Le affinità elettive - Cinema e Videogiochi

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Fraschini Bruno

Le affinità elettive Il linguaggio del cinema nei videogiochi, con un’analisi di Project Zero

Ring www.project-ring.com 24 Maggio 2004 2


Indice Prefazione

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Parte I: Affinità e divergenze tra cinema e videogiochi 1.1 Punti di contatto 1.2 L’enunciazione ludica 1.3 Lo spartito ludico 1.4 Il ruolo attivo del giocatore 1.5 Il giocatore attore 1.6 Recitare fuori dallo schermo 1.7 Il giocatore regista 1.8 Questioni di chiarezza 1.9 Il problema del sistema di controllo 1.10 Da Macross Mission VF-X 2 a Zone Of The Enders 1.11 Angolazioni e inclinazioni 1.12 Problemi di percezione 1.13 Campi e piani 1.14 Obiettivi e altre distorsioni dell’immagine 1.15 Il problema del formato schermico 1.16 Videogiochi tratti da film 1.17 Cinema ovunque

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Parte II: Analisi di Project Zero 2.1 Perché Project Zero?

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2.2 Uso espressivo del bianco e nero 2.3 Rapporto dialettico tra soggettiva ed inquadratura in terza persona 2.4 Una storia di fantasmi 2.5 Il significato di Project Zero

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Conclusioni: Primi passi

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Bibliografia

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Prefazione

Tempi infiniti a guardare le nubi soffici e leggere tempeste che ritardano a scoppiare

(Mara Redeghieri, Canto del vuoto1)

Cinema e videogiochi si attraggono, è sempre stato così. Se è vero che il videogame grazie alla sua natura digitale ha assimilato, e tuttora continua a farlo, codici e linguaggi di altre categorie testuali rubando a fumetti, programmi televisivi e letteratura strategie narrative, retoriche e poetiche, bisogna pur riconoscere che l’influenza esercitata dal cinema sull’industria videoludica è sicuramente la più evidente se non la più rilevante. Perché il mondo dei videogiochi è tanto attratto dal cinema 2? Quali sono i punti di contatto tra film e videogame? In che modo i videogiochi utilizzano il linguaggio cinematografico e che cosa nasce esattamente da questo fortunato connubio? Con questo saggio intendo dare una risposta il più rigorosa possibile a queste ed ad altre domande attinenti. Project Zero, un riuscito survival horror edito da Tecmo nel 2001 3 sarà il testo su cui metterò alla prova gli strumenti di analisi che andrò via via definendo. Fin dalla loro nascita i videogame hanno tentato di assimilare il linguaggio del cinema e sono molti i titoli significativi che sarà impossibile non menzionare, ma ho scelto Project Zero come banco di prova ideale, proprio perché il titolo Tecmo ripropone quasi tutte le innovazioni introdotte da quei videogiochi che in un modo o nell’altro hanno tentato di darsi un aspetto cinematografico. L’opera di Makoto Shibata, tuttavia, non è un semplice compendio di soluzioni adottate da altri videogame; poggiandosi sulle solide basi di ciò che è già stato collaudato con successo (movimenti di macchina, posizionamento delle telecamere, sistemi di controllo adeguati ecc.) può permettersi di spingersi oltre e sperimentare inedite strategie comunicative. Da questo punto di vista Project Zero non è solo un buon gioco o un testo esteticamente interessante ma, per la sua coerenza intrinseca e l’uso consapevole che fa degli elementi assimilati dal cinema, una tappa significativa nell’evoluzione del videogame. Detto questo occorre fare un’importante precisazione: il videogame è in grado di utilizzare il linguaggio cinematografico ma in ultima analisi non diventa mai un vero film. Il fatto stesso che occorra l’intervento attivo di un giocatore per fare avanzare la trama implica numerose conseguenze sia a livello di sceneggiatura, sia di modalità di messa in discorso degli eventi rappresentati. Ciò non significa che esista un qualsiasi rapporto di sudditanza tra cinema e videogame, né tanto meno che i videogiochi siano la “naturale” evoluzione del cinema. Film e 1

Ustmamò, Canto del vuoto, contenuto in Ust 1996, I Dischi del Mulo/Virgin Music Italy, S.r.l, 1996. Sarebbe altrettanto interessante chiedersi anche, perché il cinema sia così fortemente attratto dal mondo dei videogiochi, ma rispondere in modo soddisfacente a questa domanda ci costringerebbe ad aprire un discorso troppo ampio e complesso per essere affrontato in questa sede. 3 Il titolo originale del gioco, edito per la prima volta nel 2001 in Giappone per PS2 e sviluppato da Tecmo, è Rei Zero. In Europa è meglio conosciuto come Project Zero, nel mercato americano è invece stato ribattezzato Fatal Frame. Nel 2002 è stato convertito anche per Xbox. 2

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videogame (così come fumetti, romanzi, programmi televisivi, cartoni animati ecc) sono categorie testuali differenti, ciascuna con la propria dignità artistica che dipende essenzialmente dal valore dell’opera in sé, più che dalla famiglia di appartenenza. Ciascuna di queste categorie si imbastardisce volentieri con le altre ma in fin dei conti un videogioco rimane sempre un videogioco, così come un fumetto resta un fumetto o un film è in ogni caso un film. Gli sconfinamenti eccessivi possono essere controproducenti soprattutto perché il destinatario ultimo della comunicazione, lettore, giocatore o spettatore che sia, è nella maggior parte dei casi un consumatore e, in quanto tale, non ama essere raggirato. Nel campo dei videogiochi ad esempio l’intenzione di realizzare videogame cinematografici ha portato spesso alla nascita di opere contenenti lunghe sequenze non interattive (si pensi ad esempio a Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty di Hideo Kojima). Dato che la possibilità di intervenire in tempo reale su ciò che si sta osservando è la caratteristica fondamentale che differenzia il videogioco da altre categorie testuali, è evidente che il giocatore tollera fino ad un certo punto questa temporanea mancanza di interazione (in realtà questa soglia di intolleranza è molto soggettiva e dipende essenzialmente dal tipo di giocatore che sta interagendo con l’opera). Un videogioco che esclude dall’azione l’utente troppo a lungo sortisce lo stesso effetto di un film in cui sullo schermo non compaiono altro che immagini statiche o di una mostra fotografica in cui vengono esposte solo foto di quadri e disegni. Queste zone di confine possono essere terreni fertili per la sperimentazione (o la provocazione) ma costituiscono anche una sorta di campo minato in cui è estremamente complesso costruire opere di grande valore. Al contrario, quando una categoria testuale coglie da un’altra ciò che può esserle utile ed ha luogo un genuino processo di assimilazione e rielaborazione, allora si possono ottenere risultati sorprendenti: è qui che nasce il videogame cinematografico, qualcosa che, nonostante le apparenze, è più gioco che film. Per quanto Alone In The Dark, Resident Evil, Ico o Project Zero utilizzino inquadrature e movimenti di macchina sempre più elaborati l’effetto che suscitano nel giocatore (essenzialmente paura, tensione e coinvolgimento) è legato in modo indissolubile alla possibilità di interazione concessa dal videogioco. Provate a fare un esperimento: registrate una partita ad uno dei titoli appena menzionati su una videocassetta e mostratela ad amico. L’effetto che susciterete sarà minimo, se non nullo. Le stesse immagini che emozionano il giocatore annoiano lo spettatore e questo perché, quando si partecipa ad un videogame, non si sta semplicemente osservando. Anche se un’elaborata messa in discorso può sembrare l’aspetto cruciale per riuscire a suscitare specifiche emozioni nel giocatore, non è affatto così. Nel videogioco cinematografico è ancora la possibilità di interagire, la componente essenziale, come in qualsiasi videogame. In questo saggio sarà dunque inevitabile analizzare in modo approfondito soprattutto la struttura interattiva che sta alla base di qualsiasi videogioco. Vedremo anche come questa specie di “impalcatura elastica” sia già di per sé portatrice di significato e tenterò di definire degli strumenti teorici in grado di descriverne le possibili declinazioni. I punti di contatto tra cinema e videogame sono molteplici: questi due universi sono entrati in collisione da ormai più di trent’anni. È il momento ideale per analizzare adeguatamente i risultati a cui ha portato questa prolifica contaminazione.

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Parte I

Affinità e divergenze tra cinema e videogiochi

A tratti percepisco tra indistinto brusio particolari in chiaro, di chiara luce splendidi dettagli minimali in primo piano (Giovanni Lindo Ferretti, A tratti4)

1.1 Punti di contatto Videogiochi e film rientrano entrambi nella macrocategoria dei testi audiovisivi. Gli elementi in comune sono evidenti: in entrambi i casi si ha a che fare con immagini in movimento accompagnati da un commento sonoro. Esattamente come in un film, in un videogioco abbiamo un’enunciazione visiva (costituita dalle immagini che compaiono sullo schermo), un’enunciazione linguistica (parole scritte e verbali contenute nel testo) ed un’enunciazione musicale (musica e rumori). Nel videogioco a questi tre livelli di enunciazione ne viene aggiunto un quarto ed essenziale: l’enunciazione ludica. È lecito parlare di enunciazione poiché, nel videogame, la struttura alla base del gioco (la sua matrice) è già di per sé portatrice di senso, ma analizzerò questa cruciale questione successivamente. Così come nel cinema, i quattro livelli principali di enunciazione contenuti nel videogioco sono organizzati da tratti sovrasegmentali quali il ritmo e le tipologie di scansione: scalare (l’alternarsi di campi e piani differenti), cromatica e sonora. Come afferma Provenzano 5 (1999), questi tratti sovrasegmentali possono agire sia autonomamente in ognuno dei quattro livelli enunciativi sia in modo complementare o interdipendente. Tenendo conto che nel videogioco, così come nel cinema siamo nel territorio del linguaggio più che della lingua6 e senza la pretesa di tracciare un elenco esaustivo, possiamo riproporre, con qualche lieve modifica ed aggiunta, la classificazione dei codici operanti nell’audiovisivo proposta da Provenzano. 1. codici cinematografici - codici linguistici: (campi e piani, tipologie di raccordi “grammaticali” e di “sintassi” di montaggio) - codici illuministici e cromatici 4

C.S.I., A tratti, contenuto in Ko’ De Mondo, 1993, Attack Punk/Polygram. Roberto C. Provenzano, Il linguaggio del cinema. Significazione e Retorica, Lupetti – Editori di Comunicazione, Milano, 1999, pp. 32-34. 6 Riassumendo in modo estremamente sintetico ed approssimativo, potremmo sintetizzare che una lingua è un codice fortemente organizzato mentre un linguaggio è un sistema comunicativo meno strutturato. L’argomento è vasto e complesso è non è questa la sede per approfondire la questione, quello che importa è sottolineare che di norma i codici utilizzati nei videogiochi non sono assolutamente stabili dato che, di volta in volta, ciascun autore inventa dove necessario, nuovi simboli, inedite regole combinatorie e differenti corrispondenze tra simboli e significati secondo l’effetto che desidera ottenere. Sull’argomento vedi anche Robert Stam, Robert Burgoyne, Sandy Flitterman-Lewis, New vocabularies in film semiotics. Structuralism Post-Structuralism and beyond, 1992; trad. it. Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano, 1999, pp.49-53. 5

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codici di composizione dell’immagine

2. codici narrativi Sono codici che non riguardano solo il cinema, bensì la fiction in generale. La narrativa è, infatti, un codice transemiotico che agisce anche in altri ambiti comunicativi: letteratura, poesia, teatro, fumetti, pittura classica, ecc. 3. codici di genere Sono codici di vario tipo (linguistici, narrativi, spaziali, musicali, ritmici, ecc.) non singolari, né sistematici del singolo videogioco che riguardano lo schema di organizzazione sia delle forme sia dei contenuti di un “corpus” di titoli assimilabili l’uno all’altro per la presenza di caratteristiche comuni. 4. codici filmici Sono codici tipici del singolo testo e codici mediati da altri linguaggi (musica, costumi, scenografia, ecc.) 5. codici ludici Sono i codici riguardanti l’organizzazione delle regole del gioco cui l’utente è invitato a partecipare. In pratica si tratta di quegli elementi distintivi che sono comunemente utilizzati dalle riviste di settore per classificare i videogiochi in generi. È subito evidente la complessità intrinseca di un testo che, come il videogioco, utilizza contemporaneamente un numero così ampio e variegato di codici differenti. Analizzando i videogiochi dell’era simbolica7 (Bittanti, 1999) ci si trova di fronte a testi relativamente semplici, ma si deve costatare che moltissime opere contemporanee sono estremamente elaborate e la tendenza è verso una sempre maggior sofisticatezza e consapevolezza nell’uso dei codici adottati. Non è questa la sede per descrivere in modo più esauriente i codici cinematografici, narrativi, di genere e filmici, vale la pena invece spendere qualche parola in più per chiarire con qualche esempio la definizione di codice ludico. Nel senso più ampio del termine, un codice è un sistema di elementi che possono essere combinati tra loro per costruire un testo in grado di trasmettere un significato. Un codice ludico è l’elenco degli ingredienti essenziali che costituiscono la struttura di un videogame. La presenza o l’assenza di questi “elementi primari” è alla base della classificazione empirica adottata dalle riviste di settore. Come ben sa chi si occupa di videogame, per la notevole instabilità e la grandissima varietà dell’insieme osservato, è molto difficile stabilire una classificazione esauriente dei videogiochi che sia anche duratura nel tempo. Anche se certe definizioni resistono (shoot’em up, beat’em up, adventure, platform game, puzzle game, war game, ecc.) molte riviste di settore avvertono la difficoltà intrinseca alla base di una classificazione stabile e definitiva. In alcuni casi si è giunti addirittura alla soluzione “drastica” di non catalogare più i videogiochi in base al genere di appartenenza, ma di descriverli sinteticamente individuando famiglie di elementi in comune; quasi dei minimi comuni denominatori. È il caso ad esempio di PSM (rivista edita da Future Media Italy, direttore responsabile Andrea Minini Saldini, Deputy Editor Gianluca Loggia), che ha individuato 15 icone per riassumere gli elementi fondamentali che possono essere presenti o

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Sull’argomento vedi Matteo, Bittanti, L’innovazione tecnoludica – L’era dei videogiochi simbolici (1958 – 1984), Jackson Libri, Milano, 1999.

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meno in un gioco. Ecco l’elenco completo, la cui paternità e da reputarsi principalmente a Gianluca Loggia, pubblicato mensilmente sulla rivista a partire dal numero 59 (Natale 2002). Joystick Sistema di controllo immediato e azione a tutto spiano. Chiave Tanta esplorazione di scenari e un sacco d’avventura da vivere. Bandiera a scacchi Corse o altri tipi di gare, in cui si deve arrivare prima degli altri. Dado da sei Protagonisti che accumulano esperienza per rafforzarsi. Mondo a rete Modalità online supportate, se non addirittura fondamentali. Nota musicale La musica è alla base della struttura di gioco. Faccine Modalità multiplayer convincenti per 4 o più giocatori. Pugno Mazzate sui denti, senza saper né leggere né scrivere. Omino che salta La presenza di piattaforme rende necessari dei salti più precisi. Pezzo di puzzle La risoluzione degli enigmi è componente importante. Ingranaggi Complessità nel sistema di controllo e nelle situazioni di gioco. Pistola Sparatorie, mitragliate e scambi di proiettili. Di tutti i tipi. Cerchi olimpici Lo sport è l’essenza che anima gli eventi offerti. Cavallo degli scacchi Elementi strategici e gestionali giocano un ruolo importante. Volante Guida di un veicolo, non necessariamente in modo agonistico.

Il gergo colloquiale è dovuto essenzialmente al fatto che il target di riferimento della rivista è molto giovane, ma a tutti gli effetti gli “elementi di gioco” di PSM costituiscono un codice ludico, in grado di descrivere in modo sintetico la struttura profonda di un qualsiasi videogame 8 e 8

In effetti, il codice ludico di PSM è stato pensato per descrivere per lo più i videogiochi per console e in particolare i titoli per PS2. Per questo motivo non sono presenti “elementi di gioco” che servirebbero a descrivere con più rigore titoli del passato, particolari coin-op o videogiochi per PC, d'altronde, questo breve elenco non è stato creato con questa intenzione.

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soprattutto di riuscire a marcare le differenze tra titoli apparentemente simili ma in realtà molto differenti. Si pensi ad esempio a Burnout, Gran Turismo o Driver. In tutti e tre i casi l’utente si trova alla guida di un’automobile, ma utilizzando gli “elementi di gioco” di PSM è possibile descriverne in modo più accurato l’essenza. In Burnout e Gran Turismo si corre per vincere una gara di velocità ma i due giochi propongono sistemi di controllo diametralmente opposti votati ora all’immediatezza ora alla complessità e al realismo; Driver invece racconta una storia e, benché sia necessario saper guidare agilmente, ciò che conta è portare a terminare alcune missioni: tamponare un avversario, sfuggire agli inseguitori, terrorizzare il proprio passeggero ecc. Sicuramente questo elenco di “ingredienti” potrebbe essere ulteriormente sofisticato per rendere conto di altre differenze più o meno significative; ad esempio si potrebbe aggiungere l’elemento “Collezione”, presente in tutti quei giochi in cui il senso del gioco consiste anche nel riuscire a “possedere” l’insieme completo di una serie di oggetti (automobili nel caso di Gran Turismo, costumi da bagno in Dead or Alive Xtreme Beach Volleyball, spade in Way of the Samurai, creature nel caso di Pokemon). Ciò dipende essenzialmente da una caratteristica propria dei codici ludici. Un codice ludico è un codice debole9 poiché è soggetto a continui “neologismi” e cambiamenti. Lo sforzo degli sviluppatori di videogiochi, almeno nelle intenzioni, è costantemente teso verso l’innovazione. Essi tentano continuamente di creare nuovi elementi di gioco o di combinare quelli già esistenti in modo inedito. Anche se la maggior parte dei titoli non sono un granché originali, l’universo dei videogiochi è in costante e rapida evoluzione. Si pensi ad esempio ad un titolo come Seaman, una sorta di tamagochi per adulti in cui il proprio televisore viene trasformato in un acquario virtuale e bisogna prendersi cura di una animale parlante dandogli da mangiare quotidianamente e sviluppandone l’intelligenza artificiale parlandogli assieme. Il giocatore utilizza la propria voce per comunicare con questa creatura che giorno dopo giorno evolve dallo stato di girino a quello di pesce ed infine di anfibio (in ogni caso la creatura ha un volto umano) 10. Seaman è un titolo ibrido, difficile da classificare la cui “ricetta” prevede “ingredienti” inediti (interfaccia vocale, imposizione al giocatore di un certo ritmo di gioco11, ecc). Il caso di questo simulatore di essere vivente non è isolato, i codici ludici sono costantemente “minacciati” da una continua evoluzione. È importante riconoscere che quello adottato da PSM non è l’unico codice ludico possibile. In “Videogiochi e New Media”12, quando applicando i principi classificatori di Roger Caillois (1967) al variegato universo dei videogame individuo tre tipi di competizione differente (reale, immediata e illusoria) 13 e quattro categorie di protesi digitale (trasparente, veicolo, maschera, 9

I codici forti (ad esempio i codici logici) sono basati su regole fisse e determinate, come ad esempio quelle della matematica, sono immutabili nel tempo e facilmente riconoscibili. I codici deboli (ad esempio codici estetici e codici linguistici), invece, si fondano su regole normative che dipendono dall’accordo di chi le usa e possono mutare nel tempo. 10 Un videogioco simile è N.U.D.E. @ Natural Ultimate Digital Experiment, un titolo per Xbox edito nel 2003 in Giappone in cui bisogna sviluppare l’intelligenza artificiale di una ragazza robot parlandole mediante un microfono. 11 Seaman impone all’utente di giocare ogni giorno per almeno un quarto d’ora per tutta la durata di una partita (21 giorni reali). Dato che il titolo è una simulazione di un essere vivente occorre giocare quotidianamente per “dargli da mangiare”, “pulire la vasca”, e “controllare la temperatura dell’acqua” altrimenti se ne causa il decesso. In realtà il gioco non procede quando la console è spenta; ogni volta che l’utente riprende la partita, il programma legge il calendario e l’orologio della macchina (una funzione che procede anche quando l’hardware è spento ma comunque collegato ad una presa elettrica), calcola quanto tempo è trascorso dall’ultima partita e mostra sul video le conseguenze del caso. 12 Bruno Fraschini, “Videogiochi e New Media”, saggio contenuto in: Matteo Bittanti (a cura di), Per una Cultura dei Videogames, Milano, Unicopli, 2002, pp. 89-125. 13 Qualche esempio per riassumere brevemente la questione: si ha una competizione reale quando il videogame è solo un campo da gioco in cui due concorrenti si affrontano (es. un partita a due giocatori in Virtua Fighter 4); si ha una competizione mediata quando esiste una sfida reale tra il creatore del gioco e l’utente ma il game designer ha già

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personaggio)14 traccio a tutti gli effetti dei paradigmi che fanno parte di un codice ludico il cui grado di astrazione è semplicemente più elevato di quello adottato da PSM.

“giocato in anticipo tutte le sue mosse” (es. Kula World o un qualsiasi simulatore di scacchi); si ha infine una competizione illusoria quando l’obiettivo del gioco non è quello di sfidare realmente il giocatore, il che accade nella maggior parte dei videogiochi dotati di una trama, titoli programmati in modo tale da permettere alla maggior parte dei giocatori di seguire la storia dall’inizio alla fine (ad esempio Final Fantasy VII). 14 Una protesi digitale è tutto ciò che permette al giocatore di interagire con il mondo virtuale contenuto nel videogioco. La protesi digitale trasparente non altera in nessun modo l’identità dell’utente (es. il puntatore del mouse in un simulatore di scacchi) più o meno come la protesi digitale veicolo (es. le automobili di Gran Turismo). La protesi digitale maschera altera totalmente l’identità del giocatore (es. il soldato protagonista di Medal Of Honor) mentre la protesi digitale personaggio è così definita che assume una propria autonomia e si pone ad una certa distanza dall’utente, al punto che il giocatore oscilla per tutta la durata della partita tra un sentimento di partecipazione verso ciò che vede e un’autentica identificazione (es. Solid Snake in Metal Gear Solid). In questo caso il giocatore non comanda la protesi digitale, ma “collabora” con essa.

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1.2 L’enunciazione ludica Precedentemente ho affermato che è lecito parlare di enunciazione ludica poiché, nel videogame, la struttura alla base del gioco è già di per sé portatrice di senso. Ciò significa che la matrice di un videogame, formata dalle sue regole costitutive essenziali, è in grado di comunicare un significato al di là della forma specifica con cui questa struttura viene poi visualizzata. Qualche esempio può essere molto utile per chiarire il concetto. Prendiamo due celebri titoli del passato composti più o meno dagli stessi “elementi di gioco”: Rygar e Rastan, in ambedue i casi, il giocatore indossa i panni di un guerriero che deve avanzare lungo una serie di livelli uccidendo i propri nemici per raggiungere ed infine eliminare il mostro che minaccia il proprio popolo. I titoli dei due videogiochi derivano dai nomi protagonisti. Entrambi i titoli propongono una visuale laterale e uno scrolling multidirezionale prevalentemente da destra verso sinistra (dunque il protagonista cammina verso destra). Nonostante le evidenti similitudini, i due coin-op suscitano nel giocatore sensazioni radicalmente differenti. Ciò non è dovuto al fatto che i due giochi rimandano visivamente ad immaginari differenti (Rastan è la trasposizione ludica di Conan il barbaro mentre Rygar inventa un mondo originale dotato di un proprio bestiario, collocato in una non meglio precisata era antica) ma, essenzialmente, alla diversa calibrazione degli “ingredienti” alla base della matrice di gioco.

Rastan (a sinistra) e Rygar (a destra); due esempi di enunciazione ludica differente (M.A.M.E.).

In Rastan il protagonista cammina lentamente (così come la maggior parte degli avversari), non può effettuare salti molto alti e combatte prevalentemente con armi da mischia (una spada, un’ascia o una mazza ferrata) 15. L’eroe della vicenda può subire numerosi colpi prima di morire e può effettuare una mossa particolarmente potente lasciandosi cadere dall’alto e puntando la spada verso il basso. L’incredibile epicità che contraddistingue Rastan è dovuta essenzialmente alla combinazione di tutti gli elementi che fanno parte della struttura di gioco. Ovviamente anche l’enunciazione visiva (il protagonista assomiglia effettivamente a Conan il barbaro) e l’enunciazione musicale (un musica maestosa ispirata ai film di genere) contribuiscono a creare l’effetto, ma ciò che conta è che il contributo dell’enunciazione ludica è essenziale. Mantenendo più o meno gli stessi elementi costitutivi, ma variandone la calibrazione si può ottenere un risultato completamente differente. In Rygar l’azione di gioco è frenetica, il 15

La quarta arma disponibile è una spada magica che può scagliare palle infuocate e colpire sulla lunga distanza. Sono inoltre presenti vari tipi di oggetti magici che possono aumentare la resistenza del guerriero, la sua rapidità nello sferrare fendenti ecc.

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protagonista è agile ed è in grado di spiccare salti molto alti, ma basta subire un singolo attacco per morire. L’eroe questa volta è dotato di un’arma efficace sulla lunga distanza, una specie di scudo da lancio legato al braccio del protagonista mediante una catena. Il guerriero può scagliare l’arma in due modi differenti e può stordire momentaneamente i suoi nemici saltandogli sopra16. In una partita a Rygar l’utente deve giocare in modo completamente differente rispetto a Rastan. Se nel mondo ispirato a Conan il barbaro è tutto possente e “pesante”, nell’universo di Rygar ogni singolo aspetto è votato alla rapidità di esecuzione e all’agilità. La struttura di gioco di Rygar comunica che il protagonista della vicenda, con cui il giocatore è portato ad immedesimarsi, è un guerriero completamente diverso dal barbaro; Rygar e Rastan sono due combattenti diametralmente opposti: uno è lento e resistente, l’altro è agile ma basta un colpo per ucciderlo. In entrambi i casi è la struttura profonda del gioco a creare nel giocatore le sensazione sensazioni desiderate, a comunicare il significato voluto. Rastan e Rygar propongono protagonisti graficamente differenti (il primo ha il fisico di un culturista, il secondo di una ginnasta) e commenti musicali opposti (l’accompagnamento di Rastan è lento e maestoso mentre in Rygar il ritmo è concitato) ma, in ultima analisi, l’enunciazione visiva e l’enunciazione musicale si limitano a rafforzare l’effetto suscitato dall’enunciazione ludica. La riuscita di un videogioco dipende in modo essenziale dalla sua matrice, dalla scelta degli elementi costitutivi e dalla loro esatta calibrazione. L’effetto suscitato da un videogioco (e di conseguenza il successo o il fallimento di un titolo) dipende in modo essenziale dall’enunciazione ludica sottesa ad una certa opera. Gli esempi di ottime enunciazioni ludiche sono molteplici nella storia dei videogiochi ma per approfondire ulteriormente il concetto vale la pena soffermarci su un caso in particolare: Chiller. Il coin-op Exidy, nonostante gli evidenti limiti grafici e sonori, riesce ancora oggi a suscitare nel giocatore un’affascinante sensazione di disagio. È la dimostrazione lampante che l’enunciazione ludica può essere abbastanza potente da riuscire a raggiungere l’effetto desiderato anche quando l’enunciazione visuale e musicale è piuttosto limitata. Chiller è un gioco senza trama e senza protagonista in cui il compito del giocatore è di torturare dei prigionieri e delle creature mostruose. L’interfaccia di gioco è un una pistola ottica (in realtà un fucile) con cui l’utente spara contro una schermata statica rappresentante uno dei cinque livelli del gioco.

In Chiller è principalmente l’enunciazione ludica a comunicare al giocatore un senso di disgusto (M.A.M.E.).

In ogni schermata (di volta in volta una sala delle torture, le segrete di un castello, un cimitero e così via) ci sono degli uomini che non possono né difendersi né attaccare il giocatore. Per 16

Se è in possesso dell’apposito potenziamento, saltandoci sopra, il protagonista può uccidere i propri avversari anziché stordirli.

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passare alla schermata successiva occorre colpire abbastanza bersagli entro il tempo limite; per accedere al quinto livello bisogna centrare specifici obiettivi. Nonostante grafica e sonoro siano decisamente datati, Chiller riesce a comunicare in modo efficacissimo disgusto e raccapriccio, persino al giocatore contemporaneo, nonostante esso sia ormai abituato a immagini ben più crude e realistiche. Ciò perché l’effetto di disagio che crea, dipende essenzialmente dalla struttura alla base del gioco e non dalla qualità effettiva delle immagini o degli effetti sonori. L’efficacia comunicativa di Chiller dipende in primo luogo dal fatto che, nel gioco, viene utilizzata una protesi digitale trasparente. In moltissimi videogame l’utente è invitato a compiere azioni violente, riprovevoli e moralmente discutibili ma quasi in ogni caso il gioco fornisce una motivazione (si devono uccidere i nemici perché sono cattivi, per salvare un popolo, per autodifesa, per vendetta ecc.) e soprattutto concede al giocatore un identità fittizia da indossare per compiere queste azioni. Anche in un gioco immorale come Grand Theft Auto 3, in effetti, esiste una personalità fittizia, il protagonista del gioco, su cui il giocatore può “scaricare” in parte la responsabilità delle proprie azioni virtuali17. Chiller, al contrario, non offre nessun tipo di scusante o di alibi al giocatore: non c’è nessuna missione da compiere, non c’è né un protagonista con cui collaborare, né una maschera da indossare. L’identità dell’utente non viene alterata in nessun modo, la responsabilità delle azioni che il giocatore compie durante la partita (essenzialmente torturare prigionieri indifesi) è tutta riversata sul giocatore stesso. È da questo processo che nasce l’affascinate disgusto che Chiller è in grado di creare. Non è questa la sede per discutere se sia moralmente lecito suscitare una tale sensazione 18 nel giocatore, ciò che preme è mostrare che un tale risultato è generato dalla struttura essenziale del gioco, dalle sue regole costituenti e non dalla qualità più o meno elevata di grafica e sonoro.

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Le implicazioni e i meccanismi alla base di un titolo come Grand Theft Auto 3 sarebbero interessantissime da analizzare ma sfortunatamente non può essere questa la sede di una tale analisi. 18 Se i videogiochi moralmente riprovevoli siano diseducativi o catartici è una questione molto interessante da studiare, ma l’argomento è troppo importante e controverso per essere banalizzato in poche righe.

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1.3 Lo spartito ludico L’enunciazione ludica può essere organizzata in modi differenti. È il caso di definire un nuovo strumento teorico per descrivere in modo più appropriato la struttura profonda di un videogioco. Si tende spesso, parlando in modo superficiale di videogame, a definirli dei semplici giochi di riflessi. Tale definizione è estremamente riduttiva, quando non apertamente dispregiativa. In effetti nel macrogenere dei giochi d’azione all’utente è richiesta una certa rapidità di reazione ma la struttura profonda alla base di un titolo non è riassumibile in un insieme di ripetuti processi stimolo/risposta. Nella maggior parte dei casi, “saper giocare” è essenzialmente una questione di ritmo. Le azioni che l’utente può eseguire all’interno del mondo simulato dal computer hanno una durata ben precisa, ciò comporta che, una volta impartito un certo comando, la protesi digitale è impegnata per un determinato periodo nella sua esecuzione. Dato che, in generale, nell’universo simulato di un videogioco sono presenti altre entità, è necessario che l’utente agisca in sincrono con tali “attori” o comunque che tenga conto dei loro schemi di comportamento. Nel caso dei platform game, ad esempio, si ha a che fare con un protagonista che può saltare. Il salto ha generalmente una durata ben precisa e il giocatore riesce ad agire correttamente all’interno del mondo simulato solo quando assimila tale caratteristica di questa azione e riesce ad agire in modo sincronizzato di fronte a piattaforme mobili, nemici o trappole di vario genere. Il termine di spartito ludico deriva appunto dalla funzione essenziale che ha il ritmo in un gioco d’azione. Il giocatore si trova nella stessa situazione di un musicista di fronte ad uno spartito. Gli attori (nemici o amici che siano) entrando in scena rispettando questa struttura e il giocatore è “costretto” a giocare interpretandola in modo corretto e sincronizzandosi con le altre “parti”. È importante distinguere tra spartiti ludici deboli e forti. I primi sono presenti in quei titoli che lasciano al giocatore una notevole libertà di improvvisazione, i secondi obbligano il giocatore ad eseguire una parte ben precisa. Chiariamo la differenza con due esempi significativi. Lo spartito ludico di Rainbow Islands è debole poiché, per terminare ogni livello, non è necessario eseguire un’unica sequenza di mosse predeterminate. Rainbow Islands è un ottimo platform game19 in cui si guida un bambino paffuto in grado di lanciare arcobaleni. Il coin-op prevede uno scrolling verticale dall’alto verso il basso; il protagonista si muove prevalentemente verso l’alto e deve raggiungere la sommità del livello camminando sui propri arcobaleni, saltando su alcune piattaforme ed eliminando una serie di nemici. Gli avversari che il protagonista incontra lungo il suo cammino compaiono ad ogni partita negli stessi punti ma non si muovono lungo una traiettoria definita, possiedono invece elementari schemi di comportamento (ed esempio, i pipistrelli stanno fermi per circa un secondo, percorrono una breve distanza verso il giocatore, si fermano di nuovo e così via). Ne consegue che in Rainbow Islands il giocatore si trova in situazioni sempre nuove nonostante lo spartito sia decisamente strutturato. Per raggiungere la sommità del livello non esiste un percorso prestabilito, l’utente deve sincronizzare i propri movimenti con quelli degli avversari ma gli è concessa una notevole libertà di improvvisazione.

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Volendo essere più esatti bisognerebbe parlare di climbing game, il genere da cui sono successivamente derivati i platform.

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A sinistra Rainbow Island, un esempio di spartito ludico debole; a destra Toki, uno spartito ludico forte (M.A.M.E.).

Al contrario Toki, un altro platform molto apprezzato, impone sequenze di mosse ben precise. Per superare le trappole che lo scimmiotto protagonista incontra sul suo cammino esiste in genere una concatenazione ben precisa di salti, spostamenti ed attacchi. In Toki l’utente è obbligato ad eseguire solo determinate mosse, lo spazio per l’improvvisazione è quasi nullo. Il fatto che uno spartito ludico sia debole o forte non è in alcun modo legato con il suo valore. Nonostante l’enunciazione ludica sia organizzata in modo diametralmente opposto, nei due casi cui abbiamo appena fatto riferimento siamo di fronte ad ottimi videogiochi. Utilizzare uno spartito ludico forte o debole porta a risultati espressivi differenti e in molti casi può rinforzare l’effetto che un videogioco vuole creare. Shinobi ad esempio, possiede uno spartito ludico piuttosto forte, la qual cosa è abbastanza coerente con il fatto che il protagonista dell’avventura sia un ninja. Il fatto che, in questo caso, l’improvvisazione concessa al giocatore sia ridotta al minimo rafforza il processo di identificazione con il personaggio principale che, in quanto guerriero ninja, “deve” combattere in modo “elegante”, agire senza esitazione ed eseguire solo le mosse necessarie per raggiungere i propri obiettivi20. Il già citato Rygar, il cui spartito musicale è, al contrario, alquanto debole, suscita nel giocatore un effetto profondamente differente. Il giocatore si trova a dover gestire in tempo reale un sistema dinamico nel quale è fondamentale sincronizzarsi con i movimenti dei propri avversari ma in cui non è praticamente mai possibile individuare una sequenza definita di movimenti. Semmai si può adottare una tattica generale o uno schema di comportamento, ma per riuscire a completare il gioco occorre sapersi adattare rapidamente alle situazione specifica in cui ci si trova coinvolti. Una tale impostazione dello spartito ludico è pienamente coerente con gli elementi di gioco che costituiscono la sua struttura di base: l’effetto suscitato nel giocatore deriva da entrambi questi aspetti. Il caso di Rygar ci serve come esempio per un ulteriore precisazione. Lo spartito ludico, forte o debole che sia, può essere più o meno strutturato. Se nell’area di gioco gli attori (amici o nemici che siano) compaiono sempre negli stessi punti siamo di fronte ad uno spartito ludico strutturato, se la loro comparsa è invece casuale lo spartito ludico è non strutturato. Torniamo agli esempi precedenti: Rainbow Islands, Toki, Shinobi e Rastan possiedono uno spartito ludico strutturato (debole del primo caso e forte in tutti gli altri); Rygar, essendo un gioco in cui parte degli avversari compaiono in modo casuale è contraddistinto da uno spartito ludico non strutturato (e debole come abbiamo precedentemente evidenziato). Allo stesso modo Tempest, Tetris o Puzzle Bobble possiedono uno spartito ludico non strutturato (in tutti e tre i casi debole) 20

Per un’interessante analisi della rappresentazione dei Ninja nei videogames vedi Emalord, Acciaio è il colore della notte. Ninja Master, Ring n. 3, pp. 12-16.

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poiché i “problemi” proposti dal gioco hanno una forte componente casuale. La domanda sorge spontanea: esistono videogiochi in cui lo spartito ludico è non strutturato ma forte? Ovviamente sì, anche se una tale opzione non è molto diffusa per ovvi problemi di complessità nella progettazione di un titolo con tali caratteristiche. In pratica si tratta di creare un videogame in grado di inventare dei problemi che prevedano un’unica soluzione. Per trovare un videogioco di questo tipo dobbiamo risalire ai primordi della storia videoludica: il gioco si chiama Amazing Maze ed è del 1976. Nel titolo Midway bisogna condurre un cursore da una capo all’altro di un labirinto generato casualmente. Esiste una solo percorso verso l’uscita e bisogna raggiungerlo prima del proprio avversario, che può essere un altro giocatore o un cursore guidato dal computer che percorre lentamente il labirinto nel senso opposto ma senza mai sbagliare.

A sinistra Amazing Maze, un esempio di spartito ludico non strutturato; a destra Shinobi, uno spartito ludico strutturato (M.A.M.E.).

La tendenza odierna sembra quella di creare spartiti ludici sempre più deboli (si pensi ad esempio a Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty) perché ciò rende il mondo simulato più verosimile, ma tuttora vengono creati titoli che sottintendono spartiti ludici in ogni possibile declinazione (basti pensare ai rhythm game moderni come Parappa The Rappa o Guitar Freaks il cui spartito ludico è strutturato e molto forte). Un’ultima precisazione, lo spartito ludico è uno strumento che può essere utile soprattutto per analizzare i giochi d’azione (soprattutto il grado di libertà concesso al giocatore e il ritmo di gioco) ma si può individuare anche in altre categorie di videogame. In questi casi, molto spesso, ci si trova di fronte a situazioni particolari, al punto che come strumento di analisi perde quasi totalmente la sua utilità. In un gioco gestionale come Jurassic Park: Operation Genesis, all’inizio di ogni nuova partita il giocatore si trova di fronte ad uno spartito prevalentemente non ancora scritto (esiste un’isola, si ha l’obiettivo di creare e portare al successo il celebre parco di dinosauri, il tempo meteorologico muta in modo autonomo). Lo spartito ludico prende forma man mano che il giocatore interviene nel gioco costruendo attrazioni, generando dinosauri ecc. È dunque l’utente stesso che si trova a dover improvvisare sullo spartito che man mano va a comporre. Il giocatore è dunque invitato a non creare spartiti impossibili da eseguire, problemi a cui non esistono soluzioni, strategie che portano verso un vicolo cieco. Invece, nei giochi strategici a turni (si pensi ad esempio allo splendido Front Mission 3), siamo nella curiosa situazione di uno spartito ludico la cui esecuzione viene continuamente sospesa e rimane tale fino a quando il giocatore non sceglie di farla avanzare. Sia in Jurassic Park: Operation Genesis, sia in Front Mission 3, siamo di fronte a casi particolari in cui uno strumento di analisi come lo spartito ludico rischia di perdere la sua efficacia. Nel primo caso 16


ci si trova a fare i conti con un ritmo di gioco molto blando mentre nel secondo caso non ha quasi senso parlare di ritmo perché il flusso del tempo all’interno del gioco non scorre in modo continuo. Lo spartito ludico è adatto a descrivere in modo sintetico i giochi d’azione individuando tratti distintivi comuni anche tra titoli apparentemente molto differenti: questo strumento d’analisi può non solo descrivere il grado di improvvisazione concesso al giocatore, ma anche rendere conto del ritmo di un videogame. La frequenza con la quale l’utente viene chiamato ad intervenire all’interno della simulazione, dipende dallo partitura dello spartito ludico e in ultima analisi determina il cosiddetto ritmo di gioco. La frenesia che contraddistingue un videogioco non dipende quindi dalla rapidità con cui le immagini o i suoni mutano durante una partita, ma dalla frequenza con cui il giocatore deve interagire con il videogame. In genere, per sommare i due effetti, un ritmo di gioco sostenuto è associato ad un’enunciazione visiva e musicale concitata ma non è sempre così. Si pensi ad esempio a Tetris in cui il ritmo di gioco diventa in breve estremamente frenetico ma le immagini e i suoni del gioco sono molto elementari e “tranquille”; al contrario un gioco come Surveillance Kanshisha (un’interessante simulazione di sistema di sorveglianza in cui il giocatore deve esaminare contemporaneamente fino a sei filmati contemporaneamente) propone una certa vivacità nella messinscena nonostante all’utente sia richiesto di intervenire piuttosto raramente 21. Il nodo del problema è sempre il solito: esiste una tendenza generale ma ogni autore di videogame è autorizzato a ricombinare in modo inedito gli elementi che ha a disposizione per suscitare l’effetto desiderato.

