OurPhoto 05

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Flavio Bandiera - foto: Simona Pilolla


Sommario 03 Editoriale . Fabio Camandona 04 Adoroletuefoto . Marco Govoni 08 The street photography . Marco Sacco 13 iPhoneografia e dintorni . Gipo Montesanto 16 Promise land . Giulia Piccari 20 Islanda con jimny . Elisabetta Rosso 24 Tempesta a Ouessant . Stefano Cuccolini 30 Intervista Flavio Bandiera . Fabio Camandona 38 Ayutthaya . Matteo Fantolini 45 Canon club italia . Domenico Addotta 51 Tutorial beauty dish . Massimiliano Zago 57 Ilha do sal . Luisella Amnena 63 Carso . Paolo Aizza 68 Tutorial stilllife . Mario Tarello 72 Gangsters e... . Barbara Nicotra 74 Incontro con lo squalo . Carlo Cavazzuti 81 Rincorrendo la Via Lattea . Maurizio Pignotti 89 SLOI . Cosimo Attanasio 95 Contest Ai sensi della Legge n.62 del 7 marzo 2001, si dichiara che questa pubblicazione non rientra nella categoria di "informazione periodica" in quanto viene aggiornato ad intervalli non regolari. 2


Editoriale Condivisione o morte. La rinascita di una categoria Questa volta vi voglio raccontare un fatto recentemente accaduto, per poi chiedere a voi di raccontarne uno a me. Avrete visto in copertina che su questo numero di OurPhoto abbiamo una presenza d’eccezione, uno dei matrimonialisti più noti al mondo, un “fotografo globale”, Flavio Bandiera. È per noi un onore che anche lui creda in quanto stiamo facendo. Ma oltre che un onore voleva essere per me una piccola opportunità di soddisfazione personale, ora vi raccondo tutto: Per scelta editoriale, per evitare un conflitto di interessi, si era deciso che io non avrei pubblicato miei articoli su OurPhoto, salvo il redazionale di apertura. Ma dopo aver fatto l’intervista a Flavio gli chiesi uno scatto raffigurante lui stesso per la copertina. Flavio si accorse di aver poco materiale in merito. Gli proposi quindi di fargliene una io, ipotizzando di fare poi uno strappo alla regola e, quindi, pubblicare finalmente anche qualcosa di mio su OurPhoto (la tentazione e’ sempre molto forte, lo ammetto). Decidemmo giorno luogo e ora e andammo da lui per realizzare lo scatto copertina. Venne con me, come sempre, Simona Pilolla mia compagna (moglie) nell’attività e nella vita. Chiaramente venne armata di reflex. Iniziammo a scattare foto a Flavio (sessione molto divertente, fotografare un fotografo mette sempre imbarazzo a lui e ansia a chi lo fotografa). Accadde poi che gli presentammo gli scatti. L’agenzia di Milano che cura la sua immagine scelse una fotografia di Simona. Lo scatto venne postprodotto da Yuri dello studio Flavio Bandiera al fine dell’essere coerente con lo stile e l’immagine che da sempre li contraddistingue. Ed eccovi la copertina. Cosa ci insegna questa storia? Che io, Simona, Flavio e Yuri facciamo tutti lo stesso mestiere. Che in teoria siamo tutti concorrenti l’uno dell’altro. Oltretutto fisicamente vicini. Ma che sarebbe stato stupido ragionare in tal senso. Abbiamo condiviso. È stata creata una splendida immagine per la soddisfazione di tutti: Flavio ha una sua fotografia che prima non aveva (anche altre, quel giorno siamo poi andati avanti qualche ora dimenticandoci di tutto), Simona ha realizzato la fotografia ad un soggetto d’eccezione, io mi trovo con una copertina di OurPhoto ad alto impatto, migliorata da Yuri che leggerà il suo nome nel redazionale di apertura. Abbiamo condiviso ed abbiamo raggiunto un risultato. Da domani torneremo a farci concorrenza e dopodomani ricondivideremo qualcos’altro. La fotografia in Italia è in crisi, come tutto del resto, per molti fattori. Uno dei più forti è la “guerra di quartiere” che da sempre esiste tra operatori del settore. Il custodire i segreti di pulcinella. Ora siamo nell’epoca di youtube, se credete di avere un segreto che sia meglio non far scoprire ai colleghi sappiate che su youtube se ne trovano tutorial in almeno 10 lingue. Dobbiamo condividere per vincere. Ecco, io vi ho raccontato l’aneddoto sul come è nata questa copertina. Ora tocca a voi. Condividete con noi i vostri aneddoti, le vostre esperienze, gli shooting, i viaggi, le foto della domenica mentre cucinate le costine con gli amici. OurPhoto e l’intero settore della fotografia italiana ne hanno bisogno. Abbiamo bisogno di voi, avete bisogno di voi. E se proprio non volete condividere uno dei vostri segreti... Non è un problema, rimane youtube.

Fabio camandona


Adoroletuefoto.it . Story TESTO Marco Govoni www.adoroletuefoto.it

11 Agosto 2011, ore 12:55 . Ricevo una mail che inizia così: “Vi prego… aprite in fretta il sito!! Ci sono delle porcate assurde su quella bacheca…. ….. ….. Siete grandi!

delle brutte foto, che se qualcuno le commentava veniva aggredito, e che per questo motivo il sig. Striker si era messo a prendere questi autori per il culo. La mia risposta fu secca: se non ti piacciono le foto dillo, se non sai reggere una conversazione sono affari tuoi. Ma non scrivere tu per primo sciocchezze. Così ci siamo conosciuti, io e Simone, che ora si occupa della gestione della community del sito e di un paio di gruppi su Facebook. In realtà la storia inizia mesi prima.

Simone ‘Striker” Soldà” Non lo sapevamo ancora, ma da quel momento eravamo “soci”. Il succo di quella mail era che, nella pagina Facebook di adoroletuefoto c’erano

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Gennaio 2011. La passione per la fotografia l’ho sempre vissuta come qualcosa da prendere con molto rispetto, perché è un arte. A dire il vero, forse, mi rendo conto ora che fare una fotografia è qualcosa di articolato, è portare un messaggio che hai nel cuore e nella testa, all’interno di una immagine, per poi farlo uscire nuovamente. Me ne rendo conto ora perché sono a contatto con parecchi fotografi, alcuni anche molto bravi. All’epoca leggevo - divoravo - 3/4 riviste di fotografia al mese, anche se tutte molto molto simili… ma quello che a me interessava erano i concorsi fotografici. Poter vedere una mia foto pubblicata, mi dava una (ovvia) soddisfazione che iniettava in me ulteriore voglia di imparare e migliorarmi. Notai subito che il numero di partecipanti ad

alcuni di questi contest era molto alto, 3/4 mila persone ogni mese inviavano le loro fotografie. I motivi erano molto semplici: innanzitutto il fatto di vedere pubblicata una propria foto su una rivista (il bisogno di “autorealizzazione”), il “mettersi in gioco” per misurare le proprie capacità, e la possibilità di ricevere feedback da fotografi esperti. Un mix di ingredienti che rendeva questo “gioco” interessante, divertente, e con finalità didattiche, perché la maggior parte delle volte qualcosa imparavi veramente. Decisi allora di cercare un sito internet che proponesse contest fotografici: con mio forte stupore mi trovai davanti un panorama molto ristretto, nel senso che a parte una o due eccezioni, non trovai siti che proponevano concorsi fotografici online come loro obiettivo principale. Certo ci sono molti 5


forum, molti “club” o “riviste” online che hanno anche la “sezione” dei contest. Ma io cercavo qualcosa che mettesse i contest fotografici al centro della propria attività. Cercai allora qualcosa a livello internazionale, questo è il bello del web! Nulla. Niente di niente. Nessuno che proponeva dei concorsi a tema, con l’obiettivo di imparare. Presi subito la decisione. Misi online prima la fanpage su Facebook (http:// facebook.com/adoroletuefoto) che mi servì per due obiettivi molto importanti: il primo era quello di testare le varie formule e soprattutto l’interesse da parte del pubblico. La seconda era quella di iniziare, lentamente, a costruire una piccola prima community. Entrambi gli obiettivi furono centrati, lo scoprii poco dopo. Era allora giunto il momento di “mettere in piedi il sito”. Ma come? A me piace il web, il mondo di internet, mi piace il marketing. Ma non so programmare! Ho fatto allora quello che faccio di solito: ho preparato una bozza di progetto con le idee che avevo in mente ed ho iniziato a cercare qualche programmatore, chiedendo preventivi. Si fecero avanti subito in molti, almeno una decina, con preventivi di spesa tra i più variegati. Il problema non era da poco, in quanto la scelta del programmatore (e del suo team) è fondamentale. Ed il budget era limitato. Tra questi c’era Fabio: la cosa che mi colpì subito era l’ambiente di lavoro. Fabio lavorava in una porzione di uno studio di un fotografo (bravissimo, Marco Onofri): sembrava di entrare in un laboratorio di SOHO. Inoltra anche Fabio è appassionato di fotografia. Poche parole e ci siamo capiti al volo. Facciamo questo sito. La data della messa online era stabilita per sabato 8 ottobre alle ore 10:00: avevamo davanti quasi 8 mesi, quindi c’era tutto il tempo necessario per definire anche i dettagli. Fu messa online una pagina con al centro un timer che scandiva il countdown. In questi mesi Fabio ha dovuto “disegnare” il sito più volte, perché le idee nascevano e si modificavano. E questo credo sia un stato uno dei fattori vincenti, proprio perché si è creato tra di noi un rapporto di conoscenza molto profondo. Fabio scrive in codice ciò che penso. Beh, non è poco…

sistemando i bug che Simone ha trovato facendo i test. Ma ci siamo quasi, il sito è pronto, i bug risolti. Nel frattempo, la lista di utenti che si sono registrati è arrivata a circa 800 utenti, tutti provenienti dalla fanpage. Io chiedo a Laura (mia moglie…. a proposito, solo grazie alla sua pazienza tutto ciò e avvenuto!) di lasciarmi a casa da solo quel sabato mattina: “non ci sono per nessuno” le dico. Ore 09:55: io, Fabio e Simone siamo collegati su skype, ci sono circa 70 utenti in contemporanea sul sito che attendono di “entrare”. Una soddisfazione impagabile. Ore 10.07: siamo online. “Son of Sam” di Elliott Smith suona a palla dal mio notebook, mentre leggo i primi commenti su Facebook. Sono tutti molto soddisfatti, il sito a prima vista piace, ed il primo contest anche (Il titolo era “Festeggiamo. Let’s Party!). Bene. Bello! Ore 10:28 già 3 foto sono state caricate! Ore 10.32: “Service Error”. Pagina bianca. Si blocca tutto! Una serie di query (lo scopriremo solo dopo) sovraccarica la cpu del server che non regge e quindi.. si blocca tutto! Momenti di panico, messaggi frenetici su Skype: -----[08/10/11 10:32:06] Simone: Hem... [08/10/11 10:32:39] Simone: Marco.. a te risponde il sito? [08/10/11 10:32:48] Fabio Borroni: mmmm [08/10/11 10:32:51] Simone: mmmmmm [08/10/11 10:33:04] Fabio Borroni: chiamo il System va’ [08/10/11 10:33:11] Simone: oki [08/10/11 10:33:15] Simone: al ping risponde pero’ [08/10/11 10:34:17] Simone: oppure entra in SSH e vedi col TOP se magari e’ a manella la cpu... [08/10/11 10:34:29] Marco Govoni: abbiamo spaccato qualcosa...???! [08/10/11 10:34:41] Simone: no.. e’ normale quando c’e’ un super carico... [08/10/11 10:34:52] Marco Govoni: super carico ????? [08/10/11 10:34:58] Simone: :D si.. [08/10/11 10:35:47] Simone: adesso vediamo cosa dice il Sysadm [08/10/11 10:37:58] Fabio Borroni: abbiamo rotto tutto. [08/10/11 10:38:06] Marco Govoni: ???

Sabato 8 Ottobre 2011, ore 09:30 Manca mezzora all’apertura del sito. Fabio ed Enrico (un suo collaboratore) non sono neppure andati a dormire: è da più di 24 ore che stanno 6


[08/10/11 10:38:28] Simone: ... [08/10/11 10:39:06] Fabio Borroni: no dai ... sto aspettando una una risoposta [08/10/11 10:39:10] Simone: :P [08/10/11 10:39:22] Fabio Borroni: forse ho fatto un’operazione io che non dovevo. [08/10/11 10:39:33] Simone: Ecco.. sempre a toccacciare [08/10/11 10:39:41] Marco Govoni: Zamagni è sul pezzo ? [08/10/11 10:40:02] Fabio Borroni: non risponde ... chiamo sua moglie [08/10/11 10:40:25] Marco Govoni: io stoppo gli ads su fb intanto [08/10/11 10:40:35] Marco Govoni: e cmq me la vendo come OVERLOAD.... figo eh ??! [08/10/11 10:40:43] Simone: Yessa! :D _____

Marco

Fabio

Dopo una mezzora buona, tutto torna online. Nei giorni successivi avremo parecchio lavoro: bug, nuovo server dedicato e tante altre cose da sistemare. Una cosa è certa: ci siamo divertiti come bambini. Ecco, questo è stato l’inizio. Ora la piattaforma ha un buon numero di utenti, e soprattutto raggiunge lo scopo per il quale è stato ideato: creare una community dove si possa imparare qualcosa in ambito fotografico. Guardando i contest passati, mi rendo conto che ci sono molti utenti che effettivamente hanno migliorato la loro tecnica. E questa cosa mi rende felice. Ed ora? Ora vogliamo portare avanti il progetto ampliandolo, con nuove funzionalità. Nel frattempo siamo alla ricerca di qualche investitore: questa piattaforma ha tutte le caratteristiche per essere una piccola (?) azienda e per espandersi a livello europeo. I presupposti ci sono. E noi ci crediamo.

Simone

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The Street Photography TESTO Marco Sacco

FOTO Marco Sacco

http://marcosacco.altervista.org http://marcosacco.500px.com

email: marcosacco.atelier.foto@gmail.com

Cerca l’ordine nelle luci e nelle ombre, definisce il taglio compositivo e... preme un tasto non in un istante, ma nell’istante che rende tutto ciò etereo, fermo, comunicativo. Egli sa che non è facile, ma accetta la sfida. Ha esperienza, ma mai abbastanza. È una ricerca continua, che non si ferma mai. È innanzitutto autocritico... e saggiamente continua nella sua ricerca. Affina lo stile, interagisce col soggetto. Conosce i grandi maestri e ricorda i canoni classici, ma reinterpreta tutto con grande senso estetico. Indaga ogni aspetto della street photography per ottenere il meglio dal teatro della vita umana. Candid portrait. Uno stile che richiede al fotografo un grande coraggio. Ritratti spontanei, alle volte con soggetti inconsapevoli scattati per lo più con focali corte o normali. Non più di 85mm o 90mm nel formato 24x36. Il soggetto é contestualizzato. Come sempre niente è pianificato. La fotografia di strada non scende a patti col soggetto. L’autore può essere visto nel momento dello scatto, può rimanere invisibile o talvolta gli occhi del soggetto guardano nell’obiettivo. Luci e ombre. Sono le combinazione di questi due condizioni naturali che danno luogo a una miriade di possibilità artistiche. La street photography si nutre di luci e ombre per generare immagini drammatiche o ipnotiche geometrie. Composizioni di straordinari contrasti, precise geometrie enfatizzano la condizione umana di un corpo descritto all’interno di un fotogramma. Come le organizzazioni razionali del bianco-nero di Umberto Verdoliva. La contrapposizione. La complementarietà è la chiave per la lettura di straordinarie street shots. Questi mostrano la diversità tra i diversi status umani, che ogni giorno si incontrano e si scontrano: ricco e povero, nuovo e vecchio, bello e brutto... Non sfugge niente al fotografo di strada che coglie con maestria la diversità. Con un occhio che vede ciò che gli altri non vedono Elliot Erwitt ha rivelato al mondo i contrasti umani. La purezza dell’ironia, la semplicità di scatti domestici, banali scenari. Ovunque presenti. Forse il 24mm, il 35mm o un 50mm danno forza a quel momento ordinario. Ma la fotografia non è solo

La fotografia di strada. In due parole, tecnica ed improvvisazione. Una sorta di reportage della strada: un’istantanea della vita urbana nella sua quotidianità che ferma in un istante l’ironia, la tragedia, l’imprevedibilità, la crudeltà e la bellezza dell’ordinario. Gli scatti sono lo specchio della società, raccontano le persone comuni catturate durante la vita di ogni giorno in una precisa sfumature della loro esistenza. Il fotografo vive allora il riflesso della vita di ogni giorno attraverso il suo occhio capace di documentare l’ordinario, catturare “il momento decisivo” o quello che gli altri non vedono. È in sintonia con la vita, percepisce gli umori, gli odori, i colori, e quindi prova a rappresentare con uno scatto la realtà che lo circonda. Henri Cartier-Bresson, che con le sue immagini ha contribuito alla crescita della street photography, ha detto che attraverso l’obiettivo per catturare i momenti decisivi della vita, è necessario equiparare occhi, mente e cuore. Un atteggiamento che, secondo le parole del famoso fotografo, richiede prontezza, disciplina, sensibilità e senso geometrico. Dove? Quando? Cosa? Come? Perché? La fotografia di strada “vive” la sfera pubblica: strade, metropolitane, musei, spiagge, parchi, eventi, campagne, discoteche... Non può essere rappresentata da modelli in posa. Non ha bisogno di includere obbligatoriamente le persone, ma deve esserci la traccia di un’esistenza umana. Non si aggiungono elementi e non si rimuovono elementi dallo scatto: questa è l’etica del vero. È una sfida con noi stessi: avvicinarsi al soggetto senza molestarlo… “aspetta fino vedere il bianco degli occhi e a sentire il suo respiro per scattare”. In ogni istante si può cogliere attorno a noi un’istantanea rappresentativa della vita. Non ci sono solo grandi momenti. Non aspetta giornate migliori. Ci sono una serie infinita di momenti “banali”, semplicemente comuni, che la fotografia di strada coglie esattamente in un battito di ciglia. La comunicazione di una emozione, un sentimento congelato nel tempo di scatto è compito del fotografo: la realtà mette a disposizione oggetti e soggetti, il fotografo “compone” questa realtà. 8


