Adelfhi, Milano, 1979, pp.58-59) dà del processo una interpretazione che induce a impegnate riflessioni “l’iscrizione del dato nel contesto del consenso e del dissenso intersoggettivo - l’iscrizione per la quale il dato acquista un valore scientifico - è una interpretazione. L’interpretazione è la volontà che il dato abbia un certo significato. Più precisamente è la volontà che il dato abbia un significato ulteriore, cioè addizionale rispetto al significato in cui il dato consiste”.


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La dicotomia tra efficacia dell’operare e razionalità della scienza ci consente di considerare il comportamento effettivo come ciò che è, e non può non essere. Il momento creativo, nel senso di non analitico, di non interpretabile con protocolli scientifici, che si deve riconoscere nella raccolta e nell'interpretazione delle informazioni si può ritenere rifletta la volontà di potenza, la fede dell’operatore o certe conoscenze preanalitiche. Forse una riflessione attenta ci porta a cogliere tra questi fattori cui si fa riferimento dei nessi. Certo la capacità d’intuito non è riconducibile, contrariamente a quanto pensa Russel (Russel, Misticismo e logica, Newton Compton Italiana, Roma 1970), a un istinto, almeno nell’accezione usuale del termine. Queste riflessioni richiamano problemi filosofici che ai fini della nostra analisi non dobbiamo affrontare, ci basta osservare che proprio per le ragioni prospettate non è possibile oggettivizzare il processo di formulazione delle congetture: esso non può essere compreso prescindendo dalle caratteristiche socio-culturali e psicologiche degli agenti implicanti. I sostenitori della probabilità, come schema fondamentale per interpretare il comportamento in condizioni d'incertezza assumono che ogni agente sia in grado di individuare tutti i possibili stati del mondo e di stimare per ogni stato il grado di fiducia sulla possibilità che esso si verifichi. Siamo in grado adesso di dare una definizione al termine congettura. Per congettura, intendiamo l’attribuzione più o meno consapevole di probabilità (gradi di fiducia) agli stati del mondo visualizzati e all’insieme di quelli sperati o temuti che nn sono singolarmente visualizzati e la sintesi di queste valutazioni ai fini operativi.


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Ciò che adesso ci proponiamo, è di elaborare uno schema concettuale più generale che ci consenta di individuare i problemi specifici che solleva la considerazione dell’incertezza con riguardo in particolare all’attività lavorativa. Un primo problema riguarda le istituzioni, le procedure e le attività con cui si può ridurre l’incertezza. Ridurre l’incertezza significa: a) ridurre l’incertezza residua: consentire, cioè, all’agente di visualizzare un maggior numero di stati del mondo alternativi; b) diminuire la dispersione riducendo la variabilità dei dati intorno alla media; c) modificare la distribuzione probabilistica soggettiva così da ridurre gli scostamenti tra il valore più probabile quale risulta dalla distribuzione ex ante e il valore effettivo che si manifesta ex post. Le prime due modalità di riduzione dell’incertezza, si manifestano ex ante in sede di stima, la seconda modalità si verifica ex post, ad eventi avvenuti. L’operatore può però ritenere che vi siano attività specifiche in grado di ridurre l’incertezza nel terzo senso, in relazione alla possibilità di modificare il sistema naturale o il cui modo di funzionare determina l’incertezza. Se, però, l’individuo è in grado di disporre di tutte le informazioni e se il modello con cui lo stesso interpreta il mondo, corrisponde al modello reale, l’incertezza sarebbe del tutto eliminata. Una simile situazione ha un solo difetto; di essere solo un parto della nostra fantasia. Non è detto che la riduzione d'incertezza aumenti sempre l’efficienza del sistema. Il cambiamento del sistema che si rendesse necessario per ridurre certe forme d'incertezza, può comportare una perdita di


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efficienza del sistema stesso nella sia globalità e così costituire di per sé un indice di pericolosità del sistema. L’indice di pericolosità assume dei significati preoccupanti quando l’incertezza altera l’oggetto che nel suo processo decisionale l’agente deve considerare, ma anche il soggetto. In effetti, la continuità delle risposte che il soggetto sa ad un comportamento che si presenta costantemente incerto, non è indipendente dai meccanismi psicologici da cui dipendono la visualizzazione e la valutazione delle esperienze passate, quali fonti di conoscenza per interpretare i fenomeni e offrire ad essi risposte. Nel processo decisionale in condizione d’incertezza l’agente è spesso condizionato da un principio d'inerzia, è cioè portato a ignorare o quanto meno a sottovalutare i rischi e i vantaggi che comportano modifiche al sistema esistente. Queste argomentazioni che abbiamo sviluppato c'inducono a trovare delle impostazioni alternative al modello di razionalità analitica. Quindi, possiamo ritenere che il processo decisionale sia un processo cibernetico: a) acquisizione di informazioni; b) conoscenza del modello che spiega le possibili conseguenze; c) modifiche che possono intervenire nelle caratteristiche strutturali dell’agente che decide, esse possono, infatti, modificarsi in seguito alle esperienze, che vengono acquisite attraverso la ripetizione di scelte risultanti dalla soluzione di problemi simili. Possiamo anche ritenere, che, nel processo decisionale, l’agente consideri un metodo globale e non analitico. Certo è che non possiamo individuare un modello di comportamento astratto, valido per tutti i diversi tipi di interpreti (operatori).


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Infatti il primo modello implica una qualche assimilazione della ragione a super istinto; il secondo ritiene che la mente abbia capacità quasi divinatorie; cioè che vi sia una capacità di conoscere per intuito superiore a quella tipica del sillogismo e del modello assiomatico. I due modelli, invero, possono essere considerati no alternativi in quanto possono coesistere. Vi sono problemi che si presentano continuamente in termini che in parte restano immutati.

14. L’organizzazione. Abbiamo visto come l’interazione tra ordine e disordine è nozione necessaria e rilevante. L’interazione è il principio della connessione tra ordine è disordine, è il principio per il quale esse costituiscono il sistema, un tutto organizzato. Ma, che cos’è l’organizzazione? Per offrire una risposta all’interrogativo occorre, occuparci della nozione di oggetto. La scienza classica trova il suo fondamento nell’oggettività, cioè, da un universo costituito da oggetti isolati


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(in uno spazio neutro) soggetti alle leggi dell’universo e come tali oggettivamente universali. In questa visione, l’oggetto esiste in maniera positiva, senza che l’osservatore/concettualizzatore partecipi alla sua costruzione con le strutture del suo intelletto e le categorie della sua cultura. L’oggetto è dunque un’entità chiusa e distinta, che si definisce in isolamento nella sua esistenza, nelle sue caratteristiche e nelle sue proprietà, indipendentemente dal suo ambiente. Si determina la sua realtà oggettiva tanto meglio, quanto più lo si isola. Se la biologia concepì così in isolamento il suo oggetto caratteristico, anzitutto l’organismo e quindi la cellula, allorché ebbe trovato la sua unità elementare: la molecola; se la genetica isolò il suo oggetto, il genoma: identificò in esso le unità elementari, anzitutto i geni e poi i quattro elementi chimici base la cui combinazione fornisce i “programmi” di riproduzione che possono variare all’infinito; la sociologia del lavoro deve isolare il suo oggetto: il lavoro. Non si può adesso prescindere dal ricordare che il concetto di particella, determinò la crisi dell’idea di oggetto e la crisi dell’idea di elemento, ponendo l’atomo come nuovo oggetto, l’oggetto organizzato o sistema la cui spiegazione non po’ più essere trovata nella natura delle sue costituenti elementari, ma si trova anche nella sua natura organizzativa e sistemica, che trasforma essa stessa le caratteristiche delle componenti. L’idea dell’atomo e della sua complessità, da vita all’idea di sistema vivente. La sociologia, infine, aveva considerato sin dalla sua fondazione, la società come un sistema, nel senso forte di un tutto organizzatore irriducibile ai suoi costituenti, gli individui.