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In questo gioco l’utente indossa i panni di un membro di una squadra speciale il cui ruolo è aiutare i propri compagni analizzando le riprese di una serie di telecamere a circuito chiuso. Osservando le immagini sui visori, il protagonista dovrà avvertire gli agenti in azione di eventuali minacce prima che essi siano vittime di trappole ed agguati. Su Surveillance vedi anche Cristiano “Amano 76” Ghighi, Due grandi occhi a mandorla. Surveillance, Ring n.5, pp. 40-42

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1.4 Il ruolo attivo del giocatore La differenza essenziale tra un videogame e un film è che il videogioco richiede il consapevole intervento del giocatore. È un dato di fatto la cui ovvietà nasconde implicazioni estremamente interessanti. Il lungometraggio cinematografico è paragonabile ad un monologo in cui un mittente comunica un messaggio ad un destinatario passivo 22; il videogioco, al contrario, assomiglia più ad un dialogo in cui il testo si costruisce durante la partita man mano che il giocatore reagisce alle situazioni proposte. Facciamo un passo indietro e torniamo per un attimo ai testi non interattivi (libri, fumetti, audiovisivi “tradizionali”, brani musicali, quadri, sculture, ecc.). Umberto Eco (1979) individua quattro figure chiave presenti in qualunque categoria di testo: l’autore modello (la strategia testuale presente nell’opera), da non confondere con l’autore empirico (chi materialmente crea l’opera 23) e il lettore modello (il destinatario ideale della processo di comunicazione messo in atto dall’autore), anch’esso da non confondere con il lettore empirico (chiunque interpreti effettivamente l’opera per estrarne il significato). Questi strumenti di analisi devono essere leggermente sofisticati per essere applicati nello studio di un testo altamente interattivo qual è il videogioco. Massimo Maietti effettua una tale “messa a punto” dei concetti di Eco scindendo l’autore modello in due ruoli: “il Creatore Modello (che è un ruolo assegnato dal testo, ma che superficialmente si può ricondurre all’insieme delle competenze dell’autore dell’ipertesto) e il Giocatore Modello (che avrebbe come referente ideale il fruitore).”24 Per dare una visone di insieme più chiara riportiamo una versione lievemente modificata ed ampliata dello schema proposto da Maietti: Testo Videogioco Videogioco

Autore Modello Creatore Modello Creatore Empirico

Giocatore Modello Giocatore Empirico

Lettore Modello Lettore Modello

A livello teorico, nel videogioco abbiamo dunque un creatore modello che “chiede” ad un giocatore modello di “collaborare” affinché il testo possa essere completato o, per essere più rigorosi attualizzato. Senza l’intervento attivo e consapevole del giocatore il videogioco esiste solo allo stato potenziale: è solo una matrice di regole, una sorta di “creatura” senza forma. Non appena il giocatore empirico agisce all’interno della simulazione il testo assume una forma definita. È importante sottolineare il fatto che il giocatore a tutti gli effetti diventa un coautore dell’audiovisivo di cui è contemporaneamente anche spettatore 25. Questa coautorialità si manifesta essenzialmente in due modi: il giocatore può essere attore nel testo o regista dell’audiovisivo o meglio, in ormai moltissimi casi, le due cose contemporaneamente.

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La passività dello spettatore cinematografico non è da intendersi in modo assoluto, egli, infatti, è chiamato ad interpretare il testo, attività tutt’altro che passiva. Rimandiamo a testi specifici per approfondire in modo esauriente l’argomento. 23 Può trattarsi anche di un gruppo di persone, come accade, di consueto nel cinema. 24 Maietti Massimo, I videogiochi come ipertesti sincretici, Tesina di teorie e tecniche della comunicazione di massa, corso tenuto dal Prof. Roberto Grandi, Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, 1999. 25 Per completare il quadro in modo rigoroso bisognerebbe considerare che, una volta attualizzato dall’intervento del giocatore, il videogame diventa un audiovisivo non interattivo per eventuali spettatori non giocanti, dunque un testo “comune” nel quale sono rintracciabili le quattro figure individuate da Eco.

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1.5 Il giocatore attore In tutti i videogiochi si ha, la possibilità più o meno ampia di effettuare una sorta di recitazione. Ciò dipende direttamente dalla facoltà concessa al giocatore di controllare le azioni di un simulacro digitale. Nella maggior parte dei casi non si tratta che di una possibilità molto limitata, una forma di recitazione “primitiva”, potremmo quasi dire “allo stato embrionale”, ma ciò non toglie che il giocatore empirico, sfruttando questa “libertà condizionata”, abbia la possibilità di attualizzare testi differenti interagendo con il medesimo videogame ed, in ultima analisi, di esprimersi e comunicare un messaggio. Per dimostrare che in qualsiasi videogame è possibile recitare, analizziamo un caso limite: Arkanoid. Il celebre coin-op Taito non concede una grande libertà di azione al giocatore; nel suddetto titolo, l’utente controlla mediante un paddle una “racchetta” posta orizzontalmente nella parte inferiore dello schermo. Scopo del gioco è abbattere tutti i “mattoni” presenti in ciascuna schermata facendogli rimbalzare contro una pallina. Ogni volta che il giocatore non riesce a respingere la palla con la propria racchetta perde una vita. Sono presenti vari tipi di bonus che possono facilitare il compito dell’utente. Dato che, in Arkanoid il giocatore può agire in modo estremamente limitato (la “racchetta” può essere mossa solo sull’asse orizzontale), sembrerebbe non esserci il minimo spazio per concedere al giocatore empirico di esprimere alcunché, ma non è esattamente così. Dato che il controllo è analogico, il giocatore può adottare stili di gioco differenti, ad esempio, mantenendo sempre la protesi digitale allineata verticalmente con la pallina o, al contrario, muovendosi solo all’ultimo istante rapidissimamente per portarsi sotto di essa. Nel primo caso l’utente gioca in modo prudente, nel secondo dimostra di saper padroneggiare tanto bene il sistema di controllo che si può permettere un comportamento più spavaldo. È una possibilità presente in qualsiasi videogioco e nella prassi viene comunemente sfruttata. Le partite dei singoli giocatori comunicano stili di gioco differenti. Ovviamente la libertà di recitazione dipende direttamente dal tipo di spartito ludico sotteso ad uno specifico videogame. Dato che la tendenza generale dei videogiochi moderni è di adottare spartiti ludici deboli, le possibilità di recitazione sono molto più ampie. Gli esempi sono innumerevoli. Si pensi ad esempio a Devil May Cry. Nel gioco d’azione Capcom, il protagonista è libero di uccidere i suoi avversari utilizzando un repertorio di mosse piuttosto ampio. Dante, l’eroe del gioco, può combinare in diversi modi gli attacchi con armi da fuoco e quelli con armi da mischia. Nella maggior parte dei casi, Devil May Cry non costringe il giocatore ad usare una determinata arma per avere la meglio sui propri avversari; l’utente è dunque libero di recitare la propria parte come meglio crede e creare le sequenze di combattimento secondo il proprio gusto. Devil May Cry è un ottimo esempio di videogioco coreografico: un titolo in cui il giocatore ha la possibilità di completare l’audiovisivo di cui è coautore assecondando i propri criteri estetici. Se si vuol parlare di espressione, siamo ovviamente di fronte ad una sorta di monologo del giocatore nei confronti di se stesso. Il giocatore crea un testo volto a soddisfare essenzialmente se stesso. Ben più interessante è il caso in cui questa possibilità di recitazione viene effettivamente sfruttata per comunicare un messaggio ad un altro giocatore. Il fenomeno è presente in qualsiasi videogioco che preveda la possibilità di fare interagire due o più giocatori contemporaneamente (sia in ruolo di antagonisti che in quello di collaboratori) ma è un particolarmente evidente in qualsiasi videogame che preveda una sfida reale tra i giocatori (titoli sportivi, picchiaduro ad incontri ecc.). Spesso i giocatori non ne sono pienamente consapevoli ma, durante la performance ludica, comunicano moltissimo attraverso la propria protesi digitale. Consideriamo ad esempio uno dei capolavori di AM2: Virtua Fighter 4. Mettiamo il caso che un utente molto esperto si trovi ad affrontare un giocatore alle prime armi. Con molta probabilità il giocatore esperto lascerà 19


attaccare il proprio avversario neutralizzando ogni attacco ed eseguendo solo mosse poco pericolose. L’utente professionista può effettivamente “sbeffeggiare” il proprio avversario anche senza scambiare una singola parola con il giocatore empirico. Ovviamente stiamo parlando di una forma di comunicazione estremamente limitata e fortemente condizionata dai vincoli imposti dal creatore del gioco ma ciò non toglie che l’utente sta in qualche modo recitando una parte. In un picchiaduro ad incontri come Virtua Fighter 4, il giocatore, adottando diversi stili di combattimento, può impersonificare diversi ruoli: scegliere di essere un combattente che non concede nulla all’avversario, fingersi inesperto per farsi sottovalutare, schernire il rivale limitandosi a neutralizzare ogni suo assalto e così via.

Qualsiasi videogame permette al giocatore di comunicare qualcosa, persino Arkanoid (M.A.M.E.) o Virtua Fighter 4 (PS2).

Una tale possibilità di recitazione raggiunge il suo apice nei titoli online in cui si è invitati ad assumere un’identità fittizia. Nei giochi in linea si ha la possibilità di interagire in tempo reale con diversi giocatori e comunicare con essi (via chat o tramite la propria voce) ed è piuttosto inevitabile ritrovarsi a recitare un ruolo. Succede in qualsiasi titolo che preveda una tale modalità di gioco ma è particolarmente evidente nei giochi di ruolo di massa come Ultima Online. Quando al giocatore è concessa una totale libertà di recitazione accade un singolare fenomeno. Prendiamo come esempio Phantasy Star Online: i giocatori possono discutere tra di loro di qualsiasi argomento durante le missioni ma, quando i temi trattati sono completamente estranei a quanto sta accadendo nell’universo diegetico (ad esempio si chiacchiera di un altro videogioco, di questioni d’attualità ecc.), l’atmosfera creata dal videogame viene irrimediabilmente compromessa. Per questo motivo alcune comunità di giocatori arrivano ad autodisciplinarsi imponendo delle regole comportamentali a cui il giocatore deve attenersi per mantenere intatta la coerenza dell’universo diegetico in cui si svolge il gioco. L’utente ha in teoria la possibilità di dire ciò che vuole ed agire in qualsiasi modo ma, in realtà, è vincolato dalle norme sociali imposte dal gruppo di cui vuole far parte. Così come un attore a teatro è tenuto a recitare un ruolo, allo stesso modo il giocatore online, in certi casi, è “costretto” a inventarsi un’identità convincente che non intacchi l’integrità del mondo illusorio di cui fa parte. Se creare una certa atmosfera è essenziale per un titolo, si può arrivare addirittura al caso in cui un gioco online impedisce volutamente ai singoli giocatori di discutere liberamente di argomenti fuori luogo. È il caso, ad esempio, di Resident Evil Outbreak. Trattandosi di un survival horror, gli sviluppatori del gioco hanno deciso di limitare la comunicazione tra i giocatori allo stretto 20


indispensabile. Ciascun utente può comunicare con gli altri giocatori solo utilizzando un limitato repertorio di frasi precostituite, scritte dallo sceneggiatore del gioco. In questo modo si impedisce a chiunque di allentare la tensione o eliminare il senso di suspance e inquietudine che il gioco vuole suscitare. Anche rimanendo nell’ambito dei giochi offline, esistono però, titoli che concedono al giocatore una notevole libertà d’azione. Analizziamo tre modi differenti in cui un videogioco può permettere una certa recitazione.

La brevità dell’avventura di Way of the Samurai (PS2) spinge il giocatore a recitare tutti i ruoli possibili.

Il primo caso da prendere in esame è Way of the Samurai 26, un titolo per PS2 molto interessante nonostante sia notevolmente penalizzato da una realizzazione tecnica non eccelsa e da alcune scelte stilistiche decisamente incoerenti. Trattasi di gioco d’azione per un giocatore, in cui l’utente assume il ruolo di un samurai che si trova coinvolto nella lotta tra due clan antagonisti. Uno degli aspetti più accattivanti del gioco consiste nel fatto che al giocatore è concessa una notevole libertà di azione durante l’avventura. Il samurai protagonista incontra diversi personaggi e il modo con cui interagisce con essi determina una diversa conclusione degli eventi. Di fronte a situazioni critiche (una ragazza viene assalita, un vecchio è maltrattato, un altro samurai propone una missione ecc.), l’utente può agire come meglio crede e recitare il ruolo di nobile samurai, così come quello di avventuriero opportunista o di delinquente. Il giocatore deve interagire con gli altri personaggi utilizzando un repertorio di frasi precostituite molto differenti tra loro che, di volta in volta, determinano il “carattere” del samurai protagonista. È persino possibile dialogare durante i combattimenti, insultando il proprio 26

Una struttura narrativa simile è condivisa anche da un altro titolo per PS2 molto interessante: S.O.S The Final Escape, un gioco in cui bisogna riuscire a fuggire da una metropoli devastata da un terremoto. L’avventura sviluppata da Irem permette di interagire in modi differenti con i vari personaggi della storia. Come in Way Of The Samurai, la breve durata del gioco invita a vedere tutti i finali possibili.

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avversario, chiedendo aiuto ad un compagno (un atteggiamento disonorevole per un samurai), arrendendosi e così via. Ciascuno stile di recitazione conduce a finali coerenti con il comportamento del protagonista. Si va dall’epilogo tragico in cui l’epoca dei samurai e con essa il concetto di onore e di lealtà viene cancellato dall’avvento dell’era moderna (il tema principale del gioco è appunto la fine della cultura dei samurai), al finale buonista nel quale gli innocenti oppressi riescono a mettersi in salvo, fino alla conclusione epica in cui il protagonista riesce a convincere i due clan avversari ad allearsi per sconfiggere l’esercito dell’imperatore.

In Star Wars: Knight of the Old Republic (Xbox) il giocatore tende a proiettare la propria identità.

Un titolo ben più noto di Way of the Samurai, e che permette una libertà di recitazione ancora maggiore è Star Wars: Knight of the Old Republic. Nel celebre gioco di ruolo sviluppato da BioWare, l’utente indossa i panni di un novello cavaliere Jedi destinato a vivere un’epica avventura nell’universo di Guerre Stellari. Uno degli aspetti più interessanti del gioco consiste nella notevole libertà d’azione concessa al giocatore nel condurre i dialoghi e nello scegliere in che modo risolvere i problemi proposti. L’eroe protagonista potrà dunque dimostrarsi rude o comprensivo, socievole od attaccabrighe, pacato o impulsivo, altruista od egoista e così via. Le scelte attuate dall’utente porteranno il protagonista verso il Lato Oscuro della Forza o verso la retta via seguita dai maestri Jedi, e in ultima analisi, condurranno la narrazione verso finali differenti. Uno degli aspetti più interessanti di Star Wars: Knight of the Old Republic, è che Bioware non si è limitato a concedere al giocatore una notevole libertà di recitazione, ma ha inserito nell’avventura numerose situazioni problematiche in cui non è chiaro cosa sia moralmente giusto fare. Dopo qualche ora di gioco il protagonista possiede già una personalità per nulla monolitica, anzi, ricca di sfaccettature. In pratica è molto difficile costruire un personaggio interamente malvagio o completamente buono. Nel corso della sua avventura anche il giocatore più onesto sarà portato a compiere qualche scorrettezza così come l’utente malvagio, in alcuni casi, deciderà di rispettare un nemico o di non essere eccessivamente opportunista. 22


Way of the Samurai e Star Wars: Knight of the Old Republic: sono titoli profondamente differenti sotto molti aspetti, ma limitiamoci a considerare il diverso modo in cui concedono al giocatore l’opportunità di recitare liberamente. Entrambi, nei dialoghi con i personaggi non giocanti, permettono all’utente di scegliere una tra le frasi disponibili precostituite e diverse situazioni possono essere risolte in modo differente ricorrendo ora alla forza, ora alla diplomazia, all’ingegno o all’inganno. Per portare a termine l’avventura dell’eroe di Way of the Samurai bastano poche ore, mentre per completare una prima volta Star Wars: Knight of the Old Republic ne occorrono almeno sessanta. Il gioco d’azione sviluppato da Acquire è pensato per essere portato a termine almeno sei o sette volte, mentre, data la notevole lunghezza del titolo, il gioco di ruolo realizzato da BioWare verrà completato solo una o al massimo due volte dal giocatore medio. La differenza è sostanziale: nel primo caso l’autore fa in modo che il giocatore sia in grado di recitare il ruolo di protagonista in ogni modo possibile, nel secondo, l’ideatore del gioco, realizza un’opera che, nella stragrande maggioranza dei casi, non verrà esplorata completamente.

In The Elder Scrolls III: Morrowind (Xbox), il giocatore può ignorare completamente l’avventura principale.

In questo modo, dunque, in Star Wars: Knight of the Old Republic il giocatore tenderà inevitabilmente ad esprimere se stesso, mentre in Way of the Samurai, dopo la prima partita, l’utente comincerà a sperimentare stili di gioco differenti. Di nuovo ci troviamo di fronte a scelte di game design differenti che producono effetti diametralmente opposti. Lo spartito ludico del gioco di ruolo BioWare permette al giocatore di osservare se stesso 27, quello del titolo 27

In diversi casi i dialoghi di Star Wars: Knight of the Old Republic sono costituiti da semplicissimi test della personalità.

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Acquire, invece, spinge ad assumere personalità alternative: in Way of the Samurai, il giocatore “buono” vorrà anche comportarsi in modo disonesto e sperimenterà i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna condotta. Un altro titolo molto interessante, per quanto riguarda la notevole libertà concessa al giocatore, è The Elder Scrolls III: Morrowind. Ambientato in un mondo fantasy, l’ottimo gioco di ruolo realizzato da Bethesda Softworks, permette all’utente di indossare i panni di un avventuriero e di esplorare liberamente un’area molto vasta. Esiste una trama principale, ma il giocatore è libero di ignorarla e di vivere una miriade di avventure secondarie. A differenza di Star Wars: Knight of the Old Republic la cui trama è decisamente guidata, The Elder Scrolls III: Morrowind permette davvero una totale libertà d’azione con tutto ciò che una tale libertà implica. Una trama guidata assicura alla narrazione una certa coerenza ed epicità nonché la sicurezza che qualsiasi situazione in cui il giocatore si ritroverà, sarà comunque risolvibile. Lo spartito ludico di The Elder Scrolls III: Morrowind, per sua stessa natura, non può garantire al giocatore che egli sarà in grado di risolvere le situazioni che si troverà ad affrontare. Potendo muoversi liberamente su tutta l’isola, il giocatore potrà ritrovarsi in aree molto pericolose quando ancora non è in possesso di un’arma adeguata o di un oggetto magico indispensabile per procedere. Tutto ciò è molto realistico ma, allo stesso tempo rischia di diventare dispersivo. La presenza di una trama principale, limita la totale libertà concessa al giocatore senza imporsi e serve a dare uno scopo alla vita virtuale dell’eroe protagonista. Lo spartito ludico di The Elder Scrolls III: Morrowind sembra voler comunicare l’inutilità di sfuggire ad un destino già deciso. Si può vagabondare quanto si vuole sull’isola di Morrowind, ma se non si affronta la trama principale del gioco in cui l’eroe scopre la propria reale identità, si ha l’impressione di “non aver vissuto realmente”. Way of the Samurai, Star Wars: Knight of the Old Republic e The Elder Scrolls III: Morrowind sono titoli in cui, sebbene in modi molto differenti, all’utente è concessa una notevole libertà d’azione, ma non bisogna dimenticare che qualsiasi videogioco prevede una benché minima possibilità di recitazione. Come al solito non è mia intenzione affermare che un’opzione sia migliore di un’altra, quello che conta è avere un’idea chiara delle reali potenzialità del videogame.

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1.6 Recitare fuori dallo schermo Finora abbiamo analizzato i modi in cui il giocatore recita all’interno del mondo simulato dei videogiochi, ma non bisogna dimenticare che, in molti casi, all’utente è richiesta una recitazione effettiva anche nella realtà fisica in cui è abituato a vivere. In numerosi videogiochi è il corpo stesso del giocatore empirico che deve recitare una parte. Trattasi generalmente di Coin-op dotati di particolari interfacce di gioco. Si pensi ad esempio a Silent Scope, un simulatore di cecchino, in cui l’utente impugna un fucile di precisione in scala 1:1 e osserva l’area di gioco sia attraverso lo schermo principale (visuale in soggettiva), sia attraverso un piccolo video posto all’interno del mirino dell’arma (visuale in soggettiva dotata di zoom). Scrutando l’ambiente ora con il proprio sguardo, ora attraverso il mirino telescopico, il giocatore riproduce con il proprio corpo i reali movimenti di un cecchino appostato.

In ordine da sinistra a destra: Alpin Racer, Mocap Boxing, Police 911.

In ordine da sinistra a destra: Prop Cycle, PunchMania: Hokuto no Ken, Silent Scope.

Altri giochi si spingono ben oltre: lo splendido Prop Cycle, mette alla guida di una bicicletta volante che solca i cieli (il controller è realmente una bicicletta, il giocatore ne controlla la velocità pedalando effettivamente); il controller di Alpine Racer, un simulatore di sci, è costituito da un paio di sci da manovrare con i piedi; PunchMania: Hokuto no Ken, Coin-op ispirato alla

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celebre serie animata di Ken il guerriero 28, cala il giocatore nel ruolo di Kenshiro, permettendogli di colpire con i propri pugni degli appositi cuscinetti; il sistema di controllo di Dance Dance Revolution è una vera pista di ballo in cui l’utente deve eseguire con il proprio corpo i passi comandati dal videogioco, e la lista potrebbe allungarsi a dismisura includendo simulatori di volo, giochi di guida, rhythm games e altro ancora. Nuove tecnologie hanno ormai reso possibile la realizzazione di una delle chimere dell’industria videoludica. La nascita di un sistema di controllo totalmente “trasparente”, che permetta cioè di interagire nel mondo simulato utilizzando esclusivamente il proprio corpo. Due Coin-op Konami, Mocap Boxing e Police 911, sono i primi vagiti di una nuova e radicale evoluzione nel mondo dei videogame. Il primo è un simulatore di pugilato, il secondo è uno sparatutto in soggettiva in cui si assume il ruolo di un poliziotto. In entrambi i casi l’interfaccia di gioco è costituita da una serie di sensori in grado di interpretare i movimenti del corpo del giocatore. In Mocap Boxing, l’utente si pone di fronte allo schermo ad una certa distanza e, per colpire l’avversario e schivare i suoi colpi, deve tirare pugni nel vuoto e chinarsi o piegarsi lateralmente. Sul video, di grosse dimensioni, è rappresentato l’avversario, ripreso in soggettiva dallo sguardo del pugile impersonificato dal giocatore. Police 911 è anch’esso dotato di un’interfaccia di controllo in grado di rilevare i movimenti del corpo del giocatore ma, in questo caso, l’utente risponde al fuoco avversario tramite una pistola ottica. La differenza rilevante rispetto ad un titolo molto simile come Time Crisis è che, per non essere colpito durante le sparatorie, il giocatore deve trovare riparo dietro colonne, muretti, automobili ecc, spostando realmente il suo corpo sui lati dello schermo o accucciandosi sotto di esso. L’immagine a video (una soggettiva del poliziotto protagonista), cambia seguendo il punto di vista reale del giocatore: quando egli è nascosto dietro un ostacolo, non è possibile osservare i movimenti dei nemici. Le tecnologie utilizzate per realizzare i sistemi di controllo di Mocap Boxing e Police 911 devono ancora essere ulteriormente raffinate ma, con i dovuti limiti, funzionano piuttosto efficacemente. Dato l’elevato costo di tali apparecchiature, la recitazione fuori dallo schermo, è poco diffusa nei sistemi domestici ma, ciononostante esistono importanti eccezioni. Per PC e console esistono volanti, pedaliere, cloche, pistole ottiche, canne da pesca, tappetini da ballo e strumenti musicali che permettono di ricreare in versione ridotta (e decisamente più economica) gli effetti ottenibili tramite Coin-op. Il rappresentante più significativo di questa tendenza è sicuramente Steel Battalion, un simulatore di robot da combattimento, sviluppato da Capcom per Xbox, il cui sistema di controllo è una riproduzione in scala 1:1 della strumentazione di tali fantascientifici mezzi militari. Con più di trenta tasti, tre joystick (contando anche quello manovrabile col pollice della mano destra), una leva del cambio e tre pedali, il controller di Steel Battalion tenta in tutti i modi di includere il giocatore nella realtà simulata (si tratta in effetti di un titolo in cui si ha una protesi digitale veicolo). Per suscitare efficacemente tale effetto, il simulatore Capcom, non esita a richiedere al giocatore un’effettiva recitazione fuori dallo schermo. Per avviare il gigantesco robot antropomorfo, l’utente deve eseguire una precisa procedura di avvio (chiusura dell’abitacolo del pilota, accensione del computer di bordo, verifica del sistema ed infine, avvio dei motori). Tre pulsanti e cinque interruttori del controller sono adibiti esclusivamente alla procedura di avvio del veicolo: il giocatore rivive in prima persona, con il suo stesso corpo, la situazione del pilota. Una 28

Sekimatsu Kyuyoshu Densetsu – Hokuto no Ken, Toei Doga, 109 episodi, 1984-’87 e Sekimatsu Kyuyoshu Densetsu – Hokuto no Ken II, Toei Doga, 43 episodi, 1987-’88. Edizione italiana: Ken il guerriero, Milano, Hobby & Work. La serie animata è tratta dal manga di Hokuto no Ken (edito da Shueisha, Giappone, 1981-1983) di Tetsuo Hara e Yoshiyuki Okamura (sotto lo pseudonimo di Bronson).

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procedura di avviamento tanto lunga (circa un minuto) è sostanzialmente inutile durante il gioco effettivo; tranne rari casi 29 costituisce solo una sorta di introduzione alla missione; il suo scopo principale è dunque di coinvolgere il giocatore “costringendolo” fisicamente a recitare una parte ben precisa.

Il controller di Steel Battalion permette al giocatore di recitare la parte del pilota anche nella realtà fisica.

Sempre rimanendo nell’ambito domestico, è doveroso spendere due parole su Eyetoy: Play, sviluppato da London Studio per PS2. Trattasi di una serie di minigiochi in cui il sistema di controllo è costituito da una telecamera, posta sopra lo schermo del televisore, che riprende il giocatore, posto di fronte ad essa. L’utente vede la propria immagine proiettata sullo schermo, come se si trattasse di uno specchio. Lo scopo del gioco è realizzare più punti possibili in semplicissimi videogame utilizzando la propria copia digitale: tenere sospesa in aria una palla facendola rimbalzare sul proprio corpo, colpire degli omini con le mani, pulire il vetro del televisore e così via. Il giocatore non deve toccare lo schermo, ma muovere in modo adeguato la sua immagine riflessa. L’utente arriva dunque a proiettare una vera e propria ombra digitale all’interno del mondo simulato, un’icona che è in grado di interagire con altri elementi dell’immagine presente sullo schermo. Con Eyetoy: Play la distinzione tra recitazione dentro lo schermo e recitazione fuori dallo schermo diventa quasi totalmente priva di significato, poiché il giocatore è effettivamente presente in entrambi. Il mondo della realtà fisica e quello simulato dal videogioco si fondono in un unico universo testuale. È l’inizio di una nuova evoluzione, estremamente promettente.

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A volte, se si subiscono colpi particolarmente violenti, il robot si spegne e il giocatore deve ripetere l’intera procedura di avviamento prima che i nemici possano approfittare del vantaggio.

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1.7 Il giocatore regista Nei videogiochi cinematografici, quelli cioè che utilizzano con consapevolezza movimenti di macchina, inquadrature, campi, contro campi ecc., il fatto che il videogame richieda la partecipazione attiva dell’utente implica che il giocatore diventi anche coregista dell’audiovisivo di cui è al contempo attore. In moltissime opere contemporanee l’utente è in grado, in modo più o meno esplicito, di influenzare la messa in discorso dell’audiovisivo di cui è anche spettatore; spesso gli è concesso di contribuire in modo sostanziale all’enunciazione visiva. È un processo di cui l’utente può non essere pienamente consapevole ma il giocatore, così come fa agire la protesi digitale in un certo modo recitando secondo il proprio gusto, tende anche a curare in tempo reale la regia di quello specifico audiovisivo che è la propria partita, assecondando i suoi criteri estetici. Ovviamente è un’operazione che può avvenire solo nei videogiochi che fanno un uso notevole del linguaggio cinematografico e non si limitano ad introdurre occasionalmente qualche zoom o limitati movimenti di macchina, ma sfruttano consapevolmente gli effetti ottenibili tramite il montaggio d’inquadrature differenti. Analizziamo in che modo il Giocatore Modello e il Creatore Modello collaborino nel creare una delle sequenze più riuscite di Resident Evil II: la prima apparizione del Licker30. Nel celebre survival horror Capcom, l’utente ha a che fare con una protesi digitale maschera rappresentata in terza persona. Lo scopo del gioco è sopravvivere in una città infestata da morti viventi e indagare sulla situazione. La serie di Resident Evil costituisce una tappa fondamentale nell’evoluzione dei videogiochi cinematografici. L’utente agisce in un mondo tridimensionale prerenderizzato e viene inquadrato da differenti telecamere virtuali 31 in base al punto dello spazio diegetico in cui si trova. La saga ideata da Shinji Mikami utilizza in modo consapevole ed estremamente efficace campi, inquadrature ed angoli di ripresa per suscitare tensione ed angoscia nel giocatore. Nella sequenza che andiamo ad analizzare non sono presenti movimenti di macchina 32. Per facilitarne la descrizione, associamo ad ogni inquadratura una telecamera (es. inquadratura 1 = telecamera 1, inquadratura 2 = telecamera 2 ecc.). Shinji Mikami utilizza alcune strategie testuali tipiche del cinema horror per creare un forte effetto di suspance.

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Nella saga di Resident Evil, il Licker è un mostro a quattro zampe simile ad una grossa lucertola che può camminare anche sulle pareti e sui soffitti delle stanze. 31 Utilizzo il termine “telecamera” anziché “cinepresa” perché in effetti un videogioco assomiglia più a una diretta televisiva anziché ad una ripresa cinematografica. Durante la partita, il “collegamento” con il mondo immaginario rappresentato dal videogame avviene in tempo reale. 32 Negli episodi più recenti della serie, ad esempio Resident Evil: Code Veronica sono invece presenti limitati movimenti di macchina.

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Inquadratura 1: campo medio. La “macchina da presa” è rivolta verso l’ingresso da cui è entrato il personaggio. Gran parte della stanza è chiaramente visibile, si tratta della sala d’aspetto della stazione di Polizia di Raccoon City. Entrando in questa stanza la colonna sonora del gioco è cambiata radicalmente. Nella sala precedente un brano extradiegetico, cioè non appartenente alla realtà rappresentata nel testo (i protagonisti della storia no n sentono la musica che il giocatore sta ascoltando), contribuisce a costruire un’atmosfera di tensione. Ora, in questa stanza, sono presenti solo suoni diegetici, che appartengono cioè alla realtà rappresentata (il rumore dei passi del protagonista, lo scricchiolio delle porte ecc). In questa prima inquadratura l’autore del gioco incomincia ad utilizzare un’elementare strategia cinematografica per creare tensione. Mikami ha scelto un’inquadratura che non mostra ciò che il personaggio sta osservando. In questo modo incomincia a crearsi uno scarto significativo tra ciò che il personaggio vede e quello che il giocatore sta guardando. Bisogna tenere ben presente che nel genere horror o thriller il senso di tensione è dato dalla consapevolezza che qualcosa sta accadendo ma non si è ancora realizzato. Il senso di terrore, invece, è generato dal mistero che circonda il pericolo cui si va incontro. Finché il pericolo, mostro o assassino che sia, rimane sconosciuto, incute un timore più profondo ed inquietante. Fondamentale risulta quindi l’utilizzo consapevole del fuori campo (tutto ciò che non è inquadrato dalla telecamera) perché di esso lo spettatore possiede una rappresentazione piuttosto approssimativa.

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Inquadratura 2: campo medio (quasi un controcampo). Quando il protagonista oltrepassa la telecamera 1, l’inquadratura mostra l’altra metà della stanza. La telecamera 2 non è posizionata esattamente nello stesso punto della telecamera 1. Un separé, nasconde un angolo della stanza. La tensione creata dall’inquadratura precedente viene risolta mostrando che nella stanza non c’è nessun pericolo (a meno che non si nasconda dietro il separé in fondo alla stanza).

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Inquadratura 3: campo totale. La telecamera 3 è posizionata nell’angolo nascosto dal separé e inquadra il protagonista che è “costretto” a dirigersi verso essa. La telecamera nasconde invece di mostrare e la tensione sale di nuovo.

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Inquadratura 4: figura intera (controcampo). Il separé forma un breve corridoio. Sulla destra c’è una porta che permette di uscire dalla stanza, sulla parete in fondo c’è una finestra. Sulla finestra, all’esterno dell’edificio, passa per un breve attimo un essere mostruoso simile ad una grossa lucertola. Il protagonista è “costretto” ad aprire la porta sulla destra per esplorare una nuova stanza. L’apparizione del mostro è troppo breve perché il giocatore possa riuscire a farsene un’immagine mentale soddisfacente. Anche se la sua presenza è confermata, il pericolo rimane sempre sconosciuto e di conseguenza inquietante. Nelle prime 4 inquadrature la colonna sonora è costituita esclusivamente da rumori diegetici prodotti dal protagonista (sostanzialmente si tratta del suono dei suoi passi); la stanza è completamente silenziosa.

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Inquadratura 5: soggettiva. La porta si apre e la telecamera entra nella nuova stanza. Questa è una delle sequenze standard, non interattive che si ripetono continuamente nel videogioco ogni volta che si utilizza una scala, si apre una porta o un cancello. Durante tali sequenze, la console, carica i dati della stanza successiva. In tal modo i tempi “mortiâ€? causati dai frequenti caricamenti non spezzano eccessivamente il ritmo della narrazione, anzi, la sequenza in soggettiva della porta che si apre scricchiolando, incrementa il pathos e la tensione della scena.

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Inquadratura 6: figura intera. Questa è forse l’inquadratura più inquietante dell’intera sequenza poiché, nel momento in cui si presuppone l’apparizione della minaccia, mostra esclusivamente la figura del protagonista e non fornisce alcuna informazione riguardo all’ambiente in cui si sta svolgendo l’azione. La telecamera 6 è posta all’esterno dell’edificio e inquadra l’eroe attraverso una finestra da una posizione rialzata. Il poliziotto è appena entrato in quello che sembra un corridoio e guarda l’interno della stanza che è totalmente precluso allo sguardo del giocatore. Lo scarto significativo che si crea tra ciò che lo spettatore vede e ciò che l’eroe sta osservando genera un fortissimo stato di tensione. Il rumore di un continuo gocciolio (probabile indizio della presenza del mostro) rompe il silenzio della stanza. L’angolo di ripresa della telecamera 6 sottolinea l’impotenza del giocatore di fronte al suo ipotetico avversario (una ripresa dall’alto verso il basso associa un senso di debolezza al soggetto inquadrato) mentre il punto di vista esterno all’edificio suggerisce l’idea che l’inquadratura 6 potrebbe essere una soggettiva di una creatura posta fuori dalla stazione di polizia.

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Inquadratura 7: campo totale. La telecamera inquadra il protagonista dall’alto ed è rivolta ancora verso la porta da cui è entrato il protagonista. Dopo il culmine della precedente inquadratura Mikami allenta la tensione per rendere maggiormente efficace l’apparizione del Licker.

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Inquadratura 8: mezzo campo lungo. La telecamera è indietreggiata di qualche metro e inquadra ancora la porta da cui il protagonista è entrato. Il corridoio è in disordine, c’è un tavolo ribaltato e dei fogli sono sparsi sul pavimento. La macchina da presa è tornata ad altezza uomo. Nuovi indizi inquietanti vengono comunicati al giocatore, ma la tensione continua a scendere man mano che l’inquadratura diventa sempre più ampia e la telecamera torna ad un angolo di ripresa più neutro (altezza uomo).

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Inquadratura 9: campo totale (controcampo). Quando l’eroe oltrepassa la telecamera 8 viene mostrata la parte fuoricampo del corridoio che, si scopre, effettua una svolta di 90 gradi a destra. La tensione scende ulteriormente e l’angolo di ripresa (dal basso verso l’alto) “rassicura” il giocatore che il protagonista della scena non è poi così debole di fronte al suo sconosciuto avversario (soprattutto se ha appena recuperato un fucile a pompa).

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Inquadratura 10: campo medio. La telecamera è indietreggiata nella nuova sezione del corridoio e riprende il protagonista da una posizione rialzata. Sul pavimento c’è il cadavere decapitato di un poliziotto. La breve illusione di potenza è subito schiacciata da questa inquadratura dall’alto che mostra indizi inequivocabili sulla presenza e sull’aggressività del mostro.

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Inquadratura 11 (facoltativa): dettaglio. Se il protagonista esamina un interruttore posto sulla parete scopre che il meccanismo non funziona poichÊ il cavo è stato tranciato.

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Inquadratura 12: mezzo campo lungo. La telecamera, sempre rivolta verso il protagonista è indietreggiata nel corridoio e riprende la scena da un punto di vista leggermente ribassato. In primo piano, sul pavimento, c’è una pozza di sangue, e sulla destra è possibile osservare una finestra rotta che dà sull’esterno dell’edificio. Il sangue che gocciola, la pozzanghera e la finestra rotta sono ulteriori indizi della presenza del mostro; si crea di nuovo uno scarto tra la visione del giocatore e lo sguardo del protagonista. Lo spettatore vede l’eroe; il protagonista, che guarda verso la telecamera, potrebbe vedere il mostro, che Mikami lascia ancora fuori campo. Il giocatore è “costretto” a far avanzare il protagonista verso la macchia di sangue finché il gioco non viene interrotto da una breve sequenza non interattiva.

Sequenza non interattiva: rapido alternarsi di campo e controcampo del volto dell’eroe (in primo piano) e della testa del mostro (primissimo piano). L’eroe vede il nemico appeso al soffitto come una lucertola. Un brevissimo rallenty evidenzia la mostruosità della creatura, i 40


movimenti della lunga lingua e delle fauci. L’essere cade dal soffitto e incomincia il combattimento tra eroe e antagonista che viene ripreso dalla telecamera 12.