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una focale. È istintività, composizione, sensibilità. Il soggetto è immerso nel suo ambiente, ripreso mentre vive il culmine dell’emozione che sta provando. II fotografo di strada fa del suo modus operandi il suo modus vivendi. Così come Gianni Berengo Gardin. Scontrarsi con la realtà è normalità. C’è chi pensa che sia maleducato fotografare senza il consenso. Chi addirittura ritiene ciò offensivo. La fotografia di strada va oltre la diffidenza diffusa della gente. Non si nasconde il fotografo dietro l’angolo con un supertele. Non è un volgare paparazzo. Alle volte è partecipe col soggetto nella stessa scena. Le focali corte fermano il tempo, l’uomo e il suo ambiente circostante. Sa che è difficile avvicinarsi, scattare, farsi accettare dalle persone, ma ha esperienza e sa che il linguaggio del corpo e l’espressione del viso sono i mezzi con i quali comunica serenità e distensione. Non ottiene questo col senso di colpa. Non c’è motivo di vergognarsi. Dorothea Lange, donna e famosa fotoreporter, con la usa umanità, e riuscita a raccontare con i suoi capolavori il disagio delle classi meno abbienti. Questo genere fotografico non si pone nella condizione di violare la privacy. Vuole raccontare una storia. Il fotografo ha un atteggiamento aperto e rispettoso dell’individuo e fa capire che della fotografia non c’è nulla da temere. L’autore di uno scatto street scivola tra un approccio nel quale la sua presenza viene notata ad un approccio invisibile. È fondamentale conoscere l’esito dello scatto in termini di umore del soggetto ritratto. La presenza del fotografo influenza l’espressione, i gesti, lo sguardo di colui che viene impresso in un fotogramma. Invece la presenza celata dello street shooter riesce a cogliere l’individuo e il suo ambiente senza adulterarne alcuna parte. In tal caso, evita il flash (che alcuni “puristi” evitano ad ogni modo), adotta un aspetto calmo e disincantato, è silenzioso e non utilizza movenze da spia segreta. Non è possibile giudicare per la platea di amanti del genere street come un fotografo si sia mosso nei momenti pre-scatto, ma è bello poter immaginare, osservando gli scatti di Gene Lowinger, come egli abbia adottato un approccio visibile piuttosto che invisibile. Il fotografo di strada è innanzitutto uno studioso della quotidianità. Cammina per strada, osserva e scatta. Porta con se la sua macchina, pronti entrambi ad entrare in azione. Egli sceglie l’atteggiamento da usare ma non è l’unica scelta egli pone a se stesso. Fotografare per un progetto o vagare spensierato senza un progetto… basta

guardare le foto di Lee Jeffries per capire il loro filo conduttore, contrariamente a Richard Kalvar che con i suoi lavori ha mostrato i variegati aspetti della fotografia di strada. In realtà l’artista della pellicola ha un suo spazio nell’immenso progetto che è raccontare l’uomo. La realtà è dinamica, in continuo movimento… la luce cambia di minuto in minuto, la strada e i suoi abitanti sembrano essere sempre fissi lì nel tempo… Ma il fotografo di strada sa che non è così: riesce a vedere lo straordinario dove altri vedono solo consuetudine e quotidianità. Usa la luce per il suo scopo… sfrutta tutta la sua esperienza per ottenere il meglio dalla luce morbida della prima mattina, o dalla dura luce di mezzogiorno; la notte ha il fascino della luce dei lampioni e di quelle luci della città che schiariscono l’oscurità misteriosa. Non si fa intimorire dalla luce. È la sua onnipresente alleata. La forza del fotografo di strada è la sua positività. Non è facile scattare in condizioni al limite per un fotoreporter (l’evoluzione giornalistica del fotografo di strada), o in condizioni di luce pessime, oppure, ancora, se si trovasse un soggetto interessante ma decisamente difficile e pericoloso da riprendere. Ma la positività non scoraggia e permette di superare quegli ostacoli che l’ambiente impone. Questo può considerarsi uno fra i pochi ma importanti aspetti di un street shooter. E poi? Quale altro aspetto? “Se le tue fotografie non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”, Robert Capa. Questa frase echeggia nella testa di ogni fotografo di strada. Questa frase traspare in ogni istantanea di questo genere. Non è un dogma, ma una condizione necessaria è l’utilizzo di focali corte e la “vicinanza” tra soggetto e obiettivo. E ancora? La pazienza e la voglia di imparare convivono nel modus operandi. Non avere fretta di raggiungere ad ogni costo il risultato. Devi imparare a vivere nell’ambiente nel quale si opera e poi scattare. Per la prima volta in questo articolo uso la seconda persona singolare. Si, mi sto rivolgendo a te lettore, fotoamatore, professionista o fotografo in erba. Solo vivere la strada ti permetterà di ottenere il massimo dai tuo scatti. Devi sentirne l’odore, le voci. In una sola parola: devi sentirti integrato. La fotografia di strada è una social mission, quella di mostrare l’umanità agli stessi uomini. Leggere, acculturarsi, conoscere, sono verbi che devono vivere paralleli a fotografare. E tutti sono indispensabili alla costruzione di quell’etica propria del fotografo di strada (e non solo) che crede nei principi fondamentali della vita e della società: amore e rispetto 10


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per se stessi e per gli altri. E adesso, va per la tua strada lettore! Buona luce fotografo! Marco Sacco Nota sull’autore delle immagini e dell’articolo. Marco Sacco è un fotografo amatoriale. Predilige la valorizzazione delle persone e cose comuni e il restituire attraverso le immagini una memoria, rivendicando alla fotografia la valenza di mezzo che consente di esprimere sempre la sua personale interpretazione del mondo. Egli avverte la disattenzione, frutto della vita veloce che conduciamo, fermardosi ad osservare uomini e luoghi che inevitabilmente muteranno e scompariranno senza a volte lasciare traccia e ricordo del proprio passaggio. Preferisce la fotografia istintiva, percepita sul campo e legata alla sua immaginazione, percezione, sensibilità ed intuizione. Associa tecnica d’istantanea a una fotografia oltre la visione reale, per penetrare in modo più profondo nell’essere, mettendo in crisi le attese dello spettatore e provocando emozioni e sensazioni così che sposti l’attenzione visiva dal soggetto rappresentato a visioni dell’esistenza umana.

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iPhoneografia e dintorni... TESTO Gipo Montesanto

FOTO Gipo Montesanto

instagram: @gipomontesanto

Avevo quasi smesso… ci è mancato poco! La mia passione per la fotografia stava per lasciarmi. Avevo attraversato tutti i periodi: dallo stampatore di rullini, al ritoccatore assiduo, appendice umana di Photoshop. Ma già da un po’ il mio dito indice destro non sfiorava più i pulsati di scatto delle mie fotocamere. Eppure, qualcosa è accaduto… e non vedevo l’ora di raccontarvelo. Da geek appassionato di Apple, avevo comprato un iPhone e da lì a poco sarei stato colto da una nuova ed inaspettata passione fotografica: l’iPhoneografia. L’iPhoneografia (iPhoneography in inglese) e’ una tecnica fotografica abbastanza recente. In poche parole si tratta di catturare immagini attraverso l’occhio dello smartphone della Apple. Volendola inserire in qualche modo in una categoria, potremmo dire che appartiene al più ampio mondo della “mobile photography”, cioè delle foto scattate con un telefono cellulare. Ma in effetti c’è molto di più ed è proprio questo ultimo aspetto che mi ha fatto innamorare. Mi sono tornate allora in mente le parole lette più volte sul National Geographic: “La fotografia non è una passione passeggera, non è una infatuazione, non è una sbandata. Perché quando ti prende, e ti coinvolge, non la lasci più per tutta la vita. Forse la trascurerai ogni tanto, magari anche per un lungo periodo, poi però tornerai da lei, perché sai che è una cosa tua, e soltanto tua. Perché la fotografia che hai scattato (o che farai), ti appartiene: rappresenta quello che hai visto, sentito, intuito, in un preciso momento, quasi sempre irripetibile”. Cercando di definire l’iPhoneografia e volendo usare parole più semplici e dirette, si può dire che si tratta delle immagini scattate ed editate rigorosamente con iPhone. Cioè, senza alcun passaggio dal computer. Dal cellulare, al ritocco, al web… senza interventi esterni. Per questo motivo in molti l’hanno definita come la Polaroid 2.0, dei nostri giorni.

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Certamente, osservando una foto venuta fuori da un iPhone, la prima cosa che salta all’occhio è la qualità dell’immagine. Intendo, proprio quella sensazione fatta da pochi pixel e tanto rumore digitale, verso la quale i fotografi digitali cercano proprio correre ai ripari. Nonostante ciò, dopo un po’ ci si fa l’abitudine e tutto appare con una luce diversa. Infatti, non avendo le qualita’ di una reflex tutto si basa sulla creativita’ di chi scatta. In più, come già accennato, una grossa qualità è proprio l’estrema portatilità e la capacità di “scomparire” tra la gente. Avendolo sempre con se’ possiamo cogliere immagini che di solito trascuriamo o che altrimenti non saremmo mai riusciti a cogliere. Pensiamo ad esempio ad una foto con un’angolazione di un solo centimetro da un muro, oppure ad uno scatto fra le pedine degli scacchi, o fra i tasti di un pianoforte. Ma la vera forza sono le app fotografiche… Installando infatti alcune applicazioni si possono realizzare scatti davvero notevoli! Si passa dal vintage estremo, allo sketch, agli effetti più disparati di colore e bianco e nero. Insomma c’è proprio di tutto… ed a portata di mano! Affermava Bob Keefer: “The camera is, beyond the doubt, the least important element in the making of any photograph” (La fotocamera è senza alcun dubbio, l’elemento meno importante nella realizzazione di qualsiasi fotografia), sposando in pieno questo “movimento” di iPhoneografi, in giro per il mondo. Infatti, si tratta di un vero e proprio movimento in costante e veloce aumento. Tanto per darvi alcune cifre, sono già 26 milioni (a marzo 2012) gli utenti di Instagram, l’applicazione migliore del 2011 secondo Apple Store, che condividono foto attraverso l’iPhone con un meccanismo social del tutto simile al fenomeno Twitter. In conclusione vi dico: ma chi se ne importa cosa vuol dire iPhoneografia? Io sono ancora innamorato della fotografia e continuo a scattare con il mio iPhone e a pubblicare su Instagram, e voi? Buone luce a tutti per le vostre iPhoneografie!

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PROMISE LAND TESTO Giulia Piccari

FOTO Giulia Piccari

www.giullipet.com

giullipet@hotmail.com

Promise Land è un lavoro fotografico che nasce dall’idea di un viaggio, trasformato in un’esperienza, finito in un sogno che non so dimenticare… Una di quelle cose che non hai davvero deciso tu di fare, che quasi ti è stato imposto, che forse non volevi neanche iniziare, ma che poi, lungo il suo cammino, hai avuto il coraggio di saper guardare. Promise Land racconta in parte, con queste fotografie, la storia di una Ruote 66 nata diversi anni fa, estesa in tutta la sua storia, distrutta dalla velocità delle autostrade, dimenticata forse, e poi, improvvisamente, portata in trionfo da chi l’ha creata. Il perfetto e consolidato ritratto di un’America che è rimasta uguale e intatta negli anni. Se ci fai caso, è proprio così… La Ruote 66 non è una strada che collega l’America degli anni ‘30 da est a ovest, è pura cultura, storia, arte, è l’incrocio di esperienze e storie mai raccontate fino in fondo. Se è la vera America quella che cerchi nei tuoi racconti, se è di essa che sei assalito dalla curiosità, allora c’è solo un posto dove puoi andarla a trovare: negli occhi della gente che la abita. Quegli stessi occhi blu come il cristallo, che fin-

che’ non li incontri dritti, immobili davanti a te, sai di non essere arrivato. E così, sulla MIA umile Route 66 ho incontrato quel viso e ho ascoltato quella voce attraversata dal tempo. Ho forse chiuso i MIEI di occhi, e forse ne ho indossati altri, che guarda caso, hanno un colore che per me ha significato tanto nel tempo. Forse quella persona sapeva che sarei arrivata, prima o poi, forse mi ha atteso dietro agli alberi del suo giardino, o forse si è nascosto nel suo garage fatto di ricordi, di pompe di benzina, di galloni, di ruote, di insegne antiche… E quando sono arrivata, mi ha preso per mano e mi ha detto “Ti aspettavo”. Potevo forse non rimanerne affascinata? Racconto quindi, in queste fotografie della Route 66 perché se le guardi bene, allora puoi sentire il rombo di un’Harley Davidson o la musica hippy che esce da una roulotte, o puoi chiederti dentro un Diner degli anni sessanta. E se questo è quello che ti succede, allora puoi anche scendere da quella macchina e percorrere un pezzo di questa strada, ma a piedi… Puoi ascoltarla, puoi guardarla e puoi anche fotografarla, ma per capirla, ahimè, allora devi aprire bene le orecchie ed essere pronto ad ascoltare... Ascoltare le storie della gente dico, di quella che ci è nata sulla Ruote, di quella che ha sofferto la crisi e ne ha acclamato il ritorno. La Ruote è una strada a se’, è come un libro che devi leggere tutto d’un fiato se vuoi esserne parte, è come un film che ogni volta che rivedi ha una fine diversa. E’ come un pacco regalo, che se non lo apri dalla parte giusta, rischi che ti può cadere e si può spezzare. 16


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E’ una di quelle cose che ti senti subito tua, della quale diventi anche un po’ geloso e ti chiedi se la gente intorno, la sta amando come te. Ti chiedi se anche loro hanno visto i musei, le stazioni di benzina, se hanno scovato le insegne nascoste tra i cespugli degli hotel, se hanno fatto le tue stesse fotografie, se hanno ricevuto gli stessi regali che hai ricevuto tu dalla sua gente. In parte, forse, c’è la voglia di scoprire, di andare a fondo nelle cose, di assaporarlo tutto questo midollo della vita, attraverso una strada che non si impone per qualche miglio, ma che ha il coraggio di attraversare un’intera nazione. E allora, come non sentirsi fortunati, come non ringraziare il caso, la fortuna, il destino, che ti ha fatto essere lì al momento giusto nel posto giusto, che ti ha fatto incontrare quegli occhi color cristallo, che li ha fatti parlare, e li ha fatti commuovere insieme ai tuoi. Non c’è forse un consiglio che posso dare, perché questo è uno di quei viaggi che NON ti devi aspettare, che NON devi organizzare, che NON devi quasi volere. Forse l’unica cosa che devi davvero fare, è toglierti tutti i TUOI zainetti dalle spalle, tutti i viaggi passati, tutte le avventure, le devi lasciare a casa. Perché per loro non contano niente, non ti chiederanno della tua vita, non è un viaggio dove sei TU il protagonista. E una volta che ti sei liberato le spalle, allora apri le orecchie e sii capace di imparare da loro, che forse non sono mai usciti da

QUESTA di America, che forse non sanno neanche dove sta l’Italia, o l’Europa stessa. Ma chi se ne frega in fondo, perché le loro vite hanno fatto tanto altro. Si sono inventati, creati, forse distrutti, ma poi ri-creati di nuovo. E credi che non ci sia tanto da ascoltare in 60 anni di macchine e vite vissute? Ahimè, non so se avrò mai le parole giuste, non so se arriverà mai quello che un’esperienza del genere può dare, ma quello che so è che posso dire d’averla fatta. E posso sentirmi fortunata e onorata, perché so che QUESTO è il sogno di tanti e al quale io ho dato un nome che parte dalla sua storia e da quindi da molto lontano: Promise Land. Promise Land, proprio così: terra promessa. Come un vento che ti attraversa, ma una volta soltanto. Leggilo piano allora, e ad alta voce e ti darà l’dea di qualcosa che inizia e, forse, non finisce mai. Perché io quegli occhi blu li ho trovati il quarto giorno di viaggio, e mi hanno permesso di capire che “quando incontri la gente della Ruote 66, allora incontri LA ROUTE 66.” Da allora in poi, è stato un niente guardare dentro al mirino e fotografare…


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Islanda. In viaggio con Jimny e circa 15 kg di attrezzatura fotografica..

TESTO Elisabetta Rosso

FOTO Elisabetta Rosso

www.grigio18.it

email: elisabetta.rosso@grigio18.it

Islanda arriviamo! Una di quelle mete di cui abbiamo sempre parlato e sognato, improvvisamente anche grazie a biglietti aerei davvero convenienti e un’ottima offerta sul noleggio del fuoristrada diventa improvvisamente realtà. Quasi troppo in fretta per chi come noi è abituato a programmare in autonomia il viaggio, studiare, prepararsi. Ma le occasioni vanno colte al volo e in una settimana di lavoro notturno l’itinerario è pronto e le sistemazioni sono prenotate. Un salto dal nostro sponsor tecnico per un po’ di attrezzatura invernale e siamo pronti a tutto. A Reykjavik arriviamo di notte, nella notte luminosa di Reykjavik il nostro Jimny argento ci aspetta , piccolo e orgoglioso. Il mezzo di trasporto è indispensabile, i chilometri saranno tanti e le strade spesso davvero impegnative. Ci spostiamo subito verso i fiordi occidentali. Il tempo è splendido fa quasi caldo e il paesaggio è verde e selvaggio. (Islanda o Irlanda?!?!) Il nostro Jimny sorride e si gode un tepore inaspettato.