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Il fenomeno sistema, quindi, è al centro dell’osservazione/analisi, tanto che ha preso il posto dell’oggetto semplice e sostanziale, e si oppone alla riduzione ai suoi elementi; la catena di sistemi di sistemi spezza l’idea di oggetto chiuso e autosufficiente. I sistemi sono sempre stati trattati come oggetti; d’ora in poi si tratta di considerare gli oggetti come sistemi. Ma, che cos’è un sistema? Molte sono le definizioni adottate dagli studiosi 38 e quella di Morin che collega 38 La maggioranza delle difinizioni della nozione di sistema, dal secolo XVII fino ai sistemisti della General System Theory, riconoscono queste due caratteristiche fondamentali, e mettono talvolta l’accento sull’aspetto di totalità o di globalità, e talvolta sull’aspettto relazionale. Leibniz, chiama sistema un repertorio di conoscenze: “un insieme di parti”. Wolf a sua volta diceva: “Si dice sistema un insieme di verità connesse tra loro e con i loro principi” (Log.,§ 889). Kant la subordinò a una condizione ulteriore: l’unità del principio che è a fondamento del sistema. Egli intese infatti per sistema “l’unità di molteplici conoscenze racccolte sotto un’unica idea”; affermò che il sistema è un tutto organizzato finalisticamente e pertanto è articolato (articulatio), non ammucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussuceptionem) ma non dall’esterno (per opposizionem) ed è perciò simile ad un corpo animale cui la crescita non aggiunge alcun membro ma, senza alterare la proporzione dell’insieme rende ogni membro più forte e più adatto al suo scopo (Critica della ragione pura, Dottrina del metodo, cap.III). Leibniz, Wolf e lo stesso Kant si ispirano riguardo al concetto di sistema ad un ideale matematico che suppone un principio unico ed assoluto. E. Morin (op. cit. pag. 130) ci offre ulteriori oltre a quella di Leibniz: Maturana, “ogni insieme definibile di componenti”; von Bertalanffy , “Un sistema è un insieme di unità in recipro interazione”; Ackoff, “l’unità che risulta dalle parti in reciproca alterazione”; Papoport è “un tutto che funziona come tutto sulla base deli elementi (parts) che lo costituiscono; Mesarovic, “insieme di stati”; Ferdinand del Saussure, il sistema “è una totalità organizzata, composta di elementi solidali che possono essere definitisoltanto gli uni in rapporto agli altri, in funzione della loro collocazione”. Quest’ultimo è il primo che fa sorgere, connettendolo a quelli di totalità e di interrelazione, il concetto di organizzazione.


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inscindibilmente, le tre nozioni di totalità, di interrelazioni e di organizzazione, è molto vicina alla nostra. Il sistema è un'entità39 eclettica d'incondizionata condizione. Tale definizione porta con sé il concetto di trasformazione, di organizzazione vitale, di scelta, di ordine e di disordine, d'interazione, di progresso e di dinamismo. È l’oggetto organizzato la cui spiegazione non può più essere trovata unicamente nella natura dei suoi componenti elementari, perché nel suo divenire trasforma essa stessa le caratteristiche delle componenti. Che cos’è, quindi, l’organizzazione? L’organizzazione è la sistemazione di relazioni fra componenti o individui che produce un’unità complessa o sistema, dotata di qualità ignote al livello delle componenti o individui. L’organizzazione connette in maniera interrelazionale elementi, o venti, o individui diversi che di conseguenza diventano componenti di un tutto. Essa garantisce quindi al sistema una certa possibilità di durata nonostante le perturbazioni aleatorie. L’organizzazione dunque: trasforma, produce, connette, mantiene (Morin op. cit, pag.133). Ecco, perciò, che l’espressione “entità eclettica” ci consente di associare l’idea del tutto, dell’unità a quello della diversità e della molteplicità, che in linea di principio si respingono e si escludono, atteso che un sistema è un'unità globale, non elementare. In questo senso il sistema è un’entità relativamente autonoma che assume forma d'anello. Infine lo stessso Morin, concepisce “il sistema come unità globale organizzata di interrelazioni fra elementi, azioni o individui”. 39 L’idea di un’entità ounità propriamente organizzata viene suggerita o ricercata con l’olone (Koestler, 1968), l’org (Gérard, 1958), l’integrone (Joacob, 1970)


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Ecco quindi che l’espressione “incondizionata condizione” attribuisce un ruolo all’organizzazione, quello di modificare le qualità e le caratteristiche di elementi, nel momento stesso in cui il sistema si connette, interrelaziona. Infatti, ogni organizzazione comporta gradi di subordinazione differenti al livello dei costituenti e sviluppa vincoli, asservimenti, repressioni, trasformando una diversità discontinua di elementi in una forma globale, il tutto in un circuito ricorsivo ininterrotto. Ciò significa che non vi è organizzazione senza antiorganizzazione, perché l’idea di sistema non è soltanto armonia, funzionalità sintesi superiore; essa porta in sé, di necessità, la dissonanza, l’opposizione, l’antagonismo, in un termine solo, l’antiorganizzazione. Non si può dunque concepire l’organizzazione senza antagonismo cioè senza un’antiorganizzazione potenziale compresa nella sua esistenza e nel suo funzionamento. Di conseguenza, la crescita d’entropia, dal punto di vista organizzazionale, è il risultato del passaggio dalla virtualità all’attualizzazione delle potenzialità antiorganizzazionali; passaggio che oltre determinate soglie di tolleranza, di controllo o di utilizzazione diventa irreversibile (Morin, op cit. pag. 157). Per far sì che tale momento non si verifichi o venga ritardato nel tempo, secondo Morin occorre: 1. integrare e utilizzare gli antagonismi il più possibile in maniera organizzazionale; 2. rinnovare l’energia attingendola dall’ambiente e rigenerare l’organizzazione; 3. autodifendersi in maniera efficace contro le aggressioni esterne e correggere i disordini interni;


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4. automoltiplicarsi in maniera tale che il tasso di riproduzione superi il tasso d’integrazione. Ogni sistema quindi porta con sé la causa interna della propria degradazione: la morte. Ecco che gli oggetti fanno posto ai sistemi; le organizzazioni all’essenza e alla sostanza; le unità semplici ed elementari alle unità complesse; i sistemi di sistemi, agli aggregati40. L’oggetto non è più forma-essenza ma materia-sostanza. Non c’è più una forma stampo che modella dall’esterno l’identità dell’oggetto. L’idea di forma è conservata, ma trasformata: la forma è totalità dell’unità complessa organizzata che si manifesta sul piano fenomenico in quanto tutto, nel tempo e nello spazio. La forma cessa di essere un’idea d'essenza per diventare un’idea di esistenza e di organizzazione.

15. L’organizzazione deve creare non solo informazione ma anche conoscenza.41

40 Un aggregato è diversità non messa in relazione, non costituisce dunque un sistema. Può darsi che condizioni esterne impongano una certa unità. 41 Le considerazioni qui riportate sono frutto della lettura dell’articolo pubblicato in Economia e Management, maggio, 1994b a firma I.Nonaka, Come un’organizzazione crea conoscenza, e di G.M. Aiello Consulenza di direzione e creazione di conoscenza, Ed. Cedam, 1995. Rimandiamo agli scritti degli autori qui citati per ulteriori approfondimenti.


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Uno dei paradigmi imperanti nel campo della teoria organizzativa è il cosiddetto “processo informativo”, posto da Simon, secondo il quale l’essere umano diventa un processore d’informazioni che prende decisioni logiche e razionali all’interno di un “recinto” costituito dai confini della propria razionalità. Occorre, quindi, distinguere fra “conoscenza” e “informazione”, ciò perché il modello base di creazione di conoscenza nell’ambito organizzativo è quello in cui la conoscenza creata a livello individuale viene trasformata in conoscenza da parte dell’organizzazione. Quantunque i termini conoscenza e informazione siano, nel loro utilizzo corrente, spesso intercambiabili, c’è una evidente distinzione tra di essi. In breve, basti dire che le informazioni sono un flusso di messaggi, mentre la conoscenza viene creata ed organizzata da un flusso di informazioni, a sua volta ancorato all’impegno ed alle opinioni del suo detentore. Il significato delle informazioni e necessariamente specificato dal contesto. Ecco che, l’interazione fra l’esperienza e la razionalità, consente agli individui di formarsi la propria percezione del mondo; tale percezione, però, se non è ampliata verso livelli più alti, finisce col rimanere a livello personale. La creazione di conoscenza nelle organizzazioni ha bisogno di un team “auto-organizzantesi” dove i singoli componenti cooperino nella generazione di nuovi concetti. Quando in virtù della condivisione delle esperienze, si sono plasmate una fiducia reciproca e una prospettiva implicita comune, il “team auto-organizzantesi” deve articolare quest’ultima mediante un continuo dialogare: in questo caso la


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modalità dominante di conversione della conoscenza, è l’esteriorizzazione. Nelle organizzazioni che creano cultura per esempio è compito del team determinare gli standard di valutazione della conoscenza; infatti, decidere il punto di svolta fra dispersione e convergenza nel processo creativo è compito altamente strategico. Un'organizzazione che crea conoscenza, elimina l’entropia, il caos creativo, generato dal fatto che “l’organizzazione” si trova di fronte ad una crisi reale, determinata fra l’altro da un rapido deterioramento dei risultati programmati e non raggiunti, dovuto anche al divenire dei bisogni. Ancora, anche il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi, inducono un “senso di crisi” ai membri dell’organizzazione. Altra causa è determinata dal fatto che, il modello di conoscenza utilizzato è un modello c.d. tradizionale, non vivente, ed è racchiuso nel processo informativo dall’alto verso il basso (“top-down”), che si avvale della divisione del lavoro e della gerarchia. Assistiamo, quindi, ad un team che creano i concetti direzionali di fondo e li sviluppano gerarchicamente in modo che siano messi in atto da coloro che ritengono “subordinati”, mentre ad essi spetta la decisione sul modo di realizzare tale pensiero. Il ruolo del team, perciò, è di leadership carismatica e di sostegno. Occorre ricordare però che anche tale organizzazione si può trasformare, in un modello diverso che possiamo definire middle-up-down.