È evidente che nella scena appena descritta, la tensione è creata da un utilizzo intelligente del fuori campo. Lo spettatore, attraverso la presenza di alcuni indizi sonori e grafici, è avvertito della presenza del mostro, ma l’autore mantiene costantemente il pericolo al di fuori del campo visivo del giocatore. Dopo che il mostro si è rivelato (è cioè entrato nell’inquadratura), la tensione della scena muta radicalmente e le successive apparizioni della creatura non susciteranno più nel giocatore la stessa suspance. È interessante sottolineare che la sequenza appena analizzata non si limita ad utilizzare il linguaggio cinematografico ma lo assimila per creare qualcosa di nuovo. L’interattività offerta dal videogioco trasforma, quella che sarebbe potuta essere un’efficace sequenza di un film horror, in qualcosa di radicalmente diverso. Nel flusso inarrestabile di una sequenza cinematografica, le singole inquadrature possiedono una durata stabilita una volta per tutte dal regista in fase di montaggio. In Resident Evil II, invece, il giocatore controlla indirettamente il ritmo del montaggio e la durata di ogni singola inquadratura. Muovendo il protagonista all’interno dell’area di gioco è, indirettamente, il solo responsabile del cambiamento di inquadratura. Il giocatore assume dunque il ruolo di coautore nella messa in discorso della scena rappresentata: egli può, a suo piacimento, dilatarne i tempi, soffermarsi su un inquadratura o, se lo preferisce, effettuare un montaggio serrato. La regia finale della scena è il risultato della collaborazione dell’Autore Modello, che ha scelto dove e come posizionare le telecamere, e del Giocatore Empirico, da cui dipende il ritmo del montaggio. Questo non è l’unico modo in cui Autore Modello e Giocatore Empirico possono collaborare. 41


In Ico, il capolavoro di Fumito Ueda, l’utente è chiamato a intervenire nell’enunciazione visiva in modo ancora più raffinato ed affascinante. L’onirico titolo SCEI racconta la storia di un bambino nato con le corna che viene seppellito vivo dagli abitanti del suo villaggio in un sarcofago di pietra posto nella sala di un enorme castello apparentemente disabitato. Grazie ad una provvidenziale scossa sismica Ico (questo è il nome del protagonista) riesce a fuggire dalla sua tomba, e cercando di uscire dal castello, incontra e libera una ragazza intrappolata in una gabbia sospesa all’interno di un’enorme torre. La ragazza, che sembra fatta di luce, si chiama Yorda e può aiutare Ico ad uscire dal castello aprendo delle pesanti porte di pietra con i suoi poteri magici. Il giocatore controlla Ico e deve collaborare con Yorda per portare i due protagonisti fuori dall’edificio. Sono molti gli aspetti che meriterebbero un’analisi approfondita nella splendida opera di Fumito Ueda (splendido il design di personaggi, ottima l’interazione tra i due protagonisti, atmosfera originale e malinconica, elegante utilizzo del sonoro, sono solo alcuni degli aspetti grazie ai quali Ico si distingue dalla maggior parte dei titoli attualmente in commercio), ma per ora concentriamoci sulle possibilità concesse all’utente di intervenire nell’enunciazione visiva. Ico è un videogioco rappresentato in terza persona. Agendo sullo stick analogico sinistro e sui tasti del Dual Shock 2 (il joypad ideato per PlayStation2), l’utente può controllare le azioni del piccolo eroe (camminare, correre, arrampicarsi, saltare, combattere, chiamare o prendere per mano Yorda) mentre operando tramite lo stick analogico destro e i tasti dorsali può orientare la telecamera in direzioni diverse e zoomare su ciò che desidera. La telecamera virtuale se “abbandonata a se stessa” mantiene Ico sempre al centro dell’inquadratura e si sposta nello spazio tridimensionale in cui si svolge l’avventura lungo i tre assi in base ai movimenti del ragazzo. In pratica il Creatore Modello ha tracciato in ogni stanza del castello uno o più binari invisibili lungo i quali la telecamera si sposta in base ai movimenti di Ico.

In Ico (PS2) il giocatore può controllare l’orientamento della telecamera e il grado di zoom dell’inquadratura.

La posizione nello spazio della telecamera è dunque determinata dal Creatore Modello e il Giocatore Empirico ne può controllare gli spostamenti indirettamente spostando il protagonista all’interno dell’area di gioco, in modo del tutto simile a quanto accade in Resident Evil. L’utente però, se lo 42


desidera, può gestire le panoramiche33 (siano esse verticali o orizzontali) di cui ha il totale controllo. Il Creatore Modello ha dunque stabilito i “binari” lungo cui si muoveranno i carrelli 34 lasciando al giocatore Giocatore Empirico il compito di muovere effettivamente la telecamera durante la partita (muovendo Ico nell’area di gioco) ed esplorando le stanze del castello con opportune panoramiche e zoomate. In Ico Creatore Modello e Giocatore Empirico collaborano in modo strettissimo creando un testo audiovisivo sempre nuovo ed incredibilmente suggestivo. Fumito Ueda non si è limitato a creare un titolo in cui al giocatore sia concessa una libertà tanta ampia per quanto riguarda l’enunciazione visiva, ma ha creato un gioco in cui l’utente è spinto più che mai ad utilizzare questa possibilità. Anche in questo caso non è necessario che il giocatore se ne renda conto ma in molti casi è inevitabile che si ritrovi a completare la regia di una scena nel modo suggerito dal Creatore Modello. Prendiamo ad esempio una delle prime sequenze del gioco. Ico ha appena liberato Yorda e i due devono attraversare un ponte che attraversa un enorme baratro. Non appena Yorda si incammina per raggiungere l’altra sponda dell’abisso il ponte crolla e la ragazza rimane sospesa nel vuoto aggrappandosi al braccio del ragazzo. Il senso di vertigine e la possibilità di cadere da altezze iperboliche costituiscono uno dei temi conduttori di tutto il gioco 35. All’inizio della sequenza i due ragazzi sono ripresi dall’alto ma, dopo il crollo del ponte, se Ico si sporge sul baratro, cade, ma rimane sospeso nel vuoto aggrappandosi al bordo della struttura. A questo punto la telecamera virtuale si sposta al di sotto della struttura e riprende il ragazzo dal basso. In questo momento il gioco non richiede nessuna azione fulminea al giocatore (non esiste nessun pericolo effettivo che Ico possa precipitare nel vuoto) e il giocatore, se lo desidera può zoomare sul ragazzo o puntare la telecamera verso il fondo dell’abisso. È un’operazione del tutto normale che l’utente attua spontaneamente, magari senza nemmeno rendersene conto, ma in realtà egli sta rinforzando l’effetto voluto dall’ideatore del gioco. Se effettuasse uno zoom su Ico è come se la telecamera, avvicinandosi al ragazzo, si premurasse di assicurarsi che il piccolo eroe stesse bene, se invece l’inquadratura venisse diretta verso il fondo del precipizio si sottolineerebbe l’estrema letalità del pericolo a cui Ico è andato in contro. In ogni caso il giocatore con il suo intervento completerebbe l’enunciazione visiva del gioco ottenendo questo o quel determinato effetto. L’intero castello è progettato in modo tale che Ico rimanga continuamente sospeso su baratri enormi o aggrappato a pareti altissime e, in questi casi, è quasi sempre possibile effettuare panoramiche e zoomate che aumentino l’effetto già suscitato dalla situazione di per sé. Ma la singolare libertà concessa al giocatore in quanto coregista di Ico diventa evidente ogni qualvolta l’utente effettua particolari riprese secondo il proprio gusto estetico. Ico è essenzialmente un gioco contemplativo caratterizzato da un ritmo prevalentemente pacato. Ogni area in cui è diviso il castello (sia essa un salone, un cortile, un porticato ecc.) prevede un solo ingresso ed una sola uscita. Ico è incredibilmente agile mentre Yorda può effettuare solo piccoli salti ma è necessario che la fanciulla raggiunga l’uscita di ogni area perché la porta magica che ne impedisce il passaggio venga aperta. Il compito dell’utente consiste nell’azionare meccanismi e nello spostare blocchi di pietra per creare una via percorribile dalla ragazza. La 33

“Vengono definite panoramiche (pan.) le immagini in movimento ottenute facendo ruotare la camera su uno dei suoi assi e mantenendola ferma sulla sua posizione.”, Provenzano Roberto C., op. cit., pg. 142. 34 “Si parla invece di carrellata o carrello nei casi in cui la cinepresa montata su un mezzo mobile, viene spostata fisicamente.”, Provenzano Roberto C., op. cit., pg. 142. 35 Senso di vertigine, possibilità di cadere da altezze iperboliche, una generale atmosfera da fiaba, creature mostruose ma al contempo affascinanti, bambini come protagonisti contrapposti ad antagonisti adulti (la matrigna), enormi strutture disabitate, splendidi alberi, cascate e ruscelli; è impossibile non riscontrare una certa somiglianza tra l’opera di Fumito Ueda e i lungometraggi animati di Hayao Miyazaky. È sicuramente lecito supporre che i capolavori del geniale autore giapponese abbiano in qualche modo influenzato l’estetica di Ico. Sul cinema di Hayao Miyazaki vedi anche, Alessandro Bencivenni, Hayao Miyazaki, il dio dell’anime, Le Mani – Microart’s Edizioni, Recco, 2003.

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fase di esplorazione dell’area di gioco è generalmente piuttosto tranquilla ma l’azione diventa improvvisamente frenetica non appena compaiono delle figure spettrali simili ad ombre che tentano di rapire Yorda. Durante le fasi esplorative lo spartito ludico di Ico, nonostante sia necessario scovare quell’unico modo che permette ai due protagonisti di uscire da una certa area e proseguire nell’avventura, è piuttosto debole e concede al giocatore tutto il tempo che vuole per ammirare l’architettura dell’imponente edificio e “filmarne” i particolari. Ico dà all’utente una possibilità inedita. In qualsiasi altro videogame la telecamera riprende costantemente il personaggio comandato dal giocatore. Nell’opera di Ueda, il giocatore può decidere di esplorare con lo sguardo ciò che vuole, relegando nel fuori campo la propria protesi digitale. Ciò non implica che, durante questa operazione, l’utente abbandoni il controllo del personaggio. È possibile muovere Ico anche quando il piccolo eroe non è inquadrato e, dato che la telecamera virtuale che riprende la performance ludica si muove nell’ambiente tridimensionale in base agli spostamenti del bambino, con un po’ di pratica è possibile effettuare delle riprese molto suggestive. Pensiamo ad esempio alla sequenza iniziale, in cui Ico risale lungo l’enorme scalinata della torre in cui è imprigionata Yorda. Se non si interviene in nessun modo sull’inquadratura, la telecamera riprende il ragazzo lateralmente salendo insieme a lui e rimanendo al centro della stanza. Se il giocatore lo preferisce può inquadrare il pavimento della stanza e, muovendo Ico, che si trova fuori campo, effettuare una ripresa particolarmente suggestiva che si allontana dal pavimento ruotando su se stessa e generando un interessante ed efficace senso di vertigine. In tutto il gioco è possibile scoprire inquadrature suggestive e realizzare movimenti di macchi na coreografici. È facile ritrovarsi a riprendere il movimento delle foglie mosse del vento zoomando tra i rami degli alberi, indugiare sui movimenti delle colombe che ogni tanto atterrano nei cortili del silenzioso castello e in numerosi casi la telecamera tende a posizionarsi in modo tale che sia quasi inevitabile “incappare” in riuscite inquadrature di Yorda (nella zona della torre d’acqua ad esempio, è possibile riprendere la fanciulla in controluce mentre si guarda attorno attendendo che Ico costruisca un percorso sicuro). In effetti dato che non è mai possibile accedere alla soggettiva del piccolo protagonista, l’enunciazione visiva del gioco ostacola in più punti un’autentica identificazione dell’utente con il piccolo eroe. Nell’opera di Ueda il giocatore si sente quasi un fantasma che accompagna e consiglia i due ragazzi nella loro avventura. Quando la telecamera rimane alla base di una parete altissima, mentre Ico vi ci si arrampica sopra diventando sempre più piccolo anche se si sta controllando il ragazzo è inevitabile che il processo di identificazione venga notevolmente minato. In una scena simile Ico diventa quasi il personaggio di un film. Ed è significativo che dopo aver sconfitto la madre di Yorda, il castello cominci a crollare senza che alcun rumore diegetico possa essere udito dal giocatore. Yorda, Ico e l’utente (osservatore e consigliere in forma di spettro) hanno collaborato per tutta l’avventura per uscire dal castello, ma quando l’obiettivo è raggiunto, i tre si devono separare: Yorda rimane nel castello in rovina, Ico svenuto viene posto su una piccola barca e sospinto in mare dalla ragazza, il giocatore, che nella sequenza finale è relegato al semplice ruolo di spettatore, viene allontanato dalla scena (il castello è finalmente ripreso da lontano) e non può nemmeno udire il rumore del crollo dell’edificio, sostituito dalla sigla finale del gioco. Una volta conclusi i titoli di coda, i tre si incontreranno di nuovo per qualche minuto su una spiaggia deserta in una sorta di “non gioco” interattivo 36. Ico riprende conoscenza ai piedi di 36

Volendo essere rigorosi dovremmo definire l’epilogo interattivo di Ico una vera Paidia, nel senso in cui la intende Caillois, ovvero un gioco senza regole e senza scopo simile al girotondo o al chiasso dei bambini. Per un’analisi dei concetti di Paidia e Ludus all’interno dei videogame vedi Bruno Fraschini, “Videogiochi e New Media”, saggio contenuto in: Matteo Bittanti (a cura di), Per una Cultura dei Videogames, Milano, Unicopli, 2002, pp. 110-111.

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un’imponente scogliera e si trova solo (il ragazzo è ripreso in campo lungo). La spiaggia sembra essere un luogo sicuro e apparentemente non esiste nessuno scopo in questa fase dell’avventura. Ico non può fare altro che giocare con le onde, camminare sulla spiaggia o raccogliere dei cocomeri nascosti ai piedi della parete di roccia. L’istinto dell’esploratore non ha però ancora abbandonato il giocatore e, percorrendo la riva del mare, incontra una fanciulla addormentata sulla sabbia. È Yorda che si è trasformata in essere umano che accoglie Ico con un sorriso ripreso con un suggestivo primo piano. In alcuni videogiochi cinematografici, la possibilità di intervenire sull’enunciazione ludica si ripresenta addirittura in quei luoghi dalla quale ne dovrebbe essere esclusa “per definizione”; stiamo parlando delle sequenze non interattive che generalmente hanno una esplicita funzione narrativa. In molti casi tali sequenze non sono altro che filmati che sottraggono momentaneamente al giocatore qualsiasi possibilità di agire (cosa che succede ad esempio durante l’apparizione del Licker in Resident Evil II che abbiamo precedentemente analizzato) ma talvolta, come ad esempio in Ico e Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty di Hideo Kojima, l’utente può zoomare in diversi punti dell’immagine o spostare lievemente la telecamera37. È interessante costatare come Kojima e Ueda, nei titoli sopra citati, utilizzino questa possibilità per raggiungere risultati diametralmente opposti. In Ico l’autore non permette mai al giocatore di “rovinare” l’immagine focalizzandosi, ad esempio, su un dettaglio insignificante. Ueda concede altresì all’utente di anticipare i movimenti di macchina quasi per lasciargli compiere ciò che al semplice spettatore cinematografico o televisivo è costantemente negato. Quando Yorda entra in scena per la prima volta, la telecamera virtuale la riprende dal basso verso l’alto con una lenta carrellata in verticale. Il giocatore può “spingere” l’inquadratura verso l’alto per scoprirne il volto un attimo prima e, una volta scoperto il viso di lei, può zoomare su di esso per ammirarlo ancora più da vicino. Essendo Ico un gioco estremamente curato dal punto di vista estetico, non è mai concesso al giocatore di rovinare queste sequenze, possibilità che invece è assolutamente centrale in Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty di Kojima. Nelle lunghissime sequenze non interattive del celebre titolo Konami, Hideo Kojima, permette al giocatore di stravolgere completamente l’enunciazione visiva di una scena donando al giocatore la possibilità di zoomare in modo anche drastico su un qualsiasi dettaglio dell’immagine. Così facendo però, il giocatore, può distruggere completamente l’epicità o la drammaticità di certe situazioni. Può anche darsi che la Kojima abbia concesso al giocatore una tale libertà distruttrice sulle sequenze non interattive senza rendersi pienamente conto dell’effetto che avrebbe potuto suscitare, ma alla luce della mia analisi sul titolo Konami 38, è possibile che anche questa opzione rientri nella strategia narrativa dell’opera, il cui senso , a mio parere, è prendere le distanze da un certo cinema Hollywoodiano proprio nel momento in cui gli si rende omaggio citandolo ripetutamente e riproponendone i miti, lo stile e la retorica. Nei casi che abbiamo appena analizzato il Giocatore Empirico deve sempre collaborare con il Creatore Modello per costruire l’enunciazione visiva di un videogioco, ma esistono dei videogame in cui l’utente ha il completo controllo della messa in discorso dell’audiovisivo? Naturalmente sì, anche se ovviamente siamo di fronte a casi sporadici. Il problema è che controllare totalmente la regia di un audiovisivo è un compito molto complesso e l’utente, già impegnato in veste di attore durante la performance ludica, non può occuparsi anche del posizionamento delle telecamere, del loro orientamento, del montaggio ecc. Se si vuole concedere al giocatore un controllo totale della regia del testo audiovisivo è dunque opportuno separare il momento della “recitazione” da quello della “ripresa”. È ciò che accade 37

Per rendere possibile una tale interazione è necessario che la sequenza sia calcolata in tempo reale utilizzando il motore grafico del gioco. 38 Fraschini Bruno, Metal Gear: L’Evoluzione Del Serpente, Unicopli, 2003, Milano.

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ad esempio in Driver interessantissimo gioco di guida sviluppato dal team Reflections ispirato all’omonimo film del 1978 di Walter Hill. Nel gioco si vestono i panni di un agente in borghese che mette a disposizione della malavita la sua incredibile abilità di pilota per condurre importanti indagini. Nel gioco si devono portare a termine differenti missioni in cui è essenziale saper guidare in modo spericolato (sfuggire alla polizia, consegnare una macchina rubata senza danneggiarla, inseguire e fermare un sospetto, intimidire dei commercianti sfasciandone i negozi, terrorizzare un passeggero ecc.). Dato che il gioco è realizzato tramite un motore grafico 3D, al termine di ogni partita è possibile riprendere la performance ludica appena compiuta posizionando diverse telecamere all’interno dell’area di gioco o a bordo delle vetture presenti sulla scena. Questa fase del gioco, assolutamente fine a se stessa, trasforma il giocatore in regista è gli dà la possibilità di realizzare brevi sequenze d’inseguimento. L’utente può dunque curare il montaggio, l’inclinazione delle macchine da presa, e posizionare le telecamere in modo da ottenere gli effetti desiderati. Nonostante i limiti dell’hardware PSone, è possibile raggiungere risultati esteticamente convincenti 39. Ma con la sessione di regia di Driver, in un certo senso, siamo già al di fuori del videogioco così come viene inteso della sua accezione più comune (un testo che assegna un compito che deve essere risolto). Resident Evil II e Ico, invece, sono due esempi eclatanti di come il linguaggio cinematografico, se viene correttamente assimilato e reinterpretato consapevolmente, possa essere utilizzato efficacemente in un videogioco.

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Ovviamente non stiamo parlando di qualità o definizione dell’immagine ma di movimenti di macchina e montaggio.

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1.8 Questioni di chiarezza Non bisogna mai dimenticare che un videogioco non è un film e innanzi tutto deve essere giocato. Ciò implica che se si vuole utilizzare il linguaggio cinematografico è necessario tenere a mente che il giocatore non è uno spettatore passivo e, per questo motivo, deve avere una percezione sufficientemente chiara del mondo rappresentato, per poter agire in esso. Nella scena di Resident Evil II precedentemente descritta, l’opposizione dialettica tra campo e controcampo viene sì utilizzata in modo consapevole per suscitare un effetto di suspance ma, al contempo, quel particolare orientamento delle telecamere permette al giocatore di costruirsi un’idea precisa e completa delle fattezze dell’ambiente in cui si trova la protesi digitale. Qualsiasi videogioco, a meno che non si desideri suscitare volontariamente un senso di disorientamento, è sottomesso ad una generale necessità di chiarezza. Lo spettatore di un film è come il passeggero di un’automobile: osserva il “panorama” in modo piuttosto distratto perché non è costretto ad orientarsi in esso. Il giocatore di videogame, al contrario, è a tutti gli effetti il pilota del veicolo e se non riesce a costruirsi una rappresentazione mentale sufficientemente esauriente dell’ambiente che “lo” circonda, rischia di perdersi o comunque di procedere in modo incerto. Nei videogiochi cinematografici in cui l’esplorazione è fondamentale (qualsiasi episodio della saga di Resident Evil può essere portato ad esempio, ma anche i vari capitoli di Dino Crisis o della più recente serie di Onimusha), è essenziale che le ambientazioni in cui si svolge il gioco siano descritte in modo esauriente. Ciò non è in alcun modo necessario in un film o in una ripresa televisiva.

In questa stanza non è possibile osservare la parete verso la quale la protagonista è rivolta. Ciò che è tollerato in un film può essere molto fastidisioso in un videogame cinematografico (Syberia, Xbox).

Syberia, di Benoit Sokal, ad esempio, non rispetta questa importante regola e, così facendo, rende inutilmente complicata l’interazione del giocatore all’intero del mondo rappresentato. 47


Nonostante Sokal abbia realizzato immagini estremamente suggestive e ben curate, in moltissimi casi gli ambienti non vengono descritti in modo esauriente (a numerosi campi, non corrispondono altrettanti controcampi, la qual cosa è particolarmente inopportuna negli interni). Spesso rimane una “quarta parete” che non può essere osservata, verso cui il giocatore tende inevitabilmente a dirigersi per poi scoprire che non può oltrepassare il limite dell’inquadratura. Dato che Syberia non è un gioco d’azione ma un’avventura “punta e clicca” non siamo di fronte ad un difetto che compromette irrimediabilmente la giocabilità del titolo ma, in ogni caso, risulta piuttosto fastidioso ed innaturale dover percorre con la propria protesi digitale i bordi dell’inquadratura per scoprire in quali punti è possibile accedere ad altre schermate. A volte la cosa può diventare persino fuorviante (ad esempio nella prima sala all’interno della fabbrica in cui devono essere azionati i marchingegni per creare i piedi dell’automa Oscar, c’è un passaggio in alto a sinistra che può passare inosservato). In molti casi è necessario non solo posizionare correttamente le telecamere ma progettare in modo appropriato l’architettura dell’area di gioco e le regole costitutive del videogame stesso. Quando la telecamera è posta prevalentemente alle spalle della protesi digitale (pseudo soggettiva) come in Shenmue, Tomb Raider o Super Mario 64 non ci sono grandi esigenze, ma di fronte a enunciazioni visive più complesse la situazione muta radicalmente. Il fatto che in Ico, ad esempio, sia possibile escludere dall’inquadratura la propria protesi digitale implicherebbe non pochi problemi se Fumito Ueda non avesse tenuto conto di questo fatto. In quasi tutti i videogame non è mai possibile distogliere lo sguardo dal proprio simulacro digitale perché, così facendo è di norma inevitabile commettere qualche errore (il protagonista cade in un baratro, viene assalito da un mostro ecc.). Nel titolo SCEI, al contrario, Ico è relativamente al sicuro anche quando il giocatore non lo sta osservando ma continua a muoverlo. Il piccolo eroe, in effetti, non può essere ucciso dai suoi nemici e quasi in ogni caso riesce ad aggrapparsi a qualche appiglio evitando di cadere da altezze che ne causerebbero il decesso. Nel caso di Ico sono per lo più le regole costitutive del gioco (il protagonista “non può” cadere dalle piattaforme e i nemici non lo feriscono) che sono state adatte alle specifiche esigenze imposte da una certa enunciazione visiva, in altri titoli, in genere, è l’architettura dell’area di gioco che viene progettata in modo tale da permettere determinate riprese senza rendere il videogame poco giocabile 40. In Devil May Cry durante la scena in cui Dante fugge dal gigantesco ragno che lo insegue in un corridoio semicircolare del castello, la telecamera, posta davanti al protagonista, indietreggia nella stanza mentre l’eroe corre verso di essa schivando gli assalti del nemico. Nell’inquadratura Dante è in primo piano e il suo avversario è sullo sfondo. In pratica il giocatore non può vedere cosa c’è davanti al protagonista in fuga, ma ciò non è un problema poiché la struttura della stanza è pensata in modo tale che l’eroe non si ritrovi improvvisamente incastrato contro di una qualche “barriera architettonica”. 41 40

Il termine “giocabilità” è la traduzione impropria di “gameplay”, termine con cui, nella stampa specializzata inglese, si intende generalmente la struttura di gioco (l’insieme dei suoi elementi costitutivi al di là della loro rappresentazione grafica e sonora). In Italia però il termine ha col tempo assunto un significato differente e in genere viene associato all’immediatezza del sistema di controllo e alla difficoltà del gioco. Un videogioco giocabile, a mio parere, è un titolo in cui è relativamente semplice comportarsi come il Giocatore Modello. Klonoa 2: Lunatea’s Veil e Devil May Cry, ad esempio, sono titoli estremamente giocabili perché l’utente riesce piuttosto facilmente a compiere le azioni richieste dal gioco (saltare sulle piattaforme nel primo caso e uccidere avversari nel secondo). 41 La stessa situazione si ripropone in diversi titoli tra i quali Klonoa 2: Lunatea’s Veil, Devil Man e Sword of the Berserk: Guts’Rage. Riguardo a quest’ultimo titolo occorre fare una precisazione: in Sword of the Berserk: Guts’Rage la fuga verso la telecamera è ostacolata da una serie di elementi di disturbo; per superare il livello, il giocatore deve quindi imparare a memoria la loro disposizione. Essendo uno dei primi titoli che ha tentato di utilizzare questo tipo di

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L’area di gioco di Devil May Cry (PS2) è stata progettata in modo tale da non ostacolare l’azione del giocatore anche durante le riprese più inusuali.

Un’enunciazione visiva che voglia essere cinematografica pone altri problemi. Abbiamo visto che perdere di vista il proprio simulacro digitale può creare non pochi problemi al giocatore, soprattutto nei giochi d’azione. Ma nei videogame visualizzati in terza persona (l’utente osserva il protagonista dall’esterno) in cui l’area di gioco è realizzata con un motore grafico 3D, può capitare che, a causa dei movimenti di macchina, tra protesi digitale e telecamera si frapponga un ostacolo. Immaginate una sala piena di colonne in cui bisogna muovere un personaggio. È inevitabile che il protagonista prima o poi sia impallato da una colonna e il giocatore non lo possa più osservare direttamente. La soluzione più comune adottata dagli sviluppatori per risolvere questo problema è rendere trasparenti gli ostacoli dietro i quali si nasconde la protesi digitale del giocatore. In Devil May Cry, gioco d’azione in cui l’architettura del castello in cui Dante vive le sue avventure è piuttosto complessa, si ricorre spesso a questa soluzione. Può capitare a volte che gli sviluppatori abusino di questa opzione e rendano trasparente anche ciò che non è necessario che lo diventi (in The Hulk ad esempio, gli oggetti raccolti dal gigante verde, siano essi casse, tubi d’acciaio, automobili e così via, diventano trasparenti ma in realtà non esiste alcun motivo per fare ciò, poiché il protagonista non è in alcun modo “impallato” da ciò che tiene sospeso sopra la sua testa). Ovviamente non mancano i titoli che non tengono conto di questa esigenza (ad esempio The Way of the Samurai) rischiando, in alcuni casi, di risultare meno giocabili. Ma il “trucco delle trasparenze” non è, in effetti, l’unica soluzione per permettere al giocatore di non perdere mai di vista la propria protesi digitale. In Klonoa 2: Lunatea’s Veil, lo splendido platform Namco, è stata trovata una brillante alternativa. Nel livello Labirinto delle Memorie ripresa è comprensibile che sia stato commesso l’errore di ambientare la sequenza in un’area di gioco non particolarmente adeguata.

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Klonoa, una specie di gattino antropomorfo dotato di lunghissime orecchie, ad un certo punto passa dietro ad un muretto poco più alto di lui. Il protagonista è completamente nascosto alla vista dell’utente, ma il giocatore può osservarne i movimenti grazie ad uno specchio posto di fianco del personaggio. Osservando l’immagine riflessa, il giocatore può attaccare l’avversario a cui va in contro senza rischio di sbagliare, compito che sarebbe stato ben più arduo se avesse dovuto agire “alla cieca”. La scena descritta dura solo pochi secondi, ma la trovata è sicuramente geniale e ribadisce (come se ce ne fosse bisogno), che nel mondo dei videogiochi non esiste mai un’unica soluzione definitiva a cui gli sviluppatori debbano necessariamente ricorrere quando si trovino innanzi ad un problema. Dato che il videogame è anche un prodotto commerciale è inevitabile che certe soluzioni vengano riproposte senza alcuna innovazione in più titoli ma ciononostante è sempre possibile creare nuovi sistemi di controllo, nuovi stili di enunciazioni visiva, nuove meccaniche di gioco. Ovviamente tentare strade nuove comporta dei rischi, ma fortunatamente l’industria videoludica non è avara di temerari esploratori.

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1.9 Il problema del sistema di controllo Quando nel 1996 Resident Evil fece la sua comparsa sull’allora appena nata PSone, i giocatori furono costretti a adattarsi ad un sistema di controllo alquanto ostico. Il gioco era così ben fatto che gli utenti accettarono di buon grado di utilizzare un sistema che li costringeva ad interagire con il mondo rappresentato in modo piuttosto innaturale. Fino ad allora tramite la croce direzionale del joypad, il joystick42 o il mouse era possibile muovere il proprio personaggio in modo intuitivo e “spontaneo”. Nella quasi totalità dei giochi bidimensionali (si pensi a Pac-Man, ad esempio) il comando “su” implica che la protesi digitale personaggio si muove verso l’alto, “giù” verso il basso, “destra” e “sinistra” rispettivamente nelle due direzioni. Anche nei giochi in 3D in soggettiva, anche se la questione si fa un po’ più complessa, siamo generalmente di fronte ad un sistema di controllo piuttosto “naturale”. Di nuovo spostando nelle quattro direzioni il mouse si muove lo sguardo nel verso corrispondente 43 mentre agendo sulla croce direzionale (o meglio, sui quattro tasti della tastiera che ne fanno le veci) si controlla lo spostamento del personaggio.44 Tendenzialmente più l’enunciazione visiva di un videogioco si fa elaborato, più il sistema di controllo rischia di diventare complesso. Già passare dalle schermate statiche (ripreso da un’unica “camera fissa”) di Pac-Man allo scrolling (vere e proprie “carrellate”) di Defender implica dover studiare delle soluzioni per rendere il titolo giocabile (nel caso del celeberrimo shoot’em up Eugene Jarvis inserisce per la prima volta un radar che descrive l’intera mappa di gioco in modo sintetico). Le cose si fanno più complicate con l’avvento della grafica tridimensionale ma, sia nei giochi in soggettiva (si pensi a Doom), sia in quelli in pseudo soggettiva (ad esempio Tomb Raider), l’utente, utilizzando gli “occhi” del protagonista o seguendo l’azione da dietro le sue spalle, si trova subito a suo agio con il sistema di controllo. Quando però compare Resident Evil le cose cambiano radicalmente: l’eroe protagonista è rappresentato in terza persona (come nella maggior parte dei giochi bidimensionali) e dunque l’utente si aspetterebbe un sistema di controllo screen relative (riferito allo schermo), cosa che accade nella maggior parte dei giochi bidimensionali, invece Shinji Mikami, costringe il giocatore ad utilizzare un sistema di controllo character relative (riferito al personaggio) identico a quello impiegato nei giochi in soggettiva o in pseudo soggettiva. In Resident Evil i comandi “su” e “giù” fanno rispettivamente avanzare ed indietreggiare il personaggio, mentre gli input “destra” e “sinistra” fanno ruotare il protagonista in senso orario ed antiorario. Finché la telecamera inquadra il personaggio dalle spalle, il giocatore è a suo agio, poiché si ritrova nella consueta situazione dei giochi rappresentati in pseudo soggettiva, ma non appena la protesi digitale è rivolta verso la telecamera, l’utente è nella situazione “innaturale” di dover spingere verso l’alto la croce direzionale per muovere il personaggio “verso il basso” (avanzando verso la telecamera generalmente una figura umana tende ad occupare anche la parte inferiore dell’inquadratura) e, soprattutto, i comandi “destra” e “sinistra” risultano invertiti. Un sistema di controllo tanto complesso, soprattutto alla sua prima apparizione, crea non pochi problemi al giocatore ma il geniale design rende il titolo usufruibile adottando uno scenario che prevede dei nemici particolarmente lenti (zombi e morti viventi) in modo che non sia 42

Ovviamente esistono moltissimi altri sistemi di controllo come trackball, paddle, volanti, pistole ottiche, cloche ecc. ma il discorso, nella maggior parte dei casi, è analogo. 43 A volte il comando “su” fa ruotare lo sguardo verso il basso e di conseguenze “giù” permettere di muoverlo verso l’alto. Ciò per moltissimi utenti non è assolutamente innaturale, poiché riproduce esattamente il funzionamento delle cloche degli aerei. 44 Nei giochi in soggettiva su console in genere mouse e tastiera sono sostituiti da due levette analogiche.

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strettamente necessario che il protagonista (e di conseguenza il giocatore) debba agire in modo frenetico (siamo ben lontani dalla rapidità e precisione d’esecuzione richiesti da un titolo bidimensionale come Rygar). Lo sforzo che Shinji Mikami impone all’utente non è da poco, ma il compromesso è necessario. L’autore di Resident Evil vuole realizzare un videogioco cinematografico in cui l’azione sia ripresa da più telecamere posizionate in modi sempre differenti. L’impiego di un sistema di controllo screen relative implicherebbe due problemi essenziali: primo, ad ogni inquadratura bisognerebbe riallineare il sistema di controllo con la posizione della telecamera; secondo, nel passaggio da campo a controcampo il personaggio rischierebbe di ritornare nella schermata precedente subito dopo il cambio di inquadratura. Per essere più chiari facciamo un esempio. Il protagonista si trova in una stanza ed è rivolto verso la telecamera. Il giocatore per esplorare l’area di gioco preme “su” e avanza nel locale superando la telecamera. Dal campo si passa al controcampo in cui è ripresa la parte nascosta della stanza e il protagonista è visto di spalle. Il giocatore sta ancora premendo “su” e continua ad avanzare nella stanza senza alcun problema. Questa è la situazione se si adotta una sistema di controllo character relative. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo se si fosse adottato un sistema di controllo screen relative. Per “uscire” dalla prima inquadratura dell’esempio il giocatore avrebbe dovuto premere “giù” ma una volta entrato nel controcampo il comando “giù” ovviamente ancora inserito (il cambio di inquadratura è immediato) rischierebbe di fare ritornare il protagonista nell’inquadratura precedente. È un errore che è stato commesso in qualche titolo che ha tentato di copiare malamente l’enunciazione visiva di Resident Evil senza comprenderla a fondo, è il caso ad esempio di The Shadow of Zorro. Nonostante i giocatori abbiamo col tempo preso confidenza con il sistema di controllo di Resident Evil, la soluzione adottata da Shinji Mikami non ha permesso ai videogame ispirati al celebre titolo Capcom di diventare degli autentici giochi d’azione. Per quanto gli utenti diventino abili, dover agire utilizzando un sistema di controllo character relative in un gioco rappresentato in terza persona non è mai come poter interagire nel mondo rappresentato mediante un’interfaccia screen relative. È lo stesso Shinji Mikami, in Devil May Cry, a trovare una brillante soluzione a questo problema. Lo spettacolare titolo Capcom, per quanto riguarda l’enunciazione visiva è, il primo vero salto evolutivo rispetto a Resident Evil. L’azione di Dante è ripresa da più telecamere non più fisse come in Resident Evil ma in grado di compiere limitati movimenti di macchina. Ma l’innovazione più significativa apportata da Devil May Cry riguarda il sistema di controllo, non più character relative, bensì screen relative. Su PS2 Shinji Mikami dispone di una potenza di calcolo sufficiente per allineare, ad ogni nuova inquadratura, il sistema di controllo con il punto di vista del giocatore e, per risolvere il problema “dell’impasse” nel passaggio da campo a controcampo, il geniale game designer adotta un’idea semplice quanto efficace: nel passaggio tra un’inquadratura e l’altra intercorre un breve lasso di tempo nel quale il sistema di controllo rimane allineato con il punto di vista della schermata precedente; in questo modo il personaggio riesce ad allontanarsi sufficientemente dal punto dell’area di gioco in cui si passa da una telecamera all’altra, dopodiché il sistema di controllo si allinea finalmente alla nuovo punto di vista adottato. È l’uovo di Colombo. L’ideatore del gioco ha di nuovo il diritto di esigere dal giocatore rapidità e precisione d’esecuzione; il titolo Capcom è a tutti gli effetti un gioco d’azione. Dopo Devil May Cry, molti videogiochi cinematografici abbandonano il sistema di controllo adottato da Resident Evil, sostituendolo con la più immediata soluzione adottata nella prima avventura di Dante. 52


1.10 Da Macross Mission VF-X 2 a Zone Of The Enders L’utilizzo di più telecamere non è l’unico espediente utilizzabile per donare ad un videogioco un aspetto cinematografico. In alcuni casi può bastare simulare anche solo una macchina da presa per imbastire un’enunciazione visiva che somigli in qualche modo alle immagini in movimento di un film. In Macross Mission VF-X 2, trasposizione videoludica dell’universo della serie animata di Robotech45, si è tentata una soluzione particolarmente innovativa. L’obiettivo degli sviluppatori dell’originale shoot’em up era di creare un gioco che riproponesse un’enunciazione visiva simile a quella del cartone animato originale. Le spettacolari sequenze della celebre serie fantascientifica propongono combattimenti tra caccia bombardieri che si possono trasformare in robot antropomorfi (la trasformazione può anche essere parziale: robot dotato di gambe e braccia con il torso sostituito dalla parte anteriore del caccia posta orizzontalmente). Macross Mission VF-X 2 avrebbe potuto adottare una comunissima visuale in soggettiva o pseudo soggettiva: la telecamera dunque, si sarebbe potuta porre alle spalle del velivolo mantenendola sempre puntata nella direzione indicata dalla prua. In questo modo sarebbe stato facile per il giocatore dirigere il mezzo nella direzione desiderata ed orientarsi nello spazio tridimensionale dell’area di gioco. Ma una tale enunciazione visiva non assomiglia in nessun modo a quella impiegata nel cartone animato che si desidera imitare. In Robotech infatti, come in qualsiasi testo audiovisivo, la soggettiva e la pseudo soggettiva sono solo due delle possibili inquadrature utilizzabili ed il regista, per ovvie esigenze stilistiche, ne fa un uso parsimonioso. Gli sviluppatori di Macross Mission VF-X 2 inventano un modo assolutamente inedito per imitare il testo originale. La telecamera può muoversi in qualsiasi direzione nello spazio tridimensionale del gioco ma mantiene sempre inquadrato il veicolo guidato dal giocatore (in primo piano) ed un suo avversario (in lontananza) o i missili diretti verso di lui che possono costituire una minaccia (anch’essi sullo sfondo, per lo meno fino a quando non si scontrano con il velivolo pilotato dall’utente). Essendo i caccia di Macross particolarmente agili (trasformandosi in robot possono rimanere sospesi a mezz’aria ed effettuare improvvisi cambi di direzione) la ripresa dei duelli aerei risulta molto dinamica esattamente come nella seria televisiva o nei lungometraggi animati. Di nuovo può essere utile ricorrere ad un esempio per permettere al lettore di costruirsi un’immagine mentale corretta di ciò che forse non conosce. Si immagini un duello tra il mezzo pilotato dal giocatore (in primo piano) ed un eventuale avversario (in lontananza). Il nemico (in forma di caccia) sta inseguendo il nostro eroe e gli scarica addosso una raffica di missili a ricerca automatica. Il muso del veicolo dell’utente (in forma di caccia) è rivolto verso la telecamera e il giocatore effettua alcune manovre per schivare i missili dopodichè, una volta scampato il pericolo, si trasforma istantaneamente in robot antropomorfo arrestandosi improvvisamente a mezz’aria e costringendo il suo avversario a superarlo per spostarsi in una posizione di vantaggio e poter sferrare un attacco. Per mantenere costantemente la protesi digitale del giocatore in primo piano e il nemico in lontananza ma sempre all’interno dell’inquadratura, la telecamera virtuale è costretta ad effettuare un repentino spostamento nello spazio su una traiettoria circolare ruotando contemporaneamente su se stessa e trovandosi, in tal modo, alle spalle del veicolo guidato dal giocatore. Il risultato, anche se inizialmente può disorientare non poco l’utente, è molto suggestivo e riesce, nei limiti concessi dall’hardware PSone, a restituire al

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La serie animata di Robotech nasce dalla fusione di tre serie originariamente distinte: Chojiku Yosai Macross (Macross, la colossale fortezza), Tatsunoko, 36 episodi, 1982-’83; Chojiku Kidan Southern Cross, (Southern Cross, super truppa spaziale), Tatsunoko, 23 episodi, 1984; Kikososeiki Mospeada, (Mospeada, gli arrampicatori della genesi), Tatsunoko, 25 episodi, 1983-’84.

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giocatore la sensazione di stare interagendo con un audiovisivo sufficientemente simile al cartone animato che si è voluto imitare.

In Zone of the Enders (PS2), durante i combattimenti, la telecamera non rimane vincolata alle spalle della protesi digitale.