La meraviglia dei cetacei che si muovono enormi vicinissimi all’imbarcazione è uno spettacolo indimenticabile, uno di quelli che ti fa sentire piccolo piccolo e rende il 50-500 completamente inutile persino a 50mm! L’Islanda trasmette la sensazione di essere un terra viva, in subbuglio e dopo il mare vogliamo vivere questa sensazione a pieno, così ci spostiamo all’interno verso la caldera di Askja formatasi con un’enorme eruzione neanche 140 anni fa. E’ un viaggio in solitudine, di più di 3 ore in una infinita distesa di lava tra guadi e rocce. Un viaggio tra silenzio e immensità in un deserto tagliente. Una volta arrivati siamo nel mezzo di una onirica nebbia, la sensazione è quella di essere su un altro pianeta, una terra completamente aliena che non può avere nulla a che fare con le verdi terre e il mare brulicante di vita che abbiamo appena lasciato. Il sentiero invisibile è scandito da paletti gialli, fino all’arrivo ai bordi di un enorme cratere. La meraviglia non entra tutta negli occhi. La caldera non è solo un posto fisico è un’esperienza che da sola vale l’intero viaggio! Attraversando i campi di gayser di Myvatn e i fiordi orientali piano piano ci spostiamo verso i ghiacci del sud. La laguna ghiacciata di Jokulsarlon sarà pure un’ immagine un po’ troppo vista ma ce ne innamoriamo immediatamente. Dopo ore ad aspettare la luce seduti su un sasso e dopo aver sperimentato obbiettivi e inquadrature, finalmente la mia amata lensbaby mi regala un’immagine che mi soddisfa. E’ ora di andare a caccia di puffin! Finalmente facciamo sfogare un po’ le nostre ottiche più lunghe e intorno alla zona di Vik ci innamoriamo di questi buffi uccelli che sembrano tanto goffi sulla terra ma che volano vicini alla scogliera in mezzo a venti fortissimi con una grazia inaspettata. Le ore passate a osservarli ci fanno capire che esiste una organizzazione e una sorta di struttura sociale interessantissima nel gruppo. Si alzano in volo in un ordine preciso, si tuffano verso il mare a caccia di sardine e tornano alla scogliera con atterraggi imbarazzanti. E a volte qualcuno di loro ha fatto il pieno! Sono davvero adorabili e nonostante si possano

Spostandoci verso Husavik, tappa dopo tappa il tempo si fa tipicamente Islandese e arriviamo al nostro appuntamento con le balene in una freddissima giornata nuvolosa, siamo fortunati: dal giorno successivo il tempo sarebbe stato troppo brutto e il mare troppo mosso per poter lasciare il porto. Ci imbarchiamo dopo aver incelofanato per bene le macchine fotografiche e le ottiche: un 50-500 su una macchina e l’immancabile 24-70 sull’altra. 20


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trovare al ristorante (così come le balene) ci rifiutiamo di assaggiare sia gli uni che le altre! Ma non stiamo forse dimenticando le famose cascate islandesi?! Sì l’isola di acqua e fuoco ne è letteralmente costellata. Alcune raggiungibili dalla strada altre dopo un po’ di cammino, abbiamo visto tutte le più importanti: Selfoss, Gullfoss, Godafoss ,Dettifoss... ma la nostra preferita resta sicuramente Skogafoss! Non la più alta, non la più grande, non la più rumorosa ma quella che ci ha regalato gli arcobaleni e quella che ci ha fatto sentire ancora una volta tutta la potenza di questo meraviglioso paese. Il nostro viaggio ci riconduce a Reykjavik, una splendida piccola cittadina portuale, vivace e ottima base per visitare il famoso circolo d’oro la zona più turistica dell’Islanda, proprio perché la più raggiungibile. Qui tra cascate, la famosa sorgente di Geysir (da cui tutti gli altri geyser hanno preso il nome) e la famosa laguna blu abbiamo tempo di ritemprarci un pochino da un viaggio impegnativo e meraviglioso. Purtroppo Geysir a causa dei sassi lanciati dai turisti e per alcuni forti terremoti recenti, non sbuffa più come una volta,

ma per fortuna il vicino geyser Strokkur lì accanto non disdegna di soffiare a intervalli regolari. Lasciando da parte la malinconia salutiamo l’Islanda con la solita voglia di tornare, di approfondire, di rivedere. Le ci ricambia il saluto con uno splendido tramonto e quell’incredibile luce blu che solo qui abbiamo trovato. Ciao Islanda e ciao Jimny... arrivederci!

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Tempesta a Ouessant TESTO Stefano Cuccolini

FOTO Stefano Cuccolini email: scuccolini@yahoo.it

Questa era la terza volta di seguito che decidevo, assieme ad altri 2 amici e fotografi paesaggisti come me, di andare a trascorrere qualche giorno sull’isola di Ouessant nel mese di gennaio. Il mese, assieme a novembre e dicembre, dove su quest’isola di 8x4 chilometri si possono abbattere, anche per un’intera settimana, tempeste che non hanno eguali in nessuna altra parte d’Europa, se non al mondo! Il tratto di mare intorno all’isola è infatti considerato uno dei mari più pericolosi al mondo e la presenza di tanti fari offshore e del faro della Creach, il più potente d’Europa, n’è sono una perfetta testimonianza. Prima di partire il sito specializzato in previsioni marine “Previmer”, annunciava una 3-4 giorni di pura libidine per gli amanti degli eventi atmosferici più violenti. I bollettini parlavano chiaro: dal giorno di capodanno fino al 3-4 di gennaio, l’altezza delle onde sarebbe passata dai 4-5 metri fino a picchi di 12-

15 metri. Una tempesta in piena regola! L’adrenalina scorreva già a fiumi e tutti i giorni prima della partenza controllavo di continuo gli aggiornamenti e ogni volta erano sempre meglio o peggio, a seconda dei punti di vista. Non vedevamo tutti l’ora di partire. Dopo un viaggio in auto di 1600 km e una traversata in mare di due ore, l’ultimo dell’anno, come da programma, siamo sull’isola. Onde di qualche metro si stavano già abbattendo sulle scogliere acuminate di Ouessant. Scogliere scolpite da un erosione millenaria che ha conferito forme uniche e affascinanti alle rocce di colore rosaceo che caratterizzano quest’isola. Il cielo cupo all’orizzonte annunciava maltempo in arrivo e dentro di me ero già in trepidante attesa. Chi è appassionato di eventi atmosferici eccezionali vive in costante ansia quando si trova a leggere previsioni che annunciano a gran voce even-

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ti di eccezionale portata. Spesso però tali eventi sono molto difficili da prevedere con esattezza e possono essere solo un fuoco di paglia e quando mi sono trovato sull’isola avevo proprio questa paura. Paura che le onde di 12 metri previste non arrivassero.

sta qui. L’isola di Ouessant può essere immaginata come uno scoglio in mezzo al mare e quel giorno, su questo scoglio, si abbatterono onde che andavano dai 12 ai 15 metri! I venti quel giorno toccarono i 120km/h e ho ancora bene in mente il dolore sul viso dovuto agli schizzi di salsedine accelerati da questi venti che assomigliavamo a vere e proprie lame sulla pelle! Ho ancora in mente le urla che ci lanciavamo io e i miei amici per cercare di comunicare...urla di gioia generate da fiumi di adrenalina per quello che madre Natura ci stava regalando. Quelle due ore le abbiamo passate ad osservare muri d’acqua scavalcare scogli di 20 metri come se nulla fossero. Una volta che le onde si infrangevano sugli scogli, la massa d’acqua risaliva completamente le pareti verticali delle scogliere per poi scendere dalla parte opposta. Sembrava impossibile che un’onda potesse scavalcare certi scogli, ma quel giorno vedemmo l’impossibile. Scogli dove nei giorni precedenti eravamo saliti a fotografare, il 3 gennaio erano sott’acqua. Durante quelle due ore abbiamo lottato per cercare di vedere da più vicino possibile l’arrivo di questi colossi d’acqua. Lottato contro venti impetuosi che, trovandosi a dover passare tra le fitte

Il primo giorno dell’anno, forti venti provenienti dall’oceano ci diedero la sveglia di primo mattino e uscendo a piedi verso la costa ci accorgemmo che oltre al vento, anche il mare cominciava decisamente a gonfiarsi. Le onde di questo primo giorno dell’anno erano qualcosa che non avevo mai visto qui su Ouessant e colpivano già per la loro potenza, ma ne io ne i miei amici potevamo immaginare cosa Ouessant aveva in serbo per noi nei giorni a venire.. Dal primo di gennaio fino al 3 di gennaio infatti il mare si gonfiò sempre di più e tra le ore 11 e le 14 del 3 gennaio assistemmo in presa diretta ad una tempesta eccezionale, ad una dimostrazione della potenza del mare, della Natura, che credo non scorderò mai in vita mia. E’ difficile descrivere a parole cosa sia una tempe26


e alte scogliere di Ouessant, aumentavano ancor più di velocità. Spesso ci siamo arrampicati sulle scogliere e, come militari in trincea, alzavamo per brevi istanti la testa per cercare di individuare da lontano l’arrivo delle onde. Una volta che ne individuavi una più alta di tutte le altre, cercavi di seguirne la sua avanzata verso l’isola. Mano a mano che l’onda si avvicinava spesso non credevi ai tuoi occhi. Se all’orizzonte ti sembrava alta, quando la vedevi a 50-100 metri da te, l’onda si gonfiava, si innalzava ad altezze che andavano al di la della più fervida immaginazione! Ogni volta che alzavo la testa o cercavo di trovare uno scorcio tra le scogliere, vedevo un orizzonte spaventoso. Un orizzonte innalzato di decine di metri rispetto ai giorni precedenti, un orizzonte dove colossi d’acqua erano in rotta di collisione con le scogliere di Ouessant, vere roccaforti naturali. Osservi le scogliere e capisci che sono così perché lottano da tempi remoti contro il mare. Una sfida continua a cui io e i miei amici abbiamo avuto l’onore e la fortuna di assistervi in presa diretta. Il rumore di quella battaglia impetuosa tra il mare e la terra ferma, risuona ancora nella mia mente e nel cuore, si perché non ci si può non innamorare di queste manifestazioni così tangibili della Natura. Tutto sparisce e vivi quegli attimi

sperando non abbiano mai fine. Quel giorno il mio viso si è bagnato di salsedine e di lacrime di gioia. Ero completamente fradicio, esausto, ma sarei rimasto li per ore e ore ad osservare quello spettacolo, ma quando abbiamo iniziato a vedere spruzzi d’acqua sollevarsi dietro scogliere alte almeno 25-30 metri, abbiamo capito che era meglio allontanarsi dalle scogliere. Una volta allontanati però eravamo sferzati ancor più dai venti di tempesta e dopo qualche minuto abbiamo battuto la ritirata, ma alle nostre spalle la battaglia tra il mare e le scogliere di Ouessant era al suo apice. I miei occhi sono riusciti solo a rubare qualche istantanea di quei momenti e quelle istantanee sono ancora vive dentro di me e anche a distanza di mesi mi emozionano ancora. Purtroppo in quelle ore di pura adrenalina non è stato possibile scattare alcuna foto. Troppo forte il vento, troppi gli spruzzi d’acqua ed era davvero troppo alto il rischio di compromettere l’attrezzatura fotografica. Le poche foto si riferiscono ai giorni precedenti e alle ore successive al passaggio della tempesta quando finalmente i venti e le onde diminuirono di intensità.

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SPESSO LA COMPOSIZIONE È DAVVERO IL MEZZO MIGLIORE CHE UN FOTOGRAFO HA A DISPOSIZIONE PER MOSTRARE LA COMPLESSITÀ DELLA VITA; LA STRUTTURA DI UN’ IMMAGINE PUÒ SUGGERIRE LA FORMA CHE DIVIENE BELLEZZA. ROBERT ADAMS 29


Intervista: Flavio Bandiera FOTO

Fabio: Quando hai iniziato la tua attività di fotografo matrimonialista eri consapevole che saresti stato catalogato in una categoria considerata così poco “affascinante” specialmente se paragonata, nell’immaginario collettivo, al fotografo che spesso è inteso come moda -circondato di belle donne ammiccanti- e di reportage -l’eroe che documenta zone ad alto rischio- ? Bandiera: Sì ne ero assolutamente consapevole, ma ero anche, allo stesso tempo, serenamente fiducioso di quello che la fotografia di matrimonio sarebbe potuta diventare. Fabio: Di che periodo stiamo parlando? Bandiera: Degli inizi degli anni ‘90, quando la fotografia era ancora a pellicola e l’impostazione era quella classica. Ovviamente lo sviluppo del web era scarso, quindi non era possibile avere dei confronti su larga scala e di conseguenza la fotografia di matrimonio era considerata a “livello di quartiere”. In questo scenario gli stimoli erano relativi: si parlava quindi solo “di meri esecutori” e i nomi conosciuti erano davvero pochi. Io però ho sempre creduto che le potenzialità di questo lavoro potessero essere elevate, anche se si trattava di un percorso che dovevo ancora cominciare. Sapevo che per lungo tempo avrei potuto essere considerato un fotografo di “serie b” e per un buon periodo di tempo lo sono anche stato, fatto che ha fatto parte comunque del mio percorso. Ho assistito però a uno sviluppo molto rapido, durante il qua-

le la fotografia di matrimonio è passata da essere una fotografia di “serie b” a una di “serie A”. Nell’immaginario comune, certamente il fotografo di moda è sempre stato quello di “serie A” perché ha a che fare con modelle e gente famosa ed è seguito da un team di persone che seguono le sue direttive: tutto ciò ha sempre mostrato il fotografo di moda come un leader mentre quello di matrimoni continuava a rimanere “in coda”. Il fotografo di moda e di reportage hanno la possibilità di gestire autonomamente quello che doveva essere realizzato, mentre quello di matrimonio era legato al ruolo di esecutore, ma, come ti dicevo prima, la situazione poi è cambiata. Fabio: Sei d’accordo nel dire che oggi giorno fare il fotografo di matrimoni ha molto in comune con quello di moda o il reporter, poiché durante quel giorno così speciale gli sposi sono vestiti e truccati come modelli e si realizza comunque un reportage di un’intera giornata? Bandiera: Assolutamente d’accordo. Possiamo intendere il fotografo di matrimonio come un vero “reporter” di moda: non si tratta più di una fredda documentazione ma di una ricerca creativa, con un taglio fashion considerando il fatto che si tratta di un prodotto che deve soddisfare delle donne. Se il fotografo riesce a imprimere il giusto mood è sicuramente un fotografo che ha possibilità di potersi esprimere in modo trendy e anche commercialmente può funzionare.

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Fabio: Secondo te come mai in Italia c’è questa visione di questo tipo di fotografo? All’estero è oppure è stato così? Bandiera: La situazione è iniziata a cambiare con l’avvento del web e della digitalizzazione: prima di allora c’era una netta separazione tra le diverse regioni del mondo. Nei paesi anglosassoni, dove c’era già una tradizione della fotografia di persona, come il ritratto, la fotografia di matrimoni era considerata una forma artistica, al contrario di altri paesi europei e l’Italia ove la situazione è sempre stata diversa. In particolare, in Italia, c’è sempre stata questa sorta di improvvisazione che non ha mai fatto decollare la fotografia né qualitativamente né a livello di contenuti perché comunque mancavano le basi. In altri paesi questo era accettato. Il web e la digitalizzazione hanno poi livellato queste differenze. Oggi chi partì per primo si trova ovviamente più avvantaggiato, continuando a godere del favore del pubblico rispetto a questo tipo di fotografia così settoriale. Fabio: Quando hai iniziato, il fatto che tuo padre fosse già una fotografo affermato ha sicuramente creato delle aspettative nei tuoi confronti, quel senso di rispettosa e temibile sfida che accade in questi casi. Come affrontavi il desiderio di af-

fermare uno stile tuo con quello di accontentare quanto il mercato si aspettava? Bandiera: All’inizio non mi feci neppure queste domande: puntavo solamente al mio unico obiettivo, ovvero fotografare matrimoni. Dopo varie esperienze ho iniziato a propormi in maniera più libera, mostrando quella che poteva essere la mia direzione, quello che avrei voluto fare. Iniziai a fare piccoli esperimenti che hanno riscontrato successo nei clienti: questo mi ha fatto capire che potevo esprimermi in maniera più estesa per tutto il servizio, interpretando e non solo scattando delle immagini che non potevano mancare. Guardando indietro non penso che avrei voluto fare un percorso diverso da quello che ho fatto. Mio padre era sì impegnato in ambito fotografico, ma non nel mio campo, quindi è stato un appoggio solamente per quanto riguarda la parte tecnica, dandomi consigli da applicare alla mia fotografia. Fabio: Oggi sei uno dei fotografi più conosciuti al mondo: quando hai capito che stava accadendo qualcosa che non potevi immaginare? Bandiera: Ho vissuto periodi alternati, vivendo fasi di grande fermento. Mi ricordo che il 2000, l’anno del cambio di millennio, è stato un periodo molto particolare: abbiamo avuto un picco di 32



prenotazioni incredibile, legato appunto al fatto di voler immortalare questo momento storico. Tutti volevano sposarsi, perché non si sapeva cosa sarebbe successo dopo ed è quello che mi stavo chiedendo anche io: è stato uno di quei momenti in cui mi sono posto delle domande. Io ero ottimista ma con il crollo delle Twin Towers tutto il mondo è cambiato. Mi ha poi stupito la rapidità con cui si è sviluppata la tecnologia, cosa che ha cambiato drasticamente il mio lavoro: così nel 2005 ho rivisto tutto il mio modo di lavorare. Fabio: Cosa pensi del fatto che al giorno d’oggi

propria disposizione, rischiano molto: l’improvvisazione è uno degli elementi più rischiosi per ogni tipo di lavoro. Nel settore del matrimonio è presente il fattore dell’irripetibilità. Se i clienti non sono soddisfatti, non si può recuperare: l’evento ormai è passato. É fondamentale la preparazione anche solo per poter pensare che questo campo possa rivelarsi un’occasione di guadagno, poiché il livello medio dei professionisti è piuttosto elevato. Se non hai questo unito ad una politica commerciale che ti possa permettere di vendere, diventi una vittima della selezione naturale.

molti vogliano improvvisarsi fotografi e si buttano a occhi chiusi nel settore del matrimonio, magari solo per fare cassa? Bandiera: Io non giudico chi decide di intraprendere un nuovo lavoro, dico solo che oggi, nel 2012, non puoi più permetterti di iniziare un’attività in un settore di cui non conosci tutti i fattori che lo governano. Quindi, coloro che arrivano dalla vendita e da altri tipi di esperienza e cercano di farsi largo in questo settore, usando le armi a

Fabio: Sei uno dei fotografi più famosi e bravi al mondo: ormai sei “arrivato”. Dove vorresti andare ancora? Bandiera: Non so bene quale sarà la mia direzione, sicuramente sarà quella dell’approfondimento del tentare di migliorare per i canoni che mi sono posto personalmente, cercando di essere il più vicino possibile a quello che voglio esprimere quando scatto: è un processo molto difficile, inarrestabile, perché nel momento in cui dovessi riuscirci io sarei 34


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già cambiato... è un rincorrersi continuamente, un viaggio verso sé stessi che dura da oltre 20 anni. Io oggi mi sento al 40-50 per cento delle mie possibilità, perché ho ancora tanto da scoprire. Fabio: Quindi possiamo azzardare a dire che stai “usando” i tuoi clienti per la tua crescita personale (credo con loro sommo piacere)? Bandiera: Si, penso che i miei clienti si sottopongano volentieri a questo tipo di operazione. I miei servizi hanno dei punti fermi, però continuo a cercare nuove vie da esplorare, nuove idee originali da mettere in pratica. Io ho poi un grande “ostacolo”: difficilmente chiedo pose o creo situazioni, ma mi baso su ciò che ho davanti agli occhi, devo perciò massimizzare ogni cosa in tempo reale, dandogli un/il giusto significato. E a volte farlo risulta

abbastanza complicato. Sicuramente l’impegno e l’esperienza aiutano, ma è necessario avere altre componenti come la fortuna: pur avendo un’elevata capacità di osservazione devi avere comunque l’occasione di fronte agli occhi, poi certo devi saperla interpretare. Sintetizzando si tratta di un lavoro infinito che trovo estremamente stimolante ma anche molto impegnativo e incredibilmente divertente, Penso che le vere, quelle vere con la maiuscola, espressioni della Fotografia siano “trovare” e “sperimentare”. Un amico (David Backstead, ndr) lo riassume con poche semplici parole: “just to have fun”. Si, io dico... è bello divertirsi.” 36


SE PASSA UN GIORNO IN CUI

non ho fatto qualcosa legato alla fotografia È COME SE AVESSI TRASCURATO QUALCOSA DI ESSENZIALE.