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Un modello, cioè, dove il team di vertice, è sostituito da un sottosistema di team che sta tra il vertice e la c.d. base. Questi soggetti intermedi sintetizzano la conoscenza implicita, rendendola esplicita e la incorporano nelle novità. Sotto quest'aspetto, essi sono i veri “ingegneri della conoscenza”, perché fungono da catalizzatori, cioè indicano le direttive, garantiscono il campo di esecuzione delle interazioni, decidono che deve entrare a partecipare nel gruppo che crea conoscenza, stabiliscono le linee guida e le scadenze dei progetti, sostenendo il processo innovativo dell’organizzazione. Quindi, le conoscenze individuali devono essere congiuntamente ampliate e arricchite mediante l’amplificazione delle conoscenze stesse. Dunque think global, act local, pensare su scala globale ed agire a livello locale: questo può essere in sintesi il compito dell’organizzazione che crea conoscenza.

16. L’organizzazione apprende.


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Le organizzazioni non sono semplici collezioni d'individui, fonti di una certa conoscenza e quindi di cultura 42, ma dispongono di risorse conoscenza proprie. Queste risorse possono essere acquisite prima attraverso l’azione degli individui e poi attraverso il trasferimento dai singoli alla collettività. L’apprendimento organizzativo avviene attraverso l’apprendimento individuale quando le conoscenze dei singoli divengono patrimonio comune, si depositano all’interno dell’organizzazione, sono codificate in procedure e regole di azione comuni. I risultati di un processo di apprendimento sono di due tipi: un accrescimento di conoscenza codificata, circolante e fruibile nell’organizzazione e un accrescimento delle competenze dei soggetti coinvolti nel processo, che se ne serviranno per svolgere i compiti assegnati e raggiungere i propri obbiettivi all’interno dell’organizzazione e un accrescimento delle competenze dei soggetti coinvolti nel processo, che se ne serviranno per svolgere i compiti assegnati e raggiungere i propri obiettivi all’interno dell’organizzazione. Le competenze appartengono agli individui che le mettono a disposizione dell’organizzazione, mentre, nel caso della conoscenza codificata, accade l’opposto. 43 Ciò determina, che le risorse umane, all’interno dell’organizzazione assumo una rilevanza principale. Infatti, risorse umane dotate di particolari competenze professionali e che favoriscono l’accrescimento delle risorse stesse, cioè l’apprendimento individuale, si impegna in processi di acquisizione di queste competenze attraverso la loro codifica e la sedimentazione ciclica. 42 Cultura qui è intesa come un comportamento ripetuto nel tempo. 43 Aiello op. cit. pag. 50.


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Se ciò non avviene, l’uscita del singolo dall’organizzazione incide in modo negativo sul patrimonio di risorse. Perciò per la parte di competenze non codificabili, l’impresa deve continuamente riacquistare questo sapere dei singoli. Quanto sopra detto, assume un rilievo se riferito all’evoluzione delle regole direttive del lavoro automatizzato, e in secondo luogo alla combinazione e alla complementarità tra regole esecutive e direttive, e infine le tendenze di questa costruzione sociale. Infatti, l’automazione mira a far funzionare il processo di lavoro in base a un suo modello, e le prescrizioni formali (norme) esplicitamente espresse e staticamente imposte, non sono più efficienti a ottenere i risultati voluti e quindi l’efficacia può essere ottenuta solo per mezzo di una certa autonomia dei soggetti esecutori. Ciò non significa che le regole direttive esplicite perdano il loro effetto, né che un’iniziativa degli esecutori abbia semplicemente inizio dove si arrestano le prescrizioni formali. Una ricerca di G. de Terssac44 sulla strutturazione del processo di lavoro e le regole che lo costruiscono, chiarisce che il valore direttivo delle regole formali esplicite si mantiene intatto, perché esse sono completate da obblighi impliciti, cioè da altre regole direttive che non vengono formalizzate. La ricerca inoltre rivela che l’autonomia esecutiva, indispensabile all’efficacia, è resa possibile, e nello stesso tempo definita nella sua portata, da questi obblighi impliciti. Ancora, che alla parziale indeterminazione delle prescrizioni formali fa riscontro la produzione di regole 44 Gilbert de Terssac Come cambia il lavoro, Ed. Etaslibri 1993.


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esecutive, non scritte, che non sono concorrenti ma complementari. In questa articolazione, la ricerca porta in evidenza altri aspetti fondamentali. Le regole esecutive non scritte hanno anche un’efficacia che trascende la mera esecuzione, in quanto contribuiscono alla regolazione complessiva del processo. In secondo luogo, la loro produzione autonoma è frutto di negoziazione in seno al gruppo di soggetti che partecipano all’esecuzione, così che la regola è al tempo stesso costruzione del collettivo di lavoro. Dunque, la regola non scritta, diviene comportamento ripetuto nel tempo (cultura), creatrice d'ordine che consente di eliminare l’entropia del sistema organizzato e consente di innestare il ciclo dell’apprendimento evolutivo45 o dell’apprendimento innovazione. L’apprendimento evolutivo o apprendimento innovazione, dipende molto dalla circolazione del sapere non codificato e dalla sua trasformazione in sapere esplicito che crea nuova conoscenza ricombinandosi con il sapere preesistente. È a partire da quest'assunto che (de Terssac, Nonaka, Warglien, Weick), l’approccio alla creazione di conoscenza privilegia l’ottica dell’apprendimento-innovazione. L’organizzazione crea nuovi significati, attraverso nuove combinazioni di concetti, all’interno di contesti spazio-temporali nei quali sono tollerati ed anzi amplificati fenomeni di entropia (disordine, ridondanza, instabilità. Fra l’ambiente e l’organizzazione non esistono confini definiti; essi, assieme rappresentano un sistema che crea conoscenza, attraverso interazioni ripetute.46 45 Warglien M, Innovazione ed impresa evolutiva, Cedam, 1990 46 G. de Terssac, op. cit., pag. 287 “... Il contenuto della regola formale cambia, in quanto non si esprime più attraverso istruzioni rigorosamente definite, ma attraverso il tentativo di coinvolgere i subordinati per garantire la


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Produrre la regola pertinente significa, in ultima analisi, sottoscrivere la propria appartenenza al collettivo come entità capace di garantire la produzione: non essere in grado di far ciò costituisce la prova dell’inefficacia e dell’illegittimità delle regole e l’allontanamento dal gruppo. La produzione di regole non scritte costituisce l’occasione, se non la causa, della ricostruzione di un sistema sociale in cui coesistono molteplici razionalità, riconosciute legittime dagli attori del sistema a causa della loro interdipendenza. L’organizzazione funziona grazie ad una molteplicità di attori: la sua efficacia dipende dalla capacità di mobilitare le loro risorse secondo combinazioni adeguate.