Ma quale sistema di controllo può essere associato efficacemente ad un’enunciazione visiva tanto dinamica? Unit, team di svilupppo del gioco, sceglie di lasciare al giocatore il controllo parziale del velivolo (l’utente può controllarne direttamente solo i reattori, le trasformazioni e l’armamento) concedendogli in “cambio” il completo controllo del sistema di puntamento del mezzo.In pratica il giocatore muove solo il mirino del veicolo: i movimenti del velivolo nello spazio tridimensionale sono una semplice conseguenza degli spostamenti del sistema di puntamento. I combattimenti si svolgono ad alta quota in modo tale che non siano mai presenti ostacoli con i quali il mezzo del giocatore possa entrare in collisione 46. Durante gli scontri molti velivoli (nemici ed amici) sono presenti nella stessa area e la telecamera virtuale, oltre ad effettuare continuamente i movimenti di macchina di cui sopra, si “aggancia” ora a questo, ora a quell’avversario rendendo l’enunciazione visiva estremamente dinamica. Il “trucco” adottato in Macross Mission VF-X 2 è essenzialmente quello di non mantenere, a tutti i costi, la telecamera orientata verso la direzione in cui è rivolto il veicolo guidato dal giocatore. Il titolo Bandai non è il solo ad utilizzare questa soluzione: anche Zone Of The Enders adotta una simile strategia ma per motivazioni differenti. In Zone Of The Enders il giocatore si ritrova ai 46

In realtà Macross Digital Mission prevede anche missioni a terra in cui viene adottato un sistema di controllo più comune e una “tradizionale” visuale in pseudo soggettiva.

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comandi di un agilissimo robot antropomorfo in grado di volare, ripreso costantemente in terza persona. Anche in questo caso la telecamera, tendenzialmente, mantiene in primo piano il veicolo guidato dall’utente e sullo sfondo uno dei suoi avversari. Durante i combattimenti sulla lunga distanza, il gioco sfrutta una normalissima inquadratura pseudo soggettiva (la telecamera riprende il robot dalle spalle, da un punto di vista leggermente rialzato) ma quando gli scontri diventano ravvicinati la questione si complica. Nei duelli su brevissima distanza il robot estrae un’arma da mischia (una sorta di lama di energia) ed esegue improvvisi scatti e repentine rotazioni attorno al suo avversario. Se si continuasse ad utilizzare una visuale in pseudo soggettiva l’enunciazione visiva diventerebbe oltremodo caotica 47, in Zone Of The Enders si è dunque preferito non costringere la telecamera a reagire a tutti gli spostamenti del Jeuthy; al contrario, la macchina da presa è dotata di una notevole inerzia in modo tale che, se il robot esegue spostamenti eccessivamente rapidi, essa rimane pressoché immobile nello spazio e non segue il robot nel suo spostamento, mantenendolo comunque sempre all’interno dell’inquadratura ma non necessariamente in primo piano.

In Crimson Sea (Xbox) la telecamera rimane sempre vincolata alle spalle della protesi digitale. Ciò rende la ripresa degli eventi eccessivamente dinamica.

Dotare la telecamera virtuale di una certa inerzia è necessario per evitare che nei giochi in pseudo soggettiva i movimenti di macchina siano eccessivamente vivaci. Se in Zone Of The Enders si fosse adottata una pseudo soggettiva pura l’enunciazione visiva sarebbe stata tanto 47

Si avrebbe una situazione simile a quella riscontrabile in certi combattimenti in soggettiva in Shenmue II che, sebbene siano decisamente spettacolari, non permettono al giocatore di gestire la protesi digitale con molta precisione.

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rapida e mutevole da risultare terribilmente caotica se non addirittura totalmente incomprensibile. Diversi titoli che adottano la visuale pseudo soggettiva commettono l’errore di non dotare la telecamera virtuale dell’inerzia necessaria per permettere all’inquadratura di essere più facilmente decifrabile. Ad esempio, in Crimson Sea, un gioco d’azione in cui il giocatore muove un eroe fantascientifico all’interno di un area di gioco tridimensionale, la telecamera se “abbandonata a se stessa”, rimane orientata costantemente nella direzione in cui è rivolto il protagonista ed è sensibile anche alla più piccola rotazione della protesi digitale. Ne risulta che, se il giocatore non interviene interrompendone il movimento tramite gli appositi comandi (l’utente può agganciare un bersaglio o bloccare in qualsiasi momento la macchina da persa nella direzione in cui si trova), l’enunciazione visiva diventa eccessivamente vivace e la lettura delle immagini si fa inutilmente faticosa. 48 Nei moderni videogiochi in pseudo soggettiva che utilizzano motori grafici 3D una scorretta gestione della telecamera virtuale può compromettere in modo sensibile la giocabilità di un titolo. Tra le migliori routine per la gestione della macchina da presa in ambienti 3D è doveroso menzionare Tomb Raider e Super Mario 64.

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Analoghi problemi di assenza di inerzia nella telecamera virtuale sono riscontrabili anche in Ty, la Tigre della Tasmania.

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1.11 Angolazioni e inclinazioni Avendo a che fare con una telecamera virtuale è opportuno riflettere in modo più ampio su due parametri che possono essere utilizzati per suscitare nello spettatore determinati effetti. Trattasi dell’angolazione e dell’inclinazione del cosiddetto “punto di vista”. Durante l’analisi della sequenza di Resident Evil presa in esame abbiamo costatato in che modo Shinji Mikami alzi e abbassi la telecamera per far sembrare il protagonista del gioco ora imponente, ora indifeso di fronte alla minaccia che deve affrontare. Nel cinema come nei videogiochi, le angolazioni che la macchina da presa può assumere durante la ripresa della performance ludica sono infinite ma possono essere comunque divise in cinque categorie. Descriviamole e vediamo subito le più comuni applicazioni. 49 Normale: la m.d.p. è posta all’altezza dell’occhio umano in posizione frontale rispetto ai dati dell’immagine.

Insieme alla Plongée è la visuale maggiormente in voga durante gli anni ‘80 nell’epoca d’oro del platform, del beat’em up, e dello shoot’em up. Volendo essere rigorosi, dato che in quel periodo i videogiochi utilizzano prevalentemente una grafica bidimensionale, sarebbe inesatto parlare di una vera e propria ripresa degli eventi ma, anche se non siamo di fronte ad una consapevole simulazione di telecamera resta il fatto che la performance ludica è ripresa da un angolazione neutra che non suscita particolari effetti nel giocatore/spettatore. A piombo (o Plongée): la m.d.p. è in posizione molto elevata e il suo asse ottico, rivolto verso il basso, è perpendicolare al suolo. In questo caso nei videogiochi si parla anche di visualizzazione a volo d’uccello. A differenza del cinema, dove se ne fa un uso oltremodo parsimonioso 50 la plongée è utilizzata fin dagli albori della storia video ludica. Anche in questo caso, parlando di giochi realizzati in grafica bidimensionale, non è estremamente corretto parlare di macchina da presa, ma resta il fatto che SpaceWar!, Pac-Man, Xevious, Jackal e tantissimi titoli degli anni ‘80 utilizzando questo tipo di inquadratura. Plongée e normale (generalmente in campo lungo51) sono ampiamente utilizzate prima della piena affermazione della grafica 3D poiché permettono al giocatore di avere una percezione chiara ed immediata dell’area di gioco. Alcuni titoli contemporanei la utilizzano ancora oggi; tra i casi più interessanti sono sicuramente da segnalare Metal Gear Solid e Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty, due titoli realizzati in grafica 3D che, in omaggio alle loro origini su MSX 52, propongono un’arcaica visualizzazione a volo d’uccello. Inoltre, la macchina da presa a piombo, è ampiamente sfruttata nei god games, negli RTS (Real-Time Strategy Games) 53 e in gran parte dei giochi manageriali.

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Le definizioni seguenti sono citazione esatte da Provenzano pp. 95-96; m.d.p. sta per macchina da presa. “Citiamo ad esempio il caso del coreografo-regista Busby Berkeley che, negli anni trenta, per primo, iniziò a usare le plongée per dare maggiore risalto alle fantasmagoriche coreografie delle sue commedie musicali.”, Provenzano, op. cit. p. 102. È interessante constatare che, molto spesso, i videogame ripresi in plongée, soprattutto gli shoot’em up di ultima generazione (a partire dagli anni ’90 poi), sono particolarmente coreografici. Si pensi ad esempio ad Ikaruga, ESP o Raiden. 51 Campo Lungo (C.L.): Riprese in cui la figura umana (o, nel videogioco, chi ne fa le veci, dunque anche astronavi, automobili, robot, creature più o meno antropomorfe e così via), pur restando di piccole dimensioni è comunque distinguibile. 52 La celebre serie di Hideo Kojima inizia nel 1987 con Metal Gear per MXS2 e prosegue nel 1990 con Metal Gear: Solid Snake sempre per MXS2. 53 Trad. It: “Giochi strategici in tempo reale”. 50

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Obliqua dall’alto: la m.d.p. è posta a un’altezza superiore a quella dell’occhio umano e il suo asse ottico è rivolto verso il basso. Con la piena affermazione dei motori grafici 3D avvenuta all’incirca dopo la nascita di PSone nel 1996, e con la rapida diffusione di titoli in pseudo soggettiva ispirati a Tomb Raider, l’obliqua dall’alto diventa il tipo di ripresa più diffuso nei giochi d’azione. Il motivo è sempre lo stesso: esigenze di chiarezza. La posizione rialzata della telecamera permette all’utente di esplorare con lo sguardo l’area di gioco fino in lontananza e di averne una percezione più chiara. Obliqua dal basso: la m.d.p. è posta ad un’altezza inferiore a quella dell’occhio umano e il suo asse ottico è rivolto verso l’alto. Questo tipo di ripresa, per sua natura, non è molto efficace nel descrivere l’area di gioco e dunque sia nei videogiochi del passato sia in quelli contemporanei è poco utilizzata. Sono una significativa eccezione numerose inquadrature in videogame cinematografici come Resident Evil, Ico, Devil May Cry, Project Zero ecc. che la utilizzano volentieri per suscitare particolari effetti. Tra le più belle riprese dal basso della storia dei videogiochi impossibile non ricordare il duello tra Dante e Griffon, il demone alato, in Devil May Cry. Supina (o contre-plongée): la m.d.p. è posta a terra (o sottoterra) e il suo asse ottico, rivolto verso l’alto è perpendicolare al suolo. Questo tipo di ripresa, per la sua innaturalità e le ovvie difficoltà tecniche (la superficie su cui poggia la figura inquadrata deve essere trasparente) è molto rara sia nel cinema 54 sia nei videogiochi. Per quanto riguarda il grado di inclinazione che la macchina da presa può assumere, la maggior parte dei videgiochi mantiene l’inquadratura in posizione orizzontale (il suolo e il bordo inferiore dell’inquadratura sono paralleli) ma non sono pochi gli esempi di telecamere più o meno inclinate. L’effetto che si vuole ottenere è lo stesso ricercato nel cinema classico: suscitare un senso di visione distorta, mostrare una percezione alterata degli eventi. Non sorprende dunque che la telecamera sia inclinata nel prologo di Silent Hill, dato che si tratta di un sogno del protagonista e non di un’esperienza “reale” e un’analoga sensazione “onirica” si ricerca anche in Maximo (ispirato allo storico Ghosts’n Goblins nonché al suo altrettanto noto seguito, Ghouls’n Ghosts) per non menzionare le sequenze in cui Dante, in Devil May Cry attraversa uno specchio magico e si ritrova in una demoniaca dimensione parallela. A volte però inclinare la telecamera può essere utile per comporre il quadro in modo più suggestivo: sempre in Devil May Cry abbiamo una delle schermate interattive più suggestive della storia dei videogiochi: quella in cui il protagonista (in primo piano, ripreso di spalle) deve ribattere con la propria spada le palle di fuoco scagliate da uno scheletro di tirannosauro (di fronte, in lontananza). Variare il grado di angolazione e l’inclinazione della macchina da presa in un videogioco non implica, come nel cinema, solo l’evocazione di particolari sensazioni nell’utente. Il giocatore non è uno spettatore passivo, deve interagire con le immagini del video, e assumere un “punto di vista” anomalo, innaturale o destabilizzante può complicare no n poco l’interazione dell’utente. Giocare utilizzando una telecamera leggermente inclinata può creare sensazioni suggestive senza compromettere più di tanto la percezione videoludica ma, quando si ribalta la

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L’esempio più classico di contre-plongée è sicuramente da ricercarsi nel film dadaista Entr’acte (Intermezzo, 1924) di Renée Claire, nel quale una leggiadra ballerina, ripresa dalla telecamra supina, si rivela essere un uomo con barba e baffi non appena la m.d.p. assume un’angolazione normale.

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camera di 90° o 180° 55 l’interazione diventa oltremodo difficoltosa anche se il sistema di controllo è screen relative. Una breve sequenza di Strider 2 può essere molto utile per mettere in risalto il nodo del problema. In questo caso non abbiamo a che fare con una rotazione della telecamera (Strider 2 sebbene realizzato prevalentemente in grafica 3D mantiene una struttura di gioco bidimensionale come Strider il suo predecessore 56). Le avventure del protagonista, un guerriero fantascientifico armato di spada laser, sono riprese in campo medio57 da un’angolazione normale. Nel terzo livello del gioco, durante l’esplorazione del laboratorio al Polo Sud, l’eroe si ritrova a combattere in stanze e corridoi in cui la forza di gravità è invertita. La protesi digitale del giocatore si ritrova a testa in giù e, quando salta, cade verso il bordo superiore dello schermo. La cosa interessante è che nulla è cambiato nelle regole costitutive del gioco; Hiryu Strider non ha perso la sua agilità e salta alla stessa altezza, ciononostante per l’utente risulta molto più difficile superare piccoli baratri ed evitare gli assalti del nemico. Il semplice fatto che il personaggio guidato si ritrovi a testa in giù confonde non poco la percezione che il giocatore ha della performance ludica. Immaginiamo cosa succederebbe se in un qualsiasi videogame la telecamera si inclinasse di 180° intorno al suo asse: l’utente ne rimarrebbe molto disorientato. Spettacolari movimenti di macchina che sfruttano ogni sorta di inclinazione ed angolazione della macchina da prese sono presenti nei simulatori di volo, in cui solitamente è adottata una visuale in soggettiva (dagli occhi del pilota) o in pseudo soggettiva (alle spalle del velivolo). In questi casi, orientarsi in un’area di gioco tridimensionale non è semplice e per questo indicatori e radar di varie tipologie sono sempre presenti per venire in soccorso al giocatore. Inoltre, dato che nei simulatori di volo si agisce in ampi spazi aperti, è piuttosto semplice farsi una mappa mentale sufficientemente esauriente dell’ambiente in cui si svolge l’azione. La situazione muta radicalmente quando ci si trova ad operare in spazi chiusi e l’azione è ripresa da una telecamera che può compiere qualsiasi tipo di movimento di macchina (comprese le variazioni di angolazione ed inclinazione). È ciò che accade ad esempio in Aliens vs. Predator quando si assume il ruolo dell’alieno creato da H.G. Giger. Aliens vs. Predator è uno sparatutto in soggettiva, in cui si può osservare l’azione dagli occhi della celebre creatura aliena e arrampicarsi su muri e soffitti. Nel titolo Fox Interactive riuscire ad orientarsi in una spazio tridimensionale utilizzando una visuale che può compiere tutti i movimenti di macchina possibili, non è cosa da poco, poiché durante i propri spostamenti, il giocatore deve riuscire a far ruotare in modo corretto la propria rappresentazione mentale dell’intera area di gioco (questo modo “innaturale” di percepire lo spazio d’altronde aiuta ad immedesimarsi con la creatura aliena). Altri videogiochi combinano in modo spettacolare carrellate, panoramiche, variazioni nell’inclinazione e nell’angolazione, per suscitare un efficace senso di vertigine: Sonic Adventure, un frenetico platform tridimensionale ideato da Yuri Naka, propone una vera telecamera acrobatica (si veda in particolare il livello SkyDeck, a bordo dell’astronave Egg Carrier, nella modalità Adventure Sonic) e, per quanto riguarda i movimenti di macchina, non è da meno il più recente Panzer Dragoon Orta.

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Nel cinema ricordiamo “Macross” (rotazione di 90°) e “La Casa” (rotazione di 180°). Diversi titoli contemporanei mantengono una struttura di gioco bidimensionale nonostante utilizzino un motore grafico 3D. Tra gli esempi più riusciti ricordiamo Klonoa, Klonoa 2: Lunatea’s Veil 2, R-Type Delta, Contra: Shattered Soldier e Ikaruga. 57 Campo Medio: Ripresa in cui la figura umana comincia ad assumere rilievo ma non arriva ancora a lambire con testa e piedi i margini inferiore e superiore dello schermo. 56

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1.12 Problemi di percezione Trattando di problemi di percezione mi risulta impossibile resistere alla tentazione di dedicare qualche riga ad Ikaruga, uno dei videogiochi più interessanti editi in Europa durante il 2003 58. Il lettore non se ne abbia se, per un attimo, ci si allontana dal tema principale di questo saggio, è un’eccezione alla regola ma ne vale sicuramente la pena.

Ikaruga (GameCube) è la trasposizione videoludica di quei test cognitivi in cui dalla stessa immagine possono essere estratte due figure differenti percependo parti diverse di ciò che si sta osservando, ora come sfondo, ora come soggetto.

A prima vista il titolo Treasure sembra un semplice shoot’em up bidimensionale a scrolling verticale, realizzato con un motore grafico 3D che conferisce una notevole dinamicità ai fondali; similmente a quanto accade in Klonoa o R-Type Delta, è come se l’azione si svolgesse sulla superficie piatta di un nastro che compie curve e ritorsioni all’interno di uno spazio tridimensionale e la telecamera riprendesse la scena mantenendosi sempre perpendicolare rispetto alla superficie inquadrata. L’idea semplice e allo stesso tempo geniale alla base del videogioco è la seguente. L’astronave può essere o bianca o nera e può mutare di colore in qualsiasi momento. Se è bianca non può essere ferita dai proiettili avversari del medesimo colore (anzi, essi “caricano” la smart bomb59), ma basta solo un proiettile nero per distruggerla. Se è nera l’effetto si inverte in modo speculare (i proiettili avversari bianchi sono letali e quelli neri caricano la smart bomb). 60 Dato che sullo schermo compaiono proiettili e nemici di entrambi i colori, il giocatore deve riuscire a percepire a colpo d’occhio quali, tra gli elementi presenti sul video, sono pericolosi e quali, invece, possono essere di qualche utilità. In qualsiasi shoot’em up il giocatore deve imparare a distinguere ciò che è una minaccia (nemici e loro colpi) da ciò che è neutro (lo sfondo) o utile (bonus, potenziamenti ecc.) ma Ikaruga, è diverso da qualsiasi altro titolo dello stesso genere perché la distinzione tra ciò che è bene è ciò che è male, muta costantemente per 58

Ikaruga in realtà è un Coin-op uscito in Giappone nel 2001 e successivamente convertito per Dreamcast e GameCube. Solo quest’ultima versione ha finalmente raggiunto il nostro paese per vie ufficiali. 59 Con il termine Smart Bomb si intende un’arma particolarmente potente che generalmente elimina la quasi totalità dei nemici presenti sullo schermo. 60 La struttura di gioco di Ikaruga prevede altre importanti regole costitutive tra cui il fatto che quando l’astronave guidata dal giocatore scaglia proiettili bianchi uccide più facilmente gli avversari neri e viceversa. Inoltre al livello di difficoltà normal i nemici eliminati con colpi dello stesso colore rilasciano proiettili della medesima tonalità.

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tutta la durata della partita. Al giocatore dunque è richiesta una notevole “elasticità cognitiva”: quando l’astronave (nera) sta per entrare in collisione con una miriade di proiettili bianchi, ad esempio, deve trasformarsi dello stesso colore per non essere colpita ma, così facendo il giocatore è costretto ad interpretare tutto ciò che compare sullo schermo in modo speculare (ciò che era amico diventa nemico e viceversa). Ikaruga è la trasposizione videoludica di quei test cognitivi in cui dalla stessa immagine possono essere estratte due figure differenti percependo parti diverse di ciò che si sta osservando, ora come sfondo, ora come soggetto. Nel titolo Treasure si chiede al giocatore di imparare a dominare questo fenomeno. L’utente deve essere in grado istantaneamente di “dimenticare l’immagine precedente” e sostituirla con quella necessaria per proseguire nel gioco. Ikaruga meriterebbe un’analisi più estesa ma non può essere questa la sede di tali approfondimenti; è interessante descriverne le regole costitutive essenziali perché il capolavoro Treasure rende evidenti alcuni dei meccanismi di cui il giocatore non sempre sembra essere coscienti (l’utente deve poter individuare e distinguere elementi positivi , elementi negativi e sfondo). Nei videogiochi l’utente deve agire in uno spazio simbolico in cui non è concesso di interpretare in modo superficiale o scorretto ciò che viene rappresentato sullo schermo. L’enunciazione visiva di un videogioco non può ignorare questo fatto, cosa che invece è tollerata o persino ricercata in qualsiasi altra tipologia di testo iconico non interattivo. Ad esempio, l’interazione con un videogioco è diametralmente opposta alla visione distratta delle flusso televisivo: videogiocare senza una dose minima di concentrazione è impossibile. Da questo punto di vista il videogiocatore assomiglia più al lettore di libri piuttosto che allo spettatore televisivo.

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1.13 Campi e piani Nelle ultime pagine sono stati utilizzati più volte il termine “Campo Lungo” e “Campo Medio”. Il lettore a digiuno di cinema può non sentirsi a suo agio con questi termini tecnici, vale dunque la pena proporne delle sintetiche definizioni con qualche breve annotazione sul loro impiego nel mondo di videogiochi. Il termine campo viene riferito alle inquadrature che ritraggono luoghi; il termine piano alle inquadrature che presentano la figura umana. Le definizioni che seguono sono tratte dal linguaggio della critica cinematografica ma, per applicarle al variegato universo dei videogiochi bisogna tenere conto che la “figura umana”, elemento di riferimento cardine per la distinzione tra vari tipi di campi e piani, è spesso sostituita da astronavi, veicoli, robot e creature d’ogni genere, cioè tutte quelle forme che può assumere la protesi digitale quando è rappresentata in terza persona. Si distingue tra: Campo Lunghissimo (C.L.L.): Riprese in esterni di un paesaggio molto vasto in cui la figura umana è assente o di grandezza appena percepibile. Nei videogiochi è spesso utilizzato negli RTS (Age of Empires), nei god games (Populous), nei manageriali (SimCity) ecc. poiché permette al giocatore di avere una chiara rappresentazione di una vasta porzione dell’area di gioco, condizione necessaria nei titoli appartenenti a questi generi. Campo Lungo (C.L.): Riprese in esterni in cui la figura umana, pur restando di piccole dimensioni, è comunque distinguibile. Gli shoot’em up (ad esempio, Space Invaders) utilizzano moltissimo questo tipo di inquadratura perché permette al giocatore di avere sotto controllo una porzione abbastanza ampia dell’area di gioco. Campo Medio (C.M.)o Mezzocampolungo (M.C.L.): Riprese in esterni in cui la figura umana comincia ad assumere rilievo ma non arriva ancora a lambire, con testa e piedi, i margini inferiore e superiore dello schermo. È il tipo di inquadratura utilizzato nella maggior parte dei platform bidimensionali (Super Mario Bros.) e nei giochi d’azione contemporanei in pseudo soggettiva (Tomb Raider e derivati), in questo genere di videogames, infatti, la figura umana (o di chi ne fa le veci), con le sue movenze e i dettagli che la contraddistinguono, assume un ruolo rilevante nell’economia del gioco (basti pensare al successo del personaggio di Lara Croft; anche se celeberrima, l’astronave di Space Invaders non si è impressa nell’immaginario collettivo con altrettanto vigore). Nel cinema, il termine “campo” è utilizzato anche per riprese in interni: si parla dunque di Campo Totale (C.T.), quando un certo ambiente è ripreso totalmente e Semi Totale se ne è inquadrata solo una parte. Per quanto riguarda l’analisi dei videogiochi spesso non ha molto senso utilizzare questi due ultimi termini a meno che l’inquadratura riprenda stanze di dimensioni “normali” (simili a quelle presenti nella realtà). Nei videogames, infatti, spesso l’azione si svolge all’interno di struttura architettoniche enormi (si pensi ad esempio al secondo livello di Ikaruga, che si svolge all’interno di un gigantesco complesso sotterraneo) ed ha molto più senso parlare di Campo Lunghissimo, Campo Lungo e Campo Medio. 62


Figura Intera (F.I.): Il quadro è riempito in tutta l’altezza dalla figura umana che lambisce i bordi superiore ed inferiore con le estremità. Questa inquadratura può essere utilizzata con successo nei picchiaduro ad incontri in alternativa al Campo Medio (soprattutto nelle simulazioni di box dove i personaggi non possono saltare). Le ragguardevoli dimensioni della figura umana (o di chi ne fa le veci) permettono, infatti, al giocatore di interpretarne in modo corretto i movimenti, operazione quanto mai necessaria per evitare colpi e parare assalti. Piano Americano (P.A.): La figura umana è ripresa dalle ginocchia in su e riempie tutto il quadro. Questo tipo di inquadratura è praticamente inutilizzabile nei giochi d’azione poiché lascia poco spazio allo sfondo o ad altri soggetti ripresi (elementi fondamentali di questo macrogenere). Può essere molto efficace in quei titoli (generalmente avventure di vario genere) in cui è essenziale poter interagire con personaggi ben caratterizzati e psicologicamente definiti (si pensi ad esempio a Tokimeki Memorial: Densetsu no Ki no Shita de o a titoli Hentai come GLO.RI.A o True Love ‘95). Mezza Figura (M.F.): La figura umana è tagliata all’altezza della cintola. Anche questo tipo di inquadratura è difficilmente utilizzabile nei giochi d’azione ma, tra le eccezioni significative, ricordiamo un picchiaduro a scorrimento del 1989, Red Heat, tratto dall’omonimo lungometraggio di Walter Hill (1987) interpretato da Arnold Schwarzenegger 61. La Mezza Figura venne utilizzata per riprendere il protagonista mentre si faceva largo a suon di ceffoni all’interno di una sauna. Tale inquadratura venne utilizzata in modo da mantenere fuori campo le parti intime del personaggi in scena che, data l’ambientazione, si presume siano nudi. Per completezza diamo anche le definizioni di Primo Piano, Primissimo Piano, Particolare e Dettaglio, anche se, per ovvie motivazioni, questi tipi di inquadratura sono utilizzati molto raramente nelle sequenze interattive nei videogiochi. Ovviamente, il discorso cambia nelle sequenze non interattive dei videogame cinematografici che, essendo in pratica dei brevi filmati, possono, se necessario, farne un largo utilizzo. Primo Piano (P.P.): La figura umana è tagliata all’altezza del busto o delle spalle. Nei videogiochi come nel cinema il Primo Piano è particolarmente adatta nei dialoghi. In Star Wars: Knights of the Old Republic, gioco di ruolo in cui la possibilità di interpellare qualsiasi perso naggio costituisce una parte essenziale della struttura di gioco, questa inquadratura viene utilizzata abbondantemente durante tutta l’avventura. Primissimo Piano (P.P.P.): La sola testa e , eventualmente, il collo della figura umana. Particolare (Part.): Il quadro è completamente riempito dal particolare di una parte del corpo umano. Dettaglio (Dett.): 61

Il film di Water Hill venne distribuito nelle sale italiane con il titolo Danko.

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Come la precedente, ma si riferisce ad un oggetto o animale, di solito di piccole dimensioni. (negli adventure e negli arcade-adventure può essere utilizzata per indicare elementi fondamentali per proseguire nel gioco, si veda ad esempio la sequenza di Resident Evil analizzata nel paragrafo 1.5) Ovviamente le osservazioni che abbiamo dato riguardo all’utilizzo di queste differenti grandezze scalari nei videogame sono solo generiche ed indicative. È possibile ad esempio creare uno shoot’em up in Campo Medio (Dragon Breed ad esempio), così come realizzare un platform in campo lungo (Bruce Lee). Inutile ribadire che nei videogiochi cinematografici qualsiasi tipo di inquadratura può essere utilizzata, a patto però che la situazione in cui viene impiegata sia progettata di conseguenza. In Gladiator: Sword of Vengeance, un picchiaduro a scorrimento sviluppato da Acclaim, l’azione è ripresa tendenzialmente in Campo Lungo, ma in ogni istante il giocatore può zoomare sulla protesi digitale fino ad ottenere un Piano Americano. In un qualsiasi altro videogame dello stesso genere una tale operazione renderebbe assolutamente ingestibile la situazione poiché il giocatore non sarebbe in alcun modo in grado di schivare o parare gli attacchi degli avversari in tempo utile; nel titolo Acclaim, invece, la protesi digitale esegue tali operazioni in modo piuttosto automatico e si scaglia automaticamente sul nemico più vicino. La consueta struttura di gioco di questo genere (parare o schivare l’assalto, inserendo il relativo comando al momento giusto e successivamente passare all’attacco) è sostituita da uno spartito ludico in cui il giocatore deve concatenare il numero maggiore di vittime nello minor tempo. Ogni colpo inferto va ad incrementare un particolare indicatore: più è alto il valore di tale variabile, più i colpi del protagonista diventano potenti e non possono più essere parati. Il sistema di combattimento di Gladiator Sword of Vengeance permette dunque di zoomare sulla protesi digitale nel momento in cui è maggiormente potente e si fa largo in mezzo ai suoi nemici dispensando mortali fendenti a destra e a manca, senza che la giocabilità del titolo ne risenta in modo significativo. Grazie ad uno spartito ludico appropriato, il titolo Acclaim può arrivare ad utilizzare addirittura dei Piani Americani, cosa più unica che rara in un picchiaduro a scorrimento. Questo è solo un esempio di come possano essere risolti i problemi dovuti all’utilizzo di inquadrature particolarmente ristrette nella realizzazione di un videogame, ma non è da escludere che esistano altre brillanti soluzioni. Sebbene la maggior parte dei videogiochi tendano a riproporre a grandi linee le stesse idee, in molti titoli non eccezionali sono nascoste piccole ma significative evoluzioni. Non tutti i balzi evolutivi sono evidenti come il passaggio dal 2D al 3D; molto spesso, nell’industria videoludica il progresso avanza anche a piccoli passi impercettibili.

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1.14 Obiettivi e altre distorsioni dell’immagine Da quando si è resa disponibile un’adeguata potenza di calcolo, nei videogiochi si è incominciato a simulare non solo la presenza di una o più telecamere che riprendessero in modo dinamico degli eventi, ma anche i limiti tecnici della macchina da presa. Nell’immagine generata tramite computer graphics, non esiste nessun motivo tecnico per cui qualche parte della scena non debba essere a fuoco, ciononostante non sono rari i casi in cui questa caratteristica fondamentale dell’obiettivo di ripresa viene riproposta. Il contrasto fra deep focus (tutta l’immagine è a fuoco) e soft-focus (la profondità di campo è molto corta, dunque il piano frontale è nitido mentre gli elementi verso la profondità appaiono sfocati o viceversa) viene comunemente utilizzato a fini espressivi sia nella fotografia sia nel cinema (che sotto diversi punti di vista, ne costituisce una sorta di evoluzione tecnologica). Con un po’ di approssimazione si può affermare che, in genere, si sfocano alcuni dettagli dell’immagine per dirigere l’attenzione dello spettatore sugli elementi nitidi dell’inquadratura. Nel cinema, la profondità di campo di un’inquadratura è determinata in massima parte dai limiti tecnici del tipo di obiettivo utilizzato; nei videogiochi, nella maggior parte dei casi, tutta l’immagine è a fuoco e se ci sono degli elementi sfocati, ciò dipende esclusivamente da consapevoli scelte espressive dell’autore. 62 In genere si utilizza a fini estetici la sfocatura quasi esclusivamente nelle scene non interattive realizzate tramite computer graphics, dato che nella performance ludica è preferibile, in linea di massima, concedere al giocatore una visione chiara e dunque anche nitida della scena ripresa. Ovviamente non mancano le eccezioni: in X Men 2: La Vendetta di Wolverine, un gioco d’azione prevalentemente in pseudo soggettiva, quando si attivano i super poteri del celebre mutante Marvel, l’immagine diventa completamente sfocata ed i colori dell’inquadratura mutano radicalmente (tutti gli elementi in scena diventano rossi ed ocra a parte gli odori che sono rappresentati con strisce verdi e le orme dei nemici che diventano grigie). Gli sviluppatori hanno utilizzato questo artificio per rappresentare visivamente lo stato mentale di Wolverine che si concentra non più sul senso della vista, ma su quello dell’udito (attivando questo potere è possibile percepire anche i suoni più lievi) e dell’olfatto. I limiti nella messa a fuoco della scena non sono le uniche caratteristiche simulate comunemente nei videogiochi. Spesso vengono riprodotti anche i riflessi che compaiono sulla lente quando l’obiettivo è puntato direttamente su una fonte luminosa molto potente. Si pensi ad esempio alla telecamera continuamente “abbagliata” dal sole in Ico. Il contrasto tra luci ed ombre ha un ruolo fondamentale nell’estetica del capolavoro di Fumito Ueda. Nel titolo SCEI la macchina da presa inquadra con una certa frequenza il sole realizzando suggestive riprese in cui il giocatore rimane “accecato”, quasi a significare che la luce e il buio pur facendo parte di una coppia antitetica non sono poi così dissimili; entrambi, in ultima analisi, hanno il potere di ostacolare la visione. Anche in questo caso non esiste nessuna ragione tecnica per cui i riflessi nella lente della macchina da presa debbano per forza essere riprodotti, tuttavia moltissimi videogiochi ricorrono a questo effetto speciale. La cosa singolare è che in molti casi non si tratta nemmeno di videogiochi cinematografici (si pensi ad esempio allo shoot’em up a tubo N2O: Nitrous Oxide per PSone). Perché dunque questa ossessione, più o meno consapevole nel voler rappresentare i limiti della macchina da presa? 62

In realtà quando si parla di profondità di campo nei videgiochi spesso non si intende l’ampiezza dell’area inquadrata nitida ma la capacità di un motore grafico 3D di disegnare completamente sul video spazi particolarmente estesi in profondità. Ovviamente tale caratteristica è direttamente proporzionale alla potenza di calcolo dell’hardware che permette il funzionamento di un certo motore grafico 3D.

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Sicuramente molti sviluppatori utilizzano in modo inconsapevole questi effetti speciali semplicemente perché sono disponibili, ma sono convinto che la reale motivazione alla base di un atteggiamento tanto diffuso risieda altrove. Il videogioco vuole essere un medium particolarmente seducente, vuole conquistare e coinvolgere il videogiocatore e per farlo adotta varie strategie. Una di queste è che vuole sembrare “reale”: la ricerca di una grafica fotorealistica, ad esempio, va proprio in questa direzione. È convinzione comune che più gli eventi rappresentati sembrano veri, più il gioco risulta coinvolgente. 63 I videogame hanno incominciato a utilizzare il linguaggio cinematografico non solo per diventare coinvolgenti come un film, ma per essere considerati più “reali”. Una delle caratteristiche fondamentali del cinema (mutuata direttamente dalla fotografia) è che un oggetto deve esistere realmente per essere ripreso. Le riprese così ottenute potranno essere anche montate e rielaborate tramite effetti speciali in modo tale da ricreare mondi di fantasia ma ciò non toglie che la “materia prima” del cinema sia costituita da attori in carne ed ossa ed oggetti realmente esistenti. L’immagine cinematografica è un indice (la relazione tra signi ficante e significato è un rapporto di casualità) mentre nei videogiochi, nella maggior parte dei casi64 si ha anche fare con icone (tra significante e significato intercorre una relazione di somiglianza) esattamente come accade nei cartoni animati disegnati a mano. Simulando la presenza e i limiti tecnici di una telecamera reale si vuole restituire alla scena rappresentata nel videogioco una certa “concretezza”. Esemplare è il caso di Steel Battalion, il simulatore di robot antropomorfi per Xbox di cui abbiamo parlato nel capitolo 1.6. L’enunciazione visiva del titolo Capcom è costituita essenzialmente dalla soggettiva del pilota che osserva i controlli del mezzo e due monitor sui quali vengono proiettate le immagini riprese dalle telecamere esterne. È interessante notare che vengono simulati anche gli eventuali disturbi della visione a cui una telecamera è soggetta: la lente si sporca, l’immagine spesso è disturbata, l’inquadratura è instabile, poco definita ecc. L’effetto in sé è molto coinvolgente ma il tanto ambito fotorealismo viene irreparabilmente compromesso da un vistoso draw-in. Gli elementi del paesaggio posti in lontananza, cioè, vengono disegnati man mano che ci si avvicina ad essi e sembra dunque che palazzi e montagne si materializzino dal nulla. Ma torniamo al discorso principale, i limiti della macchina da presa, quando vengono riprodotti, diventano marche testuali della ripresa cinematografica (soft focus, deep focus, riflessi nella lente, ma anche, gocce di acqua sul vetro dell’obiettivo, appannamenti ecc.) e spingono il giocatore a credere che ciò che compare sul video sia reale quanto la “materia prima” del cinema e della fotografia. Il giocatore sa, ovviamente, che è tutta una finzione ma, come lo spettatore a teatro o il lettore di un libro, ama lasciarsi “ingannare”, non appena ciò è possibile, attuando il ben

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In realtà non è affatto così. La computer grafica ispirata al linguaggio dei cartoni animati o dei fumetti può risultare molto più coinvolgente dell’immagine digitale fotorealistica. L’utilizzo e la diffusione del cel-shading (una tecnica di rendering che dona ai videogiochi un aspetto cartoonesco) dipende in massima parte da una proprietà fondamentale del cartone animato tradizionale e del fumetto: la capacità di cogliere ed esprimere l’essenza della realtà che si vuole rappresentare eliminando tutti i particolari secondari e “non necessari”. Riguardo a tale argomento vedi Scott McCloud, Understanding Comics. The invisible Art, Kitchen Sink Press, USA, 1993; trad. it. Capire il fumetto. L’arte invisibile, Vittorio Pavesio Productions, Torino, 1999. Tra i videogame più significativi che utilizzano una grafica ispirata al cartone animato o al fumetto ricordiamo Jet Set Radio, Grabbed by the Ghoulies, XIII, Zone of the Enders: The 2nd Runner, Vampire e Metal Slug. 64 Le animazioni realizzate mediante Motion Capture, ad esempio sono vere e proprie ombre digitali. Sull’argomento vedi anche Bruno Fraschini, “Videogiochi e New Media”, saggio contenuto in: Matteo Bittanti (a cura di), Per una Cultura dei Videogames, Unicopli, Milano, 2002, pg. 120.

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noto processo che Samuel Taylor Coleridge chiama sospensione volontaria dell’incredulità (“willing suspension of disbelif”).

Steel Battalion: un esempio di grafica fotorealistica.