È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi. Richard Avedon

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Chissà quanto riuscirò a scrivere Thailandia.Capitolo 3 AYUTTHAYA TESTO e FOTO Matteo Fantolini

www.matteofantoliniphotography.com • matteofantolini@hotmail.com Ribattezzata nel ‘500 dai portoghesi col nome di la “Venezia d’Oriente”, Ayuthaya è stata per oltre quattrocento anni la capitale del Siam. Divenne famosa per la sua estensione che superava quella dei territori di Francia e Gran Bretagna insieme, per lo sfarzo dei suoi templi e palazzi e perché godeva di una posizione strategica nei confronti dei porti del sud est asiatico. La città tutt’ora sorge su un’isola creata dalla confluenza di tre fiumi e perse il suo potere in seguito all’invasione dell’esercito Birmano nel 1767 che depredò gran parte dei monumenti e saccheggiò i suoi tesori. All’invasione seguì un periodo di instabilità finché nel 1782 il generale Taksin decise il trasferimento della capitale nell’attuale Bangkok. Ayutthya è raggiungibile in novanta minuti circa di treno dalla stazione di Hualamphong dalla quale partono molti collegamenti tutti i giorni; tutte le strade dell’isola prevedono percorsi ciclabili

e pedonali ed i monumenti, collocati molto vicini tra loro, sono facilmente visitabili noleggiando una bicicletta . E’ famosa la testa del Buddha intrappolata nelle radici di un’enorme pianta dentro alle rovine del Wat Maha That e molte altre costruzioni oramai decadenti che danno sono un’idea di quale potesse essere lo splendore della città ai tempi del suo regno. Negli anni cinquanta sono iniziate le opere di restaurazione dell’isola, e dal 1991 questa è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Ayuthaya, che presenta oggi le caratteristiche di una tranquilla cittadina di provincia, dove i capannoni stanno prendendo sempre più il posto delle risaie, è frequente meta di passaggio dei viaggiatori diretti verso il nord del paese. E’ ben lontana dal traffico di Bangkok, e offre comunque sistemazioni per la notte a costi contenuti. Una tappa di due giorni è sufficiente per scoprirne le bellezze più significative, di cui sono sicuramen-

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te da non perdere le grandi statue del Buddha disteso all’aperto, una delle più imponenti statue in bronzo di tutta la Thailandia alta ben 17 metri racchiusa nel santuario Wihaan Mongkhon Bophit, e lo splendore di alcuni templi illuminati da potenti riflettori nelle prime ore della sera che fanno risaltare le grandi strutture in muratura sullo sfondo scuro del cielo sopra la città. Da qui, prenotando prima di arrivare e con il dovuto anticipo un biglietto attraverso un’agenzia di viaggi delle tante in Khao San Road, si può salire sul treno notturno che in dodici ore circa arriva a Chiang Mai. L’attesa del convoglio ed i dubbi sulle sue fattezze sono l’incognita più grande che ci accompagna durante tutto il nostro ultimo sfortunato giorno ad Ayuthya dove, vittime di un altro Tuk Tuk gironzoliamo sotto la pioggia per tutta la città alla ricerca dei monumenti non ancora visitati poi… Con appena venti minuti di ritardo, blu e bianco e con tutto il suo stridere dei freni, ferma in stazione alle 21.30 il night train. Sono alcune decine i ragazzi che salgono con noi. Molti altri sono già a bordo da Bangkok. Questo parte appunto da Bangkok in giorni prestabiliti e percorre tutta la Thailandia seguendo

una rotta nord/sud. Le fermate non sono molte ma il viaggio è comodissimo. Le poltrone vengono allestite dagli inservienti e trasformati in confortevoli letti con lenzuola e cuscini puliti ad ogni viaggio, ed ogni letto è chiuso da una tenda scura che non lascia filtrare la luce del corridoio, c’è l’aria condizionata e nessun cattivo odore e c’è una piccola luce da lettura per ogni postazione. Il dolce dondolio della carrozza poi è un ottimo cullare durante il lungo trasferimento. Io e Luisa ci siamo perfino concessi la visione di un film sdraiati nel “mio letto” col portatile sulle gambe, poi lei è andata a dormire nel suo, io sono andato in bagno, ho tolto le lenti a contatto, ho acceso una sigaretta – qua, nel bagno, si può –, ed ho visto riflessa nello specchio sul mio viso la cicatrice di un mio punto nero. Solo allora ho pensato che scrivere tutto questo mi avrebbe tenuto compagnia lungo il viaggio. Vai a sapere tu, poi, perché?!? PROSEGUE…

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Vuoi scrivere, le tue idee? Vuoi raccontare, il tuo ultimo viaggio? Vuoi condividere, le tue esperienze? Vuoi avere risposte, alle domande? Se hai risposto Si ad almeno una domanda allora sei il nostro prossimo autore.

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Canon Club Italia Domenico Addotta

domiad@hotmail.com www.canonclubitalia.com

Come e quando nasce il Canon Club Italia? La data di nascita di questa grande community risale al 20 Agosto del 2007. Ricordo quel giorno come fosse ieri... Era una calda serata d’estate di fine agosto.. L’anno precedente avevo già realizzato due forum di fotografia: Nikon Club Italia e Sony Alpha Community. Ero al telefono con un mio carissimo amico nikonista nonchè collaboratore sul nikon club: Riccardo alias Rikj. Si parlava di fotografia, e ogni tanto ci scappava quella classica battuta sui Canonisti, madre della più antica rivalità tra le due case nipponiche.... Nikonisti e Canonisti si sono sempre visti contrapposti in un continuo antagonismo fatto di battute e critiche anche dure. Io ho sempre messo al primo posto la fotografia, non l’attrezzatura, e poi la scelta di un marchio rispetto all’altro è frutto di una scelta personale fatta da diversi fattori, ma cmq scelta profondamente personale... dicevo... si parlava dei Canonisti e della mancanza di uno spazio a loro dedicato dove potessero scambiarsi opinioni, postare delle foto e interagire tra loro.... Riccardo: che ne dici se facciamo il Canon Club Italia? Lo diamo uno spazio anche a loro? Io: perchè no!! DETTO FATTO!! In giornata registro il dominio, tiro su il forum e via.... Nasce il Canon Club Italia!! In pochissimo tempo la community cresce in maniera esponenziale, da pochissimi utenti e messaggi siamo arrivati ad oggi a oltre 80.000 iscritti e superato i 2 milioni di messaggi scritti sul forum con ben oltre 300.000 foto postate. Un successo!! Da una amichevole e per certi versi ironica chiacchierata, per gioco insomma, è nata la più grande e imponente community fotografica sul web in Italia, che ha superato di gran lunga il Nikon Club fondato appena un anno prima. Ma chi è Domenico Addotta? “Sul Web sono nato come “DoMiAd”, nickname da me inventato per entrare in IRC (Internet Relay Chat), la prima chat creata da Jarkko Oikarinenche; IRC è stata la prima forma di comunicazione su Internet sin dal lontano 1988. Il mio vero nome è Domenico Addotta, classe 1975, siciliano D.O.C., ho iniziato giovanissimo a interagire con il web fin dai suoi albori, con un modesto modem

analogico da 28.8Kb UsRobotics e un PC Olivetti M 200. All’ epoca internet era composto da pochi siti, più che altro testuali (vista la modesta velocità di connessione) e con qualche sporadica immagine a bassa risoluzione, imperversavano più che altro le Chat IRC e i server BBS dove scaricare applicativi; era comunque molto emozionante navigare in questo nuovo mondo e già all’ epoca ne intuii tutte le sue potenzialità. Solo nel 2004, quando i tempi sono diventati davvero maturi per realizzare la mia idea (che mi frullava in testa da diverso tempo), grazie alla mia grande passione per la fotografia, ho deciso di creare un vero e proprio network fotografico a livello nazionale al fine di divulgare questa bellissima arte a quante più persone possibili attraverso tutte le potenzialità che la rete offriva e nel contempo creare un luogo di incontro virtuale in cui scambiarsi pareri, opinioni, idee e avviando importanti partnership con altre realtà legate alla fotografia. Il vero boom è stato circa 3 anni fa, il network è cresciuto a livello esponenziale, raggiungendo numeri impressionanti: oltre 300.000 pagine viste al giorno, 170.000 utenti iscritti al ritmo di 200 nuove iscrizioni al giorno, oltre 5.000 nuovi messaggi e 2.000 foto postate quotidianamente, il tutto grazie anche alla mia profonda conoscenza in campo SEO che mi ha permesso di posizionarmi sempre ai primi posti nei motori di ricerca (Google in primis) e quindi di essere facilmente rintracciabile da tutti, nonchè per una profonda e viscerale passione per la fotografia e l’informatica.” Il Canon Club Italia oggi? il C.C.I. negli anni ha stretto importanti collaborazioni nel settore fotografico, grandi marche e aziende di primo piano (FIAF, Fratelli Alinari, Corel, Pixum, Editrice Progresso, Star-ring Photo Network, e tantissimi altri) hanno collaborato con noi per il lancio di alcune iniziative in sinergia, nochè le più importanti case editrici come la Editrice Progresso (che ha fatto la storia della fotografia in Italia con la prestigiosa rivista Tutti Fotografi), abbiamo realizzato concorso fotografici nazionali con premi superiori ai 10.000 Euro, come l’ultimo ad esempio: 45


contest: http://www.canonclubitalia.com/public/ forum/Nuovo-Contest-Premi-150-anni-d-It437715.html vincitori: http://www.canonclubitalia.com/public/forum/Nuovo-Contest-Premi-150-anni-d-It446039.html altri contest: http://www.canonclubitalia.com/public/forum/Contest-fotografici-del-CCI-f22.html

iscritti che in ambito nazionale organizzati dal C.C.I. , siamo rapidamente passati dalla interazione virtuale (forum e web) a quella fisica con incontri frequenti e uscite fotografiche fatte di passione, amicizia e condivisione. Incontri e meeting in ambito regionale: http:// www.canonclubitalia.com/public/forum/MeetingsEffettuati-f87.html Nazionali: http://www.canonclubitalia.com/workshop-fotografia/notizie/1324/roseto-degli-abruzzi-22-e23-ottobre-2011.htm http://www.canonclubitalia.com/public/forum/ Mostra-CCI-Roseto-degli-Abruzzi-t329211.html http://www.canonclubitalia.com/public/forum/2Mostra-Fotografica-Meeting-Can-t422430.html Vi invito a leggere questo articolo a noi dedicato: http://www.notiziedizona.it/2011/10/23/mostrafotografica-canonclubitalia-al-bellavista-di-roseto-oltre-100-partecipanti-da-tutta-italia/

Mercatino Fotografico Negli anni abbiamo tirato su il più prestigioso, sicuro, e frequentato mercatino fotografico virtuale del nuovo e dell’usato. Attraverso un rigido regolamento , siamo riusciti a tenerlo fuori dalla portata di truffatori e male intenzionati: http://www.canonclubitalia.com/public/forum/ Mercato-dei-Lattarini-f31.html Nessuna truffa, nessun problema è stato mai riscontrato, grazie anche al duro lavoro dei moderatori nel far rispettare il regolamento, un successo insomma, come in ogni ambito in cui il CCI si è cimentato ad oggi. Mostre Fotografiche e meeting? Tantissimi, organizzati sia spontaneamente in ambito regionale e comunale da parte degli stessi

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Canon Club Italia

Mostra Fotografica Canon Club Italia. Al “Bellavista” di Roseto centinaia di partecipanti da tutta Italia

Roseto: Anche se solo alla seconda edizione, è lecito azzardare “Record di presenze!!!” ieri sera alla Mostra Fotografica Canon Club Italia, nella splendida cornice dell’Hotel Bellavista di Roseto degli Abruzzi, che ha aperto le porte agli artisti dello “scatto”.

Abbiamo chiesto al direttore artistico Canon Club Italia Gianclaudio Romano, il motivo della scelta di Roseto quale meta del meeting nazionale “è stato semplice per noi optare per la splendida cittadina, poiché si deve proprio al rosetano Marco Cimorosi, titolare dell’Hotel Bellavista, l’idea di organizzare l’evento e poi siamo a metà strada dello stivale, insomma un buon punto di incontro per tutti gli appassionati Canon.

Sala piena ed entusiasti partecipanti hanno contribuito ad arricchire il meeting nazionale dei “canonisti”, giunti dal nord al sud della penisola per prender parte alla premiazione delle foto più belle del “concorso”. Si perché un’apposita ala dell’albergo rosetano è stata trasformata in una galleria d’esposizione per tutti quei lavori inviati agli organizzatori della mostra nazionale.

Senza dubbio – prosegue – un punto a favore di Roseto è la versatilità della città, a due passi dal mare e a pochi chilometri dalla montagna; infatti abbiamo potuto organizzare, nonostante le condizioni meteo leggermente avverse, delle splendide escursioni, per mostrare ai partecipanti giunti dalle altre regioni, le bellezze dell’Abruzzo e scrutando in giro per la galleria, alcune foto esposte ne testimoniano concretamente l’apprezzamento”.

Una due giorni che amanti e curiosi della fotografia non si sono persi, ma che in particolare ha dato modo agli internauti del Canon Club Italia di conoscersi e condividere di persona la comune passione. Il percorso espositivo ha permesso di ammirare singolarmente l’artista ed entrare in contatto con l’espressività dello stesso, di captare il senso di ogni singolo lavoro.

Sono stati visitati i più suggestivi e splendidi luoghi: Cascata Morricana del Ceppo, Parco Nazionale d’Abruzzo, I Trabocchi di Punta Penna di Vasto, Caramanico Terme, Campo Imperatore e Castelluccio di Norcia. 47


Il tema delle esposizioni è stato volontariamente lasciato libero, aperto alla creatività dei fotografi, “essendo la manifestazione legata ad un forum che si occupa di foto a 360°, ci sembrava giusto lasciare la possibilità di esporre ciò che il soggetto ritenesse più proprio, più sentito”. Dai luoghi più suggestivi della terra agli splendidi primi piani, da antiche locomotive in disuso al borgo marino, passando per ombre, angoli nascosti e monumenti distrutti dalla furia della natura…insomma un’eterogeneità di visioni in un turbinio di colori e bianco e nero; uno spettacolo da riproporre.

ci siamo superati e probabilmente aggiungeremo delle particolarità interessanti. La voglia di migliorare cresce anche in funzione dell’adesione e dell’entusiasmo del pubblico e noi cresceremo di pari passo”. Molteplici le attività della due giorni Canon che ha visto, congiuntamente all’esposizione, lo shooting session con guida, cioè come ci spiega Gianclaudio Romano “un salotto capitanato da esperti, che verte su argomenti di interesse fotografico, una sorta di trasposizione sul fisico, sul materiale, di ciò che sul forum avviene virtualmente”. La selezione dei lavori esposti è stata eseguita da una commissione composta da alcuni membri del forum, più che da una severa giuria, appositamente per dare l’opportunità di partecipare pressoché a chiunque avesse un minimo di dimistichezza con la macchina fotografica. Sono state escluse soltanto quelle foto ritenute prive dei minimi requisiti tecnici.

Quest’anno l’afflusso è risultato maggiore rispetto alla precedente rassegna, svoltasi nella stessa location, lasciando piacevolmente impressionati gli organizzatori. “L’anno prossimo proporremo formule differenti ha sottolineato Marco Cimorosi – stiamo pian piano affinando le armi; già rispetto all’anno scorso 48


La giuria vera e propria, composta dal Presidente FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) Abruzzo Bruno Palombo e il “mago del Photoshop” dott. Marco Olivotto durante la convenction, ha attentamente valutato i lavori, ai quali sono andati i premi messi in palio dagli sponsor della 2° Mostra Fotografica Canon Club Italia. Queste le categorie di partecipazione al “concorso”: Single Shot (la possibilità per ciascun utente di esporre al max. 4 opere a tema libero, sia a colori che in bianco e nero), Concorso Portfolio (da 8 a 12 opere a tema libero, sia a colori che in bianco e nero), Premio Table Picture (foto stampate, siglate e numerate sul retro, disposte su di un tavolo al centro della galleria), Premio Cogli l’Attimo (andato alla migliore “diapositiva” scattata durante la giornata di ieri). Il premio “Foto da Tavolo” se l’è aggiudicato Luigi Caporale, cha ha vinto un illuminatore; il premio “Cogli l’Attimo” 2° classificato è andato a Giuseppe Andreoni, che si è aggiudicato100 certificati; “Cogli l’Attimo” 1° classificato Anna Maroutian che ha vinto una settimana soggiorno preso l’Hotel Bellavista; “Single Shot” 2° classificato Marco Di Paolantonio, al quale sono andati 250 certificati; “Single Shot” 1° classificato Marco Salaris che ha vinto un cavalletto e uno zaino; Concorso Portfolio 2° classificato Claudio Berto, che si è aggiudicato 500 certificati; Concorso Portfolio 1° classificato Davide Legnani, che si è portato a casa un cavalletto più uno zaino. Durante la serata di gala il presidente del Canon Club Domenico Addotta ha presentato e ringraziato ospiti, giuria, membri dello staff e tutti coloro del dietro le quinte che hanno reso possibile la splendida manifestazione. “A tutto lo staff – ha sottolineato il presidente – va un mio sentito ringraziamento per l’impegno che quotidianamente tutti mettono sul forum, partecipando e dando una mano agli utenti, commentando le foto e moderando. Il loro è un contributo importante per la gestione stessa del sito, un valido e prezioso aiuto”. Ciascun nominato della “community” Canon, è salito timidamente sul palco e alla fine della lista si è venuto a creare un vero e proprio quadretto – che oserei definire quasi familiare – incorniciato ed immortalato dai flash dei fotografi presenti. 49


Claudio Berto, Marco Diodato, Stefano Franceschini, Davide Legnani, Francesco Lo Russo, Luca Martelli, Gianclaudio Romano, Marco Salaris, Marco Cimorosi, Gianni Pasquali, Nello Zazzaro. La consegna della targa a Bruno Palombo Consegnate inoltre a fine serata, targhe speciali a Bruno Palombo, Marco Olivotto, Gianclaudio Romano, Domenico Addotta, Massimiliano Cupide e Bruno Marcozzi. “Entrando nella sala espositiva - ci ha tenuto a precisare Bruno Palombo – anche se una semplice tenda gazebo, è stato un vero piacere, un senso di appagamento per chi come me ama la fotografia. Tantissimi pannelli carichi di foto importanti; mi sono soffermato sulle singole immagini e sui lavori di portfolio, riscontrando un netto miglioramento rispetto all’anno precedente e sicuramente l’anno prossimo vi supererete ulteriormente. Sono onorato di aver giudicato per il secondo anno consecutivo i lavori dei partecipanti ad una manifestazione nazionale prestigiosa come questa”. Circa 100 espositori hanno dato spazio all’espressione degli artisti, tra cui: Nicola Barbano, Luigi Caporale, Marco Cimorosi, Damiana Coviello, Remo Cutella, Secondiano Del Savio, Paolo D’inecco, Marco Di Paolantonio, Valter Faedda, Roberto Fiume, Ferruccio Franciosini, Ugo Galluccio, Cristina Gatti, Alessandra Giunchedi, Barbara Melonaro, Lorenzo Mallardi, Anna Maroutian, Ferdinando Martone, Filippo Palladini, Raniera Patavino, Simone Pellizzi Narcisi, Cristian Nuvolone, Leonardo Piccioni, Marco Pollini, Adele Robles, Marco Salaris, Vito Sciacovelli, Pierluigi Secatore, Marina Sistilli, Paolo Spadone, Nello Zazzaro. La rassegna ha riscosso un vero e proprio successo tra l’amministrazione del forum, gli organizzatori e più in particolare il pubblico; in sala era palpabile l’entusiasmo e l’emozione che si spera saranno protagonisti dell’edizione 2012 della Mostra Canon Club Italia, già in fase di progettazione.