17. Il rapporto d’agenzia: il soggetto-agente, eclettico e omosessuale. Un soggetto individuale o collettivo (qui di seguito indicato genericamente “agente”), compie, scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza, ma che può evolversi nel corso dell’azione stessa, continuità della produzione. Lavorare non è più rispettare il regolamento o conformarsi alla procedura, ma impegnarsi per garantire la continuità della della produzione, malgrado gli imprevisti che ostacolano lo svolgersi del processo produttivo. Il lavoro non esige dagli esecutori una sottomissione alle istruzione della gerarchia, ma la produzione di regole di esecuzione pertinenti. Questa creazione di regole trasforma il gruppo di esecuzione in attore collettivo capace di far valere il proprio punto di vista nei confronti della direzione e di mettere in discussione il suo monopolio nella definizione delle regole da rispettare. La creazione di quello che Morel (1981) definisce un “sistema indulgente” fornisce ai membri del gruppo di esecuzione la possibilità di combinare le loro risorse individuali, di comporre saper fare specifici e di costituire, in questo modo, un collettivo.”.


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una sequenza intenzionale di atti forniti di senso, al fine di conseguire uno scopo, ovvero di trasformare uno stato di cose esistente, in un altro. Nel far ciò l’agente interagisce con altri agenti ed orienta il suo comportamento secondo l’obiettivo da raggiungere. All’interno delle organizzazioni operano, infatti, persone motivate47 dall’interesse proprio, che perseguono, ognuna, obiettivi che sono sovente in contrasto con quelli delle altre e che si muovono in un mondo di informazione imperfetta. I rapporti tra queste persone è un rapporto di agenzia, in cui una parte, l’agente, opera per conto di una seconda parte, il principale. Le due parti hanno obiettivi diversi e perseguono ognuna il proprio interesse. L’agente sceglie un’azione possibile fra un certo numero di alternative. L’azione influisce sul benessere del principale, oltreché su quello dell’agente. Il principale deve allora incentivare l’agente a scegliere l’azione che massimizzi il suo risultato. Per far questo il principale, fissa, in anticipo sull’azione dell’agente, delle regole che consentono il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Il rapporto di agenzia è svolto normalmente in condizioni di incertezza, cioè l’informazione è posseduta in maniera diseguale dai due soggetti (l’agente e il principale). 47 “Il termine motivazione designa, come è noto, il complesso processo delle forze che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel corso del tempo. Nel caso della motivazione al lavoro si tratta di analizzare il campo delle variabili in grado di dar conto del dispiegamento delle energie psicofisiche nell’attività professionale e dell’intensità e della persistenza di questo investimento. Bisogni e desideri individuali; paure e avversioni; valori, aspettative e progetti di vita personali, certamente, ma anche forze che nascono dalla natura dei compiti svolti, dal tipo di relazioni sociali praticate, dagli obiettivi, dalla struttura e dalla cultura di un’organizzazione”. (F:Avallone, Psicologia del lavoro, Ed. NIS, 1994, pag. 128).


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Il problema dell’incertezza e dell’informazione assume nel rapporto d’agenzia due connotazioni principali: l’azione nascosta e l’informazione nascosta. Il problema dell’azione nascosta nasce, come abbiamo visto brevemente, dall’autonomia lasciata all’agente dal principale. Ogni agente cerca di volgere al proprio massimo vantaggio l’esecuzione dell’attività, modificando dove possibile le prestazioni in obbedienza anche al proprio interesse. Infatti l’azione dell’agente non è direttamente osservabile dal suo principale e in cui l’agente ha la capacità di influire sul risultato, ma non di determinarlo completamente. In termini tecnici si dice, che il risultato è una variabile aleatoria, la cui distribuzione dipende dall’azione intrapresa dall’agente. Nella formulazione generale l’agente sceglie un’azione, che comporta un dato livello di sforzo, da un insieme di azioni possibili. L’azione combinata con una variabile causale, dà luogo ad un risultato. Si articola, quindi, il rapporto tra la necessità del principale di far accettare all’agente l’obbligo e, nel contempo, la necessità di quest’ultimo di affermare la propria autonomia, elaborando e facendo valere soluzioni organizzative spesso ufficiose ma senza dubbio più efficaci di quelle già predisposte.48 48 G. de Terssac op cit. pag.114 “ Per descrivere il lavoro da svolgere, è utile distinguere fra “il compito ufficialmente prescritto”, fondato sulla previsione degli obiettivi e l’esplicazione delle condizioni di esecuzione, e il “compito atteso” (Chabaud, 1990), corrispondente a ciò che bisogna effettivamente fare, tenuto conto degli imprevisti tecnici e organizzativi. Questa nozione di compito atteso e moltò vicina alla nozione di “compito implicitamente (o effettivamente) prescritto” così come lo definisce Leplat (1986a): <<è ciò che l’operatore deve effettivamente eseguire, ciò che i suoi responsabili si aspettano che egli faccia>>. Una tale distinzione di impone per cogliere l’aspetto dell’organizzazione del lavoro posto in evidenza nella descrizione..... La nozione di compito atteso permette di render conto


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Ciò implica per definizione che l’agente, primo di tutto è un soggetto eclettico e poi diverso (omosessuale). Infatti. l’agente in quanto titolare di una discrezionalità informale, ha un suo spazio di azione che è sottratto all’organizzazione formale. Ciò significa anzitutto che la discrezionalità non è esterna o opposta all’organizzazione. Al contrario, l’azione organizzativa ha bisogno dell’esercizio di discrezionalità; tanto più quanto maggiore è l’incertezza da affrontare. Non bisogna dimenticare che l’agente eserciterà questa autonomia discrezionale, solamente quando riterrà che ciò costituisca un vantaggio, altrimenti cercherà di eluderla. Ciò perché se lo scostamento dalle regole è in contrasto con gli obiettivi organizzativi, esso non viene permesso. L’organizzazione si tutela nei confronti della discrezionalità deviante con metodi di vigilanza e con sanzioni. In questo caso, l’esercizio della discrezionalità può non risultare positivo, per il soggetto agente, che, pertanto, cercherà di evitarla, per molteplici ragioni. Da un lato l’entità dell’incertezza potrà apparire superiore alle capacità di affrontarla, e le conseguenze dell’errore possono essere ritenute gravi e da rifiutare, dall’altro lato la stessa organizzazione potrà ostacolare l’esercizio della discrezionalità con strutture e criteri non adeguati di valutazione e compenso.

di ciò che deve realmente fare l’operatore,d egli obiettivi che deve realizzare in condizioni di lavoro concrete, diverse da quelle previste. la nozione di compito atteso non pregiudica, comunque, la risposta degli operatori. essa costituisce il quadro reale entro cui si iscrive l’azione degli operatori, senza che possa essere determinato a priori e una volta per tutte il livello di determinazione del contesto sull’azione stessa. Questa nozione consente di superare la visione meccanicistica del lavoro secondo cui esiste una corrispondenza diretta fra la definizione del lavoro da svolgere in condizioni supposte stabili, e i comportamento degli esecutori”.


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Infine la richiesta organizzativa di discrezionalità potrà comportare sacrifici personali per l’agente, e riflessi negativi anche sul piano del benessere e della salute. I soggetti sono dunque doppiamente implicati dal rapporto autonomia/eteronomia: nell’azione che costruisce le regole (la strutturazione del processo) e nell’azione regolata (lo svolgimento del processo). Ma bisogna tener conto che questi due momenti non sono concretamente separabili; perché le regole cambiano, si modificano, si riformulano in ogni svolgimento: ogni svolgimento è anche strutturazione. La ricerca di nuove competenze del soggetto agente e la negoziazione delle medesime con il principale, costituiscono l’aspetto essenziale del rapporto di agenzia. Ecco che il termine eclettico, riassume quest’aspetto della discrezionalità e del suo esercizio, di libertà di autodeterminarsi dell’azione organizzativa dell’agente nell’esercizio di discrezionalità che diviene capacità di esercizio per eliminare lo stato di entropia che l’organizzazione genera. Ancora, il termine “omosessuale”, sottolinea la tendenza dell’organizzazione a trovare la condizione che soddisfi il proprio equilibrio con lo stesso soggetto-agente e in quanto capacità di trasformare la diversità in unità, senza annullare la diversità e di creare anche diversità nell’unità e tramite di essa. Tutto ciò è comprensibile se si considera l’organizzazione come un soggetto vivente, cioè non soltanto l’organismo individuale, ma anche il ciclo delle riproduzioni: la diversità organizza unità che a sua volta organizza diversità. Così la diversità è richiesta, mantenuta, conservata, ed anzi creata e sviluppata nella e tramite l’unità sistemica che essa crea e sviluppa.


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La predominanza dell’ordine soffoca ogni possibilità di diversità interna, e si traduce in sistemi organizzati dotati di maggior flessibilità e di maggior complessità. Ciò ci consente di affermare con Morin49, “che l’organizzazione di un sistema è l’organizzazione della differenza e della diversità”.