Uno dei più brillanti esempi di simulazione della macchina da presa è rintracciabile in Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty. Nel celebre titolo Konami, Hideo Kojima fa appannare la telecamera quando la scena si sposta da un esterno molto freddo ad un interno più caldo, ricopre il vetro dell’obiettivo di goccioline quando la macchina da presa emerge dall’acqua e, in certi casi, arriva addirittura ad incrinare la lente se il protagonista viene eliminato da un proiettile e il giocatore sta utilizzando la visuale in soggettiva Così facendo, Kojima riesce a rendere “concreto” e cinematografico un titolo che utilizza prevalentemente una visuale a volo d’uccello (macchina da presa a piombo); un tipo di ripresa molto comoda per il giocatore ma poco utilizzata nei film. Ma torniamo alla simulazione delle proprietà ottiche dell’obiettivo di ripresa. Nel cinema, in base alla lunghezza focale gli obiettivi posso no essere suddivisi in tre grandi categorie: normali (ampiezza angolare di circa 50°), grandangolari (angolo di visione superiore ai 60°) e lungofocali o teleobiettivi (ampiezza angolare inferiore ai 40°). La lunghezza focale di un obiettivo è inversamente proporzionale all’ampiezza del campo inquadrato e alla “profondità di campo” che è la distanza che separa il punto “a fuoco “ più vicino da quello, sempre a fuoco, più lontano. Questo significa che gli obiettivi a focale corta o grandangolari inquadrano un campo

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più ampio del “normale” e riportano una profondità di campo superiore. Al contrario, gli obiettivi a focale lunga inquadrano un campo più ristretto e hanno una profondità di campo più ridotta.65

L’utilizzo di obiettivi grandangolari e lungofocali comporta una certa deformazione della visione prospettica rispetto a quella dell’occhio umano. Con i grandangolari le distanze prospettiche apparenti risultano più grandi di quelle della realtà, cioè gli oggetti sembrano fra loro più lontani di quanto siano in realtà ed è inoltre osservabile un effetto di deformazione dell’immagine ai bordi del quadro. Al contrario i teleobiettivi provocano un effetto di avvicinamento e di schiacciamento, cioè gli oggetti ci sembrano più vicini, ma anche molto vicini fra loro (appunto come se fossero “schiacciati” l’uno contro l’altro). Correlata a queste deformazioni prospettiche è la variazione della “velocità apparente” e gli oggetti in movimento. Con gli obiettivi grandangolari i movimenti sembrano più veloci e al contrario con i teleobiettivi appaiono rallentati per un effetto ottico -psichico dovuto al fatto che il tempo che trascorre rimane invariato rispetto a quello della realtà mentre le distanze sembrano, rispettivamente, più lunghe o più corte che nella realtà.66

Queste caratteristiche dell’obiettivo sono comunemente simulate nei videogiochi contemporanei. In particolare il grandangolo è spesso utilizzato nei giochi di guida (ad esempio Metropolis Street Racer), per aumentare il senso di velocità soprattutto ai bordi dell’inquadratura, e negli sparatutto in soggettiva (ad esempio Medal Of Honor), dove permette al giocatore di osservare una porzione dell’area di gioco più ampia del “normale” (in pratica, così facendo viene simulata la visione periferica dell’occhio umano). I teleobiettivi, invece, sono generalmente simulati quando il protagonista dispone di macchine fotografiche, binocoli o telecamere provviste di zoom e utilizza un’inquadratura soggettiva (si pensi ad esempio a Metal Gear Solid). Nel cinema è possibile ottenere particolari effetti di dilatazione o schiacciamento dello spazio ripreso combinando carrellate in avanti e zoomate “all’indietro” (effetto di dilatazione) o, viceversa, carrellate all’indietro e zoomate “in avanti” (effetto di schiacciamento) 67. Anche nelle sequenze non interattive dei videogiochi realizzate mediante computer graphics si utilizzano questi effetti. Yu Suzuki, in Shenmue II ricorre spesso a questa strategia enunciativa per sottolineare la drammaticità di certe situazioni. Nei giochi che concedono al giocatore la facoltà di gestire la funzione di zoom come Ico o Project Zero 68, l’utente può, in certi casi, ricreare questi effetti anche se , per forza di cose, il risultato può essere piuttosto grezzo. Trattando di distorsione dell’immagine è doveroso spendere qualche parola su altre deformazioni dell’inquadratura spesso utilizzate nei videogiochi contemporanei. Si tratta in genere di ondulazioni di vario tipo che vengono utilizzate insieme all’inclinazione della macchina da presa per comunicare uno stato di percezione alterata degli eventi da parte del giocatore/protagonista. Nella già citata scena di Devil May Cry in cui Dante attraversa lo specchio magico, ad esempio, è come se la l’immagine fosse proiettata su una superficie distorta da onde ed un effetto simile si trova anche nello splendido Kula World quando si “assumono” le pastiglie che fanno scorrere più rapidamente il tempo. Effetti di distorsione di vario genere sono comunemente utilizzati per le riprese subacquee: tra le più riuscite ricordiamo quelle presenti in Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty mentre, tra le meno convincenti sicuramente vanno citate quelle di Die Hard: Vendetta.

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Provenzano Roberto C., op. cit., pg. 109 Provenzano Roberto C., op. cit., pg. 110. 67 Si pensi ad esempio alla scena di Le Haine di Mathieu Kassovitz del 1995 (edito in Italia con il titolo L’odio) in cui i due protagonisti Vinz e Said rimangono bloccati a Parigi. 68 La funzione di zoom della macchina fotografica è attivabile dopo che il gioco è stato completato una prima volta. 66

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1.15 Il problema del formato schermico Nel campo dei videogiochi lo schermo su cui le immagini vengono proiettate può variare notevolmente per quanto riguarda dimensioni, proporzioni e definizione. Si va dal piccolo video di un handheld come il Game Boy fino a schermi che occupano totalmente il campo visivo del giocatore come i coin-op di Ridge Racer - Full Scale, i tre monitor di Ferrari F355 Challenge o i caschi utilizzati nei giochi in realtà virtuale 69. Descrivere ed analizzare nel dettaglio una tale varietà di soluzioni potrebbe risultare noioso in questa sede; basti sottolineare che, anche in questo caso, l’enunciazione visiva di un videogioco deve sempre essere dominata da un’evidente istanza di chiarezza. La disposizione degli elementi nell’immagine così come le regole costitutive di uno specifico videogioco (il suo spartito ludico) non possono ignorare il tipo formato schermico che verrà utilizzato dal giocatore.

L’enorme schermo di Ridge Racer Full Scale permette di realizzare immagini in scala 1:1.

È una regola ovvia che, sfortunatamente, a volte viene ignorata creando non pochi problemi, il più frequente dei quali è una possibile diminuzione della giocabilità. Frequente è il caso di giochi ideati per essere usufruiti su PC (dunque con un monitor di piccole dimensioni ma dotato di una definizione dell’immagine piuttosto alta) “convertiti” in modo approssimativo su console (dunque destinati ad essere visualizzati su televisori di dimensioni anche ragguardevoli ma dotati di una definizione dell’immagine più bassa). La lettura dei dettagliatissimi documenti scritti in Syberia nella versione per PC, ad esempio, diventa piuttosto faticosa sullo schermo del televisore nelle versioni PS2 e Xbox. Questi problemi non sono di facile soluzione ma, anche se a volte vale la pena accettare dei compromessi, è consigliabile giocare alle versioni “originali” dei videogame siano essi Coin-op, titoli per console, giochi per PC, Handheld e così via.70 Al contrario, assolutamente deprecabili sono gli adattamenti dei titoli per console nati in formato NTSC (16:9), adottato in Giappone e Stati Uniti, e successivamente convertiti nel formato PAL (4:3) diffuso in Europa e nel nostro paese.

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Per ulteriori esempi di Coin-op dotati di schermi di grandi dimensioni vedi anche il sito internet System 16 The Arcade Museum,all’indirizzo http://www.system16.com/namco/hrdw_medium.html#rrfs 70 Molti coin-op emulati su PC tramite M.A.M.E. ad esempio sono penalizzati dalla definizione troppo alta del monitor e sembrano dunque più “spigolosi” di quanto non siano gli Arcade originali.

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Per discutibili questioni di carattere economico (una traduzione “corretta” è sicuramente più onerosa in termini economici) spesso l’enunciazione visiva di tali opere viene deformata sensibilmente e risulta schiacciata con una conseguente alterazione delle proporzioni degli elementi dell’immagine (personaggi più “grassi”, figure meno slanciate ecc.). Tra i casi più eclatanti, impossibile non denunciare le “brutali” conversioni PAL di Devil May Cry, Final Fantasy X o Kingdom Hearts.

Il coin-op di Ferrari F355 Challenge utilizza tre monitor.

Essenzialmente si tratta di una preoccupante mancanza di rispetto nei confronti dell’opera (e dell’acquirente) a cui nel nostro paese va a sommarsi una qualità dei doppiaggi e delle traduzioni in lingua italiana generalmente alquanto dilettantesca 71. Sicuramente l’operazione di traduzione (o meglio, di localizzazione) di un videogioco presenta inedite difficoltà tecniche rispetto al doppiaggio cinematografico, ma ciò non toglie che sia lecito esigere risultati di ben altra qualità.

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Sfortunatamente, gli esempi sono innumerevoli. Nella sua mancanza di professionalità il doppiaggio in Italiano di Metal Gear Solid è pari solo alla quantità di errori presenti nella traduzione nella nostra lingua di Metal Gear Solid 2: Sons Of Liberty. Tra gli esempi di buoni doppiaggi ricordiamo i dialoghi di Syberia e la voce di Sam Fisher in Tom Clancy’s Splinter Cell, prestata per la versione italiana da Luca Ward, doppiatore professionista per il cinema responsabile delle versioni nostrane di Russell Crowe ne Il Gladiatore, di Keanu Reeves in Matrix e di Samuel L. Jackson in Pulp Fiction.

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1.16 Videogiochi tratti da film Dal cinema, i videogiochi non si limitano a “rubare” inquadrature, movimenti di macchina o tecniche di montaggio. In moltissimi casi prima ancora di rielaborarne il linguaggio, i videogame sottraggono ai film l’universo alternativo che essi creano, il loro immaginario. Gli sviluppatori tentano spesso di trasformare un film in un videogame, spesso senza rendersi conto che l’operazione che stanno effettuando è, a tutti gli effetti, una vera e propria traduzione. Facciamo un passo indietro, pensiamo ai film tratti da libri. Il fatto di dover trasformare le parole scritte in immagini e suoni pone più di un problema. Le immagini sono molto efficaci nel descrivere dettagliatamente una situazione, ma non altrettanto nell’esprimere concetti o particolari sfumature di uno stato d’animo; suoni e musica possono suscitare emozioni, ma non sono in grado di rappresentare forme e colori; le parole hanno una fortissima capacità di sintesi, ma non riescono a riferire tutti i dettagli di cui una scena è composta. Trarre un film da un libro significa trasformare un testo in cui abbiamo esclusivamente un’enunciazione linguistica in un altro testo in cui oltre all’enunciazione linguistica abbiamo anche un’enunciazione visiva e un’enunciazione musicale. Estrarre un videogame da un film implica aggiungere a queste tre modalità d’enunciazione una quarta: l’enunciazione ludica. Se si vuole tradurre un libro in un film senza stravolgere il senso dell’opera originale è necessario che parole, immagini e suoni collaborino tra loro traducendo parti diverse del testo di partenza. Nel realizzare i tre film tratti dalla trilogia de Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, Peter Jackson ha tradotto la prosa dell’opera originale in immagini spettacolari e musica maestosa. Se, per assurdo, avesse optato per una colonna sonora comica e grottesca il senso dell’opera sarebbe stato completamente alterato, l’epicità si sarebbe trasformata in parodia, la saga in una farsa. Nel tradurre un film in videogioco si ripropone lo stesso problema ma spesso gli sviluppatori non sembrano esserne realmente consapevoli. Come abbiamo precedentemente dimostrato l’enunciazione ludica non è un elemento neutro che nulla aggiunge al senso dell’opera, tutto l’opposto. Ad esempio, in Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello (sviluppato da Surreal Software), vengono compiuti diversi errori di traduzione. Secondo le dichiarazioni degli autori, il videogioco s’ispira direttamente al libro e non al film e tenta di attenersi al testo originale in modo fedele 72 ma quando si tratta di tradurre il senso dell’opera in un uno spartito ludico vengono commessi errori grossolani. Nel viaggio verso Rivendell, Aragorn è la protesi digitale personaggio del giocatore; il suo compito sarebbe di difendere gli Hobbit dall’assalto di alcuni nemici tra cui dei pericolosi Troll. Il gioco è un comune picchiaduro a scorrimento in cui all’utente viene richiesto di avanzare lungo un percorso lineare uccidendo una serie di avversari. L’errore fondamentale nello spartito ludico di questa sequenza consiste nel fatto che gli Hobbit presenti nella scena non possono morire in nessun modo; non importa quanti colpi subiscano, i piccoli esseri si rialzano in ogni caso. In questa sequenza enunciazioni visiva, enunciazione linguistica ed enunciazione musicale agiscono di comune accordo comunicando l’idea che Aragorn deve difendere un gruppo di Hobbit perché è il più forte del gruppo ma l’enunciazione ludica stravolge completamente il senso della scena poiché l’eroe sta proteggendo degli esseri assolutamente invincibili. Lo stesso giocatore se ne accorge nel momento in cui capisce che una strategia vincente per superare il livello è lasciare che gli Hobbit affrontino da soli i nemici più pericolosi, opzione quanto mai necessaria se Aragorn rimane gravemente ferito. Questa è solo uno dei tanti esempi di errata composizione dello spartito ludico di un videogioco tratto da un altro testo, film o libro che esso sia. Cristiano Bonora, in un articolo 72

Ad esempio il viaggio degli Hobbit che precede l’incontro con Aragorn è descritto in modo più completo rispetto al lungometraggio di Peter Jackson. L’episodio del salice piangente infatti è stato incluso, così come Goldberry, personaggio secondario assente nel film.

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apparso su Ring#06 intitolato “Licenza da uccidere, Semantica e Sistematica del Tie-in” analizza la questione in modo analogo ma con un linguaggio in parte differente dal mio, includendo nel discorso anche videogame tratti da cartoni animati e fumetti e distinguendo tra traduzioni interlinguistiche (ad esempio, in Hokuto no Ken: Sieki Matsukyu Seisyu Densetsu i disegni animati della serie televisiva Ken il Guerriero vengono riprodotti in computer grafica poligonale) e traduzioni semiotiche (la comicità dei cortometraggi di “Ralph il Lupo” si traduce nel divertente ed imprevedibile spartito ludico del gioco Ralph il Lupo all’attacco). Tie-in è il termine tecnico con il quale le riviste di settore indicano i videogiochi tratti da film realizzati su licenza (dunque con il permesso legale degli autori dell’opera originale) e spesso è sinonimo di qualità mediocre. La realizzazione di prodotti su licenza fa parte di un fenomeno complesso in cui interessi commerciali e genuine ispirazioni degli autori entrano costantemente in conflitto. Se è innegabile che molti videogiochi vengono realizzati in modo alquanto distratto solo per sfruttare il presunto successo di un film è pur vero che esistono videogame che tentano seriamente di tradurre l’opera originale in un testo dotato di una propria dignità. Tralasciamo la questione delle motivazioni economiche che spingono un produttore a finanziare un videogioco su licenza e concentriamoci su altri aspetti di questo interessante fenomeno.

L’enunciazione visiva di Star Wars (M.A.M.E.) è decisamente essenziale, ma il giocatore “vede” le astronavi dettagliate del film, non i semplici poligoni che compaiono sullo schermo.

Il motivo principale per cui un videogioco si ispira ad un film è che, così facendo può dare per scontato che il giocatore possieda una certa competenza enciclopedica. Per essere più chiari, torniamo agli esordi dell’industria videoludica, ai tempi in cui grafica e sonoro non erano 72


evoluti come oggi e ripensiamo al celebre Coin-op di Star Wars sviluppato nel 1983 da Atari. Il videogioco permette di indossare i panni di Luke Skywalker durante l’attacco alla Morte Nera. Lo scopo del gioco consiste nel pilotare un X-wing (il modello d’astronave dei buoni) durante la battaglia, infilarsi nel canale del satellite artificiale e fare saltare in aria la base nemica. Il titolo, realizzato in wireframe, propone immagini estremamente stilizzate: solo semplicissimi poligoni composti da linee di pochi colori su uno sfondo nero. È interessante notare che l’utente, durante la partita “vede” molto di più di ciò che appare sullo schermo. Sul video non ci sono altro che pochi parallelepipedi, triangoli e puntini ma il giocatore percepisce TIE Fighter (le astronavi dei cattivi) e torrette di sbarramento, non sta sparando a dei nemici anonimi, sta vivendo il momento cruciale di un’epica lotta tra il bene e il male, sta vendicando i propri genitori, sta distruggendo un’arma che ha disintegrato un intero pianeta, sta proteggendo gli amici con cui ha vissuto una pericolosa avventura. Tutto questo nel videogame in questione non c’è (probabilmente se il film non esistesse si potrebbe scambiare la Morte Nera per un normale pianeta) eppure il giocatore lo percepisce. Il videogame di Star Wars del 1983 sfrutta il film di George Lucas per suscitare un coinvolgimento che da solo non sarebbe in grado di evocare. Sotto ogni punto di vista i videogiochi attuali sono diversi dai Coin-op degli anni ‘80 ma ancora oggi si realizzano Tie-in che, esattamente come Star Wars di Atari, trasformano alcune sequenze di un film (in genere quelle d’azione) in livelli di un videogame. Tra i casi più recenti ricordiamo Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re, un picchiaduro a scorrimento tratto dall’omonimo film di Peter Jackson, che permette al giocatore di rivivere alcune sequenze del lungometraggio utilizzandone i personaggi principali. Inquadrature cinematografiche, sequenze non interattive tratte direttamente dal film, colonna sonora e doppiaggio tratte dal testo originale creano nell’utente la sensazione di interagire con una versione interattiva della pellicola ma anche qui il senso dell’opera è in parte corrotto. Anche se battaglie e combattimenti hanno un ruolo importante nel film, le riflessioni sul potere che seduce e trasforma in mostri (l’anello di cui ci si deve liberare per salvare la terra di mezzo) non trovano alcun riscontro all’interno dello spartito ludico. Pur essendo un gioco divertente e tecnicamente ben fatto, si tratta di una traduzione che tradisce notevolmente l’intenzione che l’autore esprime del testo di partenza. Oltre alle traduzioni dirette di film occorre porre l’attenzione su un altro fenomeno piuttosto comune ai nostri giorni: l’utilizzazione dell’ambientazione di un testo all’interno di un opera sostanzialmente autonoma. Si tratta di un fenomeno che non coinvolge solo il mercato dei videogame ma qualsiasi altra forma di categoria testuale (fumetti, cinema, cartoni animati, giochi di ruolo, libri, giocattoli, ecc). Si pensi di nuovo alla saga di Star Wars: la trilogia di George Lucas oltre a raccontare una storia descrive un intero universo. In parte il successo della saga dipende anche dal fascino che questo mondo immaginario è in grado di suscitare ma è l’impressionante quantità di altri testi ambientati in quella stessa realtà a donare credibilità e consistenza ad essa. Più testi utilizzano quell’ambientazione senza negare il testo originale, più quell’ambientazione diventa reale, nel senso che i singoli autori non hanno più il diritto di modificarne gli elementi costitutivi a loro piacimento. La situazione che si crea è quella di un mondo immaginario ma “solido” che acquista una certa autonomia nei confronti dei propri creatori; una sorta di realtà alternativa a cui si può accedere in diversi modi: leggendo un libro o un fumetto, guardando un film, giocando con un videogame o con un gioco i ruolo. Realizzando Star Wars: Knights of the Old Republic, Bioware ha dovuto sottomettersi alle “regole” poste nella trilogia di George Lucas, ma ha anche fornito una descrizione più accurata di elementi sono solo accennati nel testo originale e la stessa cosa accade per tutti i videogiochi che sfruttano la licenza di Guerre Stellari. Ovviamente maggiore è la mole di testi che descrivono la stessa ambientazione più è difficile mantenere la coerenza del mondo immaginario descritto 73


ma non è questo il punto, d’altronde anche le opere che descrivono la realtà in cui viviamo sono spesso in aperta contraddizione tra di loro. Il fenomeno della creazione di un mondo illusorio ma “solido” ed autonomo rispetto ai propri creatori è in molti casi decisamente spontaneo ma esserne consapevoli può permettere la pianificazione di elaborate strategie comunicazionali. Si pensi ad esempio all’universo di Matrix: con il primo film della serie i fratelli Wachowski descrivono un mondo, con Matrix Reloaded, Matrix Revolution, i nove cortometraggi animati di The Animatrix e il videogioco Enter the Matrix, cercano di approfondirlo. Poco importa se questa operazione sia in riuscita o meno, in questo momento la questione non ci interessa. Concentriamoci su alcune idee contenute nel videogame su licenza. Dal punto di vista prettamente ludico Enter the Matrix è un titolo mediocre sia per quanto riguarda la realizzazione tecni ca sia per quanto concerne la qualità intrinseca del suo spartito ludico, ciononostante alcune idee contenute in questo titolo sono molto interessanti. Andy e Larry Wachowski, coordinatori del progetto e responsabili della trama e della sceneggiatura del gioco, non hanno in alcun modo tentato di trasformare Matrix: Reloaded in un videogioco ma hanno realizzato un’opera ad essa complementare. I protagonisti di Enter the Matrix sono Ghost e Niobe, personaggi secondari del film; il videogioco racconta eventi che colmano alcuni dei vuoti lasciati nella trama del lungometraggio. Il videogame contiene circa 40 minuti di sequenze inedite girate dal vero in 35 mm utilizzando attori e set del film originale ma la fitta rete di rimandi tra videogioco e lungometraggio si spinge ancora oltre. In Enter the Matrix è infatti contenuta un breve avventura testuale che simula una sessione di hacking. In questa parte del gioco l’utente non indossa più i panni di Ghost o di Niobe, la protesi digitale diventa trasparente ed il giocatore interagisce con la simulazione di un computer identico a quello utilizzato da Neo nel primo film della serie. Niente grafica tridimensionale dunque, solo stringhe di codice e caratteri alfanumerici verdi su sfondo nero. Operando su una tastiera 73 è possibile esplorare questo sconosciuto hardware immaginario. Lo scopo di questa parte del gioco è scoprire password, decifrare codici ed accedere a file e programmi sempre differenti (mappe, descrizioni delle armi, cheat code, ecc) utilizzando un linguaggio criptico simile all’MSDOS. 74 Giocare a fare l’hacker diventa la parte più interessante e divertente di Enter The Matrix ed ovviamente le citazioni dal film si sprecano: nella rete (anch’essa simulata) si possono incontrare i personaggi del lungometraggio e recuperare applicazioni che possono rendere la missione di Ghost e Niobe (e dunque il gioco d’azione vero e proprio) molto più semplice. È sicuramente in questa parte del gioco che lo spirito dei fratelli Wachowski trova la sua incarnazione ideale; le informazioni contenute nella breve avventura testuale di Enter The Matrix invitano l’utente a visitare i siti ufficiali del gioco75 e del film 76 e dopo una rapida ricerca in rete (quella reale) il giocatore si rende conto che un po’ dappertutto sono stati nascosti i codici e le

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Se si sta giocando su console la tastiera è ovviamente simulata poiché il giocatore tiene tra le mani un joypad. Le avventure testuali, in cui il giocatore interagisce con il mondo virtuale, impartendo ordini alla propria protesi digitale tramite una tastiera, soffrono tutte in maniera più o meno grave di un problema strutturale. Per “farsi capire” dal computer occorre utilizzare esclusivamente i vocaboli che il programma è in grado di comprendere, che in genere sono molto pochi rispetto a quelli utilizzati in una normale conversazione dall’utente. Nella prassi le avventure testuali si trasformano spesso in una snervante “caccia alla parola giusta” che mina fortemente la capacità di coinvolgimento del gioco. Anche nell’avventura testuale contenuta in Enter the Matrix questo handicap è presente, ma ottiene esattamente l’effetto opposto. La difficile comunicazione tra utente e computer causata dall’utilizzo di un linguaggio criptico ed estremamente rigido come quello dell’MS-DOS coinvolge il giocatore invece di allontanarlo poiché simula in modo realistico la situazione che si vuole rappresentare: quella di un hacker che interagisce con un sistema informatico assolutamente non user friendly. 75 www.enterthematrixgame.com 76 http://whatisthematrix.warnerbros.com 74

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password necessari per attivare i cheat code77 del gioco. Riguardando il mondo di Matrix descritto nel film con occhi da hacker si possono scovare messaggi che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno è in grado di vedere. Le targhe dei veicoli, i cartelli stradali ed altri dettagli secondari sono codici che possono essere utilizzati nel videogioco. Il videogame chiede al giocatore di rileggere in modo differente il film, il legame tra le due opere si fa più stretto, l’intertestualità non è più un fenomeno spontaneo ma una strategia comunicazionale ben pianificata. A causa della non eccelsa qualità di Enter the Matrix e di Matrix Reloaded, i fratelli Wachowski sono riusciti a realizzare il loro progetto solo in parte ma, comunque, sembra che essi abbiano colto il nodo della questione; non è detto che qualcun altro in futuro non riesca a raggiungere davvero gli obiettivi che in questo caso sono stati mancati. Tra le altre saghe che hanno dato vita ad un mondo immaginario dotato di una certa autonomia, vale la pena approfondire quella di Alien. Partiamo dai film per arrivare a ai videogiochi. L’archetipo della serie è definito una volta per tutte nel primo episodio della serie: Alien (1979) di Ridley Scott stabilisce le caratteristiche fondamentali che dovranno essere rispettate in ogni seguente apparizione della creatura (l’aspetto fisico dell’alieno, il suo sistema riproduttivo nonché le tre fasi del suo sviluppo), stimolando in modo efficace paure, fobie e tabù della cultura occidentale. Alien assume le forme che istintivamente suscitano repulsione: è ragno, serpente, insetto, rettile, drago, scheletro; possiede tentacoli, fauci e artigli; è nero (quasi invisibile nel buio), perennemente ricoperto di bave e umori. La creatura ideata da H.R. Giger è contemporaneamente mostruosa ed affascinante. Lo spettatore anche se ne prova ribrezzo ne è costantemente attratto, vuole continuamente rivederla, in questo è del tutto simile ai diversi ricercatori che nei vari episodi ammirano la perfezione di questa creatura piuttosto che temerla. In tutto il primo episodio della saga l’alieno appare solo per brevissimi istanti, le inquadrature indugiano sempre sul dettaglio (una mascella, una coda, un artiglio) e solo alla conclusione delle vicende (quando Ripley, unica sopravvissuta, fugge dall’astronave Nostromo con la navetta di salvataggio) Ridley Scott ci mostra finalmente la creatura protagonista del film. E non si limita semplicemente ad osservarla, ma la ammira. Sebbene la visione sia ancora ostacolata dai giochi di luce e ombra della scialuppa di salvataggio, l’inquadratura indugia lungo il corpo della creatura con un movimento molto lento, che finalmente soddisfa il desiderio di vedere questa “cosa”. Alien, in ogni sua apparizione, è dominato da una manifesta ossessione riproduttiva. La sua incredibile ferocia è una diretta conseguenza del suo desiderio isterico di salvare la propria specie. Non sembra uccidere per nutrirsi, è a caccia di corpi in cui riprodursi (nel “formicaio” di Aliens, scontro finale gli esseri umani sono usati come incubatrici da inseminare), non permette mediazioni, è intelligente, possiede un’organizzazione sociale e non è chiaro se possieda una cultura o meno. Alien è spaventoso perché compie sugli esseri umani ciò che essi hanno fatto alle creature del pianeta terra. E’ un predatore che minaccia di invadere non i territori umani, bensì i loro corpi, costringendoli a riprodurre la propria progenie, incurante del danno causato per raggiungere il proprio scopo. Usa gli esseri umani così come essi sfruttano le altre specie del pianeta. Uno dei motivi del successo di questo personaggio è che, al pari di King Kong o Godzilla incarna ed esorcizza la paura che la natura possa togliere all’uomo il senso di onnipotenza che ha raggiunto con l’avvento dell’età moderna.

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I cheat code sono i codici che permettono all’utente di giocare barando. In Enter The Matrix ad esempio possono essere utilizzati per rendere invulnerabili i protagonisti, dotarli di armi particolari o di munizioni infinite.

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Alien va a scardinare anche altri tabù della cultura occidentale: la sua ossessione riproduttiva lo porta a fecondare indistintamente maschi o femmine, esseri umani o animali. Nell’alieno creato da Giger sono racchiuse le paure e le aspettative della manipolazione genetica: poter creare vita da ogni tipo di tessuto di partenza infrangendo l’ordine naturale e la tradizionale necessità di disporre di un maschio e di una femmina per poter procreare. Alien è affascinante perché è biologicamente perfetto. Può resistere in condizioni ambientali estreme, può riprodursi in ogni situazione, i suoi sensi sono incredibilmente sviluppati, ha un sistema immunitario che lo rende praticamente inattaccabile (basti pensare all’acido che scorre nelle sue vene e che lo rende ancora più pericoloso quando è ferito), è agile, veloce, forte, un essere superiore con cui l’uomo può competere solo ricorrendo alla migliore tecnologia di cui dispone: scafandri, armi, sensori, robot e quant’altro. La figura di Alien utilizza diversi simboli decisamente ricchi dal punto di vista semantico. L’uovo è simbolo di vita, l’atto di inseminazione evoca il gesto semanticamente pregnante dell’imposizione della mano 78, lo scheletro è simbolo di morte, l’abbondanza di sostanze liquide è simbolo di fertilità, il drago, simbolo di divinità, è legato alla mitologia, alla leggenda o al soprannaturale. La ricchezza semantica di Alien ha decretato il suo enorme successo. Alien anche se non è mai riuscito a raggiungere e colonizzare il pianeta terra, è riuscito ad invadere un universo forse anche più ricco di possibilità riproduttive: l’universo testuale. Partendo dal romanzo di Alan Dean Foster e dal film di Ridley Scott l’alieno ha prolificato non solo in altri tre seguiti cinematografici, ma soprattutto nei fumetti e nei videogame. Alien si è quindi scontrato con Superman, Batman, Predator79 e qualsiasi altra creatura in grado di competere con la sue incredibili capacità. Questi testi, spesso di non eccelsa qualità, sono nati per soddisfare il desiderio del lettore di vedere la propria mitologia di supereroi affrontare una minaccia aliena tanto pericolosa. Una volta che i mondi immaginari acquistano una certa consistenza è inevitabile che prima o poi entrino in collisione tra di loro, si tratta quasi di una nuova applicazione della legge della gravitazione universale: maggiore è la “massa” dei due mondi immaginari, maggiore è la forza di attrazione tra di essi. Ovviamente si tratta di una semplice metafora, non di una rigorosa legge scientifica, torniamo dunque alla saga di Alien. Utilizzando più o meno liberamente gli elementi definiti nel primo episodio

della serie vengono creati continuamente nuovi testi, nuovi accessi al mondo immaginario in cui Alien è protagonista. Analizziamo nel dettaglio in che modo due opere differenti, Alien Resurrection (1997) di JeanPierre Jeunet e l’omonimo videogame della Fox Interactive, utilizzano questi elementi di base per creare testi decisamente diversi. Nell’ultimo episodio cinematografico della serie, Jean-Pierre Jeunet gioca con le tematiche emerse negli episodi precedenti ricombinandole fino ad ottenere delle soluzioni inedite. Come gli scienziati dell’astronave Esu Auriga utilizzano le informazioni del DNA di Ripley per riportarla in vita, allo stesso modo il regista francese ricombina gli elementi della serie per ottenere un nuovo episodio. Ma come la Ripley clonata non assomiglia più alla Ripley originale così Alien Resurrection si allontana dall’archetipo della serie. L’inafferrabilità scopica 80 dell’alieno, 78

Nei disegni di Giger il ragno inseminatore era una mano dotata di un lungo tentacolo al posto del polso. Tale creatura, durante l’inseminazione copre totalmente il volto dell’ospite rendendo inutilizzabili gran parte degli organi di senso e rendendo totalmente inerte la vittima. 79 Tra gli altri ricordiamo Aliens vs. Predator ed Aliens vs. Predator 2, entrambi sparatutto in soggettiva in cui si può giocare sia nel ruolo di marine spaziali, sia impersonificando la creatura aliena del film di Ridley Scott o il cacciatore extraterrestre del lungometraggio di John McTiernan in cui Arnold Schwarzenegger recita nel ruolo di protagonista. 80 Canova, Gianni, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000, p. 118

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elemento fondamentale negli episodi precedenti, viene palesemente infranta. Alien è molto più visibile rispetto ai primi tre lungometraggi, lo vediamo apprendere (l’alieno impara ad usare il congegno congelante con cui gli scienziati dell’Auriga tentavano di addomesticarlo), risolvere problemi che implicano una certa capacità di astrazione (due Alien ne uccidono un terzo in modo da creare, grazie al sangue acido della creatura, una via di fuga nella quale sono prigionieri), nuotare e infine partorire. Alien Resurrection, a differenza degli episodi precedenti, non suscita suspance o terrore perché spesso si vede troppo e subito. Semmai indugia nello splatter. Durante l’inseguimento subacqueo, ad esempio, la scena è illuminatissima in modo che sia possibile ammirare i movimenti della creatura. Ma in questo modo, della tensione creata in modo magistrale nel primo episodio della serie, non rimane alcuna traccia. Alien non è più una creatura indecibile81, inafferrabile dallo sguardo, sempre presente ma invisibile, ormai è una superstar che indugia sotto i riflettori e le telecamere. Gli spettatori vanno al cinema per vedere la creatura, è quasi secondario chi la dovrà affrontare. Jean-Pierre Jeunet opera altre importanti trasformazioni. Nel suo film sembra giocare con gli elementi della serie per creare un’opera che spesso risulta addirittura grottesca. Tutti i personaggi (scienziati, militari o mercenari che essi siano) sembrano le caricature dei protagonisti degli episodi precedenti. Ripley stessa non ha più nemmeno paura degli alieni, ormai si muove come loro e ne ha assimilato alcune caratteristiche (il sangue acido, le movenze, l’incredibile agilità, i sensi sviluppatissimi). Negli episodi precedenti Ripley assume il doppio ruolo di cacciatrice e di madre82 ma ora questi due aspetti vengono ricombinati e diventa madre di alieni e cacciatrice poco convinta al punto che per la prima volta la vedremo compatire la minaccia aliena. In Alien Resurrection, Ripley diventa sempre più aliena, muta addirittura la sua struttura biologica e si sente una straniera quando finalmente raggiunge il pianeta terra. Alien invece si umanizza, nasce dall’utero della regina invece che da un uovo e dimostra di possedere sentimenti (dopo aver ucciso la madre aliena, lecca Ripley come un cucciolo di mammifero e si lascia abbracciare dalla sua madre umana). Ma questo ibrido, come gli altri cloni di Ripley, non è più mostruoso e affascinante, è solo ripugnante. Ha uno sguardo umano ma si nutre del cervello degli esseri umani, sembra un bambino ma è feroce e incredibilmente forte. Il videogioco tratto dal film trascura completamente tutte queste tematiche. Non c’è traccia delle trasformazioni che Ripley ha subito e la creatura aliena nata dalla regina non subisce alcun processo di umanizzazione, è solo il letale mostro da eliminare per concludere il gioco. Non si deve pensare che non sia possibile far emergere in modo efficace tematiche di questa complessità in un videogame. Molti videogame di scuola giapponese affrontano in modo eccellente problematiche sull’identità, basti citare Final Fantasy VII, Metal Gear Solid o Front Mission 3. Il fatto che in Alien Resurrection (il videogame) non emergono certe tematiche è una scelta dell’autore, non un limite del mezzo espressivo. Non è un caso che il videogioco della Fox Interactive appaia sul mercato con tre anni di ritardo rispetto alla controparte cinematografica; il videogame non ha assolutamente bisogno del film di cui condivide la trama poiché tutti i suoi elementi fondamentali sono tratti dagli episodi precedenti della serie. Alien Resurrection (2000) è uno sparatutto in soggettiva ben realizzato che ripercorre liberamente la trama del film. Il giocatore, personificando successivamente Ripley, l’androide Call e alcuni degli altri mercenari presenti nel film, deve compiere diverse operazioni: fuggire da alcune aree, distruggere i cloni, riattivare il computer dell’astronave, isolare i pazienti umani inseminati, 81 82

Ivi, p.119 Canova individua significative somiglianze tre Ripley e la dea Artemide, divinità della guerra e del parto, Ivi, p. 125

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evitare che l’Argo esploda a causa di una scialuppa di salvataggio in avaria e infine espellere il mostro finale nello spazio siderale.

Alien Resurrection (PSone) tradisce totalmente i contenuti del film di Jean-Pierre Jeunet, ma traduce in modo esemplare lo spirito della serie.

Il videogioco della Fox Interactive sembra ispirarsi molto di più ad Aliens: Scontro Finale, piuttosto che ad Alien Resurrection. L’intenzione dell’opera è quella di immergere il giocatore nell’atmosfera del secondo episodio della serie: cunicoli, mitragliatori, lanciafiamme, lancia granate e l’impulso di sparare a qualsiasi cosa si muove. Il videogame, a differenza del film di Jean Pierre Jeunet, non stravolge affatto le caratteristiche della serie; anzi tutti gli elementi sono stati sfruttati nel modo più classico. Gli alieni sono sempre feroci e inafferrabili, le armi si scaricano in fretta ed è fondamentale non rimanere senza munizioni, le uova liberano pericolosi ragni inseminatori 83 che durante la fecondazione dell’ospite coprono totalmente la superficie del video e rimangono appiccicati allo schermo come se si trattasse del volto del giocatore immobilizzandolo per un breve periodo, i corridoi e i cunicoli sono bui, o malamente illuminati, ricchi di dettagli tratti dagli episodi cinematografici: neon intermittenti, apparecchiature guaste, vapori, fiamme, tubi a vista, catene, zone allagate, sostanze organiche, portelli sfondati, grate, visori, laboratori ecc. Alien Resurrection mantiene intatta soprattutto l’inafferrabilità scopica dell’alieno: appena la creatura entra nell’area di gioco, l’utente deve riuscire istantaneamente ad inquadrarlo per potergli sparare. Il giocatore, utilizzando la visuale in soggettiva dei protagonisti si rende conto che vedere il nemico è fondamentale per sopravvivere. Il livello di difficoltà di Alien Resurrection, è decisamente alto rispetto ad altri titoli dello stesso genere; il suo spartito ludico riesce a comunicare alla perfezione il senso di pericolo che trasmette l’atmosfera del film e la letalità delle creature in esso descritte. Basta essere sorpresi alle spalle da un alieno per morire, bisogna affidarsi ai suoni, agli strumenti (il radar portatile è tratto dal film di James Cameron), e a buone 83

Traduzione impropria del termine inglese “facehugger”.

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tattiche esplorative per non essere sorpresi ed eliminati 84. La profondità di campo, a causa del buio, è decisamente ridotta ma ciò che, in altri videogame, è considerato un fastidioso difetto, in questo caso crea la giusta atmosfera di tensione. Le riflessioni sull’ossessione del “vedere” che Canova elabora sui film della serie si adattano perfettamente anche al videogioco, il ché significa che lo spartito ludico di Alien Resurrection anche se tradisce totalmente i contenuti del film di Jean-Pierre Jeunet, traduce in modo esemplare lo spirito della serie. Vedere, poter rinchiudere in un’inquadratura, significa controllare e il giocatore riesce a vedere ben poco (fondamentale risulta l’utilizzo di una torcia elettrica per aumentare temporaneamente il proprio campo visivo). Deve sempre inseguire l’oggetto della sua visione ed è costretto a raggiungerlo in tempi brevissimi se non vuole essere eliminato, non ha quasi mai il tempo di ammirare la creatura aliena, il suo non è uno sguardo contemplativo (a differenza di alcune sequenze degli episodi cinematografici), non gli è concesso indugiare nell’osservazione dell’alieno se non quando è morto o morente. Osservata da uno spettatore esterno una partita ad Alien Resurrection sembra uno strano testo audiovisivo girato quasi totalmente con un lungo piano sequenza in soggettiva caratterizzato da movimenti rapidissimi e repentini cambi di direzione in cui la telecamera insegue senza posa alieni che vengono immediatamente eliminati 85. L’effetto che per il giocatore è decisamente coinvolgente, risulta disorientante per lo spettatore non giocante. Fanno eccezione gli ultimi attimi che precedono la conclusione del gioco. Dopo aver compiuto una rocambolesca fuga dal Newborn 86 contro cui ogni arma non ha alcun effetto, Ripley riesce a rinchiuderlo in un hangar e dietro un vetro infrangibile può finalmente osservare la creatura da cui è fuggita. Prima di questo momento, tale operazione è stata impossibile, nella frenesia del combattimento e della fuga non c’è stato il tempo di osservare, ma finalmente il giocatore ha vinto, può ammirare la creatura senza alcun pericolo e infine gettarla nello spazio, come in ogni episodio della serie. Questa breve analisi comparata tra film e videogioco ci aiuta ad evidenziare come la stessa struttura di fondo (la stessa trama e gli stessi elementi di base) possano essere sfruttati in modo differente da un mezzo ormai tradizionale come il lungometraggio e un testo nuovo come il videogioco. Il film, in questo caso, è portato a combinare le tematiche della serie in modo inedito e porta alle estreme conseguenze il tema del parto, il tema l’umanizzazione dell’alieno (il Newborn) o dell’androide (Call) e l’alienizzazione dell’umano (Ripley). Al contrario il videogioco trascura totalmente le tematiche del film per immergere il giocatore nella tipica atmosfera della serie. Ogni elemento grafico, sonoro e ludico è pensato per creare l’illusione di essere realmente a bordo di un’astronave infestata da pericolosissimi alieni. La scelta testuale di utilizzare una visuale soggettiva, l’assenza di musica, l’utilizzazione del Dolby Surround e la riproduzione del movimento della testa del personaggio guidato, sono tutti elementi che spingono al massimo le capacità di immedesimazione del videogame. Non è un caso che il gioco si presenti con una frase decisamente significativa: “This game is best played in the dark”87. Il testo esige una certa situazione ambientale per poter realizzare il suo obiettivo di coinvolgimento. Una stanza buia, un televisore di grosse dimensioni che occupi quasi 84

Ad esempio, si guarda se un’area è sgombra e si procede in essa indietreggiando per coprirsi le spalle; se si deve effettuare una svolta ci si gira nella direzione del corridoio seguente prima di accedere ad esso, per evitare di essere assaliti lateralmente; in un intersezione a T si osservano entrambe i sensi prima di procedere, ecc. 85 Per la prima volta si può assistere alla nascita dei Cheastburster dal punto di vista dell’ospite. Col termine Cheastburster si intende la fase evolutiva in cui l’alieno assume forma di serpente e nasce dal corpo dell’ospite sfondandone il torace. 86 Con Newborn si intende la creatura aliena con caratteristiche umane nata dall’utero della regina. 87 Tr. it. “Questo gioco è giocato al meglio al buio”

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totalmente il campo visivo, un impianto Dolby Surround per poter far dimenticare al giocatore il proprio mondo fisico e poterlo immergerlo in una realtà alternativa, in questo caso l’universo testuale di Alien. Il cinema, a cui, per definizione, manca l’interattività, non può raggiungere tali livelli di immedesimazione; il videogioco, imparando ad utilizzare in modo sempre più efficace il linguaggio e i codici cinematografici sta solo ora cominciando ad esplorare le sue possibilità espressive. È auspicabile che prima o poi il videogame sappia svincolarsi dalle proprie consuetudini ed incominci a muoversi anche in nuovi territori: rimanendo nell’ambito dei videogame narrativi, perché non creare un’opera realmente drammatica (il giocatore conduce il protagonista fino all’epilogo tragico, non verso il lieto fine), una commedia sentimentale (l’interazione tra i personaggi costituisce la parte fondamentale del gioco), una satira o un documentario? Esistono già sperimentazioni in questo campo ma nell’industria videoludica intrattenimento è ancora sinonimo di disimpegno, la qual cosa non accade nel cinema, nella narrativa, nei fumetti e nella musica leggera da ormai molto tempo. Editori e sviluppatori si muovono in questa direzione in modo estremamente prudente. È un atteggiamento comprensibile ma il rischio è quello di creare una quantità deplorevole di tabù ingiustificati, quali la presenza obbligata del lieto fine (in fin dei conti il protagonista si salva sempre), la consuetudine di non trattare seriamente temi di attualità o in qualche modo controversi 88, l’impossibilità di includere scene erotiche in un videogioco a meno che non si tratti di un titolo esplicitamente pornografico ed altro ancora. Per fortuna, rompere le convenzioni è un’attività estremamente seducente per la natura umana.