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Beauty dish TESTO Massimiliano Zago

FOTO Massimiliano Zago

www.

email: m.zago@nedproject.it

Molti fotografi famosi utilizzano spesso il beauty dish per le loro sessioni fotografiche, eppure intorno a questo argomento aleggia una sorta di alone di mistero. Tra i fotografi non professionisti è molto più comune riscontrare l’utilizzo del più tradizionale softbox o del più versatile ed economico ombrellino. Cercherò di fare un po’ di luce su questo argomento. LA TECNICA: L’ idea alla base è di una semplicità disarmante: la luce emessa dal flash viene riflessa da una superficie lucida (riflettore secondario) posta a qualche centimetro dal tubo xeno, per essere poi convogliata da un secondo riflettore a disco concavo ed inviata infine verso il nostro soggetto. (fig1) Questo è il principio di base, che, per quanto sia sempre lo stesso, attraverso il cambiamento di alcune variabili permette di ottenere risultati molto diversi tra loro. Consideriamo di usare un flash da studio ( uno speedlight non offre la stessa versatilità ) : il tubo xeno è di forma toroidale e l’ emissione luminosa scaturisce da tutta la sua superficie. Per comodità identifichiamo delle direzioni di emissione: frontale ( verso il soggetto ), laterale (perpendicolare all’ asse soggetto-flash) e posteriore (verso il flash). Vediamo ora come si comportano: La laterale viene convogliata dal disco concavo (riflettore principale) e direzionata verso il soggetto, la posteriore viene riflessa dalla superficie riflettente alla base del flash e va ad intensificare l’ emissione frontale ed infine la frontale, quella che più ci interessa, che risulta di intensità maggiore. Seguendo il principio di funzionamento sopra descritto, la luce frontale rimbalza sul riflettore secondario e va a sommarsi all’emissione laterale per raggiungere il soggetto. Tuttavia già ora possiamo introdurre una prima variante: se invece di uno specchio mettessimo qualcos’altro davanti al tubo xeno cosa accadrebbe? Ripartiamo dall’inizio: se usiamo la tecnica “tradizionale” e mettiamo un riflettore a specchio davanti al tubo xeno, questi sono gli effetti che otterremo: l’emissione frontale viene riflessa e convogliata sul riflettore principale che la ammorbidisce, le ombre sul soggetto in questo caso sono più morbide, i contorni 51


meno marcati, tra le zone illuminate e quelle in ombra si pone un’ area di transizione, il riflesso negli occhi (o in altre superfici lucide) è a forma di ciambella. Se al contrario non mettiamo niente davanti al tubo xeno, l’ emissione frontale, sommata a quella laterale, raggiunge il soggetto e la luce risulta molto concentrata (quanto concentrata dipende dalla concavità del riflettore principale), molto dura con ombre estremamente nette dai contorni definiti. Se invece decidiamo di usare una superficie traslucida al posto dello specchio cosa succede? In linea di massima il principio è lo stesso di quando si utilizza lo specchio, ma l’ emissione frontale in questo caso passa attraverso il materiale traslucido, che funge da softbox, ammorbidendo la luce che arriva sul soggetto e creando delle ombre estremamente morbide dai contorni sfumati. A questa luce “centrale” sommiamo ora anche la componente laterale ed otteniamo un fascio di luce estremamente morbida al centro che diventa più dura e definita ai bordi del fascio luminoso. Il riflesso ora non assume più la spiacevole forma a ciambella, ma diventa un cerchio uniforme che, usato per il ritratto, riflettendosi nell’occhio, dona allo sguardo un punto di luce che lo rende luminoso ed interessante. LA COSTRUZIONE: Dopo questa piccola divagazione tecnica, magari ci è venuta la voglia di sperimentare il beauty dish e allora cerchiamo di acquistarne uno, ma ci rendiamo presto conto che, pur ripiegando su marche meno blasonate, il prezzo è comunque elevato. Che fare allora? Rinunciare? Direi di no, ma anzi è il momento di ingegnarsi e vedere se dei prodotti di uso comune possono fare al caso nostro ed essere “aggiustati” per utilizzo fotografico. Un comune vaso da fiori di plastica di 50cm diametro a questo punto sarà un buon punto di partenza, ma vorrei fosse chiaro che quello che segue non vuole essere manuale di istruzioni su come realizzare un beauty dish in casa. Qui non troverete schemi tecnici e misure, ma soltanto delle idee, degli spunti che poi ognuno potrà interpretare a modo suo, secondo la propria esperienza ed a seconda dei mezzi a disposizione. Il necessario per cominciare è: un vaso da fiori, diametro 50 cm (ma non è vincolante) altezza circa 20 cm; vernice bianca (o argento); vernice nera opaca; un pezzo di plexiglass opalino (circa 20x20cm); mezzo metro di barra filettata diametro 6mm; una manciata di dadi; alcune viti. Tutto il materiale si trova facilmente ed a poco costo nei negozi di fai da te. L’ idea è di forare la base del vaso (riflettore prin52


cipale) per alloggiare la testa del flash, costruire dei dischi con il plexi (riflettore secondario) leggermente più grandi della dimensione della testa ed usare due pezzi di barra filettata per sospendere il riflettore secondario sopra al tubo xeno. La barra filettata funzionerà da supporto, da un lato fissata con i bulloni sulla base del vaso e dall’ altra, sempre con dei bulloni, sosterrà il riflettore secondario, che potrà essere costruito con il plexi opalino per la versione traslucida e con un comune foglio plastico verniciato di argento (o con della pellicola di alluminio incollata) per farne uno specchio. La superficie esterna andrà verniciata con del nero opaco mentre quella interna con del bianco o argento (attenzione che questo colore andrà ad influire sulla temperatura di colore della luce che raggiunge il soggetto!). Personalmente preferisco il bianco avorio che rende i toni leggermente caldi ed è ottimo per i ritratti. Per aumentare ulteriormente la versatilità si può usare il solo riflettore principale con una tela traslucida tesa sulla parte superiore a creare un soft box circolare. La tela, reperibile a poco prezzo nei negozi di stoffe, può essere fissata con del velcro oppure con del comune elastico da sartoria cucito sul bordo esterno. Il nostro beauty dish sembra finito, ma manca una parte fondamentale: il collegamento con il flash. Qui sfortunatamente il problema si complica, perché ogni produttore ha la sua baionetta e neanche la stessa nei diversi modelli prodotti negli anni. Vi descriverò la mia soluzione per l’ attacco Bowens, che sembra essere quello che nel tempo ha trovato maggior riscontro da parte dei produttori. Ne esistono due versioni L-type ed S-type. La “L” (che indica “large”) è molto vecchia e viene usato sulla serie monolight e similari, la prendo in considerazione perché ad oggi questi flash (che nonostante l’età reputo molto validi) si possono trovare sul mercato dell’ usato a dei prezzi estremamente convenienti, ma purtroppo non si trovano altrettanto facilmente i modificatori per questo attacco, il che scoraggia l’ amatore nell’ acquisto, privilegiando il mercato dei flash “cinesi” a basso costo, che invece adotta un attacco “standard”. Come da fig. ho usato il copri tubo come sagoma per tracciare il foro di alloggiamento della testa del flash. La ritenuta meccanica sul beauty dish è composta da due lamelle a L che sono fissate alla base del vaso mediante le stesse barre filettate, che sostengono il riflettore secondario. In questo modo si conferisce maggior solidità alla struttura. Le lamelle entrano poi nella scanalatura della baionetta del flash e sono mantenute in sede dalle 53


viti di fissaggio. La baionetta “S” (small) è invece molto difficile da replicare, essendo costituita da un tubo con 3 denti alle estremità, che si inserisce nel flash e necessità di una rotazione di una decina di gradi per il fissaggio. Qui l’ ideale è comprare un copri tubo di ricambio (si trovano a pochi euro on line) per poi tagliarlo in modo da recuperare la baionetta, che andrà fissata alla base del vaso. Per il fissaggio si possono usare le tecniche più varie, dalla colla alle viti etc. La soluzione da me adottata è la seguente: dopo aver tagliato la baionetta 3 cm più lunga del necessario ho ammorbidito la plastica con il calore per piegarla a 90 gradi, creando così un bordo da far aderire al vaso. Un po’ di colla ed alcune viti hanno finito il lavoro. Una soluzione alternativa, leggermente più costosa, ma adattabile a tutte le marche è di comprare uno speedring, generalmente usato sui soft box pieghevoli, che si trova con le diverse baionette d’innesto. Visto che lo speedring è costruito in metallo, il fissaggio risulta più facile e può essere fatto con delle viti passanti. Bisogna ricordare che le luci pilota sono molto potenti e di conseguenza emettono anche molto calore, che non va assolutamente d’accordo con la plastica. Consiglio pertanto di acquistare del nastro adesivo di alluminio ed incollarlo dentro alla baionetta ed alla base del riflettore. Questa soluzione conferirà una buona rigidità strutturale, proteggerà la plastica dal calore e rifletterà meglio la luce. LA PROVA SUL CAMPO: E’ arrivato il momento di vedere se il nostro duro lavoro verrà ricompensato dai risultati. Per le prove il flash è stato settato sempre alla stessa potenza e le impostazioni usate sono quelle riportate dall’ esposimetro. Solo riflettore principale: La luce appare molto dura e direzionata e non ci sono perdite di luminosità. Questo settaggio va bene come luce di schiarita o per un’occasione dove si cerca una buona definizione. Riflettore a specchio: La luce appare abbastanza dura ma non “sparata” come nel caso precedente. La perdita di luminosità in questo caso è di circa 1 stop. Questo è l’assetto standard con cui vengono venduti i beauty dish commerciali, ottimo per foto di moda a mezzo busto. Riflettore traslucido: La luce è ancora più morbida e non ci sono perdite di luminosità. Le ombre sono morbide pur mantenendo nell’insieme una 54


buona definizione generale, adatta al ritratto ed alle foto di moda. Softbox: La luce è molto morbida, la perdita di luminosità è di circa 1 stop e le ombre sono molto sfumate. Questo settaggio è ottimo per ritratto

niente per ridurle per facilitarne il trasporto o lo stoccaggio. Ciò nonostante, con poche ore di lavoro ed un investimento esiguo dal punto di vista economico, ci troviamo in mano uno strumento estremamente versatile, che con pochi gesti può trasformarsi da parabola standard, per una luce dura e diretta, a beauty dish o a softbox circolare, per una luce estremamente morbida. Un doveroso ringraziamento vanno al modello (papero) ed al suo agente (mio figlio) per gli scatti di prova. Alla prossima idea...

CONCLUSIONE: La prova sul campo è positiva, la struttura risulta robusta e leggera, il cambio dei vari accessori è facile e veloce. L’ unico neo è dato dalle dimensioni. Non trattandosi di un ombrellino, che puo’ essere piegato e stivato con lo stativo, il vaso da fiori ha quelle dimensioni e non è possibile fare

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Fotografare significa APPROPRIARSI DELLA COSA CHE SI FOTOGRAFA. significa STABILIRE CON IL MONDO UNA RELAZIONE PARTICOLARE che dà una sensazione di conoscenza, E QUINDI DI POTERE.

SUSAN SONTAG 56


ILHA DO SAL

TURISMO,TURISMO E SOLO TURISMO... TESTO Amnena Luisella

FOTO Amnena Luisella email: amnena@tiscali.it

Alberghi, villaggi, ristoranti, negozi... tutti creati per favorire il soggiorno del turista. Sin dal primo momento che si esce dall’aeroporto dell’Ilha do sal, l’impatto visivo è abbastanza violento; taxi e pulmini con tanto di guide che recuperano i loro clienti, bracciali di riconoscimento, valige, animatori...e vento , tanto vento. Per un viaggiatore fai date che è sempre alla ricerca di angoli del mondo isolati, Sal non è di certo il luogo indicato ma, anche dove il turismo fa da padrone, c’è sempre una lato nascosto di proprietà della gente del luogo. Ed è la vita comune che mi interessa. Dopo le prime 24 ore passate in un villaggio a riposare, incomincio a cercare un mezzo per poter visitare l’isola senza l’obbligo dei tour organizzati,

ma in poco tempo si capisce che è letteralmente impossibile; il turismo è la fonte di guadagno e le autovetture disponibili hanno dei prezzi esagerati così mi armo di scarpe comode, crema solare e con una mountain bike parto per il vero tour...... Santa Maria è del tutto turistica, nuovi complessi residenziali in costruzione padroneggiano ovunque, in centro paese, sulla costa fino al punto di mangiarsi gran parte del litorale ancora selvaggio, banche, uffici turistici, snackbar, persino una pizzeria d’asporto. Merita uno scatto il piccolo porticciolo di legno dove approdano le barche dei pescatori locali, che a fine lavoro vendono il loro pescato e qualche venditore di frutta e verdura sugli angoli della strada. 57


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Le strade principali di Santa Maria non sono particolarmente pericolose ed affollate anche se addentrarsi nei i vicoli è stato azzardato, la disoccupazione è alta e lo si nota dalla persone che bighellonano con bottiglie di birra in mano e che, tra insulti e parole, cercano di spillarti qualche soldo, soprattutto la sera non è indicata per gironzolare tra le strade. La vita notturna del paese è inesistente, la si trova concentrata sulla spiaggia, dentro ai villaggi turistici e ai quattro o cinque ristoranti gestiti da tedeschi ed inglesi con menù europei e musica dal vivo.

zione maschile. Mi dirigo verso il faro e proseguo a piedi, oltrepasso le meravigliose spiagge di sabbia bianca per raggiungere l’inizio della scogliera , spiagge e rocce nere sono in contrasto netto con il mare blu, si intravedono persone vestite da lavoro e purtroppo anche qui sbucano dal nulla ville e gru. A questo punto cerco sulla mappa le saline di Santa Maria, sebbene inutilizzate magari meritano lo stesso una visita ma dopo vani tentativi di riconoscerle essendo coperte interamente da sabbia, mi dirigo verso l’oceano. Il vento soffia talmente forte che è quasi impossibile proseguire in bicicletta e dato che mancavano poche decine di metri alla spiaggia lascio la mountain bike e mi dirigo a piedi. Il cielo è pieno di aquiloni colorati e di sportivi che volavano imbragati ad essi, uno degli sport principali praticato dai turisti è il kitesurf. La seconda meta del tour è la capitale, meno turistica di Santa Maria, Espargos è una cittadina vivace e se così si può definire trafficata, qui si riesce a respirare quel poco di capoverdiano che c’è sull’isola.

Proseguo verso le spiagge dove sono ubicati tutti i villaggi turistici e mi dirigo verso il faro, il sole brucia la pelle quindi mi concedo un bagno rinfrescante con tanto di relax sulla spiaggia e lì incomincio a notare dei viavai particolari, discreti ma comunque insoliti. Prima della partenza mi fecero presente che le isole principali di Capo Verde sono mete sessuali, diedi per scontato che si parlava di prostituzione femminile ed invece con un pò di sorpresa mi accorsi che era prostitu-

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Per le strade si incontrano numerosi bambini con un sorriso che ti coinvolge, sono attirati dalla macchina fotografica e chiedono in continuazione di scattargli qualche foto per fargliele vedere. Le strade principali sono piene di piccole botteghe colme di manufatti senegalesi, c’è il mercato ammassato di bancarelle piene di statuette e gioielli in legno, anch’essi d’importazione, ma anche questo è un’attrazione turistica. Non sono mai riuscita notare nessuna differenza tra ciò che è senegalese o capoverdiano, la maggior parte degli abitanti lavora per i complessi turistici o cantieri edili europei. Nelle vie secondarie si trovano piccoli negozietti per chi vive sull’isola; una bottega di riparazioni, una rimessa nautica, un tabacchi e qualche negozietto di alimentari e tanti pittori appollaiati sui tetti. La visuale completa di Espargos la si ha dall’unico promontorio sovrastato da una grossa antenna telefonica, dove dalla terra e dal cielo spiccano i colori accesi delle case, ma vi è un angolo ben nascosto che lascia intravedere una povertà difficile da percepire. Accantonata dalla zona urbana ed immersa nel deserto sbuca la baraccopoli con le sue case coperte di lamiera, legno, ferro, plastica e tanta immondizia. Passando per l’unica strada che unisce la cittadella al quartiere emarginato si raggiunge Palmeira. Un minuscolo villaggio di pescatori, con un porticciolo costruito e mai terminato per gli yatch; il tempo qui sembra si sia fermato, non c’è un rumore non si muove nessuno, si sente solo il vento, porte e finestre socchiuse, nel porticciolo ha appena attraccato una barca e si intuisce subito che la giornata è stata propizia : tra i vari pesci colorati spunta un bel Marlin. La vacanza a Ilha do Sal si conclude con le ultime visite nei luoghi naturali più suggestivi e con l’amaro in bocca per aver avuto solo un’ assaggio di Capo Verde, che con il suo boom economico mi ha dato l’impressione che l’isola stessa fosse un villaggio turistico.