18. L’oggetto dell’organizzazione: l’obiettivo. Si è detto, che le organizzazioni sono animate da soggetti che le compongono ed anche che il lavoro è un’attività finalistica. 49 E. Morin op. cit. pag. 151.


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È necessario, allora, entrare nel merito del fattore caratterizzante l’organizzazione: il suo oggetto, l’obiettivo. Il termine oggetto, indica una qualsiasi operazione, attiva o passiva, pratica e conoscitiva. Ogni attività o passività ha come suo termine o limite un oggetto qualificato in corrispondenza del carattere specifico dell’attività o della passività. Può sembrare logico definire l’oggetto, come funzione dell’organizzazione, nel senso di ciò che è indipendente dal soggetto, ma non lo è. Infatti, perché, la funzione per cui è sorta un’organizzazione si trasformi in una specifica realtà, occorre che la funzione sia tradotta in obiettivi. Gli obiettivi rappresentano l’oggetto dell’organizzazione, e come tali sono unità complesse e quindi forma dell’organizzazione, idea di esistenza e di intelligibilità del sistema. Sono gli impegni di azione attraverso cui si intende realizzare la funzione dell’organizzazione stessa. Gli obiettivi indicano una direzione, concretizzano gli impegni, sono strumenti per mobilitare le risorse dell’organizzazione per affrontare il presente e costruire il futuro. Gli obiettivi, dunque, definiscono e concretizzano qual'è e quale potrà essere l’attività; si traducono operativamente in traguardi e risultati da conseguire entro uno spazio e ed un tempo limitato; facilitano la sinergia di risorse e sforzi; equilibrano esigenze e mete diverse imprimendo linearità e chiarezza ai comportamenti organizzativi. L’obiettivo non è un ordine o una prescrizione assoluta: indica piuttosto una preposizione, un impegno, una direzione, su cui i diversi attori della scena organizzativa sono chiamati a


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conformarsi, a collaborare, a mobilitare le energie, individuali e collettive, di pensiero e d'azione. Per realizzare gli obiettivi le organizzazioni creano una struttura50 finalizzata a facilitare il coordinamento delle attività e a controllare le azioni dei diversi operatori. La struttura di un’organizzazione presenta tre componenti o caratteristiche: 15* la complessità, si riferisce al grado di divisione o differenziazione delle attività all’interno dell’organizzazione. 16* la formalizzazione, si riferisce al livello di standardizzazione del lavoro e delle procedure. 17* la centralizzazione, indica, fondamentalmente il luogo in cui siede l’autorità per la presa di decisione. Ogni organizzazione utilizza, per raggiungere i suoi obiettivi, un sistema più o meno complesso di conoscenze, di metodologie e di strumenti di natura tecnologica, che costituiscono la sua intelligenza, la sua cultura.51 50 “La nozione di struttura, utilissima ed integrabile nell’idea di organizzazione, non può riassumere in sé quest’idea. La struttura è tanto più integrabile in quanto le realtà organizzative hanno cominciato ad emergere alla conoscienza teorica sotto la sua coperta o meglio nella sua ganga. E’ in generale l’insieme delle regole di montaggio, di connessione, di interdipendenza, di trasformazione che sono prese in considerazione sotto il nome di struttura: questa, al limite, tende ad identificarsi con l’invariante formale di un sistema” E. Morin, op. cit, pag.171. 51 Nella letteratura specialistica il termine cultura dell’organizzazione è impiegato per designare i valori dominanti di un’organizzazione, le norme che invalgono e si sviluppano nei gruppi di lavoro e nell’interazione tra i membri dell’organizzazione; i modelli di comportamento utilizzati con regolarità e frequenza ; le regole del gioco per orientarsi e rimanere all’interno di un’organizzazione che i nuovi assunti devono apprendere per essere accettati come nuovi membri etc. Secondo una definizione classica la cultura dell’organizzazione è : “Un insieme di assunti di base, inventati , scoperti o sviluppati dai membri di un’organizzazione per affrontare problemi di adattamento funzionale da


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19. Organizzazione aperta e organizzazione chiusa. Una delle fondamentali credenze che caratterizza un'organizzazione aperta, è precisamente che non ci sono limiti all’apprendimento. al contrario, una società chiusa si porrà credenze limitanti, sia per i tabù su ciò che è permesso esplorare e rappresentare. Un'organizzazione aperta consente di generare conoscenza e preserva la libertà di apprendimento in tutte le direzioni, in tutti i settori e secondo tutte le credenze salvo in ciò che possa minacciare l’integrità della sua esistenza. Una tale organizzazione sarà priva di entropie, nella misura in cui c’è un consenso sulla definizione data all’integrità della sua esistenza. Il solo tabù di un’organizzazione aperta è di non permettere che un tabù s'installi per limitare l’apprendimento e quindi la conoscenza. Infatti, questo tabù toglie il diritto di limitare l’apprendimento e pone un problema per la creazione di un sistema di apprendimento che caratterizza l’organizzazione. Una organizzazione chiusa comporta credenze che limitano l’apprendimento e quindi generatrice di entropia. Queste credenze, infatti, fanno si che alcuni campi di apprendimento siano invalidi (pregiudizio) o siano interdetti (tabù). Un'organizzazione che abbia tali credenze definirà ciò che la minaccia, non solo in rapporto alla coerenza del suo sistema di credenze limitanti (intolleranza). essere considerato valido e, conseguentemente, da essere indicato ai nuovi mebri come il modo corretto di percepire, di pensare, di sentire in relazione a quoi problemi”.(E.Shein, Cultura d’azienda e leadership, Guerini e associati, Milano 1990)


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Ne consegue che, tale organizzazione di fronte a credenze contrarie ai suoi pregiudizi e ai suoi tabù, sarà intollerante. Ecco, quindi, che la finalità dell’apprendimento è la sopravvivenza e lo sviluppo dell'organizzazione.


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IV IL LAVORO CHE VORREI


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1. L’ideologia L’opportunità e la fertilità della nostra ricerca di ricostruire il “lavoro” come uno dei significati in cui può specificarsi (ed essere spiegato) l’agire sociale, mostrano che quanto sin qui


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compiuto consente di ricominciare, focalizzando l’attenzione, questa volta, sulla costruzione degli indicatori attraverso cui possono essere identificati i tipi di agire connessi alla pretesa: indicare un modo per attribuire al concetto di “lavoro” un denotatum che, significativo per filosofi e sociologi del lavoro, consenta al discorso una pretesa di validità empirica. È chiaro, tuttavia, che nella prospettiva assunta tali questioni non possono essere affrontate in astratto e che la costruzione degli indicatori attraverso cui tipizzare i riferimenti alla pretesa deve consentire di inventare nuove rilevazioni (con le implicazioni tecniche che ciò comporta52, il problema della sociologia del lavoro è, per molti versi, quello di riuscire ad interpretare come indicatori, relativi a quei tipi di agire, la miriade di dati dispersi e disarticolati di cui si dispone sui fenomeni istituzionalmente indicati come “sociali”. Ed eventualmente, individuare, a partire da queste interpretazioni, effettive carenze d'informazione. In altre parole, la prospettiva assunta consente di interrogarsi con una certa intelligenza su quale informazione sia disponibile, per esempio sul “funzionamento dell’organizzazione”. Nel senso specifico di scoprire, nei dati posseduti, quanto è comprensibile come problema organizzativo o politico e quanto, invece, risulta socialmente rilevante, perché connesso a tipi di agire intenzionati ad attribuire conseguenze ad un dato insieme di regole ad un dato insieme di norme. In definitiva, si tratta di informazioni relative da un lato alle alternative ed ai limiti in cui si compie la tipicità di questo agire, e, da un altro, agli strumenti di cui esso si serve (teorie, categorie, procedure). 52 A. Marradi, Costruire il dato. Sulle tecniche di raccolta delle informazioni nelle scienze sociali, Milano, F. Angeli, 1988


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Ciò consente di chiarire un’altra questione. Nessuno meglio degli stessi “operatori sociali” può sapere quale informazioni sull’agire sociale siano sufficienti per la loro attività. Nessuno meglio di loro può formare “operatori sociali”. Il sociologo del lavoro può dire all’”operatore sociale” su quale conoscenza dell’agire sociale fa affidamento il suo quotidiano lavoro di applicazione di norme e che tipo di relazione si insatura tra le sue decisioni (interpretative/applicative). Al filosofo del lavoro, che è invece interessato a problemi di teoria generale o a problemi specifici diversi dai fenomeni sociali, il sociologo del lavoro, può indicare tra quali alternative si compie la decisione applicativa di dati precetti, su date aree di agire e per quale motivo tali decisioni e tali alternative vi assumono quei significati piuttosto che altri. Per disegnarsi questa ideologia e per ottenere le reintepretazioni di cui si è detto, occorre lavorare su problemi definiti. L’obiettivo è, quindi, quello di articolare alcuni concetti adatti a definire “il lavoro”, con una teoresi che non lo renda residuale, ma che sia invece in grado di costruire il riferimento del concetto del “valore sociale”, quindi di norma fondamentale che consenta di costruire e ricostruire dei tipi di agire che danno corpo alla pretesa di identificazione delle regole sociali, economiche e giuridiche. I significati così individuati saranno esplicativi dell’agire riferito a norme perché risultano essere rappresentazioni reciproche tra tipi di agire connessi alla pretesa. Possiamo, quindi, parlare di “ideologia del lavoro” per rappresentare l’idea fondamentale dell’oggetto lavoro.