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Un caso eclatante di questo problema riguarda Prisoner of War un gioco d’azione ambientato nei campi di prigionia della Seconda Guerra Mondiale che evita qualsiasi riferimento al dramma dell’olocausto.

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1.17 Cinema ovunque Rimangono ancora alcune questioni da trattare: l’illuminazione della scena e l’uso del colore. In entrambi i casi si tratta di argomenti complessi che ha senso affrontare ricorrendo ad esempi pratici e studiando l’utilizzo che ne viene fatto di volta in volta, per questo motivo rimandiamo la questione all’imminente analisi di Project Zero. Per ora ci interessa ribadire che i videogiochi soffrono di una notevole fascinazione nei confronti del cinema (soprattutto quello hollywoodiano) non solo per quanto riguarda l’enunciazione visiva (videogame cinematografici che utilizzano consapevolmente movimenti di macchina e cambi di inquadratura) ma anche per ciò che concerne l’organizzazione stessa degli eventi narrati, la strategia comunicativa e l’immaginario di riferimento. I videogiochi, fin dagli anni ‘80 rinunciano alla durata potenzialmente infinita (impostazione derivata essenzialmente dai flipper a cui inizialmente vengono associati nell’immaginario comune) di titoli come Defender o Pac Man e si dotano di una vera e propria che procede da una rottura dell’equilibrio iniziale ad un finale in qui l’antagonista è sconfitto, il pericolo è cessato, o si è recuperato l’oggetto di valore (generalmente un’amata rapita come in Ghosts’n Goblins). Non mancano titoli iniziali (presenti su schermo, prima che il giocatore inizi la partita, come dei veri e propri cartelloni pubblicitari), prologhi, colpi di scena e persino titoli di coda (che mostrano i nomi degli sviluppatori del gioco una volta che l’avventura è conclusa). In tempi recenti si arriva addirittura ad introdurre lunghe parti interattive che precedono la comparsa del titolo del gioco (Metal Gear Solid) o di un livello (Ikaruga), ed anche performance ludiche successive alla conclusione degli eventi narrati; dei veri e propri epiloghi giocati, posti dopo i titoli di coda come una specie di “gioco senza scopo né regole” simile alla paidia descritta da Caillois (Ico). In particolare è la narrazione dei videogiochi ad essere generalmente organizzata secondo i dettami della narrazione classica hollywoodiana: gli obiettivi degli individui sono ben definiti, la narrazione, e con essa la partita del giocatore, si conclude quando il problema è stato risolto e si torna allo stato iniziale di equilibrio. Nel cinema classico hollywoodiano, infatti: La causalità del personaggio fornisce il principio primo unificante, mentre la configurazione dello spazio è motivata dal realismo, così come da esigenze compositive. Le scene sono demarcate secondo criteri neoclassici – unità di tempo, luogo e azione. La narrazione classica tende a essere onnisciente, altamente comunicativa, e solo moderatamente auto-cosciente. Se c’è un salto temporale, una specifica sequenza di montaggio o un frammento di dialogo ce ne informa; se manca una causa, veniamo ragguagliati sulla sua assenza. La narrazione classica si atteggia a “intelligenza editoriale”, che seleziona alcuni periodi di tempo per essere trattati esaustivamente, ne riduce altri, e presenta altri ancora in modo notevolmente compresso, mentre, allo stesso tempo, presumibilmente, esclude gli eventi non consequenziali.89

Va da sé che la figura del protagonista nella narrazione hollywoodiana si sovrappone “naturalmente” con quella del giocatore che nel videogioco è anch’egli, in fin dei conti, l’elemento cruciale e necessario per l’avanzamento della trama. Ovviamente questa non è l’unica soluzione possibile per imbastire una trama, anche se sicuramente è la più diffusa. Nel variegato mondo dei videogame spesso il giocatore controlla più di un personaggio (si pensi ad esempio ai GDR di scuola giapponese o a Final Fantasy VII in cui, ad un certo punto della trama, Cloud, il protagonista, esce dal gruppo contro la volontà dell’utente) e in alcuni casi, ad esempio nei war games, nei manageriali o nei god games, non si ha a che fare con dei veri personaggi ma con folle, eserciti, popolazioni o classi di persone (o meglio di clienti) quasi che si trattasse della trasposizione videoludica del cinema sovietico degli anni ‘20.

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Stam, Burgoyne, Flitterman-Lewis, op. cit. p. 243.

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Nella maggior parte dei casi, è probabile che alcune di queste analogie e somiglianze non siano affatto citazioni consapevoli degli sviluppatori nei riguardi del cinema ma semplici quanto inevitabili coincidenze. Nell’imbastire una trama, in qualsiasi forma di narrazione (film, videogioco o libro che sia), si devono effettuare delle scelte: ci sarà un solo protagonista attorno a cui ruoterà la storia o sarà una narrazione corale senza personalità di spicco che mettano in ombra gli altri individui? Alla fine della narrazione i problemi suscitati troveranno una soluzione o il racconto si interromperà bruscamente lasciando “in sospeso” una miriade di questioni? Il giocatore si troverà costantemente in situazioni “reali” o non sarà più in grado di comprendere se ciò che sta vivendo è un sogno o un’illusione del protagonista? Il videogioco, così come il film, cerca sempre di esplorare “territori” pochi battuti e, di conseguenza, le analogie con alcuni elementi di specifiche correnti cinematografiche sono inevitabili. La confusione tra sogno e realtà di Silent Hill sembra strizzare l’occhio non solo alle opere di David Lynch, ma anche all’espressionismo tedesco, un cinema fatto di “visioni” e “allucinazioni”. I finali aperti di ogni capitolo di Resident Evil, pur omaggiando esplicitamente i lungometraggi di George A. Romero 90, sembrano riprendere dal neorealismo italiano, la volontà di concedere più importanza alla descrizione di una situazione (la città infestata dagli zombi, la responsabilità della multinazionale Umbrella in ciò che è accaduto) anziché alla narrazione del destino dei due poliziotti protagonisti e la lista degli esempi potrebbe essere ampliata considerevolmente. Anche se questi accostamenti possono sembrare delle forzature non si può comunque negare che la stragrande maggioranza dei videogiochi siano opere postmoderne. Ad uno sguardo attento, il videogioco, inteso sia come testo che come prodotto di consumo, ben si adatta a esprimere e rappresentare le istanze di ciò che si intende con l’ambiguo e contraddittorio termine di postmoderno. Se riteniamo che il postmoderno è caratterizzato dall’affermarsi di processi che distruggono le forme consolidate del moderno 91, è evidente che il videogioco rappresenti la fine della linearità del testo classico ma soprattutto la fine della passività dello spettatore, che assume ora il ruolo di coautore e attore nelle vicende di cui segue lo svolgimento. Il videogioco scompone i linguaggi e i codici dei testi ad esso antecedenti per riutilizzarne gli elementi. Ruba al fumetto, alla televisione, al cinema e alla letteratura per comporre collage inediti. Il videogame ben rappresenta le principali tematiche che Jameson92 individua nella sua analisi del postmoderno inteso come “dominante culturale”. È un prodotto assolutamente non elitario che si fa comunque carico, e in modo sempre più significativo, di tematiche sociali o persino di insegnamenti morali pur mantenendo sempre evidente la sua natura ludica; incarna la frammentazione schizofrenica dell’identità dell’individuo postmoderno, perennemente immerso “ nella nuova esperienza della molteplicità, della serialità, della proiezione di sempre nuovi punti di vista” 93. Se da un lato la crisi delle forme identitarie della modernità (lo Stato, la nazione, il partito ecc.) disorienta l’uomo postmoderno, dall’altra egli si sente attratto dalla possibilità di ricoprire sempre nuovi ruoli. Nasce il desiderio, assolutamente postmoderno, di moltiplicare la propria identità, vivere più di una vita, essere contemporaneamente più persone, e nessun altra categoria di testo possiede le potenzialità per soddisfare una tale esigenza in modo tanto efficace. 90

In particolare Night of the Living Dead (1968), Dawn of the Dead (1978) e Day of the Dead (1985). G. Canova, op. cit., p. 8 92 Jameson Fredric, Postmodernism, or the Cultural Logic of the Late Capitalism,1991, Duke University Press, cit. in G Canova, op. cit., p. 9 93 Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri,Torino 1997, cit. in, G. Canova, op. cit., p.10 91

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Il videogioco nasce e si sviluppa nell’intertestualità (numerosissime sono infatti le traduzioni esplicite o indirette di film, fumetti e cartoni animati), è pensato per suscitare euforia, per eccitare i sensi, per coinvolgere lo spettatore in un gioco superficiale privo di responsabilità (nel videogame uccidere e morire sono azioni che al massimo possono risultare emotivamente coinvolgenti ma non ci sono mai conseguenze reali o irreversibili). L’immagine del videogioco è apparentemente disorientante eppure è proprio il senso di vertigine che è in grado di creare che suscita euforia ed eccitazione in chi è in grado di interpretarla e dominarla (il giocatore attivo quindi, non lo spettatore passivo); il videogioco è un universo chiuso in cui l’utente riesce finalmente a dominare la complessità, la velocità e la molteplicità. Il testo videogioco utilizza frequentemente immagini dell’immaginario collettivo e della memoria comune sradicandoli dal loro contesto originale (in Front Mission 3 si menziona uno psicopatico omicida che risponde al nome di Norman Bates, ma che non ha niente in comune con l’omicida del film di Alfred Hitchcock 94; in Metal Gear Solid sono numerosi i riferimenti alla guerra fredda e vengono utilizzati i filmati girati dal vivo durante la Guerra del Golfo, in Magic Sword compare sulla parete di una sala della gigantesca torre in cui si svolge l’avventura un dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina ad opera di Michelangelo Buonarroti: Dio che crea l’uomo). Nel videogame si manifesta quella “tendenza a giocare con le forme, a tentare la produzione aleatoria di nuove forme o a cannibalizzare allegramente le vecchie”95 tipica dei testi postmoderni. Il videogioco grazie alla duttilità dell’immagine di sintesi di cui è composto si adatta perfettamente all’unica possibile forma creativa della postmodernità: il pastiche, il collage (nei videogiochi non si utilizzano solo immagini create tramite computer graphics, ma anche disegni fatti a mano, riprese dal vero, dipinti, registrazioni so nore, voci reali ecc.). Ben si adatta ad esprimere e suscitare le nuove tonalità emotive emergenti, l’euforia e la schizofrenia, a soddisfare l’esigenza di una certa “allegria allucinatoria” e la richiesta di una sempre maggiore sovreccitazione sensoriale. Inoltre il videogioco, inteso come bene di consumo, rappresenta il prototipo del prodotto di massa personalizzabile. Grazie alla sua natura digitale il videogame riesce a realizzare ciò che il sistema industriale postfordista sta ancora tentando di raggiungere. E’ un prodotto di consumo che si adatta alle esigenze dell’acquirente, che può costantemente modificarne non solo le componenti estetiche 96 ma anche quelle strutturali 97. Il videogame è un prodotto particolarmente user friendly. In tutti i titoli di recente produzione il manuale delle istruzioni è sempre più inutile. Se il videogame è particolarmente complesso il software si preoccupa di istruire il giocatore sui comandi e sulle regole del gioco senza mai uscire dall’esperienza ludica. Il videogioco è dunque molto di più di un semplice giocattolo; esso è, sempre di più, un catalizzatore per i nuovi desideri che stanno emergendo dall’attuale società occidentale, un nuovo mezzo di comunicazione o, sarebbe meglio dire, un nuovo mass media.

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Hitchcock, Alfred (1960), Psycho F. Jameson, op. cit., p.317, cit. in, G. Canova, op. cit., p. 12 96 L’immagine del simulacro digitale è spesso modificabile e diversi titoli prevedono la possibilità di creare nuove ambientazioni in cui poter giocare. 97 Il livello di difficoltà può essere variato per adattarsi all’abilità del giocatore. Inoltre nella quasi totalità dei giochi è attivabile il Cheat Mode, che permette di eludere alcune regole fondamentali del gioco. 95

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Parte II

Analisi di Project Zero

Ascenderà dal cenere la fiamma del pensiero. Alba alle umane tenebre, o morte è ‘l tuo mistero.

(Niccolò Tommaseo, Immortalità)

2.1 Perché Project Zero? Trattando di videogiochi cinematografici, perché analizzare un titolo relativamente poco conosciuto come Project Zero anziché opere più note come un qualsiasi capitolo della serie di Resident Evil o Devil May Cry? La risposta è semplice: Project Zero non si limita a riciclare tutti gli elementi presenti nei videgiochi cinematografici di cui abbiamo discusso fin’ora (utilizzo consapevole delle inquadrature, posizionamento delle telecamere, movimenti di macchina, simulazione degli obiettivi ottici, sistemi di controllo adeguati, distorsioni dell’immagine, ecc) ma si spinge oltre, arrivando ad utilizzare il colore e l’illuminazione della scena in modo espressivo e a proporre inedite strategie comunicative particolarmente efficaci. L’ottima enunciazione visiva, si accompagna ad una geniale enunciazione ludica nonché ad una trama dotata di un significato interessante. Anche se siamo lontani dalla complessità delle speculazioni presenti nelle opere di Hideo Kojima, ci ritroviamo anche in questo caso di fronte ad un testo che vuole non solo intrattenere il giocatore ma anche comunicare un messaggio. L’opera di Makoto Shibata appartiene al genere dei survival horror: avventure ispirate al cinema dell’orrore in cui il protagonista deve affrontare creature mostruose (fantasmi, demoni, zombi ecc) e riuscire a mettersi in salvo. Project Zero rappresenta una valida alternativa sia all’horror splatter di Resident Evil, dove la minaccia è generalmente manifesta e “reale”, sia al terrore allucinatorio di Silent Hill, in cui il giocatore non riesce più a distinguere la “realtà” dal “sogno”. Il titolo Tecmo è, invece, una sorta di horror romantico che, sebbene sia in grado di suscitare un’autentica atmosfera di terrore, si tramuta in una drammatica storia d’amore e morte. In Project Zero la trama è un elemento primario: nessun problema rimane irrisolto (cosa che accade regolarmente in qualsiasi episodio di Silent Hill o di Resident Evil) e, soprattutto, non è intenzione dell’autore disorientare il giocatore con indizi contradditori, false rivelazioni ecc. Nel titolo Tecmo l’utente può accedere in qualsiasi istante ad una comoda “mappa della trama” che gli consente di avere una chiara rappresentazione delle relazioni tra i diversi personaggi. La fabula di Project Zero, infatti, si estende per diversi secoli e non sarebbe facile per il giocatore mantenere il filo del discorso, anche perché gli indizi che permettono di ricostruire la storia di palazzo Himuro (la casa infestata da fantasmi dove si svolge la vicenda) vengono forniti in modo disordinato per tutta la durata dell’avventura. Ma andiamo con ordine e analizziamo l’introduzione del gioco: una sessione interattiva che funge da tutorial, in cui si controlla Mafuyu, il fratello di Miku, la protagonista.

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2.2 Uso espressivo del bianco e nero Il gioco comincia con una schermata completamente buia e la voce off di Miku, la protagonista, che dice: “Vorrei sapere da quanto tempo mio fratello ed io abbiamo iniziato a veder cose che gli altri non vedono.” Appare il logo Tecmo, accompagnato da un suono orientaleggiante di uno strumento a percussione, dopodiché inizia una breve sequenza dai colori poco vivaci (può sembrare addirittura in bianco e nero) in cui si osserva Mafuyu, il fratello della protagonista, che si dirige verso palazzo Himuro, un’imponente ed antica villa giapponese, situata in mezzo ad un bosco, mentre la voce off di Miku prosegue: “Il mio fratellone… Era così dolce e gentile. Era l’unica persona con cui potessi parlare di queste visioni. Dopo la morte di nostra madre, era diventato tutta la mia famiglia.”

Il tutorial di Project Zero (PS2) è interamente in bianco e nero.

È la notte del 24 Settembre del 1986 e non appena la macchina da presa inquadra il misterioso edificio compare il titolo del gioco: Project Zero; dopodichè Mafuyu si incammina sul ponte che dirige all’ingresso del palazzo mentre la voce di Miku continua: “Mio fratello stava cercando qualcuno. Junsei Takamine, un famoso romanziere e un uomo a cui mio fratello doveva molto, scomparve mentre effettuava ricerche per un libro. Quando mi disse che aveva un indizio su dove si trovava il signor Takamine, mi sentii turbata… Come se stesse andando molto, molto lontano…” Mafuyu è ormai giunto all’ingresso del tetro palazzo e con una torcia elettrica esplora la prima stanza cui si trova dinnanzi. L’edificio è in rovina, il pavimento e il soffitto hanno ceduto in più punti e l’interno delle stanze è completamente buio e decadente. Dopo un breve schermata che annuncia l’inizio del prologo (un’immagine statica del ragazzo su cui è sovraimpressa la scritta Intro Himuro) il giocatore può finalmente prendere il controllo del fratello di Miku. 85


Le immagini del gioco diventano in bianco e nero e la scena è rappresentata in terza persona. L’azione è ripresa da più telecamere poste all’interno dell’area di gioco che inquadrano Mafuyu compiendo, se necessario, movimenti di macchina. L’enunciazione visiva utilizza angoli di ripresa innaturali (dall’alto e dal basso), variazioni dell’inclinazione, campi e controcampi per suscitare un senso di angoscia e suspance. Il sistema di controllo, per quanto riguarda il movimento del personaggio, è ispirato a quello adottato in Devil May Cry (al cambio di inquadratura rimane dunque allineato alla schermata precedente per qualche secondo).

Mafuyu, il fratello scomparso di Miku, impugna la macchina fotografica in grado di catturare fantasmi.

L’uso di immagini in bianco e nero è inconsueto in un videogioco contemporaneo. Makoto Shibata opta per questa scelta più volte in Project Zero quando vuole sottolineare che ciò che il giocatore sta osservando non è la “realtà” diegetica, bensì una visione o un ricordo della protagonista che, grazie ai suoi poteri sensitivi, è in grado di “vedere” eventuali eventi drammatici accaduti in passato nel luogo in cui si trova. Il prologo del titolo Tecmo (Himuro Intro), in cui il giocatore può prendere confidenza con il sistema di controllo, sembra, in effetti, un sogno dalla sorella Miku. Per aumentare il senso di alterità rispetto alla “realtà” diegetica è stato posto una specie di filtro sulle immagini che rende la ripresa particolarmente “sgranata”. L’effetto è simile a quello della ricezione disturbata di una trasmissione televisiva. Già dai primi attimi in cui il giocatore esplora palazzo Himuro è subito evidente una delle caratteristiche fondamentali del gioco. In Project Zero l’orrore sfugge allo sguardo, si sottrae alla vista. Mafuyu e Miku dovranno affrontare fantasmi e spettri, creature parzialmente invisibili nascoste nell’ombra, presenze incorporee che non possono essere in alcun modo danneggiate da armi convenzionali. Mafuyu esplora l’ingresso dell’edificio domandando a se stesso (e dunque informando il giocatore) “I rituali proibiti di questa zona… Pare che il signor Takamine stesse effettuando 86


ricerche su di essi. Vorrei sapere se il suo gruppo è ancora qui..?”. Mafuyu, Miku ed ogni personaggio di Project Zero parlano molto lentamente 98 con uno stile di recitazione che, in un lungometraggio cinematografico, sicuramente parrebbe eccessivamente impostato e didascalico, ma non bisogna dimenticare che in un videogioco le informazioni devono essere sempre molto chiare e piuttosto ridondanti poiché il giocatore, distratto dalla performance ludica, rischia costantemente di perdere dettagli significativi e questo vale sia per la risoluzione degli eventuali enigmi presenti nel gioco, sia per la corretta comprensione degli elementi della trama (personaggi, luoghi, accadimenti ecc.). Da questo punto di vista la scelta di utilizzare i fantasmi per consigliare Miku (e il giocatore) durante la sua avventura è particolarmente adatta a salvare la coerenza diegetica del mondo immaginario in cui si svolge la vicenda poiché non sembra “innaturale” che un fantasma parli lentamente e ripeta ossessivamente le medesime parole 99. Mafuyu passa dalla stanza in cui si trova nel corridoio successivo e scorge per qualche attimo, in fondo ad esso, l’immagine semitrasparente di un uomo che cammina. Il ragazzo si dirige dove l’ombra è scomparsa ed entra nella stanza successiva: un ampio salone con una scala che sale al primo piano. L’inquadratura varia costantemente in base la punto dell’area di gioco in cui si trova la protesi digitale e quando Mafuyu si avvicina alla scalinata una ripresa dall’alto mostra il fantasma di un uomo al primo piano, inquadrato di spalle (presumibilmente il signor Takamine), che osserva il ragazzo. Mafuyu sale dunque le scale e trova per terra il taccuino del romanziere. Appena tocca l’oggetto ha una visione (sequenza non interattiva di immagini in bianco e nero notevolmente “sgranate” accompagnata da una colonna sonora in cui gli strumenti sembrano gemere e gridare; i bordi di ogni inquadratura non sono ben definiti e sfumano nel nero; la brevissime sequenza termina con una rapida dissolvenza in bianco che ne sottolinea il carattere allucinatorio). Il montaggio è serratissimo e mostra Takamine e i suoi due assistenti (Koji Ogata e Tomoe Hirasaka) che esplorano il corridoio che Mafuyu ha appena attraversato, mentre una misteriosa figura femminile circondata da decine di mani eteree che emergono dall’oscurità, sembra seguirli senza farsi scorgere. Una sequenza non interattiva in bianco e nero ma non più tanto sgranata ci riporta alla realtà diegetica: Mafuyu sta esaminando il taccuino di Takamine, prova del fatto che lo scrittore è davvero entrato nell’edificio. Ad un tratto il ragazzo ode lo scricchiolio delle assi di legno della scala da cui è salito, come se qualcuno stesse ripercorrendo lo stesso tragitto. Si volta ma non vede nessuno, la musica extradiegetica rimane “sospesa” preparando l’apparizione del fantasma mentre il respiro del ragazzo diventa sempre più affannoso per la tensione. La telecamera posta in cima alle scale mostra uno specie di bagliore che sembra salire al primo piano. Mafuyu impugna una macchina fotografica e si prepara a fotografare la presenza. Dopo un brevissimo primo piano di Mafuyu che porta l’apparecchio davanti al volto per guardare dentro il mirino si passa alla soggettiva del ragazzo. Dal nulla appare improvvisamente, in primissimo piano, un’eterea figura umana (sembrerebbe un cadavere senza gambe che volteggia nell’aria). Mafuyu scatta una foto e la creatura indietreggia come se fosse stata ferita. Rapidi campi e controcampi mostrano alternativamente per più volte il ragazzo (mezza figura e primo piano) e il fantasma (figura intera e primissimo piano). Dopo l’apparizione del fantasma, l’inquadratura oscilla per suscitare un effetto di disorientamento ed incredulità nello spettatore. Conclusa la sequenza non interattiva, la narrazione si interrompe bruscamente per spiegare al giocatore come utilizzare la macchina fotografica dopodichè ricomincia la performance ludica e inizia il “combattimento” di Mafuyu contro il fantasma.

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Faccio riferimento alla versione in inglese che ho analizzato. Allo stesso modo in Resident Evil l’incredibile lentezza degli zombi è congeniale al complesso sistema di controllo.

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2.3 Rapporto dialettico tra soggettiva ed inquadratura in terza persona Il sistema di combattimento adottato in Project Zero costituisce un vero salto evolutivo nella categoria dei videogiochi cinematografici. Come il lettore avrà intuito la macchina fotografica di Mafuyu (che ovviamente in seguito sarà utilizzata anche da Miku) è dotata di poteri magici ed è in grado di intrappolare i fantasmi. Quando il giocatore vuole scattare delle foto si passa automaticamente alla soggettiva del (o della) protagonista e si osserva l’area di gioco attraverso il mirino dell’apparecchio.

Le riprese in terza persona permettono di realizzare inquadrature cinematografiche.

Per catturare un fantasma il giocatore deve mantenere la presenza all’interno di un cerchio posto al centro dell’inquadratura. Il danno inferto al nemico è direttamente proporzionale al tempo in cui esso rimane inquadrato e alla vicinanza del bersaglio. Il giocatore, sia per realizzare punteggi più alti, sia per risparmiare scatti (i rullini fungono da “munizioni” e sono concessi in numero limitato) è invogliato a rischiare il più possibile attendendo che il fantasma si avvicini moltissimo. Lo spettro da parte sua può ferire la protesi digitale solo entrando in contatto con essa, in questo caso si torna immediatamente all’inquadratura in terza persona e la scena è visualizzata tramite immagini in negativo in bianco e nero (i chiari e gli scuri sono dunque completamente invertiti) 100. Tipi differenti di fantasmi possono infliggere danni più o meno gravi; quando l’energia della protesi digitale è esaurita il gioco finisce e compare la schermata di Game Over. Se invece il giocatore è abbastanza abile e riesce ad assorbire tutta l’energia vitale 100

Le immagini in negativo in bianco e nero sono citazioni dirette da Ringu (1998) di Hideo Nakata da cui Project Zero trae anche altri elementi tra cui l’idea di immagini che diventano realmente letali (Kirie emerge dagli specchi esattamente come Sadako esce dal video del televisore) e la figura inquietante del pozzo come luogo di morte infestato da fantasmi (uno degli amici di Mikoto giocando viene trascinato dentro e diventa uno spettro).

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del fantasma, un’immagine in soggettiva dagli occhi del (o della) protagonista mostra l’assimilazione dello spettro all’interno della macchina fotografica. L’immagine del fantasma si deforma come se lo spazio si avvolgesse su se stesso in una spirale che ruota lentamente dopodichè la presenza scompare definitivamente con un breve bagliore accompagnato da un effetto sonoro squillante.

La soggettiva utilizzata durante i combattimenti costringe il giocatore ad immedesimarsi con la protesi digitale.

Durante i combattimenti, la colonna sonora diventa più frenetica e ossessionate, pur rimanendo estremamente cupa e piuttosto caotica. In Project Zero, Makoto Shibata riesce dunque a creare un’interessante dialettica tra inquadratura soggettiva e in terza persona sfruttando i punti di forza di entrambe e lasciando al giocatore il compito di utilizzare a seconda dei casi, l’una o l’altra. Le fasi di esplorazione avvengono per lo più in terza persona e dunque l’autore può sfruttare angoli di ripresa, inclinazioni, movimenti macchina, campi e controcampi per suscitare suspance e tensione; nei combattimenti, al contrario, si è costretti a passare alla soggettiva e dunque ad immedesimarsi completamente con la protesi digitale. Le regole costitutive del gioco (più il fantasma è vicino più è il danno inferto è maggiore) spingono il giocatore a realizzare primissimi piani delle inquietanti creature che minaccino Miku e Mafuyu. Adottando la visuale in soggettiva, la prossimità della protesi digitale con il suo avversario è ancora più spaventosa e suggestiva poiché il giocatore percepisce lo spettro come vicino a se stesso.

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Per quanto riguarda la colonna sonora, passando all’inquadratura soggettiva si assume il punto di ascolto della protesi digitale (il gioco supporta sia l’audio stereo a due canali che il Dolby Surround 101). Come dicevamo poc’anzi Project Zero è un gioco in cui l’orrore è invisibile. Durante i combattimenti gli spettri diventano momentaneamente trasparenti (si può scorgerli solo perché deformano leggermente lo sfondo), si teletrasportano da un punto all’altro della stanza, si spostano rapidamente fuggendo facilmente allo sguardo del giocatore. Utilizzando i rumori diegetici emessi dai fantasmi e alcuni indicatori presenti sullo schermo che indicano in modo molto approssimativo la prossimità di una creatura soprannaturale, il giocatore può intuire in che punto della stanza si trovi lo spettro e riuscire a scattargli una foto prima di essere colpito. I combattimenti si risolvono dunque in una frenetica sequenza in soggettiva in cui il giocatore insegue con l’obiettivo fotografico un nemico che si sottrae continuamente allo sguardo. Il fatto che l’ambientazione del gioco sia molto buia ostacola ulteriormente la vista del giocatore costringendolo ad utilizzare altri sensi; in primo luogo l’udito, necessario per individuare lo spettro quando si utilizza un’inquadratura soggettiva, ed in secondo luogo il tatto, poiché il joypad vibra in modo più o meno vigoroso in prossimità di creature soprannaturali simulando il comportamento della macchina fotografica magica nelle mani del protagonista102. Si tratta di una vera e propria icona tattile in cui il significante (la vibrazione del joypad) e il significato (la vibrazione della macchina fotografica appartenente all’universo diegetico) so no legati da una relazione di somiglianza. Già da questo primo incontro tra Mafuyu ed un fantasma emerge un’altra delle caratteristiche fondamentali di Project Zero. Lo spettro che attacca il ragazzo costituisce una minaccia reale (può effettivamente ucciderlo e condurre il giocatore nella schermata di Game Over) ma durante il combattimento non fa che ripetere “Help me! Help me!”103. Presto il giocatore scoprirà che la maggior parte dei fantasmi che infestano Palazzo Himuro, anche se estremamente pericolosi, non sono malvagi, ma tormentati, e cercheranno in tutti i modi di aiutare Miku a risolvere il mistero che concerne il decadente edificio. Dopo aver sconfitto il primo spettro, Mafuyu (e con lui il giocatore) si rende conto che la macchina fotografica che ha tra le mani è davvero in grado di imprigionare spettri e di “catturare cose che l’occhio normale non può vedere”104. Mafuyu, guidato dall’utente, si mette ad esplorare la stanza in cui si trova. Di nuovo appare il fantasma di Takamine che torna nel corridoio precedente. Il ragazzo lo segue, quando ad un tratto la performance ludica viene interrotta e si passa ad una sequenza non interattiva in cui Mafuyu, ripreso di spalle in piano americano, sembra accorgersi di essere seguito da qualcuno. Si volta lentamente (primissimo piano), l’immagine diventa statica e si conclude con una rapida dissolvenza in bianco. Terminato il tutorial, il gioco sembra ricominciare da capo. Di nuovo lo schermo è completamente nero ma questa volta la voce di Miku non è off bensì solo fuori campo “Nelle ultime due settimane non ho avuto notizie di mio fratello”. La macchina da presa inquadra una colonna in stile giapponese e successivamente compie una carrellata verso sinistra attraversando un fitto e buio bosco fino a rivelare di nuovo Palazzo Himuro; “Ma ha lasciato un appunto che mi ha condotto fino a qui.” Mentre l’enunciazione visiva descrive di nuovo il sinistro edificio 101

Dolby Surround 5.1 nella versione Xbox. In effetti il DualSock 2 viene impugnato con entrambe le mani esattamente come se si trattasse di una macchina fotografica. Non è un caso che il sistema di controllo del gioco quando si adotta la visuale in soggettiva preveda l’utilizzo dell’indice destro (che preme uno dei tasti dorsali del joypad) per scattare le fotografie. 103 Tr. it. “Aiutami! Aiutami!” 104 Mafuyu in realtà sembra già al corrente dei poteri della macchina fotografica, ma il gioco non spiega come e quando il ragazzo li ha scoperti. 102

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Miku prosegue: “Era come se sentissi che qualcosa mi chiamava qui…” La macchina da presa descrive completamente Palazzo Himuro con una carrellata verticale dall’alto verso il basso fermandosi al livello del suolo proprio nel momento in cui entra all’interno dell’inquadratura il piede destro di Miku (di spalle). La ragazza viene quindi ripresa in controcampo (di fronte) da una posizione leggermente rialzata quasi a suggerire che lo spettatore ha assunto il punto di vista della casa o di chi in essa vi dimora. La macchina da presa descrive la ragazza con una breve panoramica verticale dal basso verso l’altro e, quando finalmente inquadra anche il volto timoroso di lei, passa ad un primo piano, nell’istante in cui pronuncia il nome del fratello “Mafuyu…”. La sequenza non interattiva dell’arrivo di Miku a Palazzo Himuro non è più in bianco e nero, ma Shibata anche in questo caso gioca sapientemente con le possibilità offerte dall’utilizzo del colore. Nel tutorial appena concluso (Himuro Intro) l’utilizzo di immagini monocromatiche in bianco e nero serviva all’autore per sottolineare costantemente che quanto appariva sullo schermo non era la “realtà” diegetica, bensì un sogno, un ricordo o una visione della ragazza. La sequenza dell’arrivo di Miku a Palazzo Himuro crea un notevole effetto di dejavu nel giocatore non solo riproponendo una scena molto simile (un essere umano si avvicina al sinistro edificio) e la medesima ambientazione (una foresta di notte) ma anche “fingendo” che la sequenza sia ancora in bianco e nero. In effetti la poca luce che illumina la scena rende i colori poco vividi e fino all’apparizione di Miku l’enunciazione visiva è dominata da tonalità di grigi, blu e neri. È la comparsa di Miku e in particolare la maglietta rossa che indossa la ragazza, ad avvisare il giocatore che ciò che sta osservando non è un sogno né un’allucinazione bensì la realtà. Shibata gioca dunque per un attimo con l’utente e passa con gradualità ed eleganza dal bianco e nero al colore, donando a Project Zero una notevole coerenza stilistica sottolineata anche dal fatto che le sequenze non interattive parrebbero della stessa qualità grafica e dunque sembrerebbero realizzate con lo stesso motore grafico utilizzato durante la performance ludica vera e propria.

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2.4 Una storia di fantasmi Per apprezzare pienamente Project Zero vale la pena ripercorrerne brevemente la trama. La storia è suddivisa in un prologo (Himuro Intro) e quattro capitoli. Shibata divide la narrazione in cinque racconti di diversa lunghezza: si va dai quindici minuti del prologo alle circa due ore dei capitoli centrali. È molto difficile stabilire la durata di un videogioco poiché tale parametro dipende in massima parte dall’abilità e dalla competenza del giocatore. Si può però supporre un tempo minimo per eseguire materialmente tutte le azioni richieste dal gioco di circa sei ore ma in genere, per risolvere una prima volta il gioco, occorre almeno il triplo del tempo. Project Zero come avventura è dunque decisamente breve e rispetta il nuovo standard che si sta affermando nell’industria videoludica. Anche se esistono tuttora titoli che necessitano più di cinquanta ore per essere completati (ma si possono superare tranquillamente le cento ore di gioco per esplorare completamente i mondi di certi giochi di ruolo come, ad esempio, The Elder Scrolls III: Morrowind), negli ultimi anni la lunghezza dei videogiochi (soprattutto dei titoli appartenenti al genere degli arcade adventure) si è mediamente accorciata fino a raggiungere le dimensioni di circa 15 o 20 ore. Anche se rimane una parte di utenza che critica aspramente questa tendenza sostenendo che il rapporto tra prezzo e “durata” del prodotto si è notevolmente alzato bisogna ammettere che in molti casi questa nuova dimensione di riferimento è più congeniale ad un pubblico adulto che, presumibilmente, dispone di meno tempo libero per videogiocare. L’argomento è degno di interesse ed andrebbe ulteriormente approfondito ma per ora limitiamoci a quanto concerne l’analisi di Project Zero. L’opera di Shibata è notevolmente equilibrata e ben congegnata anche per come la durata totale è ripartita nei singoli capitoli. Ad un breve prologo (circa quindici minuti) che introduce l’antefatto (la scomparsa di Mafuyu) e permette al giocatore di familiarizzare con il sistema di controllo, segue il primo capitolo (Il rituale di strangolamento, I° notte, circa un’ora) in cui Miku incontra i fantasmi di Junsei Takamine e dei suoi due collaboratori, Koji Ogata e Tomoe Hirasaka, i visitatori scomparsi prima di Mafuyu. Nel secondo capitolo (La caccia dei demoni, II° notte, circa due ore) Miku incontra il fantasma di Ryozo Munakata, un folclorista stabilitosi nella casa per studiare i rituali degli Himuro e misteriosamente scomparso insieme alla figlia e alla moglie molto prima che Takamine visitasse il palazzo. Nel terzo capitolo (La catastrofe, circa un’ora e trenta minuti), la protagonista scopre l’origine della maledizione che si è abbattuta su palazzo Himuro mentre nel finale (Kirie, Notte finale, circa trenta minuti) tutti i nodi della trama vengono sciolti e si ricompone una situazione di equilibrio. Anche per quanto riguarda la durata e la suddivisione della narrazione in capitoli, Project Zero è progettato in modo da mantenere sempre una certa suspance per tutta la trama. Innanzi tutto la durata non eccessiva non permette al giocatore di assuefarsi alla tensione creata dal gioco. Sebbene diventi sempre più familiare, Palazzo Himuro rimane un luogo inquietante fino alla conclusione degli eventi a differenza, ad esempio, di Raccoon City o Silent Hill (i due centri urbani in cui sono ambientati rispettivamente la saga di Resident Evil e la serie di Silent Hill) che, dopo ore ed ore di eliminazione sistematica di zombie o creature demoniache, rischiano di veder diminuire il proprio potenziale orrorifico. In secondo luogo, la suddivisione in brevi capitoli invita il giocatore a interrompere il gioco nei momenti predefiniti dall’autore. Nei videogiochi generalmente l’utente può sospendere la performance ludica in diversi punti, salvando la situazione attuale e riprendendo il gioco in un secondo tempo. Il videogiocatore dunque assomiglia più al lettore di un libro che può interrompere la lettura in qualsiasi istante ponendo un “segno” nel punto in cui si è fermato piuttosto che ad uno spettatore di un film al cinema che non può in alcun modo sospendere il flusso inarrestabile delle immagini in movimento sullo schermo. La possibilità di arrestare la narrazione in qualsiasi momento può 92


compromettere notevolmente le strategie discorsive presenti di un testo il cui obiettivo è generare suspance.

Un’inquietante apparizione di Kirie in una delle allucinazioni di Miku.

Ovviamente non si può costringere il giocatore a concludere un avventura lungo almeno sei ore (che diventano circa diciotto ad una prima partita) in una singola sessione di gioco né ha senso realizzare un videogioco che duri quanto un film (circa due ore) 105. Dividendo la storia in prologo, quattro capitoli e finale, Shibata risolve brillantemente il problema; la lunghezza del titolo resta accettabile, ma il testo suggerisce al giocatore i momenti in cui è possibile sospendere la performance ludica senza rovinare le strategie discorsive messe in atto. Tale possibilità è solo suggerita anziché imposta. I singoli capitoli “chiedono” di essere risolti in una singola sessione di gioco ma in Project Zero è possibile interrompere la partita e salvare in qualsiasi momento, una funzione che soddisfa anche quei giocatori che desiderano effettuare sessioni di gioco molto brevi. Anche il fatto che le singole parti abbiano durata diversa (rispettivamente quindici minuti, un’ora, due ore, un’ora e trenta minuti, trenta minuti) aiuta a costruire un certo effetto nel 105

In effetti esistono altre brillanti soluzioni al problema della durata dei videogiochi. Way Of The Samurai e Shadow of Memories propongono una variante diametralmente opposta a quella adottata in Project Zero. In entrambi i casi per giungere al finale bastano pochissime ore (tre, quattro o anche una sola se si conosce in modo approfondito il gioco) ma il videogame è ideato in modo tale che il giocatore sia stimolato a ripercorrere la trama più volte per accedere a finali alternativi. Questo tipo di videogame in genere è progettato in modo che le prime partite conducano verso i finali più negativi. In questi casi è la struttura stessa della trama a diventare un enigma e sono le scelte del giocatore che portano verso un lieto fine o una conclusione più o meno tragica degli eventi.