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Carso TESTO Paolo Aizza

FOTO Paolo Aizza

http://paoloaizza.com

info@paoloaizza.com

La prima macchina fotografica reflex l’ho presa in mano da ragazzino, una Pentax K-1000, ricordo ancora molto chiaramente la sensazione provata durante quel pomeriggio e l’emozione dello scattare. Da allora son passate parecchie immagini davanti ai miei occhi, molte colte, molte sbagliate, molte perse per aver, a suo tempo, caricato male il rullino. Ho sempre avuto una certa attenzione su come si (pro)pone una fotografia ai nostri occhi, come possiamo migliorare il nostro atteggiamento verso l’impulso che ci porta a scattare e come possiamo migliorare ora il file che è stato impresso sul sensore della nostra fotocamera. Non credo serva parlare se meglio analogico o digitale, non ha senso per me, una foto buona è una foto buona, indipendentemente dal supporto sul quale è stata impressa. Avendo preso in mano la prima fotocamera reflex da ragazzino, scattando più seriamente dai primi anni 80 e facendo il fotografo come lavoro dal 97, ho potuto assaporare il passaggio tra analogico (stampando il bianco e nero fine-art per parecchi anni) e digitale, non senza una certa difficoltà in quest’ultimo campo, perchè solo dopo qualche anno, trovando un software appagante, ho iniziato ad apprezzarlo per la possibilità di avvicinarmi molto a quanto i nostri occhi hanno visto nel momento dello scatto. Da questo punto in poi, le possibilità di manipolazione dei files sono pressoché infinite.

ti anni non si verificava una situazione cromatica così ampia e i colori così accesi. Sono sempre stato istintivo in fotografia, razionalizzo e analizzo il lavoro fatto quando lo osservo sul computer e, in campo fotografico ciò che offre il carso in autunno è un esempio di un certo mio modo di fotografare. La richiesta che sempre mi faccio: è possibile trasmettere a coloro che guarderanno le immagini che sto scattando le forti sensazioni che provo nel ritrarre una data scena? Se si, cosa posso fare io per permettere che questo avvenga? Esisto diverse risposte... Alla prima domanda le risposte vengono dalle parole espresse dalle persone che vedono la foto, se c’è una risposta emotiva qualcosa è avvenuto e c’è stata trasmissione, quindi, la fotografia ha avuto ‘senso’. Se la foto lascia indifferenti, qualcosa è mancato, se uno solo si sente indifferente non è detto che sia da attribuire alla foto questo suo stato, potrebbe esserci anche un vocabolario non capito... Il dire mi piace e non mi piace, credo, impedisce di apprezzare e compenetrare una foto nel suo insieme. Al secondo quesito quello che posso fare è darmi una certa disciplina affinché una foto si manifesti ed entri nel campo del visibile. Quanto scrivo è il resoconto di circa 20 anni di sperimentazioni e studio su questo aspetto della fotografia, ovviamente è molto personale, potete pure non credere, anzi non dovete credere a queste parole, solo la vostra esperienza potrà o meno dirvi qualcosa in merito. Personalmente credo a quanto scritto, perchè vissuto in migliaia di situazioni diverse, ma ognuno ha un approccio diverso e tutti possono essere universalmente validi.

Il carso è sempre stato un punto di riferimento per le mie immagini, in autunno, dove i colori del sommaco si accendono. Da parecchi anni nel periodo a cavallo tra ottobre e novembre mi reco sul carso almeno una volta, i colori che possiamo trovare coprono uno spettro che si posa sulle piante del sommaco dal verde al giallo al rosso all’arancione per arrivare al rosa e viola sulle quelle foglie che si stanno seccando e alle varie tonalità di marrone chiaro quando si apprestano a lasciare l’arbusto. Personalmente è sempre un momento emozionante e ogni anno è diverso, a fine 2011 lo spettacolo era particolarmente appagante perchè da mol-

Io credo che in fotografia, come in musica o qualsiasi forma d’arte, la disciplina è fondamentale e l’autodisciplina è l’unica percorribile, quindi esistono tre aspetti: _ la disciplina delle mani (o del corpo in senso più 63


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esteso come fisico in cui viviamo) _ la disciplina della testa _ la disciplina del cuore Entrando nei dettagli, per disciplina delle mani, intendo la possibilità di usare il nostro corpo in maniera rilassata, affinchè la ricerca della foto ‘buona’ permetta alla foto buona di entrare in contatto con noi e di manifestarsi, tramite il nostro operato, nel campo del visibile. La disciplina della testa è l’aspetto organizzativo e razionale di quanto abbiamo a disposizione, le nostre cognizioni sia in fatto di tecniche conosciute e attrezzatura disponibile, quanto il valutare e gestire l’immagine in lavoro, prima e dopo lo scatto, ora con l’utilizzo di computer e software, per arrivare in fine alla foto che desideriamo far vedere, ognuno ha il proprio gusto e le proprie capacità e sono tante quante le persone coinvolte. La disciplina del cuore è la più difficile da tradurre in parole, forse impossibile, ogni presentazione è ardua, io credo che alla fine dovrebbe essere uno stato di grazia nel momento dello scatto che ci pone in diretto contatto con quanto fotografato. Per chi ha avuto la fortuna di conoscere una persona spiritualmente elevata nel suo operato, si sarà certamente accorto che nel fare le cose questo essere ha una armonia, una grazie e una piacevolezza nell’eseguire il tutto che inevitabilmente ci toccano, l’assenza di sforzo può essere un buon esempio. In musica possiamo vedere questo come risultato finale che giunge alle nostre orecchie, in fotografia nell’immagine che abbiamo davanti agli occhi, non è detto che una disciplina sia necessaria, questo è solo il mio metodo per arrivare ad un qualcosa, moltissimi fotografi conosciuti hanno atteggiamenti totalmente opposti ai miei e producono immagini fantastiche e questo è ciò che conta ma, in questo frangente voglio comunicare una parte del mio percorso.

queste parole, forse potrebbero entrare nel campo della fotografia naturalistica nel mio non ruolo di fotografo naturalista, lascio a casa il treppiede perdendo molto in possibilità ma guadagnando in movimento e accumulo maggiore di scatti, non uso altresì alcun filtro, altra cosa che so essere una mancanza, diciamo che cerco con quello che ho di acquisire il possibile di quanto sto vedendo nelle mie passeggiate carsoline. Ho sempre pensato che i colori disposti in una certa maniera, possono far del bene o del male verso l’essere umano, non essendo interessato al secondo aspetto, cerco nei colori della natura, che reputo un bene prezioso un qualcosa di appagante quando mi riguardo quanto fatto, appagante nel senso che mi trasmettano un certo movimento percettivo. Con i software che abbiamo ora a disposizione nei nostri computer, una volta acquisita una immagine ci si apre un mondo di possibilità da vagliare accuratamente. Per fortuna la mia tecnica di acquisizione è semplice e segue una metodologia sperimentata in parecchi anni e mi porta in un primo momento a escludere i pensieri che si affacciano alla mia mente, condividendo e assaporando i colori che ho davanti, quindi lo scattare senza soffermarmi troppo su quanto sto facendo, uso le aperture che gradisco maggiormente come risultato sulla profondità di campo e pago la mancanza di stabilità del treppiede aumentando, talvolta, la sensibilità impostata. Il mio monitor è sempre spento, mi disturba acceso, il mio modo di fotografare è iniziato con l’analogico e credo sia meglio essere presente ad una foto tecnicamente sbagliata che assente da una buona. Non credo che per fare una foto buona si debbano fare tanti scatti, credo che bisogna farne uno solo e se lo manco allora devo imparare da tutto questo; chiaramente se mi trovo a lavorare su commissione su una nave, sarebbe sciocco non controllare certi passaggi sul monitor, dato che devo garantire un risultato al cliente che pagherà la mia fattura ma, per il mio personale lavoro di ricerca uso sempre questo metodo, ho dei soggetti relativamente statici, mossi eventualmente dal vento, posso azzardare e rischiare, credo che questo modus operandi offre la possibilità di una qualità maggiore nel risultato ottenuto alla fine dell’esperienza. Molto spesso mentre scatto provo la sensazione di mangiare i colori, sembrerà blasfemo ma è proprio questo ciò che vivo, certi cespugli hanno delle gradazioni che talvolta mi commuovono e mentre scatto provo dentro di me un impulso che potrebbe venir tradotto come una forte emozione che pos-

Così, quando mi ritrovo a camminare in un sentiero del carso in autunno (solitamente in provincia di Gorizia nei comuni di Sagrado, Fogliano - Redipuglia, Ronchi e Doberdò del Lago) questa ispirazione di colori è una continua sfida, comunque i nostri occhi hanno un funzionamento molto al di sopra del migliore obiettivo in commercio e ciò che vediamo possiamo solo avvicinarlo, così con i miei limiti (ho tre obiettivi, un 17-40/f. 4.0, un 28.70/2.8 e un 70.200/4.0, non stabilizzati e un corpo macchina non a pieno formato quindi le focali vanno moltiplicate per 1.6) scendo in campo. Questo genere di immagini che accompagnano 65


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siamo provare quando siamo coinvolti in qualcosa che ci tocca dentro, vuoi esso sia un brano musicale, un ‘opera d’arte, un bel bipede davanti ai nostri occhi, un piatto di buon cibo con un bicchier di vino presentato in maniera superba, certe danze (sia viste che eseguite) hanno questo potere, ma ci sono infiniti campi, io lavoro per proseguire il mio cammino in fotografia, ringraziandola quando mi dona certe immagini, io non sono l’autore, solo il tramite. Ovviamente in un contesto sociale i diritti, questi celebrati copyright, sono solo ed esclusivamente miei, specialmente in Italia dove si cerca spesso di omettere il nome dell’autore, sia professionista che dilettante poco importa, qui potremmo stare una vita a parlarne. Dentro di me però so che che la foto effettivamente è passata attraverso tutto me stesso, chi suona avrà certamente provato analogamente questa forte sensazione ad un certo punto della propria vita musicale, con certi colleghi ricettivi a certe tematiche ho potuto verificare queste mie supposizioni e ora le manifesto come reali e possibili. Quindi dopo aver passeggiato alcune ore sui sentieri del carso ritorno a casa ed inizio a rivivere in maniera computerizzata quanto fino a poco prima vivevo in esperienza pratica e diretta.

Passaggi: copio le foto su una cartella del mio computer, le acquisisco come raw e le passo scartando quelle non buone, le rinomino archiviandole in due maniere, raw e dng su un hd esterno, riacquisisco i dng sui quali lavorerò. Per me quanto vedo su monitor deve corrispondere (per quanto possibile) alla memoria fotografica di quel determinato scatto, quindi temperatura colore, luci, contrasto e a seguire tutto ciò che possiamo apportare come miglioramento allo scatto effettuato al fine di ‘ottimizzare’ l’originale, questo per me è essenziale ed è il primo passo da fare, da qui in poi possiamo agire come desideriamo, in base alle esigenze che ci prefiggiamo per ottenere un certo risultato. In queste foto c’è solo una ‘ottimizzata’ poi opportunamente trattata per far vedere la differenza tra ciò che la mia memoria visiva ricorda e ciò che ho voluto aggiungere per dare ciò che ho pensato e desiderato alterandola per poter trasmettere una determinata sensazione. Esistono oggi in commercio molti software per emulare ciò che facevano i materiali sensibili non molti anni fa, chi è passato attraverso le pellicole, ha certamente amato le varie Kodachrome, Velvia, Provia, etc. per non parlare delle storiche in bianco e nero per finire sulle Polaroid e simili e i loro possibili trattamenti, anche i cosiddetti cross processing erano certamente interessanti e degni di nota, spesso laboriosi ma alla fine appaganti. Ora un software emula tutto ciò e il nostro grado di sensibilità e competenza sarà il mezzo per arrivare ad un determinato risultato. Negli scatti qui proposti il lavoro compositivo è iniziato dopo, così si potranno trovare delle analogie con certe diapositive, con i materiali Polaroid ed altro, al fine di dare oggi, con le moderne tecnologie quanto anni fa costava un certo sacrificio, specie per il tempo dedicato (mai perso) e il denaro investito... Il vantaggio di oggi, per come la vedo, è che da una singola immagine possiamo ottenere infiniti files che trattati diversamente danno l’opportunità di generare grana e contrasti molto simili alle pellicole amate, se poi vengono stampati ai pigmenti di colore (o di carbone) su carta cotone al 100% credo che i nostri occhi potranno trasmetterci delle buone ‘vibrazioni’. Spero che queste immagini abbiano la possibilità di trasmettervi qualche sensazione...e potete tranquillamente dimenticare le mie parole, alla fine son sempre le immagini che parlano un linguaggio non verbale e più appagante di qualsiasi definizione verso una data fotografia.


Tarello Tutorial

Still-life con unico punto luce e tecnica multiscatto TESTO Mario Tarello

FOTO Mario Tarello

www.tarello.it

email: mario@tarello.it

Non sempre per realizzare uno still-life sono necessarie costose attrezzature e svariati punti luce, l’importante è avere un idea ben precisa di cosa si vuole ottenere e una discreta conoscenza delle tecniche base di illuminazione e postproduzione. Ho sottolineato l’importanza di avere un’idea ben precisa in testa perché reputo indispensabile prefissarsi il risultato che si vuole ottenere, in questo caso volevo giocare con la silhouette del contenitore e le sue cromie scure e monocromatiche, annegando il tutto in un’immagine low key.

Questa l’immagine finale.

Per realizzarla avevo a disposizione un flash sb600, un paio di piccoli pannelli di plexiglass bianco semitrasparenti usati come diffusori (di quelli che si trovano al Brico), un foglio di plexiglass trasparente per il riflesso (oppure una lastra di vetro, ma se ne può fare anche a meno) alla base del botticino e un cartoncino nero utilizzato per lo sfondo.

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L’immagine finale è formata dall’unione in Photoshop di tre differenti scatti (multiscatto appunto), avrei potuto ottenere un risultato simile anche con un solo scatto ed un set adeguato, ma per (mia) comodità ho preferito procedere come segue. Per realizzarla avevo a disposizione un flash sb600, un paio di piccoli pannelli di plexiglass bianco semitrasparenti usati come diffusori (di quelli che si trovano al Brico), un foglio di plexiglass trasparente per il riflesso (oppure una lastra di vetro, ma se ne può fare anche a meno) alla base del botticino e un cartoncino nero utilizzato per lo sfondo. L’immagine finale è formata dall’unione in Photoshop di tre differenti scatti (multiscatto appunto), avrei potuto ottenere un risultato simile anche con un solo scatto ed un set adeguato, ma per (mia) comodità ho preferito procedere come segue.

Con il secondo scatto volevo dare tridimensionalità al soggetto, per la realizzazione ho posizionando il flash a lato del botticino schermandolo con un foglio di plexiglass bianco. Rispetto al softbox, dove punto luce e diffusore hanno distanza fissa e l’unica variabile è la distanza dal soggetto, la soluzione punto luce e diffusore separati permette di dosare meglio l’intensità della luce in base al risultato che si vuole ottenere, semplicemente distanziando il punto luce da diffusore.

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Ho infine realizzato un ultimo scatto per avere la scritta ben visibile. Per la fusione delle immagini ho utilizzato Photoshop e le maschere di livello, di seguito le screenshot del flusso di lavoro. La maschera di livello è selezionabile dall’apposito pannello come segue.

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Nell’immagine di partenza si nota che ho sfocato e scurito ulteriormente il riflesso del botticino, questo per renderlo meno evidente e più piacevole. Avrei potuto realizzare un immagine efficace senza l’utilizzo di tale tecnica e con uno scatto singolo. Ad esempio l’immagine che segue è realizzata posizionando il flash sulla destra diffuso dal pannello di plexiglass bianco. Nessuna postproduzione. Il risultato rende discretamente giustizia al soggetto anche se non è esattamente l’obbiettivo che avevo in mente. Posto a titolo di esempio le due immagini affiancate.

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GANGSTERS E SPIRITELLI CON CONTORNO DI CAROTE TESTO Barbara Nicotra

<Hello, could you tell me where can i take the train to Victoria Station, please?> <Of course!> Londra. Città tagliata in due tra i ricchi quartieri nei quali gli autobus non passano perché tutti i residenti hanno più di una macchina e le zone in cui i busdriver – conducenti di autobus – sfrecciano con le loro corriere sperando che anche questa notte gli vada bene, che la strada rimanga silenziosa e non diventi teatro di una faida tra gangster. In verità i gangster non hanno orario, non puntano i loro orologi dopo il tramonto, non danno al sole il tempo di tornare nel suo giaciglio. Si incontrano tranquillamente anche la mattina o il pomeriggio con le strade piene di gente, di traffico. Non siamo nel Bronx questo è certo, ma a volte accade anche qui di leggere di sparatorie e innocenti feriti, o morti. E se sei una residente, magari una che vive non troppo lontano da quella zona o che ci passa tutti i giorni, qualche seria domanda sorge spontanea nella tua mente, accompagnata magari da un “io speriamo che anche oggi me la cavo”, parafrasando un noto film. Nonostante la crisi, che anche qua si sente, in questo periodo fervono i preparativi per i prossimi grandi eventi che si terranno a breve, l’anniversario dell’incoronazione della regina a giugno e le competizioni olimpiche e paraolimpiche che partiranno a luglio. In questo frangente, c’è chi va a caccia di carote e chi di santi, chi di birra e chi di qualsiasi cosa sia colorato di verde. Poco tempo fa Londra ha festeggiato il santo patrono d’Irlanda, San Patrizio, chi ha gozzovigliato tra birra, frittelle di patate e salsicce di pecora il tutto mandato giù con un corroborante caffè irlandese. Dalla mia postazione tutt’altro che comoda, abbarbicata ad una delle fontane di Trafalgar Square con l’omino della sicurezza in piedi dentro la fontana dietro di me del quale vedevo l’ombra che si rifletteva non molto distante dal mio fianco destro…ho applaudito i cantanti irlandesi che si susseguivano a intervalli di 5/6 canzoni. Tra gli artisti e il pubblico c’erano molte persone ornate di trucco e oggetti verdi come il tipico copricapo irlandese con il quadrifoglio dorato (anche se in realtà è il trifoglio la

FOTO Barbara Nicotra

email: barbaranicotra@yahoo.it

pianta simbolo di questo popolo), gli uomini portavano anche la barba rossa, a tratti sembrava di stare in un ritrovo di leprecauni – gnomi irlandesi – avrei voluto chieder loro un po’ dell’immensa ricchezza di cui si vocifera da qualche secolo a questa parte, ma anche se avessi trovato la domanda adatta da porre sapevo che con la loro arguzia mi avrebbero facilmente beffato riprendendosi tutto il tesoro. Ad un certo punto ho conosciuto una tipa stramba che mi ha raccontato delle sue vicissitudini con carote e affini. La scorsa settimana ha litigato con una carota che non ne voleva sapere di rimanere nel piatto. Dopo aver fatto due tre balzelli tra stoviglie e posate è precipitata sul tappeto. Dopo estenuanti ricerche tra gambe di tavoli, sedie e clienti alla fine l’ortaggio ballerino si è fatto prendere e portare in cucina. Carol, la strambatipa, è avvezza a queste cose, tra verdure e posate che si divertono a metterla in imbarazzo davanti agli ospiti lei cerca di fare del suo meglio per non farsene accorgere ma non sempre ci riesce. Prova di ciò è il ricordo quasi tangibile del momento più risibile della sua vita lavorativa: quel giorno mentre ritirava i piatti dal tavolo, ah, forse non ti ho detto che Carol fa la cameriera...dicevo, con i piatti sporchi tra le mani tentava con nonchalance di far fare ad una carota un salto carpiato tra due piatti. Ma l’arancione erbaggio si opponeva con tutte le sue forze, si teneva stretto stretto alla forchetta. Finirono col precipitare insieme, l’uno tra i denti dell’altra, e in tutto il salone risuonò un sonoro fragore…


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Incontro con lo squalo TESTO Carlo Cavazzuti