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Il termine “ideologia” qui viene utilizzato per indicare “la conoscenza delle idee”, ovvero la “scienza che ha per oggetto le idee” 53. L’idea secondo Kant54 è una realtà oggettiva più remota della categoria, poiché non è possibile trovare alcun fenomeno, in cui essa possa essere rappresentata in concreto. L’idea è priva di realtà, (come per es. l’anima il mondo, Dio) perché, al di là della esperienza possibile, è, tuttavia, una regola per estendere ed unificare l’esperienza stessa. Ancor più dell’idea “l’ideale è il modello (prototypon) di tutte le cose, che ne sono come copie difettose (ectypa)”. Se l’idea dà la regola, l’ideale fornisce il modello e sebbene non si possa attribuire realtà oggettiva all’ideale, non perciò questa deve considerarsi chimera, anzi offre un criterio alla ragione che ha bisogno del concetto di ciò che è perfetto nel suo genere per valutare, alla stregua di esso e misurare il grado e il difetto di ciò che è imperfetto.55 Questo concetto di ideale come di un modello concretamente perfetto non realizzato diventa un comune concetto che ricorre ogni qualvolta che si accentua la separazione tra l’essere ed il dover essere. Infatti, se l’idea, per ciò che sinteticamente si è detto, rappresenta la forma spirituale più alta nell’ambito della filosofia del lavoro, essa diviene ideale nell’ambito della sociologia del lavoro. 53Il termine ideologia si deve al filosofo francese A.L.C. Destutt de Tracy, Eléments d’idéologie,Parigi 1801, che lo scelse, conforme all’etimo greco di “idea” e “logia”, per indicare la “conoscenza delle idee”, ovvero la “scienza che ha per oggetto le idee”. 54 E. Kant Critica della Ragion Pura Ed. Biblioteca Universale Laterza II pag. 451 e ss. 55 E.Kant op. cit. pag. 453.


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Certo è che il dover essere non può consistere in una forma perfetta ed intangibile nella realtà, di fatto contenuta nella nozione di ideale. Il dover essere diviene forma perfetta, modello perfetto quando diviene valore, cioè un ens faber. Ma, questo modello perfetto in sé deve essere sperimentato, al fine di poter considerare quali sono gli effetti che sul piano pratico tale modello produce. Pertanto vi è l’esigenza di trovare un procedimento, sperimentale o scientifico, diverso da quello che fa ricorso al metodo della tenacia, dell’autorità o al metodo a priori per fissare l’ens faber e così rendere sicuri, nell’esistenza sperimentata, il lavoro. Il metodo è suggerito da Peirce56: “l’intera funzione del pensiero è quella di produrre abiti d’azione” : cioè credenze. Infatti, poiché l’attività del pensiero si svolge nella dialettica di dubbio e credenza, e corrisponde ad esigenze nel contempo psicologiche, pratiche, conoscitive, occorre far coincidere le nostre opinioni con i “fatti”. Più propriamente il metodo non può che essere quello della scienza, perché tale metodo assume come sua ipotesi fondamentale l’esistenza di cose reali che “agiscono sui nostri sensi secondo leggi regolari e, sebbene le nostre sensazioni siano differenti i nostri rapporti con gli oggetti, tuttavia, giovandoci delle leggi della percezione, possiamo accertare mediante il ragionamento come le cose realmente e veramente sono; e ogni uomo se avrà sufficiente esperienza e se ragionerà abbastanza sulla sua esperienza, sarà condotto all’unica vera conclusione.”57

56 Charles Sanders Peirce The Fixation of Belief 1878. 57 Peirce Grounds of Validity of the Laws of Logic 1939 pag. 98.


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Nell’accezione particolare ciò che è ideologico è solitamente contrapposto a pragmatico. Per ciò che qui interessa il fondamentale punto di contatto tra ideologia e pragmatismo, sta nella loro comune tendenza a riguardare l’ens faber e il significato stesso, come qualcosa intimamente connesso all’impiego che si può fare o si desidera farne dell’ens e perciò la necessità di costruire non solo abiti mentali ma anche fisici. Ecco, quindi, che ideologia e pragmatismo (teoria e prassi) sono esplicativi dell’agire e costituiscono il segmento della verità, perché prescegliere l’inizio o la fine di quest’ultimo mostra solamente in cosa consiste la pretesa. Il carattere dell’ideologia è attribuito ad una credenza, un’azione o uno stile per la presenza di certi elementi tipici e perciò realizza la strada maestra che conduce alla pretesa. Diversamente nostra conoscenza delle cose poggia sempre su cognizioni precedenti. Perciò, essa riesce a cogliere la realtà solo in quanto già sempre mediata da rappresentazioni logiche, in quanto già sempre tradotta in segni che delineano una pre-comprensione delle cose. Proprio per questo, i segni predispongono e mediano ogni ulteriore rappresentazione del pensiero, ovvero ogni nuova possibilità di conoscenza. Far coincidere l’ideologia dell’ens faber è un’esigenza della razionalità che il metodo scientifico esprime meglio di ogni altro, imponendosi pertanto come la scelta più razionale per chiunque sappia riconoscere che c’è la possibilità di raggiungere “la grande speranza”: il lavoro.


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2. La motivazione Schopenhauer, riconosceva alla motivazione un carattere privilegiato, quello di essere una rivelazione immediata del modo di agire intrinseco della causalità.58 La motivazione è rimasta a indicare l’azione determinante del motivo, quali che siano i limiti che si pongano a tale determinazione. Il motivo è la causa o la condizione di una scelta, cioè, di una volizione o di un’azione. È assurdo chiedere cosa induce un uomo all’attività. “Ma quando abbiamo bisogno di condurlo ad agire in un modo specifico piuttosto che in un altro, quando vogliamo dirigere la sua attività in una direzione specifica, allora la questione del motivo è pertinente. Il motivo è allora l’elemento del complesso totale dell’attività umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a un atto avente conseguenze specifiche”59 Ciò significa che il motivo è uno strumento per orientare e guidare la condotta umana. Diversamente possiamo affermare che attraverso la condotta umana si rappresenta il motivo. La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce forma generale della condotta . Da un lato il soggetto della rappresentazione, che è ciò che tutto conosce. 58 Arthur Schopenhauer Ueber die vierfache Wuerzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813, § 20,29,36. 59 Dewey Uman Nature and Conduct, Pag. 119-120.


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Dall’altro lato, c’è l’oggetto della rappresentazione, condizionato dallo spazio e dal tempo che ne producono, come affermava Schopenhauer, la molteplicità. Il soggetto è fuori dello spazio e del tempo, ed è capace di avere rappresentazioni dell’ens faber. Il soggetto integra con l’oggetto la rappresentazione dell’ens faber, nel far ciò motiva la propria azione, pertanto adesso il soggetto è dentro lo spazio e il tempo. Ora se la realtà dell’oggetto si riduce alla sua azione (la rappresentazione), la realtà del soggetto si riduce anch’esso alla sua azione. Spazio e tempo, quindi, costituiscono le forme dell’ens faber, cioè le condizioni a cui deve sottostare il soggetto motivato.