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giocatore. Dopo il prologo (Himuro Intro), che per definizione deve essere breve, il primo capitolo (Il rituale dello strangolamento) di media lunghezza introduce nella storia, il secondo (La caccia dei demoni), il più ampio ed inquietante, giunge al climax, il terzo (La catastrofe), della stessa lunghezza del secondo, risolve alcuni nodi della trama ed infine il breve finale (Kirie, Notte finale) riporta ad uno stato di equilibrio. La struttura di Project Zero è dunque simmetrica e conduce mediante capitoli sempre più ampi nel cuore della trama per poi far precipitare gli eventi con sessioni di giochi gradualmente più brevi donando alla narrazione un certo senso di tragica inevitabilità. Il brevissimo finale, in particolare, non si dilunga in inutili esplorazioni o “duelli” contro fantasmi minori ma approfondisce la trama e propone quasi esclusivamente lo scontro con Kirie, il “nemico” principale. Project Zero, in effetti, è un gioco “essenziale” che non utilizza i propri meccanismi di gioco fino al loro completo logorio come accade sovente in numerosi altri titoli. Le apparizioni, i duelli e gli enigmi non sono presenti in numero eccessivo in modo che l’effetto di suspance non sia compromesso e il giocatore riesca in ogni caso ad orientarsi nella trama. Ripercorriamo brevemente la storia ed analizziamone il significato. a) Il rituale di strangolamento, I° notte Miku entra a palazzo Himuro (il gioco è a colori), è immersa nell’oscurità e con sé ha solo una torcia elettrica. Appena entra nella prima stanza ha delle visioni (immagini “disturbate” in bianco e nero) di ciò che stava osservando suo fratello (brevi flashback in soggettiva dagli occhi di Mafuyu che descrivono l’atrio dell’edificio). Un misteriosa bambina che indossa un kimono bianco compare alle spalle di Miku e sussurra una sola parola “Help”. La protagonista si volta di scatto ma il fantasma scompare prima di essere scorto. Miku è impaurita ma incomincia ad esplorare il tetro edificio. A differenza di Mafuyu non ha con se la macchina fotografica per imprigionare i fantasmi. Il giocatore dunque sa che, per ora, non è possibile difendersi da un’eventuale assalto di uno spettro il ché aumenta notevolmente la tensione anche se, generalmente, l’utente smaliziato, sa che i videogiochi narrativi non propongono quasi mai situazioni irrisolvibili. 106 La ragazza esplora l’ingresso (consueti cambi di inquadratura e suggestivi movimenti di macchina) e prima di entrare nel corridoio adiacente in cui è scomparso Mafuyu appare il fantasma di Koji Ogata (il collaboratore di Takamine). Lo spettro, sebbene inquietante, non sembra costituire una minaccia e si limita a pronunciare parole sconnesse “Le corde… Ci sono altre corde…”. Nel punto in cui è apparsa la presenza si materializza uno stralcio del taccuino del redattore che più o meno ripete le stesse parole. Miku entra dunque nel corridoio; dal soffitto pendono numerose corde, avanza finché si trova davanti ad uno specchio e nota per terra la macchina fotografica di Mafuyu. Si china per raccoglierla ma appena la tocca ha di nuovo delle allucinazioni. La visione di Miku è una brevissimi sequenze in bianco e nero con i contrasti particolarmente accentuati (le tonalità di grigio sono praticamente inesistenti, il montaggio è serrato e l’immagine è molto sgranata) in cui il fratello, inseguito da una figura femminile in kimono con lunghi capelli neri che le coprono il volto è circondato da decine di mani spettrali che fuoriescono dalle pareti ed invoca il nome della sorella.

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Tra le eccezioni significative a questa regole è impossibile non citare il terrificante prologo di Silent Hill in cui il protagonista è costretto ad affrontare dei mostriciattoli simili a bambini ma non può che soccombere nello scontro poiché nell’area di gioco non ci sono armi o oggetti da utilizzare per difendersi. L’inevitabile morte della protesi digitale ovviamente non porta alla schermata di Game Over: il giocatore si rende conto che l’antefatto del gioco era solo un sogno del protagonista e dunque la dipartita del protagonista non era in alcun modo “reale”.

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Miku “ritorna” nella realtà e, nello specchio, si riflette l’immagine di una donna in kimono sospesa a mezz’aria, che subito scompare. La protagonista raccoglie la macchina fotografica e uno stralcio del taccuino di Mafuyu che narra parte della storia del palazzo: Taccuino di Mafuyu Indagini su palazzo Himuro Palazzo Himuro era una volta la casa di un grande signore che controllava vaste aree di territorio. Dicono che il luogo avesse un significato speciale, legato ai rituali Shinto della regione… L’ultimo signore della stirpe Himuro massacrò tutti gli abitanti del palazzo. Più tardi, un’altra famiglia che tentò di vivere in questa casa scomparve. A causa di incidenti come questi, oggi nessuno più visita il palazzo, che sta cadendo in rovina. Forse questo è il motivo per cui oggi non esiste nessun resoconto dei rituali Shinto, e per cui non è segnalata da nessuna parte l’ubicazione esatta del luogo. 24 Settembre Ho una brutta sensazione da quando sono arrivato in questo palazzo. Sto lasciando alcuni appunti in questo taccuino nell’eventualità che mi succeda qualcosa. Devo trovare Takamine e gli altri in fretta… Spero che non sia troppo tardi!

Appunti di questo tipo sono disseminati in tutta l’avventura. Raccogliendoli Miku (e con lei il giocatore) sarà in grado di ricomporre la storia di palazzo Himuro. Lo stile sbrigativo e semplicistico di queste note è determinato in massima parte dall’esigenza di chiarezza e sintesi che deve caratterizzare la narrazione in un videogioco ma non tutti i videogame sono tenuti a rispettare questa regola.107

Miku e il fantasma della bambina in kimono. Gli spettri che infestano palazzo Himuro in realtà vogliono essere aiutati. 107

Titoli più contemplativi, come The Elder Scrolls III: Morrowind o Syberia, che desiderano imporre un ritmo di gioco più pacato utilizzano appunti più prolissi e piacevoli.

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Di nuovo compare il fantasma di Ogata che ripete ossessivamente “Corde… Corde… Sempre più corde” ma non si mostra immediatamente al giocatore. L’utente per osservarlo deve passare alla visione in soggettiva, capire da che parte proviene il lamento e dirigere l’obiettivo della macchina fotografica verso il soffitto. L’area di gioco di Project Zero è disseminata anche di fantasmi innocui non immediatamente visibili. Miku avverte la presenza di spettri tramite le vibrazioni della macchina fotografica (simulate dal joypad) e misteriosi rumori diegetici (scricchiolii, voci). L’utente è invitato a scovare questi spettri inermi per guadagnare punti, necessari per potenziare la macchina fotografica aumentandone il raggio d’azione, la velocità di assorbimento ecc. Il giocatore, quando avvertito della presenza di un fantasma, si trova quindi “costretto” ad esplorare la stanza utilizzando la visuale in soggettiva alla ricerca di vaghe immagini nascoste nell’ombra. Di nuovo è la struttura primaria del gioco (il suo spartito ludico) che si fa carico di comunicare il senso profondo del gioco: scrutare nell’ombra, vedere l’invisibile, utilizzare il tatto e l’udito. Project Zero è un videogioco che suscita nel giocatore una desiderio ansioso di vedere ma al contempo ostacola costantemente lo sguardo; provoca un vorace appetito scopico, castrandolo puntualmente.

La donna cieca è uno dei fantasmi più inquietanti di Project Zero.

Miku proseguendo nella sua esplorazione intravede lo spirito del fratello che ripercorre le stanze del tutorial (Himuro Intro). Di nuovo incontra il fantasma di Ogata che sembra vagare nel palazzo come se si fosse perso (“Takamine… Tomoe… Dove siete andati?”). Lo spettro del redattore scompare attraversando un paravento, Miku si avvicina ad esso per esaminarlo e di nuovo compare la bambina in kimono che, senza parlare, suggerisce alla protagonista di scattare una foto nel punto in cui si è dissolto il fantasma di Ogata. Miku segue il suggerimento e scopre che la macchina fotografica è in grado di individuare passaggi segreti, oggetti stregati ecc. Per 96


aprire passaggi o rompere maledizioni la ragazza (e dunque il giocatore) deve inquadrare l’oggetto in questione, individuandolo usando di nuovo il tatto (le vibrazione del joypad), l’udito (gli effetti sonori) e la vista (il punto dell’area di gioco che deve essere fotografato appare lievemente distorto come se avesse una consistenza acquosa). Miku scopre che dietro il paravento c’è una porta, l’attraversa e incontra di nuovo il fantasma di Ogata che parla di una misteriosa chiave. La protagonista esplora altre stanze e di nuovo incontra lo spirito del redattore che vaga nel palazzo elargendo inquietanti presagi (“Quella donna… Sta arrivando quella donna in kimono”). Ad un tratto si avverte un rumore inquietante simile ad una voce registrata su un nastro magnetico e riprodotta così lentamente da risultare incomprensibile. Il suono diegetico sostituisce la musica di accompagnamento e sembra provenire da un armadio. Miku si avvicina, lo apre e scopre al suo interno un piccolo registratore portatile. Appena afferra l’oggetto è colta da allucinazioni e rivive gli ultimi attimi di vita di Ogata, che tenta invano di fuggire dalla misteriosa donna in kimono dai lunghi capelli, rifugiandosi nell’armadio in cui era nascosto il registratore (sequenza non interattiva con immagini in bianco e nero fortemente sgranate). Una porta si apre alle spalle di Miku, rivelando l’accesso ad una nuova stanza. Il registratore trovato dalla protagonista costituisce un’altra brillante idea di Project Zero. Oltre agli appunti e agli stralci di giornale sparsi nell’edificio, Miku troverà diverse audiocasette contenenti le testimonianze di Takamine e dei suoi assistenti, con tanto di registrazione vocale di data ed orario per fornire un qualche senso di autenticità. Le voci terrorizzate di questi personaggi gradualmente sempre più in preda al panico contribuiscono notevolmente a creare un’atmosfera opprimente ed inquietante. Di nuovo Project Zero è un gioco in cui l’invisibile fa più paura del manifesto. La colonna sonora costringe il giocatore ad immaginare il tormento di personaggi e rende più “preziosi” i rari istanti in cui l’orrore assume una forma definita incarnandosi finalmente in un’immagine. Miku entra nella stanza successiva dove di nuovo incontra il fantasma di Ogata che continua a cercare Takamine e Tomoe. Questa volta però lo spettro diventa una minaccia e, invocando l’aiuto della ragazza, rischia di ucciderla. Miku, se il giocatore è abbastanza abile, cattura lo spirito di Ogata e prosegue nella ricerca del fratello scomparso. Durante l’esplorazione della casa trova in un cassetto una fotografia ritraente Ogata. L’immagine tra le mani della ragazza si modifica davanti ai suoi occhi increduli: attorno alle braccia, alle gambe e al collo del redattore compaiono segni simili a corde. Miku combatte di nuovo contro lo spirito del redattore (sembra dunque che la morte di una singola persona possa generare la comparsa di più di uno spettro in grado di infestare l’edificio) e dopo averlo sconfitto prosegue nella sua avventura. Di nuovo misteriose presenze spettrali indirizzano i passi della ragazza. Miku sale al primo piano della dimora e incomincia a trovare appunti e registrazioni riguardanti Ryozo Mukanata, un folclorista che ha vissuto nella casa con sua moglie Yae e la figlia Mikoto per un breve periodo prima di scomparire misteriosamente. Proseguendo l’esplorazione di Palazzo Himuro, Miku incontra il fantasma di Tomoe. Lo spettro dell’assistent e di Takamine ad ogni incontro rivela la sua storia. La ragazza non voleva venire nel maniero, poiché il suo sesto senso la avvertiva del pericolo. Durante la sua permanenza nella casa erano comparsi segni di corde sul suo corpo, come ad Ogata. A volte Miku intravede anche l’immagine del fratello (un’ombra? Uno spettro?) ma non riesce mai a raggiungerlo. Altri fantasmi deformi ostacolano il suo cammino ma la ragazza prosegue nella sua missione recuperando appunti, indizi e stralci di giornale riguardanti misteriosi omicidi o sparizioni accadute nelle vicinanze del palazzo. Seguendo il fantasma di Tomoe, Miku raggiunge il giardino dell’edificio. L’assistente di Takamine era convinta che Kirie, la misteriosa ragazza dal Kimono bianco che continua ad apparire a Miku nelle sua allucinazioni più terrificanti, 97


volesse comunicare qualcosa di importante. Occasionalmente compare anche la bambina in kimono per aiutare la protagonista a scovare oggetti, indizi, o passaggi segreti finché, Miku, seguendo una scia di sangue per terra, giunge sulla sponda di un laghetto posto nel giardino della palazzo. Una nuova allucinazione (immagini in bianco e nero fortemente sgranate) mostra la morte di Tomoe. La donna sembra strangolata da corde invisibili che lasciano vistosi segni sul collo e sui polsi di lei. Kirie, alle cui spalle si agitano decine di minacciose mani eteree osserva impassibile la straziante morte di Tomoe mentre Takamine, anch’esso presente nel giardino, non può fare altro che guardare l’assistente morire. Miku segue nuove indicazioni e riesce ad entrare in una stanza piena di bambole dove si odono risate di bambini. La protagonista deve difendersi dallo spettro di una bambina che striscia sul pavimento e dopo averla sconfitta, esaminando la stanza, scopre una bambola raffigurante una fanciulla legata, molto simile a Kirie. Miku continua la sua avventura affrontando altre presenze; proseguendo incomincia ad apparirgli il fantasma di Takamine che svela i primi dettagli su Kirie: la ragazza sembra collegata in qualche modo ad una antico e crudele rituale Shinto. Nel giardino di Palazzo Himuro Miku fa il suo primo incontro con Yae ,la moglie del folclorista, che si manifesta come uno spettro di donna impiccata ad un albero. Yae sta cercando sua figlia e i suoi amici. Dopo aver affrontato il fantasma di Tomoe, Miku segue lo spettro di Takamine fino ad un tempio posto nel bosco nei pressi di Palazzo Himuro. Lo spirito dello scrittore introduce nella narrazione un nuovo elemento che si rivelerà presto la sua importanza: uno specchio sacro utilizzato durate un rito sacrificale. Dopo essere riuscita ad entrare nel tempio la protagonista ha una nuova allucinazione in cui vede Takamine sospeso sopra di lei e torturato da una moltitudine di mani eteree. L’ombra dello scrittore passa sui muri della stanza ed infine attacca la ragazza. Sconfitto lo spettro la ragazza trova ai piedi di un cancello Shinto una piccola statua di un Budda sfigurato. Nel tempio, di fronte ad un altare, Miku trova altre statue sfigurate di Budda e disponendole nel modo corretto su una scacchiera, apre una bacheca contente un frammento dello Specchio Sacro. Non appena la ragazza raccoglie l’artefatto, visioni confuse appaiono nella sua mente (montaggio serrato in bianco e nero di immagini molto sgranate): il Sacro Specchio che va in frantumi, una luce accecante, decine di uomini morti, un sacerdote che solleva una corda. Miku torna alla realtà e il riflesso di Kirie appare in uno specchio di grosse dimensioni posto su una parete delle sala: lo spettro non è nella stanza, è dentro la superficie riflettente ed emerge dal vetro come se stesse uscendo dall’acqua, ai suoi polsi sono legate delle corde. La sequenza non interattiva inizialmente a colori fortemente sbiaditi diventa prima sfuocata e sembra deformarsi per poi diventare di nuovo in bianco e nero. Il giocatore riprende il controllo della protesi digitale ma l’immagine rimane in bianco e nero ed è fortemente disturbata. La macchina fotografica di Miku è inefficace contro Kirie, alle cui spalle si dimenano oscuri esseri deformi; lo spettro della fanciulla sacrificata nel rituale dello strangolamento si avvicina alla protagonista e le afferra un braccio sussurrando “Ti farò sentire il mio dolore…”. Rapida dissolvenza in bianco. Miku vede se stessa imprigionata come Kirie e rivive il suo sacrificio. È sdraiata su un altare circolare, i polsi, le caviglie e il collo sono legati a delle ruote e si tendono sempre di più per squartarla. Dissolvenza in bianco, poi schermo nero lievemente disturbato come all’inizio della proiezione di un film. Si odono voci di bambini che cantano una filastrocca. Compaiono immagini in bianco e nero fortemente sgranate raffiguranti bambini che fanno il girotondo . “Un demone!” sussurrano “Un nuovo demone! Svelti trovatemi. Guardati attorno…”. La sequenza non interattiva ritorna di nuovo a colori e definita: Miku si sveglia di soprassalto mentre spettri di bambini fuggono da lei come se stessero giocando a nascondino. Delle corde sono legate ai polsi della ragazza, ma subito scompaiono lasciando per qualche secondo segni vistosi sulla pelle. Sono i medesimi segni comparsi sui 98


corpi di Takamine, Tomoe ed Ogata prima della loro morte. Dissolvenza in nero. Project Zero si interrompe per permettere al giocatore di salvare. b) La caccia ai demoni, II° notte Il primo capitolo di Project Zero introduce tutti gli elementi essenziali della trama: Miku, la protagonista, Palazzo Himuro, l’ambientazione, Kirie, l’antagonista, Mafuyu, l’oggetto del desiderio, lo Specchio Sacro, l’oggetto magico che dovrà essere ricomposto ed utilizzato nella prova decisiva e tutti i personaggi secondari, ora trasformati in spettri, che ostacoleranno ed aiuteranno la ragazza nella sua impresa. Se il primo capitolo fa luce sulla scomparsa e sulla morte delle ultime vittime di Palazzo Himuro (Takamine, Ogata e Tomoe) il secondo incomincia a raccontare eventi più remoti (morte e scomparsa del folclorista Ryozo Mukanata, della moglie Yae e della figlia Mikoto). La cosa interessante è che Miku (e con lei il giocatore) viene trascinata indietro nella storia passata della casa non solo attraverso le allucinazioni che svelano remoti eventi tragici ma anche “realmente ” dato che, palazzo Himuro appare meno diroccato, come se il tempo stesse retrocedendo. Ogni capitolo di Project Zero racconterà dunque eventi sempre più lontani nel tempo e, contemporaneamente, trasporterà effettivamente Miku indietro nel tempo. L’opera di Makoto Shibata è stata criticata da alcuni perché l’ambientazione non è particolarmente ampia. Palazzo Himuro, in effetti, non è composto da moltissime stanze ma, a mio parere, le ridotte dimensioni dell’area di gioco non costituiscono affatto un difetto. Poter tornare più volte negli stessi luoghi fornisce all’ambientazione una “consistenza” maggiore e permette al giocatore di farsi un’idea completa e dettagliata dell’edificio in cui Miku vive la sua avventura. Allo stesso tempo, il costante ringiovanimento dell’edificio mantiene l’ambientazione inquietante nonostante essa diventi via via sempre più familiare. Questo sottile equilibrio tra familiarità e novità è uno dei tanti dettagli che rendono Project Zero un titolo di gran valore. Il secondo capitolo si apre con una soggettiva di Miku che osserva terrorizzata i propri polsi e subito dopo dirige lo sguardo verso lo spettro di un bambino che tiene tra le mani il frammento di uno specchio circolare. “Quello specchio!” esclama la ragazza “ Restituiscilo!”, ma il fantasma scompare. Miku si trova nella stanza delle bambole e appena esce sul portico del palazzo inizia ad incontrare fantasmi di bambini che sembra stiano giocando con lei a nascondino. Durante l’esplorazione, la ragazza affronta uno dei nemici più riusciti di tutto il gioco: il fantasma di una donna a cui sono stati cavati gli occhi che si aggira nella casa ripetendo con voce tramante “È buio qui… i miei occhi, i miei occhi…”. La cosa interessante è che questo spettro è davvero cieco e si muove tentoni nell’edificio individuando Miku ascoltando il rumore dei suoi passi. Per avere la meglio su di esso, il giocatore deve avere il sangue freddo di restare immobile mentre esso si avvicina per evitare di rivelare la propria posizione. Di nuovo dunque i rumori (stavolta quelli provocati dall’utente) costituiscono una parte essenziale nella dinamica del gioco. Nel giardino della casa (atrio dei ciliegi) Miku incontra di nuovo il fantasma di una donna impiccata che si dispera per il tragico destino della figlia, scomparsa mentre stava giocando ad AcchiappaDemone, una sorta di nascondino. Continuando la sua esplorazione Miku incontra ed affronta gli amici di Mikoto, bambini scomparsi mentre giocavano ad AcchiappaDemone. I combattimenti contro questi spettri sono particolarmente inquietanti poiché i bambini stanno effettivamente giocando a nascondino. Ogni volta che Miku li stana dai nascondigli in cui si erano rifugiati giocando con Mikoto (nascondigli che si sono trasformati in vere e proprie tombe), i bambini si mettono a giocare con la ragazza correndole attorno e sfidandola a prenderli, mentre inquietanti risate infantili costituiscono la colonna sonora del gioco. L’orrore di questo secondo capitolo di Project Zero è tutto basato dalla trasformazione di figure che 99


dovrebbero essere rassicuranti (bambini che stanno giocando a nascondino, e successivament e genitori preoccupati per la propria figlia) in mostri che possono uccidere la protagonista; quotidianità innocua che si tramuta inconsapevolmente in terribile minaccia.

Quando Miku viene ferita, le immagini diventano in negativo e in bianco e nero. La citazione da Ringu (1998) di Hideo Nakata è evidente.

Proseguendo nella sua esplorazione Miku visita nuove aree del palazzo giungendo infine all’ingresso di quello che sembra un tempio sotterraneo, il cui accesso è impedito da un enorme portale chiuso. Qui la protagonista incontra lo spirito del folclorista il quale le rivela che dietro il portone c’è la stanza dei rituali dove presumibilmente è stata sacrificata Kirie. Per aprire il passaggio Miku deve trovare la maschera accecante (uno strumento di tortura utilizzato nel rituale in cui è stata accecata la ragazza che ora si è trasformata nello spettro dagli occhi sanguinanti) e porla in un’apposita fessura a lato del portale. Diversi fantasmi, tra cui la bambina in kimono bianco, guidano i passi di Miku mentre altri spettri, ostacolano la sua missione, finché la protagonista affronta in uno splendido combattimento, un bambino che si era nascosto dentro il mobile dell’orologio, e corre da un lato all’altro della stanza ridendo e canzonandola: “Sono qui… Trovami..”. Sconfiggendolo la ragazza rientra in possesso di un frammento dello Specchio Sacro. Continuando la sua ricerca Miku trova una stanza sul cui pavimento sono sparse numerose fotografie. Ricordi del suo passato riaffiorano alla mente (sequenza non interattiva sgranata e disturbata, non in bianco e nero, ma in ocra): sono esattamente le stesse foto di fantasmi che sua madre aveva scattato utilizzando la magica macchina fotografica di cui ora Miku si sta servendo. La ragazza prosegue scoprendo nuovi dettagli sul folclorista e sulla sua famiglia: Ryozo Mukanata era venuto nel palazzo per compiere ricerche sul rituale segreto della famiglia Himuro ma sua moglie Yae, già debole di salute, dopo la scomparsa della figlia, si è suicidata impiccandosi al ramo di un albero nell’atrio dei ciliegi. La donna aveva incominciato a scattare fotografie a spettri con una strana macchina fotografica 100


donatale dalla figlia Mikoto, che sosteneva di averla ricevuta da una bambina in un kimono bianco; prima di morire affermava di potere vedere i fantasmi che infestavano la casa. La triste sorte di Yae ricorda a Miku la tragica morte della madre, anch’essa impiccatasi ad un albero perché troppo ossessionata dalla visione di spettri e fantasmi (sequenza non interattiva in ocra in cui la ragazza spia la madre che fotografa esseri invisibili seguita da immagini di Miku che osserva la madre impiccata chiedendosi “Perché? Che cosa è successo?”) Giunta nel luogo del decesso di Yae, la ragazza ha una nuova allucinazione (sequenza non interattiva in bianco e nero in cui il folclorista osserva incredulo la moglie impiccata). Guardando il fantasma dondolante di Yae appesa all’albero nell’atrio dei ciliegi, Miku rivede il volto di sua madre; improvvisamente lo spettro attacca la protagonista che è costretta a difendersi (di nuovo una figura rassicurante e quotidiana è associata ad una minaccia). La ricerca della protagonista, guidata dallo spirito del folclorista, continua attraverso passaggi segreti azionati da maschere rituali rappresentanti emozioni umane (ira, gioia, tristezza, felicità). Operando con le maschere Miku ha un’altra allucinazione (sequenza non interattiva in bianco e nero) tramite la quale assiste all’accecamento della ragazza che diventerà lo spettro dagli occhi insanguinati: due sacerdoti tengono ferma la fanciulla mentre un terzo, mascherato da demone, le pone sul volto una maschera dotata di punte acuminate rivolte verso l’interno. Un particolare interessante di questa allucinazione è che gli officianti della cerimonia si accorgono di Miku quando la ragazza trasale per l’orrore. Ciò che dovrebbe essere una semplice immagine (anche se allucinatoria) reagisce in qualche modo alla presenza della protagonista osservatrice. Il parallelismo tra ciò che vive Miku (osserva delle immagini che reagiscono alla sua presenza) e quello che sta esperendo l’utente (anch’esso coinvolto in un gioco di immagini che reagiscono alle sue azioni) aumenta il senso di terrore e trasforma la paura simbolica e rappresentata della protagonista in paura reale ed effettiva del giocatore empirico ottenendo un effetto più efficace di quello che sarebbe realizzabile mediante un testo non interattivo, come ad esempio un film. La similitudine tra Miku e il giocatore empirico è profonda: la protagonista del videogioco non è l’eroina di un film e dunque non è “protetta” da una sceneggiatura che ne prevede necessariamente la salvezza, il suo destino è incerto così come incerto è l’esito della performance del giocatore empirico che avverte sempre il rischio di non riuscire a concludere la lettura del testo. In molti videogiochi narrativi il giocatore è portato a sopravvalutare questa sensazione di “non essere in grado di concludere la narrazione”, questo rischio spesso non è effettivo 108, ma in Project Zero, dato che il livello di difficoltà del gioco è piuttosto elevato per un giocatore non esperto, il senso di pericolo diventa decisamente reale. Il Game Over sempre incombente, la responsabilità del giocatore nell’avanzamento della trama, il costante sforzo richiesto all’utente, rendono un gioco come Project Zero, profondamente differente da un comune film horror su una casa infestata dai fantasmi. L’interattività è la chiave di volta che permette di suscitare un nuovo effetto di senso, un coinvolgimento diverso da quello fornito dai testi non interattivi come film o romanzi; in questo senso, in qualche modo, il videogioco si avvicina più alla rappresentazione teatrale in cui gli attori, in quanto persone in carne ed ossa, possono interagire con il pubblico. Ma torniamo all’avventura di Miku. Dopo l’allucinazione delle maschere, Miku affronta di nuovo e sconfigge lo spettro della donna accecata, accede ad una sala di palazzo Himuro adibita a tempio, dove affronta lo spirito del folclorista e, dopo aver risolto alcuni enigmi, riesce finalmente ad entrare in possesso della maschera accecante ed ad aprire il portale sotterraneo che la separa dalla stanza dei rituali. Prima che l’enorme porta si apra completamente, la mente della ragazza è turbata da nuove allucinazioni in cui vede il folclorista nella stessa situazione 108

A questo proposito vedi Fraschini Bruno, “Videogiochi e New Media”, contenuto in Per una cultura dei videogame. Teoria e prassi del videogiocare, a cura di Matteo Bittanti, Unicopli, Milano, 2002, pp. 92-95.

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trascinato oltre il portale da una moltitudine di mani eteree fuoriuscite da esso. Tornata alla realtà la ragazza si ritrova in una sorta di dejavu (la porta si apre lentamente davanti a lei) ma sembra non accadere nulla. Oltre la soglia c’è un tunnel scavato nella roccia; la ragazza avanza e trova il cadavere di Munakata che tiene tra le mani il secondo frammento dello Specchio Sacro, si china per raccoglierlo ma è di nuovo preda di frenetiche allucinazioni (sequenza non interattiva in bianco e nero dal montaggio rapidissimo): uomini in processione, un’esplosione, il sacerdote con la maschera di demone, lo specchio che va in frantumi, decine di corpi morti, un portale da cui fuoriesce un forte bagliore, il volto di Kirie prima di essere sacrificata. Miku ritorna nella realtà ed avverte una presenza alle sue spalle per ricadere subito in una nuova visione. Il fantasma di Kirie alle cui spalle si dimenano deformi esseri antropomorfi le si avvicina lentamente (sequenza non interattiva in bianco e nero), il controllo passa al giocatore (sequenza interattiva in bianco e nero fortemente deformata e disturbata) che può solo constatare l’impossibilità di Miku a difendersi o a fuggire. Una folla di fantasmi avanza verso la ragazza (sequenza non interattiva in bianco e nero) finché ad un tratto Kirie tocca la ragazza e si conclude il secondo capitolo di Project Zero. Qui come in altri punti, viene sottolineata l’invulnerabilità di Kirie contro gli attacchi di Miku. È interessante notare che essendo un videogioco, Project Zero può comunicare in modo estremamente efficace il senso di impotenza provato dalla protagonista proprio perché il giocatore stesso può provare in prima persona la sensazione che le proprie azioni siano totalmente inutili. Di nuovo il videogioco, in virtù della sua elevata interattività, è in grado non solo di rappresentare una situazione (come potrebbe fare un film o un romanzo) ma di ricrearla effettivamente ponendo al centro di essa il destinatario della comunicazione. Quello che manca in tale rappresentazione è solo la concretezza e la matericità del reale nonché la sua irreparabilità una volta accaduto. Nel variegato universo dell’industria videoludica sono comunque presenti sperimentazioni e situazioni particolari in cui anche questi aspetti vengono anch’essi riprodotti nel videogame. 109 c) La catastrofe, III° notte Il terzo capitolo di Project Zero giunge al cuore della trama; dal punto di vista narrativo scioglie i nodi costituitisi precedentemente. Il gioco riprende con un’allucinazione (sequenza non interattiva in bianco e nero) che mostra qualche dettaglio in più sulla morte di Kirie. La visione sembra suggerire che la ragazza è stata squartata, un portale si è aperto, una forza misteriose ne è uscita e ha causato la morte di numerose persone. Miku si risveglia di fronte al portale della stanza dei rituali; delle corde compaiono per qualche istante annodate alle sue caviglie. La ragazza è convinta che Mafuyu abbia attraversato quella soglia; aprendola, esplora il tunnel scavato nella roccia dietro di essa. Dopo aver affrontato gli spettri che infestano la caverna (i partecipanti alla processione nella cerimonia in cui è stata sacrificata Kirie), Miku scopre che non può proseguire oltre perché il passaggio è impedito da 109

Alcuni videogiochi prevedono la presenza di eventi irreparabili. In Steel Battalion ad esempio si muore “veramente”. Se durante l’esplosione del mezzo militare non si riesce a catapultarsi fuori dalla cabina di pilotaggio, il proprio simulacro digitale muore e non può più essere riportato in vita. Il giocatore deve dunque ricominciare l’avventura da capo utilizzando una nuova identità di gioco. Per quanto riguarda la riproduzione della concretezza del reale basti pensare a tutta quella serie di dispositivi ed interfacce che ricreano fisicamente ciò che vogliono rappresentare: volanti, pedaliere, chitarre elettriche, mulinelli, guantoni, spade, pistole, fucili e ventilatori che soffiano aria sul volto dell’utente sono solo alcuni degli innumerevoli esempi in questo campo. Anche la sensazione di accelerazione che si sente mentre si sta guidando un veicolo può essere riprodotta con appositi cabinati idraulici che si inclinano in ogni direzione o ruotano su se stessi per riprodurre la forza centrifuga durante una curva.

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una massa di detriti. Oltre le rocce che ostacolano il suo cammino, la protagonista scorge Mafuyu, che si spinge sempre più nel profondo della grotta. La ragazza è dunque costretta a ritornare sui suoi passi per trovare un percorso alternativo. Consultando gli appunti del folclorista scopre di dover passare attraverso il Pozzo della Luna, contenuto nel Santuario della Luna, il piccolo edificio posto nell’atrio dei ciliegi in cui la Fanciulla della Corda (la vittima sacrificale del Rituale di Strangolamento) veniva rinchiusa per essere purificata. Mentre Miku risolve enigmi per accedere al santuario e discendere nel pozzo della Luna si avvertono ripetute scosse di terremoto. A guidare i passi di Miku è principalmente lo spettro del sacerdote con la maschera da demonio (il capo famiglia), figura centrale sia nel rituale dello strangolamento che in quello dell’accecamento. Seguendolo, Miku è colta da nuove visioni che svelano ulteriori particolari sulla storia di Palazzo Himuro. Il sacerdote con la maschera di demone, dopo il rituale di strangolamento, ha ucciso a fil di spada tutti i residenti nella casa. Miku deve affrontare più volte il suo spettro nonché quello degli altri sacerdoti e, man mano che procede nella sua missione, scopre nuovi dettagli su quanto accaduto durante il rituale in cui Kirie è stata sacrificata. Il rito serviva per sigillare un cancello sotterraneo ed impedire a forze maligne di raggiungere il mondo dei vivi. I sacerdoti provavano pietà per la ragazza ma il sacrificio di lei era necessario. Il rituale è fallito e le forze del male (“La Crudeltà”, come viene definita nel gioco) hanno invaso palazzo Himuro causando un terremoto e facendo impazzire il gran sacerdote con la maschera da demone che ha ucciso tutti gli abitanti della casa. La ragazza era destinata dalla nascita ad essere sacrificata nel rituale e ne era consapevole, ma poco prima della cerimonia, un ragazzo di cui si è innamorata ha risvegliato in lei la voglia di vivere e, nonostante l’eliminazione di lui da parte dei sacerdoti, l’attaccamento della ragazza alla propria vita ha reso il rituale di Strangolamento inefficace. Dopo aver sconfitto lo spettro del sacerdote con la maschera da demone, Miku riesce finalmente a discendere nel Pozzo della Luna. Attraverso una scala verticale, la ragazza raggiunge una piccola caverna posta sotto l’atrio dei ciliegi; nella lugubre stanza, di fronte al cadavere mummificato di una ragazza legata 110, trova un altro frammento dello Specchio Sacro, ma non può prenderlo perché l’oggetto è bloccato da un meccanismo. Miku è colta da nuove visioni (sequenza non interattiva in bianco e nero): che mostrano il fallimento del rituale di strangolamento in cui Kirie è stata sacrificata, dopodichè, il fantasma della ragazza in Kimono appare uscendo dalla superficie riflettente di una pozzanghera sul pavimento. Miku tenta di fuggire arrampicandosi su per la scala e quando ormai sta per essere raggiunta la bambina in Kimono, fuori dal pozzo, allunga una mano per aiutarla. Seguono altre visioni di Kirie durante il rituale di strangolamento ma questa volta si ode anche la sua voce “Dobbiamo affrettarci… Per favore… fallo cessare… Fermami”, e si conclude il terzo capitolo. d) Kirie, Notte finale Miku riprende i sensi nella stanza del koto111 (uno strumento tradizionale giapponese simile al salterio). Lo spettro della bambina in kimono la sta osservando e le indica lo strumento. Suonandolo, la ragazza apre un passaggio segreto che la porta nel sottotetto dell’edificio. Esplorando il solaio, Miku apprende tramite più visioni la storia di Kirie. È singolare il fatto che la protagonista scopre il passato di Kirie “spiandola” attraverso alcune fessure. Guardare attraverso le fessure, vedere senza essere visto, è un gesto che assume un’importanza metaforica nel cinema perché rappresenta la situazione dello spettatore di un film; in Project Zero il tema dello sguardo è continuamente ribadito, sia a livello iconico (numerosi sono le inquadrature di 110

Dagli appunti del folclorista si deduce che questo non è il cadavere di Kirie, bensì quello della prima Fanciulla della Corda. 111 Si tratta della stanza in cui Miku ha visto le foto che le hanno ricordato sua madre.

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bulbi oculari), sia a livello narrativo (Miku per tutta l’avventura non fa altro che guardare o per lo meno cercare di vedere), ma qui le immagini non sono più innocue, esse reagiscono alla presenza e alla volontà del giocatore, non è più possibile guardare senza essere visto, spiare diventa un’operazione “pericolosa”. L’opera di Shibata diventa, forse inconsapevolmente, metafora dell’essenza stessa del videogame.

Kirie è sicuramente uno dei personaggi più affascinati mai apparsi in un videogioco.

Miku dunque diventa testimone oculare della disperazione di Kirie. Guidata dallo spettro della bambina in Kimono, la protagonista trova un ulteriore frammento dello Specchio Sacro e penetra nei ricordi di Kirie (sequenza non interattiva in bianco e nero) scoprendo che il ragazzo di cui si era innamorata era molto simile a suo fratello Mafuyu. Compare lo spettro di Kirie (di nuovo fuoriuscendo da uno specchio). Inizia un frenetico inseguimento in cui Miku si rende conto di non aver alcuna arma per difendersi (sequenza giocata in bianco e nero, con immagini distorte e disturbate). La protagonista riesce a mettersi in salvo nell’atrio dei ciliegi e discende nel Pozzo della Luna, dove apre un nuovo passaggio segreto che le consente di acceder alla caverna sotterranea in cui ha precedentemente scorto Mafuyu. Avanzando lungo il tunnel, Miku è continuamente colta dalle strazianti visioni del rituale di strangolamento in cui è stata sacrificata Kirie (sequenze non interattive in bianco e nero), combatte contro più spettri ed, infine, raggiunge la stanza del rituale112, dove una nuova allucinazione mostra la morte per squartamento di Kirie: i polsi, le caviglie e il collo della ragazza sono legate da corde che vengono tese da cinque sacerdoti mediante delle ruote, il sacrificio serve a dotare le funi di particolari poteri. 112

Suggestiva la rotazione della telecamera, posta alle spalle della ragazza in campo medio, mentre Miku si avvicina alla sala del rituale.

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Miku affronta e sconfigge il fantasma di Kirie sacrificata (non si tratta della donna dai lunghi capelli circondata da creature deformi, è un altro spettro generato dalla morte della ragazza), si inoltra ancora più in profondità nella caverna fino a giungere di fronte ad un enorme portale che più volte è apparso durante le sue visioni. Una nuova allucinazione (sequenza non interattiva in bianco e nero) rivela la seconda parte del rituale: i sacerdoti utilizzano le corde del Rituale di Strangolamento per sigillare l’enorme portale, una forza misteriosa sembra premere oltre il cancello, le corde si spezzano, scoppia un terremoto, lo Specchio Sacro posto di fronte alla soglia va in frantumi, una luce accecante travolge i presenti, palazzo Himuro trema e i suoi residenti muoiono, il capo famiglia impazzisce e stermina i sopravvissuti. Miku esamina la roccia in cui era contenuto lo Specchio Sacro (sequenza interattiva a colori) e vede in una visione (sequenza non interattiva in bianco e nero) suo fratello abbracciato dal fantasma di Kirie a sua volta avvolto da creature deformi. La ragazza in kimono esclama: “Noi… saremo sempre insieme”. Inizia l’ultimo duello (sequenza interattiva in bianco e nero fortemente distorta e disturbata). In questo luogo, la macchina fotografica di Miku sembra riuscire ad assorbire l’energia di Kirie, ma ad un tratto, come se fosse eccessivamente carica, esplode rivelando che al suo interno era nascosto l’ultimo frammento dello Specchio Sacro. Sfuggendo agli assalti di Kirie, Miku ricostruisce lo specchio e lo pone nella sua locazione originale. Un’ultima sequenza non interattiva a colori conclude la vicenda. La luce che fuoriesce dalla superficie riflettente inonda lo spettro facendolo svanire, al suo posto compaiono, in carne ed ossa, Mafuyu e Kirie. Subito appare lo spettro della bambina in kimono; il fantasma indica a Kirie il portale ed esclama “Non dimenticare il tuo dovere!”. La ragazza è colta da incidibile tristezza e si avviva verso il cancello semiaperto, lo chiude ed afferma “Il mio dovere consiste nel tenere chiuso questo cancello…”. Sotto gli occhi compassionevoli di Miku la ragazza si lega di fronte al portale bloccandone l’apertura con il proprio corpo (Kirie rimane sospesa per le braccia come se fosse crocifissa). Una forza dietro di lei cerca di aprire il cancello ripetutamente causandole lo stesso dolore del rituale dello strangolamento, “Lasciate a me questo cancello” esclama “voi affrettatevi a scappare!”. La caverna comincia a crollare, Miku vuole fuggire ma Mafuyu decide di restare con Kirie per non abbandonarla alla sua agonia. Il gioco termina con alcune immagini in ocra che riassumono la storia di Kirie, commentate dalla voce off di Mafuyu: Miku… Per tutto il tempo in cui Kirie mi ha guidato, potevo sentirla gridare… Gridava per cercare aiuto. Essendo la Fanciulla del Santuario della Corda, era destinata a sigillare il cancello. Eppure voleva anche stare con colui che amava. Ma non poteva avere entrambe le cose, ed era straziata da quei due sentimenti contrastanti e il risultato fu la Catastrofe. Il suo spirito fu toccato dalla Crudeltà, e lei divenne una creatura che voleva infliggere agli altri la sua stessa sofferenza. Ora è libera dalla Crudeltà, e sta per compiere il suo dovere come Fanciulla del Santuario della Corda. La sua anima deve rimanere qui, e tenere sigillato questo cancello per tutta l’eternità. Tutta sola… Dolore senza fine… Per liberarla dal dolore… Per non lasciarla senza speranza… Voglio restare al suo fianco. Miku…

Miku riprende i sensi fuori dal palazzo. Le anime dei fantasmi della casa salgono al cielo come un’enorme sciame i lucciole, la voce off di Mafuyu continua: “Miku… Ora capisco perché sono stato condotto qui… E accetterò questo mio destino. Miku, grazie di tutto.” Il gioco termina con un primo piano della ragazza di profilo (l’immagine in computer graphics si trasforma in disegno) e le parole di lei: “Da quel giorno, ho smesso di vedere cose che gli altri non vedono.” Seguono i titoli di coda e la sigla finale.