FOTO Carlo Cavazzuti

c.cavazzuti@virgilio.it

Molti hanno dello squalo l’immagine del mangiatore di uomini o della macchina divoratrice senza pietà che la letteratura e la filmografia ci hanno fornito, con il costante aiuto della stampa e dei telegiornali. Pochi sanno però che lo squalo, o per meglio dire gli squali, sono molto più spesso prede dell’uomo che suoi predatori. Chi non ha sentito nominare dal pescivendolo il palombo o la verdesca, o per lo meno una volta non li ha visti riportati sul menù di un ristorante di pesce? Ebbene sì, entrambi sono squali, esattamente come lo squalo bianco, ormai celeberrimo protagonista di documentari. Ogni giorno nel mondo vengono mangiati migliaia di squali, mentre in un anno pochissime sono le vittime dei loro attacchi. Di squali,

secondo il catalogo internazionale della F.A.O., ne esistono più di duecentocinquanta specie, molte delle quali commestibili e con un valore di mercato nell’ambito della pesca industriale del tutto rispettabile ed in alcune zone del globo paragonabile a quello di aragoste, tonni di grandi dimensioni e pesci di alto mercato. Uno di questi squali “da piatto”, almeno sino a qualche anno fa, era lo squalo capo piatto anche conosciuto come pesce vacca, o dai più eruditi come Hexanchus griseus. Un pesce di discrete dimensioni se pensate che può arrivare tranquillamente ai quattro metri di lunghezza ed a un peso di oltre sette quintali, ma state tranquilli, non c’è bisogno di tirare fuori dall’acqua i bambini, è pressoché innocuo per l’uomo a patto che non lo

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si disturbi tirandogli la coda o puntandogli una luce intensa negli occhi. L’ultimo attacco mortale all’uomo risale ormai a più di cinque secoli fa. Di solito questo squalo vive a grandi profondità: mille, millecinquecento metri, solo la notte e solo in certe determinate condizioni di correnti marine e fasi lunari, risale a profondità raggiungibili da un subacqueo per nutrirsi di crostacei e molluschi al chiaro di luna. Lo squalo capo piatto si alimenta di notte su un’ampia varietà di animali, di norma nuotando radente al fondo e catturando le prede con un rapido scatto. Consuma i grandi teleostei e condroitti, mammiferi, merluzzi, lamprede, chimere, razze e palombi. Le altre prede includono i piccoli pesci, molluschi gasteropodi e bivalvi, granchi, gamberi e calamari. Inoltre si nutre delle carogne dei leoni di mare e delle balene, anche se non mancano le segnalazioni di cannibalismo. Gli attacchi di questo squalo probabilmente colpiscono ciò che gli sta più vicino. Questo squalo di grandi dimensioni ha pochi predatori attivi tra cui si può annoverare lo squalo bianco (Carcharadon carcharias), il leone marino stellato (Eumetopias

jubatus) e l’orca (Orcinus orca) nonché individui della loro stessa specie, anche se è indubbio che molti organismi possano nutrirsi di individui malati, feriti o morenti. I piccoli sono soggetti a predazione da parte di molti altri squali e si suppone anche di grossi mammiferi marini quali delfini, orche e capodogli. Questa specie di squalo non ha adattamenti anti-predatori evoluti e conosciuti, basa i suoi deterrenti sulla sua massa corporea, i poderosi colpi di coda ed il morso. Si presume che questi squali vengano a contatto tra loro, secondo la stagione, muovendosi verso le basse profondità da maggio sino al mese di novembre per poi accoppiarsi e tornare alla vita solitaria. Gli scienziati sono incerti sul periodo di gestazione di H. griseus, ma si pensa essere più lungo di 2 anni. Il gran numero di piccoli alla nascita per lo squalo capo piatto, anche più di cento in un unico parto, potrebbe suggerire che i tassi di mortalità per piccoli siano molto alti e probabilmente dovuti alla predazione anche da parte dell’uomo. È facile immaginare che un animale del genere viva nei mari tropicali, lungo le barriere coralline 75


o in pieno oceano. È più difficile per il cittadino, o per meglio dire, per il bagnate comune pensare che un animale del genere si trovi ogni giorno sotto i suoi piedi quando si fa una nuotata nel mare vicino a casa. Lo squalo capo piatto vive effettivamente, come molti altri squali anche potenzialmente pericolosi, nel Mar Mediterraneo dove svolge il suo intero ciclo vitale. Secondo gli ultimi studi un luogo prediletto per la riproduzione e per far crescere i cuccioli di molti degli individui del Mediterraneo sono le Isole Eolie ed in particolare lo stretto braccio di mare che collega le isole di Vulcano e di Lipari; quindi, come si usa dire, proprio nel cortile di casa nostra. Predilige i fondali pianeggianti ricchi di rocce dove i piccoli possono imparare a cacciare e proteggersi in mezzo ad esse. Trova quindi un terreno ideale per la caccia nelle secche al centro dello Stretto di Messina e alle Isole Eolie con i suoi fondali vulcanici ricchi di formazioni rocciose ed allo stesso tempo di discreta profondità per rifugiarvisi il giorno. La pesca di questo superbo animale era diffusissima in tutto il Mediterraneo e una fonte di reddito per molti pescatori, da qualche anno, però, ne è stata proibita la pesca per motivi medico sanitari in quanto lo squalo capo piatto, a causa del suo habitat e della sua dieta, tende ad accumulare

metalli pesanti nei propri tessuti e ad essere quindi cancerogeno per l’uomo se assunto con una certa regolarità. In passato nelle Eolie vi erano vere e proprie flottiglie di pescherecci dedicati all’esclusiva pesca di questo animale probabilmente sfruttando proprio questa loro propensione a migrare in quei luoghi per riprodursi. Venivano pescati principalmente in profondità utilizzando le reti derivanti, sciabiche e reti a strascico, in modo da poter sfruttare l’intera giornata e non dover attendere la risalita notturna. In tutta la Sicilia sono note ricette a base di questo squalo ed è considerato ancora un pesce prelibato e preferito al più conosciuto pesce spada ed al tonno rosso con il quale condivideva i banchi del pesce sino al 2000, anno del fermo pesca. In un mondo rispettoso delle leggi questo pesce vivrebbe tranquillo e beato senza avere il timore di essere pescato e rivenduto. Purtroppo questo non avviene, o per lo meno non avviene in Sicilia e nelle Isole Eolie dove tutt’ora viene pescato di frodo e indi spacciato per pesce spada. Una pesca di frodo non molto diversa da quella segnalata da molti gruppi animalisti per altre specie di squalo onde tagliargli le pinne per la zuppa. Le motopasserelle (le tipiche imbarcazioni da pesca al 76


Pesce Spada) ed i pescherecci siciliani sfidano i divieti legali con un escamotage non proprio onorevole. Utilizzando non più solo le reti come in passato, ma anche arpioni e palangaro: una lenza di solito in acciaio, lunga anche più chilometri e con migliaia di ami, lo catturano esattamente come si potrebbe fare con il pesce spada. Una volta issato a bordo gli viene mozzata la testa e tutte le pinne che vengono gettate in mare subito dopo. Il pesce così trattato, anche agli occhi dei più esperti è del tutto identico ad un Pesce Spada, un Marlin o un’Aguglia. A volte, per la fretta o la paura di essere scoperti, i pescatori mozzano solamente la testa del pesce perché proprio in essa è racchiuso il carattere più distintivo della sua specie: sei aperture branchiali. Ogni altro pesce cartilagineo, squalo o meno, ne possiede cinque o sette, motivo per cui se presentato ad un mercato del pesce provvisto del proprio capo, questo pesce, sarebbe immediatamente riconosciuto e sequestrato assieme all’imbarcazione che lo ha pescato. Non essendo proibito per legge pulire il pesce sull’imbarcazione, questi disonesti pescatori sfruttano la cosa per spacciare il nostro squalo per un comune Pesce Spada. Quando un peschereccio in pesca di frodo vede da lontano una motovedetta della

guardia costiera o getta in mare l’ormai defunto pesce o è passibile di sequestro del natante e del pescato; motivo per cui non è affatto una novità vedere questi animali a pancia in su galleggiare nel mare eoliano anche poco lontano dalla riva. Nel messinese la cosa avviene con una metodologia leggermente diversa: la notte i pescherecci una volta preso l’animale posizionando le reti derivanti lungo lo Stretto lo caricano su piccole scialuppe e lo portano a terra, in zone ben precise in cui un complice li attende. Con il favore del buio rapidamente puliscono il pesce da testa e pinne e lo tagliano direttamente in tranci da rivendersi al mercato. Il capo piatto arriva dunque ogni giorno sui banchi del mercato del pesce di Mazara del Vallo, Milazzo, Lipari e di seguito anche in tutti quelli del territorio nazionale e sui piatti degli italiani. Se fresco, il colore della pelle e identico a quello di un Pesce Spada di grosse dimensioni come il colore e la consistenza delle sue carni, persino le venature muscolari, le vertebre e gli organi interni sono praticamente identici tra loro. Il fatto è che sia gli squali che i Pesci Spada appartengono alla stessa classe zoologica: i condroitti cioè i pesci con lo scheletro cartilagineo; quindi a meno di un’analisi dettagliata dei tessuti

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è difficilissimo riconoscere la carne di uno squalo da quella di un pesce spada. Lo si avverte una volta nel piatto però, il pesce vacca, e lo squalo in generale, presenta una carne molto più grassa, saporita e morbida del suo armato parente, motivo per cui viene spesso preferita ad essa. In molti sanno di questa attività illecita, ma in altrettanti omertosamente tacciono, sia la guardia costiera che si troverebbe a dover arginare un’insurrezione dei pescatori indignati, sia il cliente che spesso sotto banco chiede al pescivendolo proprio quella carne per un piatto tradizionale sia gli altri pescatori per paura di ritorsioni. Andare a domandare ad un pescatore sconosciuto se per errore avesse pescato o sapesse dove trovare un esemplare di capo piatto può costarvi oltre alle male parole, minacce decisamente colorite con un arpione in mano, ben che vada un secco e lapidario ?No!-. A parlare e mettere la pulce nell’orecchio ad un gruppo di studiosi dell’università di Messina di cui facevo parte è stato un ex pescatore liparoto che nel 2008, contattato per il noleggio delle sue imbarcazioni, mi ha rilasciato un?intervista che lasciò con un palmo di naso in molti nel mondo accademico. Riportiamo qui parte dell’intervista a quell’uomo che nonostante sia diventato un buon amico, per motivi di sicurezza personale, ha chiesto di mantenersi anonimo per quanto riguarda le

sue dichiarazioni e che noi chiameremo solamente P. Io- Lei per caso sa dove possiamo andare a pescare il pesce vacca? Insomma una zona dove a buttare gli ami non passiamo la notte a girarci i pollici? P- Certo che lo so, ma qui lo sanno tutti. È una vita che lo pescano e anche i ragazzini sanno dove lo si prende la notte. Io- Ma lo pescano anche ora, nonostante il fermo di pesca? P- E che cos?è il fermo di pesca? Una parola sulla carta, qui non c’è nessuno che controlla e un pesce alla fine è uguale ad un altro finché non ce l’hai in bocca. E**** ne ha preso uno di due quintali giusto ieri? Io- Allora perché nessuno mi ha risposto alla domanda su dove devo andare a prenderli? Mi hanno persino detto che con la guardia di finanza loro non ci parlano, non hanno nemmeno voluto vedere il permesso dell’università e della capitaneria? P- Perché non è che lo prendono così per caso? Sì, succede che riamane nella rete o ti si attacca all’amo, ma qui sono secoli che lo prendiamo per mangiarlo e ci sono marinerie che pescano solo quello, vuoi che smettano solo perché un tizio a Roma ha detto che non si può più? Io- Ma non è stato fatto nulla per sensibilizzare la

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marineria o dargli motivo di rispettare le disposizioni? P- Ma sì, son venuti a dirci che faceva male mangiarlo perché aveva i metalli nel sangue? Hanno proposto anche ai grandi pescatori della zona un finanziamento a fondo perduto per convertire le loro imbarcazioni ad uso turistico per le gite o la pesca sportiva. Io ho accettato, prima pescavo praticamente solo pesce vacca e pesce spada, ma che fai, rischi la gabbia per un pesce? Siamo in un luogo turistico e molti hanno fatto come me: quello che ci perdi non andando più al mercato a Mazara a vendere il pesce lo prendi facendo le gite coi turisti per le Isole. Io- E gli altri, quelli che hanno rifiutato l’offerta? Non hanno subito conseguenze? P- Che gli dovevano fare? Sequestrargli la barca, le reti o il palangaro? Mica possono, con quelli ci peschi un sacco di pesci, mica solo il pesce vacca, con che motivo la guardia costiera arriva e mi porta via tutto? Solo perché con quella roba io posso pescare un pesce proibito, non è detto che lo faccia? Io- Ammessa anche l’impossibilità della guardia costiera, non è che posso arrivare al mercato con uno squalo di cinque quintali e lungo tre metri e mezzo e pensare che nessuno lo noti, non è una sardina tra milioni di altre! Non possono nemmeno venderlo direttamente allo sbarco alla vecchina che passa sulla spiaggia perché è troppo grosso? P- Guarda che non è poi tanto difficile fregare quelli dei controlli! Esci in mare come al solito e ti porti il palangaro lungo in acciaio, ci attacchi sopra una migliaio di ami e a ogni amo un bel totano intero. Così se controllano puoi dire che vai per gli spada? Se sai dove andare ne peschi un paio al giorno da quelli piccoli di mezzo metro fino ai bestioni da tre, quattro metri. Da maggio a novembre tra qui e Vulcano ci passano sempre, basta buttare gli ami che li prendi. Quando ce li hai a bordo gli tagli la testa, sai per le branchie, le pinne e la coda e poi vallo riconoscere da un pesce spada! Butti tutto in mare ed hai fatto. Porti il trancio al mercato e lo vendi come pesce spada. Ci vogliono quelli dell?università a scoprire che è squalo, perché se non vai a vedere bene lo stomaco o gli fai l’analisi del DNA non si capisce. Non puoi pensare che gente che fa quello, e solo quello, per vivere smetta e lasci alla fame la famiglia solo per un divieto. Del divieto importa a pochi, magari gli altri non vanno più solo per lui, intendiamoci, ma se un ristorante te lo chiede e te lo paga cento euro al chilo, che fai non

glielo porti? Con uno solo se è grosso ci paghi la mesata della barca. Cosa vuoi che gli interessi al pescatore con la quinta elementare che fa male mangiarlo, per lui fa più male non mangiare un giorno perchè non hai pescato abbastanza per comprarne! Magari sono pescatori che nemmeno sanno come e cos’altro pescare, hanno una certa età, ma sono giovani per la pensione, così escono magari solo una notte a settimana e di nascosto si fanno un bel pò di soldi. Poi all’amo predi anche altro, quello te lo tieni, lo usi come esca o lo vendi che al massimo arrotondi un pò? L’intervista continua ancora, abbiamo parlato a lungo di come e dove pescarli e a dire il vero anche come cucinarli. Ho sempre un pò dubitato del fatto che fosse impossibile distinguere i due animali, ma un giorno, dopo una pesca autorizzata a scopi scientifici mi trovai davanti un Pesce Spada ed un capo piatto: dopo puliti effettivamente, anche ai miei occhi da biologo marino erano identici. Provai a cucinarmi un trancio di entrambi alla brace. Effettivamente crudi sono identici, ma sotto i denti lo squalo e decisamente meglio? State comunque molto attenti a quello che comprate perché anche io come “pescecanologo” ho serissime difficoltà di riconoscere le due specie al trancio. Se siete consumatori abituali di pesce spada acquistate solo se vedete la testa attaccata alla parte che vi viene servita o in alternativa solamente in una pescheria di comprovata serietà e fiducia. Nel caso abbiate sospetti non esitate a contattare la guardia costiera o le forze dell’ordine. Ciò non toglie, comunque, che molte specie di squalo siano legalmente su banchi delle pescherie, si possano mangiare in tutta tranquillità e con gusto.

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IL DESIDERIO DI SCOPRIRE, LA VOGLIA DI EMOZIONARE, IL GUSTO DI CATTURARE: TRE CONCETTI CHE RIASSUMONO L’ARTE DELLA FOTOGRAFIA. Helmut Newton

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Rincorrendo la Via Lattea TESTO Maurizio Pignotti

FOTO Maurizio Pignotti

www.mauriziopignotti.com

Tutto e’ iniziato questa estate,nel periodo in cui il clima e la visibilità della nostra galassia è all’ apice. Per i pochi che non lo sapessero la via lattea altro non e’ che una galassia,cioè un agglomerato di stelle e polveri cosmiche con una forma spirale,in uno di questi bracci a spirale si trova il nostro sistema solare e quindi il nostro pianeta la Terra,ebbene si ci troviamo proprio nel bel mezzo della via lattea. La luminosità della via lattea pero’ nonostante la vicinanza e filtrata dalle polveri cosmiche,quindi la luce che ci arriva e’ davvero limitata,se non ci fossero le polveri cosmiche a filtrare la luce ,sarebbe sempre giorno con tutte quelle stelle che brillano intensamente. Sin da ragazzo sono sempre stato un’appassionato di astronomia,ho posseduto alcuni telescopi e ho fatto un po’ di fotografia astronomica,ma con tecnologie di molto inferiori rispetto a quelle di oggi. Il fascino del cosmo mi ha sempre catalizzato in tutte le sue sfaccettature. Io amo la fotografia

naturalistica in particolare paesaggistica,spesso mi trovo in vetta o a valle a scattare foto come un matto,ma poi ho scoperto la mia vera strada,il paesaggio in notturna .Insomma io fotografo ad orari impossibili,con altrettanto clima non sempre favorevole. La fotografia notturna secondo il mio modesto parere e’ molto più complessa rispetto a quella diurna,diciamo particolarmente difficoltosa e molto tecnica. I fotografi che più mi hanno inspirato a questo genere sono Marc Adamus e Alex Cherney,li considero dei guru nel settore,anche se molti criticano il loro modo di lavorare,ma vorrei vedere una foto che si avvicini alle loro,anche post prodotte,non e’ facile credetemi . Ho iniziato a scattare in notturna le prime foto già nel dicembre 2010 ottenendo discreti risultati,ma guardando le foto dei grandi artisti prima menzionati in particolare Cherney ,vedevo la strabiliante bellezza della via lattea come sfondo in un cielo colmo di stelle,e soggetti in primo piano sempre partico-

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lari ed armoniosi nel contesto della foto. Quindi con la testardaggine tipica del mio carattere mi sono messo sotto,cercando di capire come poterla fotografare,in che modo e con quali soggetti. Dopo vari esperimenti e ricerche ho capito che ci sono alcune cose fondamentali ed imprescindibili per ottenere un risultato decente. Il primo e’ nel tipo di fotocamera da utilizzare,naturalmente una reflex,e che sia full frame,il sensore di maggior grandezza garantisce migliori risultati,è molto importante anche il livello di alti iso che il corpo macchina riesce a gestire,quindi un prodotto di recente costruzione con tecnologia migliorata può garantire scatti di ottimo livello anche a 6400 iso. Subito dopo e’ fondamentale un ottica molto luminosa che abbracci un ampio angolo di campo,diciamo un 14mm f2,8 e’ più che sufficiente,l’importante che sia un’ottica di una buona nitidezza anche a diaframma aperto. E’ necessario anche un treppiede per tenere ben ferma la fotocamera durante le lunghe esposizioni ed un remote control per controllare la fotocamera senza toccarla evitando microvibrazioni,in ultimo e’ consigliabile bloccare lo specchio della fotocamera. Questa e’ l’attrezzatura necessaria per svolgere il lavoro,ma chiaramente non basta,ci sono molti altri accorgimenti da seguire.