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3. La scelta. Il procedimento con cui una possibilità determinata, a preferenza di altre, viene assunta o fatta propria o decisa o realizzata in modo qualsiasi viene indicato con il termine scelta. Il concetto di scelta perciò viene collegato a quello di possibilità, sicché non c’è scelta dove non c’è possibilità, ma neppure c’è possibilità dove non c’è scelta, giacché l’anticipazione, la progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte. Dall’altro lato il concetto di scelta è una delle caratteristiche del concetto di libertà ed oggi se ne fa un suo larghissimo in tutte le scienze. La scelta è sempre accompagnata dalla “ragione e dal pensiero”60 ed è Kierkegaard che ha sottolineato il valore della scelta, per ciò che concerne la personalità dell’uomo o la sua esistenza. La scelta è l’emergere di una preferenza che secondo Dewey è una preferenza unificata da un insieme di preferenze competitive.61 Pertanto la scelta ragionevole è soltanto quella che unifica e armonizza differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro. L’operazione avviene attraverso un metodo ripetitivo che nello scegliere la scelta, consente di rendere possibile l’ens faber, il suo autentico poter essere. 60 Aristotele Etica Nicomachea 1112a 15 - Traduzione di A. Plebe- Laterza 7 Vol. 1990. 61 Dewey Human Nature and Conduct, 1929, pag.103


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In quanto scelgo io sono homo faber, se non sono, non scelgo e quindi non sono homo faber. La scelta della scelta62 è una scelta originaria che sarà sempre presente in ogni scelta ulteriore di ciò che potrà essere scelto. In tal senso la scelta possibile è non soltanto la scelta che si offre come una possibilità, ma la scelta che una volta effettuata diviene possibile. Ragion per cui il concetto di scelta diventa suscettibile di trattamento oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi delle tecniche di scelta. Sotto tale profilo è necessario determinare in primo luogo il contesto delle scelte, cioè il campo delle possibilità oggettive in cui la scelta deve operare. Inoltre, sempre in riferimento a un contesto determinato, si può distinguere il grado delle scelte che è il numero delle possibilità offerte da un determinato contesto, dall’estensione delle scelte, che è il numero di individui che hanno accesso a una determinata scelta in un dato contesto. Estensione e grado possono stare fra loro in tutti i rapporti possibili, perché l’aumento del grado può influire su quello dell’estensione e reciprocamente. Il metodo delle ripetibilità delle scelte è utilizzata oramai universalmente in tutte le discipline: infatti, finché una scelta è continuamente scelta non è ripetuta.

62 Kierkegaard Werke, II, pag.148).


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4. Il paradosso. Ciò che è contrario all'opinione dei più, cioè al sistema di credenze comuni cui si fa riferimento oppure contrario ai principi che si ritengono ben stabiliti si chiama paradosso. In tale accezione il termine paradosso è inteso nella sua accezione più ampia, in un senso più specifico, si parla di paradosso quando una conclusione assurda, o che sembra tale, è ottenuta a partire da premesse plausibili attraverso alcuni passaggi deduttivi in apparenza corretti. I paradossi che mettono capo a vere e proprie contraddizioni, sono detti anche antinomie. Antinomia è termine che è utilizzato come la contraddizione fra due proposizioni, ambedue dimostrabili (tesi e antitesi). Il lavoro c’è! Affermare ciò significa esprimere una verità, ma ciò non è privo di conseguenze perché ricorda Sant’Agostino che bisogna “farla”. Ciò significa che è necessario la presenza di un soggetto agente. Il che apre il discorso della presenza e del significato dell’uomo nella società e della sua attività nella società63. 63 “..l’attività, nell’accezione moderna del termine, si riferisce unicamente al comportamento, non alla persona dietro il comportamento stesso. Non importa se si nutre interesse per il proprio lavoro come può accadere ad un falegname, ad uno scrittore, ad uno scienziato o a un giardiniere, né che si istituisca un rapporto interiore con ciò che si fa e se ne ricava soddisfazione, come non accade con l’operaio alla catena di montaggio o all’impiegato postale...... Nell’attività alienata io non ho esperienza di me stesso come soggetto agente della mia attività; piuttosto sperimento il risultato della mia attività, e questo è alcunché di separato, di isolato da me, che mi sovrasta e contrasta. Nell’attività alienata ad agire non sono in effetti io: io sono agito


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Ciò significa affermare che se il lavoro c’è (prima proposizione), il lavoro è (seconda proposizione), significa affermare anche che se il lavoro c’è, l’uomo c’è, se l’uomo c’è, l’uomo è. Tali proposizioni sono degli orizzonti. Un orizzonte, come indica il nome in greco è assieme l’apertura e il limite dell’apertura che definisce sia un progresso infinito, sia un’attesa. Ma se così è il lavoro e l’uomo forse hanno giustamente un a-venire che occorrerà distinguere dal futuro. Quest’ultimo perde l’apertura, la venuta dell’altro (che viene) senza cui non è un futuro; il futuro può sempre riprodurre il presente, annunciarsi o presentarsi come presente futuro nella forma modificata del presente. Il lavoro resta a-venire, esso è a-venire, esso ha a-venire, dispiega la propria dimensione fisica nel tempo attraverso l’uomo e la sua attività. Perciò, il lavoro apre all’avvenire la trasformazione, il rimaneggiamento o la rifondazione dell’uomo. Ci troviamo, quindi, di fronte a una realtà che dobbiamo reinterpretare. L’esperienza attuale ci dimostra che nel mondo del lavoro l’uomo sta rivendicando la presenza di se stesso quale essere ontico. Ciò perché la sua attività diventa sempre più intellettuale piuttosto che manuale. Ciò significa che nel lavoro l’uomo deve trovare se stesso ed insieme agli altri con cui è organicamente collegato deve realizzare la propria dimensione ontica. da forze interne o esterne. Vengo ad essere separato dal risultato della mia attività.... io sperimento me stesso quale il soggetto della mia attività....” ERICH FROMM, Avere o essere? Trad. it. Milano 1977 pag. 122 - 123.


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Questo eccesso della dimensione ontica dell’uomo, questo debordare del concetto di uomo su quello di lavoro, non può e non deve essere utilizzato come un alibi per creare strutture personalizzate e determinate, le c.d. tecnostrutture. La tecnostruttura tende a valorizzare al massimo il lavoro degli specialisti settoriali e tende ad annullare la partecipazione, quindi a prendere coscienza e conoscenza dell’ens faber. Ciò significa consentire all’homo faber di partecipare al miglioramento non solo di se stesso ma anche della collettività, della produttività, della soddisfazione professionale, della sicurezza e del tempo libero, ecc.64

64 LUIGI BAGOLINI - Filosofia del lavoro Milano - pag. 134 e ss.


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5. Il metodo Passare dal piano della descrizione a quello della definizione, significa comprendere, significa addentrarsi nel cuore del concetto, mettere a fuoco le sue articolazioni e le sue implicazioni, all’interno di un quadro non contraddittorio sul piano della teoria e conforme sul piano dell’esperienza. Il metodo è il procedimento utilizzato per raggiungere lo scopo prefisso, metodologia, la scienza che formula le norme di qualsiasi procedura. Ciò comporta elaborare un insieme di procedimenti tecnici di accertamento e di controllo atti a garantire alla disciplina in questione l’uso sempre più efficace, delle tecniche di procedura di cui dispongono. Tali tecniche comprendono ovviamente: ogni procedura linguistica od operativa, ogni concetto, come ogni strumento di cui ci si avvale per l’acquisizione e il controllo dei risultati che si intende raggiungere. Quindi, la metodologia ha per scopo la determinazione delle condizioni formali del sistema architettonico dell’ens faber. Ciò significa che l’homo faber nella sua dimensione ontica, rappresenta la struttura architettonica dell’ens faber e come tale genera un’ampia gamma di idee che manifesta attraverso i propri comportamenti, riconducendo le differenze ad unitarietà.