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2.5 Il significato di Project Zero Sono almeno due le tematiche trattate in Project Zero. La prima, estrapolabile dalla trama, riguarda il senso della ricerca di Miku e la seconda, più legata alla forma che Shibata ha voluto dare a questa fabula, concerne un’ossessiva rappresentazione del desiderio scopico. Procediamo con ordine. Uno degli aspetti più interessanti della trama di Project Zero è il paradosso in cui viene calato l’utente nel finale del gioco. La casa non è più infestata, il male è scongiurato, grazie all’intervento di Miku, guidata dal giocatore, si è ristabilita una situazione d’equilibrio, ma ciò che stupisce, è che la protagonista non è riuscita a raggiungere il suo scopo primario. Non dimentichiamo che la ragazza ha esplorato Palazzo Himuro per ricongiungersi con il fratello ma, quando finalmente lo ha trovato, egli ha deciso di trascorrere l’eternità accanto a Kirie anziché abbandonare l’edificio e seguire la sorella. Il finale di Project Zero suscita sentimenti contrastanti nel giocatore: si è felici che il pericolo sia scongiurato, che Miku si sia salvata e che le allucinazioni di fantasmi siano finite per sempre, ma il prezzo della salvezza è stato alto, la ragazza non potrà mai più ricongiungersi con il fratello: Mafuyu è perso per sempre. Il dolore causato da questa perdita è reso più sopportabile dal fatto che il sacrificio del fratello ha un significato; l’opera di Shibata parla di questo: se non ci si può ricongiungere con una persona scomparsa, dare un senso alla sua assenza può rendere più sopportabile la sua mancanza. A questo è servita l’intera avventura di Miku. Esplorando Palazzo Himuro la ragazza è riuscita a ricostruirne la storia e a conoscere la tragedia di Kirie; ora, la protagonista può contestualizzare la perdita del fratello e farsene una ragione. La tesi di Project Zero è che la conoscenza, la spiegazione di un evento tragico, aiuta a renderlo più sopportabile. Se questo è il senso profondo dell’opera di Shibata, non sorprende che la forma assunta dal testo sia tanto ricca di figure che sottolineano una costante ossessione scopica. La vista è uno strumento di conoscenza essenziale per l’uomo, Project Zero costituisce una riflessione sul cercare di vedere ma, a differenza di quello che potrebbe fare un film, cala il giocatore direttamente nel cuore del problema. L’utente di Project Zero non sta osservando un personaggio che cerca di vedere (e di scoprire), è egli stesso che vive in prima persona questa situazione. L’ambientazione (la casa buia infestata da fantasmi), l’oggetto magico con cui Miku si difende (una macchina per catturare immagini e dunque immagazzinare conoscenza) e la struttura di gioco (inseguire gli spettri con lo sguardo, memorizzare visivamente ambienti e locazioni) sono elementi che rimandano ad un desiderio scopico costantemente ostacolato, quasi a sottolineare che conoscere è un’azione che sott’intende un notevole sforzo e che impiega tutti i sensi (importanza del sonoro e del tatto nello spartito ludico). La colonna visiva di Project Zero è una costante speculazione sull’immagine interattiva e sullo sguardo. Numerose risultano le inquadrature di bulbi oculari, occhi terrorizzati, occhi trafitti, occhi che spiano o che scrutano nell’ombra, e ancora visioni, ricordi, allucinazioni che reagiscono alla presenza della protagonista, immagini che fuoriescono da superfici riflettenti; non dimentichiamo che gli spettri stessi, protagonisti assoluti del gioco, nonostante possano interagire limitatamente con la realtà fisica sbattendo porte o ferendo Miku, sono essenzialmente immagini eteree ed incorporee. Un particolare significato assume il personaggio di Kirie che, da minaccia assoluta si tramuta in vittima e vera figura eroica della storia. La ragazza è responsabile della maledizione caduta su Palazzo Himuro e dunque di tutte le morti che ne sono conseguite ma, in fin dei conti, la sua colpa è stata solo quella di innamorarsi di un ragazzo e di volersi sottrarre al sacrificio. La trama di Project Zero è fortemente tragica; la sofferenza della ragazza non è giusta, è necessaria; il male

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per essere fermato, richiede un sacrificio (anzi un doppio sacrificio visto che Mafuyu rimarrà per l’eternità a consolare Kirie). L’idea di un cruento sacrificio necessario per vincere o contenere il male, rimanda a diverse figure religiose, prima tra le quali l’interpretazione della morte di Cristo nella religione Cattolica113, sottolineata anche dal fatto che Kirie si crocifigge davanti al portale che deve sigillare. La presenza di elementi religiosi in un’opera horror come Project Zero non è casuale né sorprendente. Nel videogioco di Shibata si parla continuamente di Shintoismo, riti di purificazione, sacerdoti ed oggetti sacri (uno specchio metallico è spesso utilizzato come oggetto sacro nei templi Shintoisti 114). Statue mutilate del Budda, templi insanguinati, rituali cruenti e crudeli, costituiscono elementi essenziali nel costruire l’atmosfera del gioco. Horror e religione rispondono in modo diametralmente opposto ad una medesima esigenza ancestrale dell’uomo; interrogarsi e speculare sulla vita dopo la morte e sul soprannaturale. L’horror risponde a questa domanda inventando mondi di finzione che non pretendono di essere presi sul serio; le religioni, al contrario, forniscono risposte organizzate e più coerenti che devono essere considerate dal fedele come reali 115. Se consideriamo la visione laica di Huizinga che, nel suo celebro saggio "Homo Ludens", considera la religione una sorta di gioco preso sul serio, potremmo dire che horror e religioni, sotto questo punto di vista, sono sostanzialmente la stessa attività ludica che assume forme diverse in base alla suo grado di organizzazione. Il gioco di interrogarsi sulla morte può essere giocato in modo disorganizzato ed infantile (Paidia) in un’opera horror come Project Zero, oppure può essere "preso sul serio" accettando le regole di una qualsiasi religione, che ne costituisce dunque una forma di Ludus, per come lo intende Caillois; si tratta, pur sempre, sostanzialmente dello stesso gioco. Nella fiction horror, la figura della morte e del suo superamento, tema fondamentale in tutte le religioni, è assolutamente centrale 116. Frankenstein è un cadavere rianimato tramite la scienza, il vampiro è colui che prolunga la sua non-morte sottraendo ad altri la linfa vitale, lo zombi è un uomo che, superata la morte, si tramuta in una creatura che uccide, lo spettro è ciò che rimane dopo che il corpo ha smesso di vivere. Il fantasma di Kirie, generato dal fallimento del rituale in cui la ragazza doveva essere sacrificata, rientra nello stereotipo del male seducente il cui progenitore più ancestrale si può fare risalire al serpente della Genesi. Lo spettro di Kirie è una figura fortemente perturbante; minacciosa ed impura (due attributi che Noel Carrol117 ritiene indispensabili per identificare i cosiddetti mostri delle opere horror) ma 113

Sull'argomento vedi anche George Foot Moore, History of Religions, 1913-1919, New York; tr. it di Giorgio La Piana, Storia delle Religioni, 1989, Editori Laterza, Roma, Vol II. 114 "La religione indigena del Giappone si chiama Shinto, cioè la via degli dei (nazionali). Questo nome è cinese e fu dato alla religione nel secolo sesto, per distinguerla dalla religione nuova e straniera, detta Butsudo, ossia la via del Budda; in Giappone la traduzione della parola Shinto è: Kami no michi." In Giappone, il Buddismo più che sostituire completamente il Shintoismo, si fuse con esso, soprattutto per quanto riguarda la religiosità popolare, dando vita alla cosiddetta Duplice Via degli Dei (Ryobu Shinto). "Fino ad oggi, sono pochi nel Giappone i seguaci dello Shintoismo puro o del puro Buddismo: la maggioranza della popolazione cerca la salvezza in tutte due le vie: dopo tutto, i protettori e i benefattori celesti non sono mai troppi per un popolo". George Foot Moore, op. cit., pp 404-405. Ovviamente i cruenti riti descritti in Project Zero non hanno nulla a che fare con la Shintoismo praticato comunemente dal popolo giapponese. 115 Ad esempio, angeli e demoni sono creature immaginarie nelle opere horror ma le religioni li reputano esseri realmente esistenti; si veda ad esempio art. 328 "L'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l'unanimità della Tradizione.", Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992 (edizione in italiano). 116 Sull'argomento vedi anche David J.Skal, The Monster Show, 1993; tr. it. di Manlio Benigni, The Monster Show. Storia e cultura dell'horror, Baldini&Castoldi s.r.l, Milano, 1998. 117 Noel Carrol, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York, 1990.

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ammaliante, ha l’aspetto di una ragazza bellissima 118 ma alle sue spalle si agitano figure umane deformi: braccia e teste che si agitano e si contorcono. Il fantasma di Kirie è mosso dal desiderio di vendetta (infliggere ad altri lo stesso dolore che ha provato) ma allo stesso tempo è animata da un sentimento di amore che non ammette rifiuti; è per questo che attrae Mafuyu a Palazzo Himuro e lo rapisce, e alla fine, a suo modo, è Kirie a risultare vincitrice. A differenza di Miku, sarà lei che, pur rimanendo imprigionata al cancello per l’eternità, potrà restare per sempre a fianco della persona amata. Amore, morte e sensualità s’intrecciano inevitabilmente in questa figura in bilico tra altruismo estremo ed estremo egoismo; sicuramente Kirie è uno dei personaggi più interessanti ed affascinati mai apparsi in un videogioco. Un’ulteriore prova della comune origine di horror e religione risiede nel fatto che entrambi sono in qualche modo legati alla morale: nelle religioni l’ordine divino (e la fede in esso) è alla base dell’ordine morale, nelle opere horror spesso la manifestazione del soprannaturale (spettro, fantasma, demone o altro che sia) è legata al precedente compimento di un atto ritenuto malvagio. Il mostro, minaccioso ed impuro, generalmente appare perché qualcuno ha compiuto un atto sbagliato, ingiusto o riprovevole. Il male è una conseguenza della colpa, anche se non necessariamente colpisce automaticamente chi effettivamente ha compiuto l’atto ingiusto che ha portato alla manifestazione del soprannaturale. Il più delle volte il mostro fa espiare l’atto malvagio che lo ha generato a personaggi che nulla hanno a che fare con quanto successo 119 ma ciò non toglie che il meccanismo colpa/punizione è sempre presente e fondamentale nell’horror in generale. In certi casi le opere horror arrivano ad assumere un tono moralista o addirittura giustizialista 120. Sebastiano Fusco nel saggio Fantasmi, Streghe e case infestate nella realtà, nella letteratura e nel cinema (2001) sottolinea, ad esempio, come questa tendenza sia alla base della letteratura gotico fantastica in lingua tedesca in cui "se il potere naturale non è sufficiente ad assicurare in questo mondo il corretto meccanismo colpa/castigo, per ripristinare l’equilibrio così turbato, dovranno giocoforza entrare in campo fattori soprannaturali". D’altronde la religione è proprio questo che fa; destinando i malvagi ed i colpevoli alla reincarnazione o alle pene dell’inferno, chiama in causa entità soprannaturali per ristabilire un equilibrio che nel mondo reale viene costantemente infranto. Non è dunque un caso che la narrativa del soprannaturale nasca come genere letterario autonomo nel Settecento. Nel secolo dei Lumi, vengono minate alla base, le regole di quel "gioco preso sul serio" che è la religione, ma l’essere umano ha ancora bisogno di partecipare al

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Un altro splendido esempio di creatura maligna e seducente assimilabile a Kirie è la fanciulla vampiro del racconto breve Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, 1872; tr. it. Formenti Roberta, Carmilla, Tascabili, Economici Newton, Roma, 1993. 119 Ciò può accadere anche nelle religioni, si pensi ad esempio al Peccato Originale per come lo intende la Chiesa Cattolica: la colpa di un uomo si riversa su tutta l'umanità. Catechismo della Chiesa Cattolica, op. cit. Art 402, "Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: <<Per la disobbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori >> (Rm 5,19); << Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... >> (Rm 5,12). All'universalità del peccato e della morte l'Apostolo contrappone l'universalità della salvezza in Cristo: << Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita >> (Rm 5,18). Dall’Art 402 del Catechismo della Chiesa Cattolica si desume anche lo stretto legame tra morte e peccato che permea la concezione Cattolica dell’esistenza. Anche nelle opere horror, morte e peccato sono spesso correlati: l’azione malvagia porta sempre alla morte di chi l’ha commessa o di altri. Giocare ad interrogarsi sulla morte diventa dunque, quasi inevitabilmente sinonimo di giocare ad interrogarsi sul bene e sul male. 120 Si pensi, ad esempio, alla saga di Resident Evil: il vero "cattivo" della situazione è l'Umbrella, multinazionale farmaceutica senza scrupoli la cui sete di profitto ha portato alla creazione di morti viventi ed alla conseguente distruzione di Raccoon City.

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gioco di interrogarsi sulla morte e incomincia a praticarne una forma più libera (meno regolata) di quella proposta dal Cristianesimo. In Italia l’ultimo processo per stregoneria si celebrò nel 1742 a Chianocco in Val di Susa (l’imputata Margherita Righetto fu condannata al carcere) e solo qualche anno più tardi, due romanzi (Ferdinand Count Fathom di Tobias Smollet del 1753 e il sicuramente più famoso The Castle of Otranto di Horace Walpole del 1764) gettarono le fondamenta della letteratura horror121. Scacciato dalla realtà, il soprannaturale colonizzava l’immaginario, come se l’essere umano, nonostante le pretese dell’Illuminismo, non riuscisse a resistere alla tentazione di partecipare a questo gioco. Ai nostri giorni horror e religione si riuniscono in forme inedite e non soltanto in quei film o romanzi dell’orrore in cui elementi religiosi (desacralizzati) appaiono con una notevole frequenza; si pensi, ad esempio al successo raggiunto dalla rockstar Marilyn Manson122, un icona in cui il mostruoso (minaccioso e impuro) si mischia al religioso (il cantante durante i concerti simula riti religiosi); la moralità (il nome del cantante nasce dalla fusione di due icone, una positiva, Marilyn Monroe, e l’altra negativa, Charles Manson, per rendere manifesta l’ipocrisia della società Americana) si accompagna all’immoralità (la rockstar è celebre per i suoi atteggiamenti osceni), quasi a significare che per combattere il male occorresse un male più grande123. Project Zero in quanto opera horror, costituisce una sorta di riflessione sulla morte in chiave ludica ma, invece di sollevare questioni irrisolvibili, fornisce una risposta precisa: contestualizzare la morte di una persona amata, comprendere le ragioni della sua scomparsa, aiuta a lenire il dolore causato dalla sua assenza. Forse non è un contenuto terribilmente originale ma nel videogioco viene comunicato in modo estremamente efficace e coinvolgente. D’altronde anche riassumere il senso dei Promessi Sposi in una singola frase, fa sembrare il significato del capolavoro Manzoniano alquanto banale.

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In entrambi i casi non siamo ancora in presenza di "veri" fantasmi ma il successo di The Castle of Otranto e delle opere ad esso ispirate fu un passo fondamentale per arrivare finalmente a quella celebre sera del 15 luglio 1816 in cui, Lord Byron, John William Polidori, Percy Bysshe Shelly e la moglie Mary Wollstonecraft, Claire Clairmont, Hobbhouse Davies e Pellegrino Rossi, si incontrarono a Ginevra nella sontuosa Villa Diodati per gettare le fondamenta di Frankenstein or The Modern Prometheus (1818) di Mary Wollstonecraft Wollstonecraft e The Vampyre (1816) di John William Polidori, che ottant’anni più tardi ispirò Dracula (1897) di Bram Stoker. 122 Sull'argomento vedi anche Marilyn, Manson & Strauss, Neil The Long Hard Road out of Hell, 1998, HarperCollins Publisher: tr. it. Ira Rubini, La mia lunga strada dall'inferno, 1999, Sperling & Kupfer Editori S.p.A., I edizione "Musica" Paperback maggio 2003. 123 Sembra questo il senso ultimo dell'opera di Marilyn Manson o almeno della frase "capitalism has made it this way, old-fashioned fascism will take it away" (tr. it. "il capitalismo ha portato le cose a questo punto, il fascismo vecchio stampo spazzerà tutto via") che conclude la canzone The Beautiful People, contenuta nell'album Antichrist Superstar, (Interscope Records, 1996).

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Conclusioni

Primi passi

Volavano verso le stelle quelle bolle, volevano veder le lune dalle spalle, il cielo si riempì di mille e più bolle come fosse un mare al punto di scoppiare (Manuel Bongiorni, Bolla di brodo 124)

Lo scopo del presente studio è di analizzare come il linguaggio cinematografico è stato utilizzato e rielaborato da quel nuovo mezzo di comunicazione di massa che è il videogame. Studiando le opere di Shinji Mikami, Fumito Uedo, Hideo Kojima, Makoto Shibata ed altri ancora, è possibile prendere atto che una nuova categoria di testo è ormai nata: è il film interattivo, una chimera cercata a lungo, forse nei luoghi sbagliati, un’idea su cui si è spesso speculato senza accorgersi che stava già nascendo nel fertile universo dei videogame. Alone in The Dark, Resident Evil, Devil May Cry, Ico, Metal Gear Solid, Project Zero, sono solo l’inizio. La fiorente industria videoludica sforna costantemente titoli che avanzano in questa direzione. Esistono dei limiti a tale processo? Molti dei problemi legati alla realizzazione di un film interattivo vengono risolti da brillanti idee di game design. I sistemi di controllo si affinano, gli utenti diventano esperti, il costante aumento della potenza di calcolo dei processori permette la realizzazione di colonne sonore e colonne visive sempre più raffinate e coinvolgenti, nascono nuovi modi di organizzare il racconto e sono concesse al giocatore inedite possibilità di recitazione e di interazione. Tuttavia esiste un limite intrinseco nella stessa definizione di film interattivo. No, non è la presenza di attori in carne ed ossa: scanner 3D più evoluti di quelli attuali e forme più sofisticate di Motion Capture potrebbero permettere l’inserimento di persone reali all’interno dei videogame. Il limite invalicabile è un altro. Come abbiamo più volte ribadito, un testo non interattivo è come un monologo ed, in quanto tale, nella sua immodificabilità, può raggiungere una perfezione formale difficilmente realizzabile in un sistema dinamico ed instabile come il videogioco. Il testo generato dalla performance del giocatore empirico è il frutto di una continua contrattazione tra il giocatore e il software. Per quanto l’utente sia esperto, questo dialogo non potrà mai raggiungere la perfezione di certi monologhi. L’intervento del giocatore minaccia costantemente il lavoro dell’autore “rovinando” inevitabilmente sceneggiature, regie ed inquadrature. Un partita videoregistrata difficilmente sarà un buon film. D’altronde non ha nemmeno alcuna intenzione di esserlo. L’interattività è una lama a doppio taglio; concedere allo spettatore la possibilità di interferire nell’opera implica anche permettergli di intaccare la sua bellezza, alterare il suo equilibrio. Ciononostante la possibilità di assumere un ruolo attivo nei confronti del testo è un’opportunità troppo seducente per riuscire a resistere: “rovinare” opere d’arte non è mai stato così divertente.

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Musica per Bambini, Bolla di brodo, contenuto in Del Superuovo, 2002, Punkrockers Autoproduzioni/Venus.

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Namco, Namco (1981), Puck-Man, Giappone, Coin-op, Atari 2600, Atari 5200, Commodore 64, Famicom Disc System, GameBoy, GameBoy Color, GameGear, Intellevision, MSX, NES; edito in Europa come Pac-Man _____________ (1983), Xevious, Giappone, Coin-op, Atari 2600, Atari 5200, Atari 7800, Commodore 64, Famicom Disc System, MSX, NES, TurboGrafx 16 ____________ (1995), Alpine Racer, Giappone, Coin-op ____________ (1996), Prop Cycle, Giappone, Coin-op ____________ (1996), Time Crisis, Giappone, Coin-op, PSone ____________ (1997), Kaze no Klonoa, Giappone, PSone; edito in Europa come Klonoa ____________ (2001), Kaze no Klonoa 2, Giappone, PS2; edito in Europa come Klonoa 2: Lunatea’s Veil Namco, Namco – America (1994), Ridge Racer - Full Scale, Nord America, Coin-op Nintendo, Nintendo (1985), Super Mario Bros., Giappone, Coin-op, Famicom Disc System, Nes ________________ (1996), Pocket Monsters Midori Akai (Red), Giappone, GameBoy: edito in Europa come Pokemon (Red Edition) Nintendo, Nintendo Japan (1996), Super Mario 64, Giappone, Nintendo 64 Ocean, Ocean (1989), Red Heat, Nord America, Commodore 64 Parsley, Otaku (1996), True Love ‘95, Giappone, PC (DOS/Windows) Polyphony Digital, SCEI (1997), Gran Turismo, Giappone, PSone Radical Entertainment, VU Games (2003), The Hulk, PS2, Gamecube, Xbox, PC (DOS/Windows) Rare Ldt., Microsoft (2001), Grabbed by the Ghoulies, Nord America, Xbox Rebellion, Fox Interactive (1999), Aliens vs. Predator, Nord America, PC (DOS/Windows), Macintosh RED Entertainment, Microsoft (2003), N.U.D.E. @ Natural Ultimate Digital Experiment, Giappone, Xbox Reflections, GT Interactive (1999), Driver, Nord America, PSone, PC (DOS/Windows) Rockstar North, Rockstar Games (2001), Grand Theft Auto 3, Nord America, PS2, PC (DOS/Windows) Russel, Stephen (1962), SpaceWar!, PDP-1 SCEI, SCEI, (2001), Ico, Giappone, PS2 __________ (2001), Surveillance Kanshisha, Giappone, PS2 Sega, Sega (1987) Shinobi, Nord America, Coin-op, Commodore 64, GameGear, Master System, NES, TurboGrafx 16 SEGA-AM2, SEGA (1999), Ferrari F355 Challenge, Giappone, Coin-op, Dreamcast, PS2 ________________ (1999) Shenmue Chapter 1: Yokosuka, Giappone, Dreamcast; edito in Europa come Shenmue Seibu Kaihatsu, Seibu Kaihatsu (1990), Raiden, Giappone, Coin-op, Jaguar, Lynx, Turbografx 16 114


Shiny Entertainment, Atari (2003), Enter the Matrix, Nord America, PS2, Xbox, GameCube, PC (DOS/Windows) Smilebit, Sega (2000), Jet Set Radio, Giappone, Dreamcast __________ (2002), Panzer Dragoon Orta , Giappone, Xbox SNK, SNK (1996), Metal Slug, Giappone, Coin-op, Neo-Geo, Neo-Geo CD, PSone, Saturn Sonic Team, Sega (1998), Sonic Adventure, Giappone, Dreamcast _____________ (2000), Phantasy Star Online, Giappone, Dreamcast, PC (DOS/Windows); edito insieme al secondo episodio anche su Xbox e GameCube come Phantasy Star Online Episode I & II

Square Enix, Square Enix (2001), Final Fantasy X, Giappone, PS2 ___________________ (2002), Kingdom Hearts, Giappone, PS2 SquareSoft, SquareSoft (1997), Final Fantasy VII, Giappone, PSone, PC (DOS/Windows) __________________ (1999), Front Mission 3, Giappone, PSone Surreal Software, Black Label Games (2002), The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring, Nord America, PS2, Xbox, GameCube, PC (DOS/Windows); edito in Italia come Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’Anello TAD Corporation, TAD Corporation (1989), JuJu Densetsu, Giappone, Coin-op, Commodore 64, NES; edito in Europa come Toki Taito Corporation, Taito Corporation (1978), Space Invaders, Giappone, Coin-op, Atari 2600, Atari 5200, GameBoy, GameBoy Advance, GameBoy Color, GameGear, MSX, NES, Nintendo 64, Odyssey^2, PC (DOS/Windows), PalyStation, Saturn, SG-100, Super Nintendo, VirtualBoy, WonderSwan

___________________________ (1986), Arkanoid, Giappone, Coin-op, Amiga, Commodore 64, NES, PC (DOS/Windows) _____________________________ (1987), Rastan Saga, Giappone, Coin-op, Commodore 64, GameGear, Master System; Edito in Europa come Rastan _____________________________ (1987), Rainbow Islands, Giappone, Coin-op, Amiga, Commodore 64, Master System, NES, Turbo CD, WonderSwan Taito Corporation, SNK (1994), Puzzle Bobble, Giappone, Coin-op, 3DO, GameGear, Neo-Geo CD, PC (DOS/Windows), Super Nintendo, WonderSwan Team Ninja, Tecmo (2003), Dead or Alive Xtreme Beach Volleyball, Giappone, Xbox Tecmo, Tecmo (1986), Argos No Senshi, Giappone, Coin-op, Commodore 64, Lynx, Master System, NES; Edito in Europa come Rygar ____________ (2001), Rei Zero, Giappone, PS2 e Xbox; edito in europa come Project Zero Treasure, Treasure (2001), Ikaruga, Giappone, Coin-op, Dreamcast, GameCube

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Ubisoft, Ubisoft (2002), Tom Clancy’s Splinter Cell, Nord America, Xbox, PS2, GameCube, PC (DOS/Windows) _____________ (2003), XIII, Nord America, PS2, Xbox, GameCube, PC (DOS/Windows) UGA, Sega (2001), Rez, Giappone, Dreamcast e PS2 U.S. Gold, U.S Gold (1984), Bruce Lee, Nord America, Commodore 64, Apple II, MSX Vivarium, Vivarium (1999), Seaman, Giappone, Dreamcast, PS2 Wide Games, Codemaster (2002), Prisoner of War, Europa, PS2, Xbox, PC (DOS/Windows) Yuke’s, ASCII Entertainment (1999), Berserk, Giappone, Dreamcast; edito in Nord America come Sword of the Berserk: Guts’ Rage

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Bibliografia B – Testi Critici A.V. (1998) Vampiri, Miti, leggende, letteratura, cinema, fumetti, multimedialità. Il più completo ed esauriente trattato sul tema dei Vampiri, Casa Editrice Nord, Milano Ascione, Ciro (1999) Videogames. Elogio del tempo sprecato, Minimum Fax, Roma Bencivenni, Alessandro (2003), Hayao Miyazaki, il dio dell’anime, Le Mani – Microart’s Edizioni, Recco Bettetini, Gianfranco (1984) La conversazione audiovisiva – problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano __________.(1991) La simulazione visiva, Bompiani, Milano __________& Colombo, Fausto (eds.). (1998) Le Nuove Tecnologie della Comunicazione, Bompiani, Milano Bordwell, David & Thompson, Kristin (1994) Film History: An Introduction, McGraw-Hill; trad. it. Storia del cinema e dei film, opera in due volumi, Dalle origini al 1945 e Dal dopoguerra a oggi, Editrice il Castoro, Milano, 1998 Bittanti, Matteo (1999) L’innovazione tecnoludica – L’era dei videogiochi simbolici (1958 – 1984), Jackson Libri, Milano ____________ (a cura di) (2002) Per una Cultura dei Videogames, Milano, Unicopli Brancato, Sergio (a cura di) (2000), Sociologie dell’immaginario. Forme del fantastico e industria culturale, Carrocci, Roma Cadoz, Claude (1994) Les realitès virtuelles, Flammarion; trad. it. Le realtà virtuali. Un manuale per capire. Un saggio per riflettere, Il Saggiatore, Milano, 1996 Caillois, Roger (1967) Les jeux et les hommes le masque et le vertige, Editions Gallimard, Paris; trad. it. I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 1981 ___________ (1974) Puissances du roman, Editions Galllimard, Paris; trad. it. La forza del romanzo, Sellerio Editore, Palermo, 1980 Canova, Gianni (2000) L'alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani Carrol, Noel (1990) The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York, 1990 Casetti, Francesco (1993) Teorie del Cinema dal dopoguerra ad oggi, Bompiani, Milano ______________ & Di Chio, Federico (1990) Analisi del film, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Milano Costituzione Apostolica “Fidei Depositum” (1992) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992 (edizione in italiano), redatto dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II Ceserani, Remo (1997), Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri,Torino Cheli, Enrico (1996) La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, FrancoAngeli, Milano

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Marsciani, Francesco & Zinna, Francesco (1991) Elementi di semiotica generativa – processi e sistemi di significazione, Società Editrice Escaulapio, Bologna Marilyn Manson & Strauss, Neil (1998) The Long Hard Road out of Hell, HarperCollins Publisher: trad. it. Rubini, Ira, La mia lunga strada dall'inferno, Sperling & Kupfer Editori S.p.A., 1999, I edizione "Musica" Paperback maggio 2003. Mattelart, Armand (2001) Histoire de la sociètè de l’information, Ditions La Dècouverte, Paris; trad. it. Storia della società dell’informazione, Giulio Einaudi editore, Torino, 2002 McCloud, Scott (1993) Understanding Comics. The invisible Art, Kitchen Sink Press (USA); trad. it. Capire il fumetto. L’arte invisibile, Vittorio Pavesio Productions, Torino, 1999 ____________ (2000) Reinventing Comics. How Imagination and Technology Are Revolutionizing an Art Form, Perennial Edition (USA); trad. it. Reinventare il fumetto. Immaginazione e Tecnologia rivoluzionano una forma artistica, Vittorio Pavesio Productions, Torino, 2001 McLuhan, Marshall (1964) Understanding Media; trad. it. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 1967 Metz, Christian (1968) Essais sur la signification au cinéma, èditions Klincksieck ; tra. it. Semiologia del cinema , Garzanti, 1989 Negroponte, Nicholas (1995) Being Digital , Alfred A. Knopf, New York; trad. it. Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995 Polidori, John William The Vampyre (1816), reperibile al sito Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net Provenzano Roberto C. (1999) Il linguaggio del cinema . Significazione e Retorica, Lupetti – Editori di Comunicazione, Milano Rossi, Fabio (1993) Dizionario dei videogame, Garzanti-Vallardi, Milano Smollet, Tobias (1753) Ferdinand Count Fathom, reperibile al sito Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net/ Shelley, Mary Wollstonecraft (1818), Frankenstein or The Modern Prometheus , reperibile al sito Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net Stam, Robert & Burgoyne, Robert & Flitterman-Lewis, Sandy (1992) New vocabularies in film semiotics. Structuralism Post-Structuralism and beyond; trad. it. Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano 1999 Stoker, Bram Dracula (1897), reperibile al sito Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net Tolkien, John Ronald Reuel (1954) The Fellowship of the Ring; trad. it., La compagnia dell’Anello, Rusconi, Milano, 1993 _____________________ (1954) The Two Towers; trad. it, Le due torri, Rusconi, Milano, 1993 _____________________ (1955) The Return of the King; trad. it, Il ritorno del re, Rusconi, Milano, 1993 (che insieme con i precedenti forma la trilogia The Lord of the Rings; trad. it., Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano, 1974)

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Vanoye, Francis & Goliot-Lété, Anne (1992) Précis d’analyse filmique, Éditions Nathan, Paris; trad. it. di Buzzolan Dario, Introduzione all’analisi del film, Lindau, Torino, 2002 Volli, Ugo (1994) Il libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, strumenti, modelli. Il Saggiatore, Milano Wolley, Benjamin (1992) Virtual Worlds, Blackwell Publisher; trad. it Mondi Virtuali, Bollati Boringhieri, Torino, 1993 Walpole, Horace (1764) The Castle of Otranto, reperibile al sito Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net

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Bibliografia C – Altri Paratesti

Legenda delle Abbreviazioni [a] [c] [faq] [ff] [h] [i] [pr] [r] [rg]

[s]

anteprima o preview (recensione giornalistica precedente la data ufficiale di inizio della distribuzione del game; su rivista web specializzata) caption, company line, didascalia o slogan di presentazione/lancio del prodotto Frequently Asked Questions file, raccolta di informazioni non ufficiale di fan del videogioco fan fiction help guide, in-game tutorial, online guide, unofficial game guide intervista o interview corporate press release recensione o review (successiva alla data di inizio della distribuzione; su rivista web specializzata) recensione di giocatore, o gamer review (su forum, newsgroup o sezione dedicata di rivista web)

speciale o approfondimento

Amano 76, Due grandi occhi a mandorla. Surveillance, Ring, n.5 [r] Avecone, Adriano, Motion Blur, Super Console 100% Playstation, n.60, giugno 1999 [s] ____________ The Making of… parte I, Super Console100% Playstation, n.61, luglio/agosto 1999[s] ____________The making of… Parte V, Super Console 100% Playstation n.65, dicembre1999 [s] Bonora, Cristiano, Licenza da uccidere, Semantica e Sistematica del Tie-in, Ring n.6 [s] Canova, Gianni (a cura di ), L'occhio, Il dito: estetica del videogame, Segnocinema, n.92, luglio-agosto 1998 [s] Emalord, Acciaio è il colore della notte. Ninja Master, Ring n.3 [s] Fraschini, Bruno, Il videogioco come testo incompleto, Super Console, giugno, n.93, 2001

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URLs Game Designers & Developers AM2, www.sega-am2.co.jp Konami, www.konami.com SEGA, sega.com SCEI, www.scei.co.jp Tecmo, tecmo.co.jp UGA, u-ga.com

Game Magazines GamePress, www.gamepress.co.uk GamesRadar, www.gamesradar.it GameSpot, www.gamespot.com IGN, www.ign.com NextGame, www.nextgame.it

Game Studies The First Place, www.thefirstplace.it mbf tod@ay, http://mbftoday.blogspot.com International Arcade Museum, www.arcade-museum.com Killer List of Videogames, www.klov.com Ring, www.project-ring.com

User–Developer & Fan Communities Gamefaqs, www.gamefaqs.com Hokuto No Ken.it, www.hokutonoken.it System 16 The Arcade Museum,www.system16.com

Altro Guida al cinema di fantascienza a cura di Maurizio Carità e Giovanni Mongini, http://www.fantascienza.com/cinema/index.html Project Gutenberg, http://www.gutenberg.net/

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Bibliografia D –Audiovisivi Cameron, James (1986), Aliens; edito in Italia con il titolo Aliens: scontro finale Fincher, David (1992), Alien 3 Hitchcock, Alfred (1960), Psycho Jackson, Peter (2002), The Lord of the rings: the Fellowship of the Ring; edito in Italia con il titolo Il Signore degli anelli. La compagnia dell’anello ___________ (2003), The Lord of the Rings: the two Towers; edito in Italia con il titolo Il Signore degli anelli. Le due torri ___________ (2003), The Lord of the Rings: the Return of the King; edito in Italia con il titolo Il Signore degli anelli. Il Ritorno del re Jeunet, Jean-Pierre (1997), Alien Resurrection; edito in Italia con il titolo Alien: la clonazione

Kassovitz, Mathieu (1995), Le Haine; edito in Italia con il titolo L’odio Koike, Takeshi & Watanabe, Shinichirô & Jones, Andy (VI) & Morimoto, Kouji & Kawajiri, Yoshiaki & Maeda, Mahiro & Chung, Peter & Watson, Clayton & Ôtsuka, Akio (2003), The Animatrix McTiernan, John (1987), Predator Nakata, Hideo (1998), Ringu; edito in Italia con il titolo come The Ring Romero, George (1968), Night of the Living Dead; edito in Italia con il titolo La notte dei morti viventi _____________ (1978), Dawn of the Dead; edito in Italia con il titolo Zombi _____________ (1985), Day of the Dead, edito in Italia con il titolo Il giorno degli zombi Scott, Ridley (1979), Alien _________ (2000), Gladiator; edito in Italia con il titolo Il Gladiatore Wachowski, Larry & Wachowski, Andy (1999), The Matrix; edito in Italia con il titolo Matrix _______________________________(2003), The Matrix: Reloaded; edito in Italia con il titolo Matrix: Reloaded _______________________________(2003), The Matrix: Revolutions; edito in Italia con il titolo Matrix: Revolutions

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Bibliografia D – Discogafia C.S.I. (1993), Ko’ De Mondo, Attack Punk/Polygram Marilyn Manson (1996), Antichrist Superstar, Interscope Records Musica per Bambini (2002), Del Superuovo, Punkrockers Autoproduzioni/Venus Ustmamò (1996), Ust 1996, I Dischi del Mulo/Virgin Music Italy, S.r.l

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Scrivere un libro è una fatica immane e sarebbe un’impresa impossibile senza l’aiuto e l’incoraggiamento di altri. Le idee contenute in questo saggio sono riuscite ad uscire dalla mia testa e ad assumere una forma più o meno definita grazie anche a Manu, Matteo Bittanti, Gianni Canova, Francesco Alinovi, Andrea Babich, Ualone, Simone Crosignani, Ivan Fulco, Marcello Cangialosi, Roberto Magistretti, Paolo Paglianti, Michelangelo Roberti, Manuel Gipponi, Camillo Quadraroli, Laura Cantarelli, Buoncompagni Gianluca, Max Carinelli, Francesco Mazzetta, Andrea Risatti, William Capriata, Mauro Celoin, k-hello.org, Cristiano Bonora, Davide Latina, Nemesis Divina, Umberto Zanesi, Massimo Maietti, Giovanni Bossi, il Fogno, Marco Accordi Rickards, Paolo Cardillo, Giuseppe Lorenzoni, Ring in generale, Videogiochi, chiunque abbia partecipato ad una mia lezione (in particolare gli studenti del corso di “Teoria e Tecniche di Game Design” tenutosi allo IED di Milano nei mesi di aprile-maggio 2004), i Je ne t’aime plus e tutti quelli con cui ho videogiocato anche solo per cinque minuti nella mia vita, compresi gli sconosciuti incontrati nei bar, in sala giochi o in rete. Un ringraziamento in particolare va a Tommaso “Gatsu” De Benetti per le correzioni.

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Bruno Fraschini Collaboratore di Xbox Magazine Ufficiale, PlayNation Magazine, Super Console, Videogiochi, PSM e (Duel), Bruno Fraschini si è laureato in relazioni pubbliche con una tesi dal titolo “Strategie comunicazionali e linguistiche del videogame” (relatore Gianni Canova). Docente alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (NABA) e all’Istituto Europeo di Design di Milano (IED) ha partecipato alla stesura di Per una cultura dei videogames. Teoria e prassi del videogiocare (Unicopli, Milano, 2002, a cura di Matteo Bittanti) e ha pubblicato L’evoluzione del serpente. Analisi della serie di Metal Gear (Unicopli, Milano, 2003). Autore di alcuni articoli di teoria videoludica tra cui “Metal Gear Solid 2. Il cavallo di Troia di Hideo Kojima” e “Il videogioco come testo incompleto”, pubblicati su Super Console, è anche musicista e cantautore negli Je ne t’aime plus con cui ha realizzato l’album d’esordio La prima cosa (Alternative/Venus, 2002), acclamato dalla critica ma non ancora scoperto dal grande pubblico J. Per dialogare bfraschini@libero.it

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