Ad esempio un cielo con bassissimo inquinamento luminoso,cosa molto rara di questi tempi,una luna assente,un cielo terso con scarsa percentuale di umidità,preferisco l’alta quota offre sempre condizioni di cielo migliori rispetto la pianura. Assenza di raffiche di vento,le micro vibrazioni comprometterebbero non poco la qualita’ dello scatto,in ultimo metto una buona conoscenza della posizione delle costellazioni in base all’orario ed alla stagione in atto. Sapere in anticipo dove si troverà la via lattea può essere un vantaggio i termini di composizione della foto. Ci sono molti software che possono dare la posizione della via lattea in base al giorno e l’ora richiesta. C’ è anche un altro componente aggiuntivo ma non strettamente necessario per catturare la via lattea,e’ un inseguitore equatoriale,cioè un meccanismo che permette di eludere la rotazione della terra ed evitare il mosso delle stelle anche con lunghe esposizioni,in questo modo si può incidere molto di più sul sensore le polveri e i dettagli della via lattea,questo tipo di foto necessita pero’ di una doppia esposizione,una per il soggetto statico e l’altra per quello in movimento. Molti pensano che la fotografia con doppia esposizione non sia una foto o roba del genere,invece credo che sia un completamento della foto , e che arricchisca 83


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il ventaglio della gamma dinamica .L’importante e’ che gli scatti siano ravvicinati nel tempo e fatti dalla stessa angolazione visiva. Io mi sono autocostruito una tavola equatoriale seguendo un progetto visto online,e devo dire che rispetto ad un”inseguitore dal costo medio di 600/700 euro ce’ un risparmio enorme.Comunque le prime foto non avendo un’ottica molto luminosa “sigma 12/24mm f4,5” ero costretto ad usare l’inseguitore altrimenti il segnale luminoso della via lattea era poco inciso,poi ho aggiornato la mia attrezzatura e sono riuscito a farne a meno,ma vorrei provarla con la nuova fotocamera e la nuova ottica ,credo che i risultati sarebbero strabilianti. I tempi di esposizione sono molto importanti se non si usa l’inseguitore,difficilmente si possono superare i 30 secondi di esposizione,altrimenti il mosso delle stelle e’ visibile,io penso che l’ottimo sia 20 secondi per ottenere una stella perfettamente puntiforme,usando chiaramente ottiche grandangolari 12/14mm.Altra cosa fondamentale e’ l’utilizzo degli alti iso,io con la canon 5d mark 2 scatto anche a 6400iso,ma bisogna usare un po’ di tecnica per abbassare il rumore,il sistema ce’ ma questa e’ un’altra storia.Con l’inseguitore invece bastano 800/1600iso max,cosicche’ il segnale e’ buono e il rumore molto ridotto. La Post produzione e’ molto importante in questo genere di foto,se ben fatta rende migliore

la foto altrimenti si rischia di peggiorarla notevolmente. Ci sono software specifici per eliminare il gradiente, o per fare lo stacking,ma qui’ andiamo su cose profonde che non staro’ ad elencare in questo articolo.Dal luglio 2011 fino alla fine di ottobre ho rincorso la via lattea in ogni modo ,spostandomi da una vetta all’altra dei monti sibillini,incontrando lupi,cinghiali,ca mosci,scoiattoli,una cosa affascinante,una volta in piena notte da solo “perche’ io faccio tutto in solitaria”,mi sono sentito battere sulla schiena piu’ volte,girandomi di scatto mi accorgo che un gruppo di pipistrelli avevano preso di mira il lampeggiatore rosso che portavo sulla nuca,roba da pazzi,un’altro sarebbe morto di infarto. Muoversi nel buio completo della notte da solo credetemi non e’ affatto facile. La mia uscita fra le tante fatte piu’ proficua,e’ stata la notturna al lago di pilato. Un lago di origine glaciale situato a 2000 metri di altezza,un posto da mozzare il fiato,di notte ancora di più. Credo di essere uno dei pochi se non l’unico ad aver effettuato una notturna completa in solitaria al lago di pilato.I l problema e’ che li e severamente vietato piazzare tende,conoscendo le guide ufficiali del parco nazionale volevo evitare di violare le regole,cosi informandomi un po’ ho trovato una caverna naturale dove poter passare la notte,una cosa incredibile , ho acceso pure il fuoco mi sembrava

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di essere Bear Grylls dell’ultimo sopravvissuto,alle tre del mattino e’ venuto pure un lupo a rompere le scatole,puntando la torcia e facendo rumore e’ scappato,poi ad una certa ora si e’ affacciato uno spicchio di luna ad illuminarla una cosa indescrivibile. Arrivare sin lassu’ e’ stato veramente difficile 6,5 ore di cammino con un dislivello di 1200 metri e 25 kg di attrezzatura sulle spalle “da solo”.Ce’ un piccolo aneddoto che voglio raccontare ,mentre io salivo tutti gli altri scendevano,e molti mi domandavano ma e’ tardi per andare su ,e io rispondevo ci dormo! La gente mi guardava con un misto di invidia ammirazione e anche preoccupazione.Ad un certo punto una coppietta di fidanzati vengono verso di me chiedendomi aiuto,la ragazza si stava disidratando,sono andati al lago senza acqua cose da pazzi… dono loro gentilmente una parte della mia riserva d’aqcua,mi faceva veramente pena quella ragazza,tanto sapevo che arrivato sin lassu avrei bevuto l’acqua del lago, acqua purissima, bisogna fare attenzione pero’ a non ingerire il chirocefalo marchesoni,esemplare unico al mondo di gamberetto presente nel lago.. Un’altra uscita indimenticabile e’ stata sul passo del Fargno,con davanti una vista incredibile,il paretone nord granitico del monte Bove si inclinava nella stessa direzione della via lattea,nel

pian grande di castelluccio invece avevo perso le speranze,nuvole e raffiche di vento mi impedivano di fare qualsiasi cosa,ma ad un certo punto come per miracolo si ferma il vento e si apre il cielo,e dalle nuvole sbuca una via lattea a dir poco imponente e luminescente,sembrava il libro delle favole. Sulla vetta del monte sibilla a 2150 metri di altezza incontro casualmente il mio amico Michele Sensini guida ufficiale del parco nazionale,quando gli dico che passero’ la notte in vetta a fare un reportage sulla via lattea mi guarda e mi dice scherzosamente ,tu sei pazzo…. poi ci lasciamo con una foto insieme .Ai pantani di accumuli i pipistrelli mi attaccavano a mia insaputa,alle lame rosse un gruppetto di cinghiali si avvicinava,per mandarli via ho acceso tutte le torce e abbaiato come fossi un cane,infine nell’altopiano di Macereto sono riuscito a concludere il reportage con l’arco galattico,coprire a 360° tutta l’estensione della via lattea cosa molto difficile da attuare. Questa foto e’ stata molto apprezzata in molti lidi ,quella mi ha dato l’ingresso ad 1x la piu’ importante vetrina fotografica mondiale,la via lattea dal fargno e’ stata premiata dal National Geographic. Continuerò a fare le foto alla via lattea,mi mancano gli scorci innevati con lei sullo sfondo,ma li farò un altro articolo.

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SLOI TESTO Cosimo Attanasio

FOTO Cosimo Attanasio

www.cosimoattanasio.eu

email: photo@cosimoattanasio.eu

La SLOI (Società Lavorazioni Organiche Inorganiche) fu costruita nel 1939 per volere dell’allora regime fascista, produceva piombo tetraetile, un composto chimico usato come antidetonante per la benzina, l’Italia si accingeva ad entrare in guerra e occorreva il carburante per muovere i mezzi di trasporto (aerei e veicoli di terra in particolare), fu scelta Trento come sede in quanto sufficientemente vicina alla frontiera con la Germania e collegata con la ferrovia del Brennero. Dopo la guerra l’Italia era in ginocchio e davanti i cancelli delle fabbriche moltissime persone bussavano al campanello alla ricerca di un lavoro, lavorare alla SLOI significava inoltre lavorare a turni di 6 ore, vicino casa, e con un contratto economicamente vantaggioso. Purtroppo il piombo tetraetile è un composto alta-

mente inquinante e pericoloso per l’uomo, migliaia furono gli intossicati negli anni, gli intossicati cronici spesso venivano mandati al manicomio di Pergine in preda ad allucinazioni e comportamenti violenti, quando arrivava un nuovo paziente la domanda d’obbligo era: “Dove Lavora?”, la risposta era quai sempre “alla SLOI” e venivano portati in un ala apposita dell’istituto e classificati come alcolisti. Vi furono anche interventi della magistratura ma a causa del ricatto occupazionale furono chiusi. Il 14 Luglio del 1978 vi fu un terribile incidente: a causa della pioggia torrenziale alcuni fusti esplosero a contatto con l’acqua, Trento visse uno degli episodi più drammatici della sua storia, erano ancora aperte le ferite di Seveso, la zona nord fu invasa da una sottile nebbia chimica.

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Per estinguere l’incendio furono necessarie diversi quintali di polvere di cemento provenienti dalla vicina Italcementi. In seguito a questo incidente la fabbrica fu chiusa, a tutt’oggi il suolo è inquinato per 18 metri di profondità, non solo piombo ma anche amianto e vari metalli pesanti, a distanza di oltre trent’anni ancora non ci sono risposte su come bonificare l’area.

“tiganii” (zingari), col tempo ho però conosciuto ragazzi più giovani che non si fanno problemi a dichiarare la loro etnia. Ho conosciuto queste persone, ho ascoltato le loro storie, ho scoperto una cultura nuova, mangiato bevuto e perfino dormito con loro (e non mi chiedete come ho trovato il coraggio... ho troppa paura dei ratti). Alcuni sono analfabeti ma sanno bene cos’è l’amianto e sanno che quel posto non è salubre, ma non ci possono fare niente: non hanno le roulotte, figuriamoci se possono affittare un appartamento...

Nell’aprile del 2010 entro per la prima volta alla SLOI, avevo intenzione di fare alcuni scatti per un mio progetto sull’abbandono industriale, sapevo anche che il posto era abitato ma decido di entrare lo stesso nonostante un pò di paura. Una volta entrato e incrociato gli sguardi di queste persone la mia paura è scomparsa, il mio interesse per quello scheletro di cemento è finito ed è nato l’amore per i contatti umani. Quando qualcuno mi chiede se è stato difficile entrare a contatto con loro io rispondo sempre “Nel momento in cui dici buongiorno e buonasera e rispetti la persona che hai davanti, hai già svolto metà del lavoro”. Gli occupanti sono tutti rom rumeni, più o meno imparentati tra loro, il colore della loro pelle non lascia dubbi ma si definiscono rumeni e non

Tempo prima vivevano, in un altra ala della fabbrica, dei nordafricani molti dei quali spacciavano haschish ed eroina. Tra le due comunità non c’è mai stata molta simpatia, gli spacciatori di norma attirano la polizia e i rom non vogliono avere contatti con loro, la polizia lo sa e li lascia stare, in fondo la presenza dei rom contribuisce a frenare certi fenomeni, tra i rom non ho visto girare un solo spinello. Samoila ha 30 anni, è analfabeta, ha lavorato per alcuni anni in un mattatoio a Medias fin quando un giorno il titolare annunciò la chiusura del mattatoio. Da quel giorno non ha più lavorato. È

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difficile ai giorni nostri trovare lavoro se sei laureato, figuriamoci se per firmare un contratto di lavoro devi metterci una croce. Samoila è sposato con Dana, si conoscono praticamente da sempre e non si separano mai, hanno tre figli che vivono con i nonni, i più grandi vanno a scuola con grandi sacrifici. Dana a scuola c’è andata anche se per poco, sa leggere, scrivere, parla un buon italiano e cucina molto bene. Sa che la scuola è molto importante per i figli e non vuole che i suoi figli finiscano un giorno per chiedere la carità come i loro genitori. Pepi è la sorella di Dana, suo marito era il fratello di Samoila, morto qualche anno prima, ha 38 anni e una figlia di 23 in Spagna dove lavora come donna delle pulizie e un figlio di 20 che non la lascia mai, da quando è morto il padre ha iniziato a occuparsi della madre, è cresciuto molto in fretta, ma alle volte quando parla e quando ride sembra ancora un ragazzino di 15. Pepi l’ho incontrata recentemente vicino casa mia, non vive più nelle fabbriche occupate ma ha trovato un lavoro come badante per un anziano, è una delle poche persone che ce l’ha fatta. La vita all’interno della Sloi, fino all’intervento delle ruspe scorreva liscia, la carità al mattino,

i pomeriggi insieme e Gheorghita che faceva le stufe ricavandole da vecchi barili di metallo, io ero un po la novità, la sorpresa e l’oggetto di qualche scherzo di Otilia sua moglie. Sono rimasto molto sorpreso dell’organizzazione di queste persone, a parte l’acqua corrente non manca poi molto, vecchie batterie d’auto e un generatore vengono usate per avere la corrente in casa, stufe e cucine ricavate da vecchi bidoni, molto legno che viene buttato loro lo recuperano per scaldarsi e mangiare, persino vecchi abiti e cartoni utilizzati come isolanti termici. La povertà fa paura e continuo ad averne... però adesso ho un pò meno paura di prima. Nel marzo del 2011 viene sgomberata l’Italcementi, dove vivevano africani e altri rumeni, un mese dopo tocca a loro, senza nessun avviso, senza nessun intervento di sgombero arrivano le ruspe e iniziano a demolire nel capannone adiacente le loro abitazioni, gli occupanti lo interpretano come un messaggio minatorio, anche perchè l’area è molto vasta, bastava iniziare a demolire più avanti. Durante il periodo di sgombero è stato molto difficile per me persino varcare i cancelli d’ingresso,

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ho avuto più problemi con gli operai che non con la polizia. Lo sgombero è avvenuto senza problemi grazie all’intermediazione dei Volontari di Strada e della Charitas, i quali sono riusciti anche a sospendere momentaneamente i lavori, molti di loro sono stati temporaneamente ospitati nei container presso un centro di accoglienza a Ravina per poi spostarsi presso un altro posto da occupare.

Questo lavoro credo vada interpretato più come un diario fotografico di questo periodo trascorso con loro, è il mio primo “progetto” fotografico, migliorabile, sicuramente ma mi ha fatto capire molto riguardo le mie capacità e quello che voglio fare attraverso la fotografia, non mi interessano bellissime modelle, io voglio raccontare storie, le altrui e le mie esperienze, ecco tutto. Per maggiori info riguardo la Sloi consiglio il documentario: Sloi - La fabbrica degli invisibili di Katia Bernardi, mentre il servizio fotografico completo è disponibile all’ind.: http://www.cosimoattanasio.eu/galleria/sloi/sloi. html

Questo lavoro non è un reportage in senso stretto, non c’è il distacco tra il fotografo e il soggetto, io ero in mezzo a loro, nessuno scatto è in posa ma io non mi sono mai nascosto davanti a loro, anche perchè non è mica facile “rendersi invisibile” se scatti con una reflex e una focale molto corta.

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CONTEST “L’età”

Questa volta abbiamo il piacere di avere Teacher in a Box come premio per il nostro contest. Con un premio veramente speciale

Vieni a trovarci, scoprirai com’è facile avere un maestro in scatola! IL LEZIONARIO ONLINE: Il Lezionario Online è la piattaforma di video streaming di Teacher in a Box in cui potrai vedere e rivedere i videocorsi acquistati tutte le volte che vuoi entro i limiti della durata dell’abbonamento, mettere in pausa e provare quello che hai appena visto fare dal teacher, tornare indietro e andare avanti senza alcun limite...esattamente come con il DVD-ROM, con il vantaggio di non dover attendere la spedizione e di poter consultare i tuoi videocorsi dovunque tu sia, basta avere una connessione internet ADSL!

CHI SIAMO: Teacher-in-a-Box è un’azienda italiana specializzata nella produzione di videocorsi multimediali professionali sui più famosi software per la grafica, il web, il video, la fotografia. I videocorsi sono rigorosamente in italiano, suddivisi in singole brevi videolezioni e sono tutti tenuti da docenti certificati nei singoli applicativi, a garanzia di accuratezza e qualità didattica.

IL PREMIO: L’abbonamento totale semestrale consente di accedere a tutti i corsi disponibili sul Lezionario Online (eccetto questi videocorsi) per sei mesi (180 giorni) a partire dall’ora in cui registreremo il premio del vincitore!

Sono disponibili su DVD-ROM oppure visibili direttamente dal web sulla nuova piattaforma di video streaming, il Lezionario Online! Questi videocorsi sono la risorsa che mancava: comoda, sempre disponibile, facile e rapida da consultare e soprattutto in grado di venire incontro sia alle tue necessità in termini di tempo che in termini di budget. La modularità dei corsi Teacher-in-a-Box ti consente di imparare quello che ti serve, solo quando ti serve, dosando la quantità, per capire al meglio e metterlo subito in pratica!

Congiuntamente all’uscita di OurPhoto 5 (e per tutte le prossime uscite) i contest saranno realizzati da adoroletuefoto.it; buon divertimento!!!

Il catalogo Teacher-in-a-Box conta decine di titoli di interesse per il fotografo, come il videocorso di Adobe Photoshop CS5, il corso di Adobe Lightroom 4 e quello relativo ad Apple Aperture 3! Ma tantissimi altri titoli sono pubblicati sul sito http://www.teacher-in-a-box.it, molti sono quelli dedicati alla fotografia digitale, al fotoritocco e alla correzione del colore. 95


Primo classificato: Vittorio Zanoni

Secondo classificato: Antonio Fantetti

Terzo classificato: Ruggero Cherubini

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­­© Stefano Cuccolini

OurPhoto il nostro non periodico di fotografia. OurPhoto crede nella condivisione delle idee e delle esperienze dei fotografi di ogni livello ed attrezzatura. OurPhoto è nostro, nel senso che è una risorsa per tutti. OurPhoto è una pubblicazione libera da pubblicità, vincoli di contratto e/o marketing con aziende di settore e non. OurPhoto è senza pubblicità. OurPhoto è scritta dai lettori per i lettori, il nostro compito è di rendere graficamente omogeneo la forma degli articoli, senza stravolgerli.


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