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Il metodo qui proposto è un metodo sinettico65 cioè quello di portare alla luce le differenze di pensiero e dar loro la possibilità di non essere immediatamente censurate da criteri di fattibilità, dall’altro di farle sviluppare fino a raggiungere il perfezionamento ed il completamento. La metodologia consiste nel partire dalla definizione del problema e arrivare all'identificazione possibile. Ne consegue che è necessario individuare i ruoli specifici e quindi fare delle scelte durante il percorso e, quindi, motivare l’homo faber a procedere. Il ruolo delle risorse, cioè delle competenze, contribuisce a fornire materiale creativo e a selezionare le idee prodotte. La competenza è “una caratteristica intrinseca di un individuo causalmente collegata ad una performance eccellente in una mansione...... si compone di motivazioni, tratti, immagine di sé, ruoli sociali, conoscenze abilità”66. Essa include “i modi di comportarsi o di pensare che si ripetono nelle loro grandi linee nelle diverse situazioni e perdurano per un periodo di tempo ragionevolmente lungo”67. 65 La sinettica è la traduzione italiana di Synectics, il nome che identifica la metodologia di Problem Solving Innovativo, messo a punto dall’omonima società nel 1961 negli Stati Uniti, significa “ricondurre le differenze ad unitarietà”. 66 Klemp G.O. Jr. (1980), The Assessment of Occupational Competence, Report to the National Institute of Education, Washington D.C.; Boyatzis R.E. (1984), Identification of Skill Requirements for Effective Job Perfomance, McBer, Boston; Spenser L.M. Spencer M.S. (1993), Competence at Work, Wiley, New York (trad. it. Competenza nel lavoro Angeli, Milano, 1995). 67 Guion R.M.(1991), Personnel Assesment, Selection and Placement, in Dunnette M.D., Hough L.M. (a cura di) Handbook of Industrial and Organizational Psychology, Consulting Psychologist Press, Palo Alto (CA) pag.335.


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Ciò significa “che la competenza è parte integrante e duratura della personalità di un individuo”68 quindi risalire alla natura intrinseca della competenza significa dare rilevanza a due caratteristiche essenziali di essa: la ripetibilità del comportamento (perfomance69) e il mantenimento della sua qualità, indipendentemente delle molteplici situazioni in cui essa si può manifestare. In questo senso la competenza è un attributo della personalità dell’homo faber, perciò costituisce il suo nucleo centrale e stabile. Il metodo sinettico, aiuta a trasformare un’idea grezza in un’idea pronta ed operativa, a trasformare i minus di un’idea in altrettanti plus. In questa prospettiva, si può contrapporre il pensiero creativo al pensiero analitico, che di norma si esercita su idee e soggetti esistenti. Che cosa distingue questi due tipi di pensiero? Il pensiero analitico procede da un tutto agli elementi che lo compongono (idee-dati) per cercare di comprendere il perché dell’unica soluzione adottata. Il pensiero creativo, invece, si propone di trovare tutte le possibili combinazioni alternative tra gli elementi (idee-dati) che caratterizzano una soluzione problematica. In definitiva il pensiero creativo produce soluzioni alternative, il pensiero analitico le valuta. Il pensiero creativo non determina l’annullamento delle nostre conoscenze e la nostra esperienza di adulti. Tutt’altro. 68 Spencer op.cit. pag.30 69 La performance è costituita dall’insieme dei comportamenti con cui un individuo raggiunge gli obiettivi che gli vengono posti all’interno di un ruolo, quindi essa appartiene alla dimensione comportamentale.


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Il tipo di pensiero creativo richiesto per la soluzione di problemi pratici è proprio quello che si realizza grazie alla combinazione di quello che sappiamo (la nostra esperienza, la nostra conoscenza) e quello che vogliamo ottenere (il nostro obiettivo). L’ostacolo principale al pensiero creativo è costituito dal sistema educativo. Fin da piccoli siamo abituati a ragionare secondo modelli logici che ci spingono a considerare le premesse e le conseguenze rigidamente legate tra loro. Questo ci abitua a non essere creativi e molto spesso crea delle illusioni conoscitive che porta con sé il virus del buco nero, del bìas, del conformismo, della sicurezza dell’ovvio, del giudizio affrettato e quindi la paura di sembrare matti, quando vengono prodotte idee inusuali, non conformiste, bizzarre. E’ sufficiente ricordare ciò che subì Galileo nell’affermare che la terra gira intorno al sole e combattere l’illusione conoscitiva della teoria tolemaica. Il sistema educativo deve essere un sistema sinottico, teso a sviluppare le capacità dell’individuo, cioè deve sviluppare quelle attitudini di cui esso è dotato, che possano consentirgli di eseguire con successo una determinata prestazione, quindi rendere possibile la riuscita nell’esecuzione di un compito o, in termini più vasti, di una prestazione lavorativa. Certo è che questa possibilità di riuscita è a sua volta condizionata dall’attitudine che rappresenta il substrato costituzionale di una capacità che è dunque espressione di attitudine che ha trovato condizioni esterne (contestuali) e interne (motivazionali) favorevoli al suo manifestarsi in comportamenti. Saper usare la creatività significa saper utilizzare la complessa struttura delle conoscenze, ciò comporta sul versante


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soggettivo una sensazione di controllo e di potere sulla situazione. Ciò consente di sviluppare le competenze attraverso l’articolata combinazione tra capacità, conoscenze ed esperienze finalizzate. Quello che realmente interessa nella nostra società non sono i titoli in sé, rappresentativi di capacità, conoscenze ed esperienze finalizzate, ma le reali risorse conoscitive ed esperenziali che l’homo faber possiede e che è possibile attivare immediatamente perché pienamente sperimentate e gestite in completa determinazione ed autonomia. In definitiva il metodo intuitivo e il metodo creativo ritagliano in realtà due tipi diversi di oggetti, per cui, aderire all’una o all’altra scelta metodologica significa semplicemente scegliere di occuparsi di più o meno ed in maniera diversa dell’homo faber. Infatti, il metodo creativo consente di coinvolgere l’homo faber in modo attivo nell’organizzazione e di garantire un più elevato livello di prestazioni future socializzando l’informazione. Infatti, l’interesse dell’organizzazione non è attivare un processo valutativo, ma comunicare in modo diretto all’homo faber, che la sua prestazione sia nel caso che sia positiva, sia nel caso che essa sia negativa, sia atta a garantire una continuità positiva nel tempo.


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6. Esser-ci e dover esser-ci Se l’ens faber davvero è, tutto assume e tutto dispiega (e perciò anche spiega). Nulla ha più luogo fuori del suo orizzonte e del suo dominio. Se l’ens faber è, il lavoro si rivela un suo semplice territorio. Il feudo dell’ens faber è governato dal dover-essere, dall’obbedienza, ogni scelta potrà legittimarsi e ogni decisione potrà santificarsi come esecuzione di ordini superiori e come tale priva di ogni responsabilità. Ciò sotto il significato predicativo (statica), diversamente sotto il significato esistenziale (dinamica) l’ens faber se davvero è, la scelta è necessariamente responsabile, quindi espressione di libertà limitata e condizionata, cioè finita.. Senza responsabilità l’homo faber non si distingue dal replicante biologico e perciò pensa per valori (per dover essere) però ha facoltà di iniziare da sé, cioè è dotato di autodeterminazione.


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La libertà è la scelta che l’homo faber fa del suo essere proprio, conformandosi necessariamente all’ens faber. In altri termini l’homo faber è libero se cioè agisce e pensa soltanto come parte dell’ens faber e riconosce in sé la necessità di esso, in quanto l’ens faber è il suo universo. L’ens faber anima l’homo faber e perciò lo investe e lo trasfigura, ma in questo onnipervasivo animismo, l’homo faber attraverso la libertà, rifiuta, comunque, l’ineludibile del già dato, come necessità o destino. Il dover-essere, per aver luogo, deve essere infatti luogo di relazioni, mondo di scelte e responsabilità, mondo di norme non già date. Il dover-essere, stabilirà i confini tra comportamenti-sì e comportamenti-no, comportamenti da seguire perché autorizzati e da evitare perché proibiti. Che il dover-essere non sia già dato è manifestato dalle innumerevoli norme con cui ha colonizzato il mondo. Dunque, ci deve essere un dover-essere, ma non è mai detto quale, che fonda il comportamento dell’homo faber che gli consente di organizzarsi nel lavoro. In questo senso, la libertà non è autodeterminazione assoluta e, non è quindi un tutto o un nulla, ma piuttosto una possibilità, una scelta motivata e condizionata. Questa scelta, di cui l’homo faber è l’autore, e la causalità non può essere addossata all’ens faber, è limitata in un senso delle possibilità oggettive, cioè dai modelli disponibili e dall’esperienza. La situazione qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata sempre e comunque dall’ens faber. La libertà consiste nella possibilità di scelte delimitate da norme stabilite dall’ens faber, di cui però l’homo faber ha la


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possibilità di controllare, in una certa misura, lo stabilimento di queste norme. La libertà è quindi una questione di misura, di condizioni e di limiti entro cui l’homo faber esprime il suo esser-ci70, responsabile e necessario.

70 Heidegger Martin Essere e tempo Torino 1986 Classici della filosofia, pag.236 e ss.


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