Mercati d'Italia

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Portfolio d’autore

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ERCATI D’ITALIA otto città, otto piazze per la spesa alimentare all’ aperto raccontate, a modo loro, da altrettanti clienti eccellenti che sono nati o vivono in quelle metropoli

ROMA testo di Maurizio Costanzo - foto di Ada Masella PALERMO testo di Roberto Alajmo - foto di Emanuele Lo Cascio FIRENZE testo di Marco Vichi - foto di Gianluca Panella TORINO testo di Paolo Giordano - foto di Massimo Sestini MILANO testo di Andrea De Carlo - foto di Armando Rotoletti NAPOLI testo di Erri De Luca - foto di Roberto Salomone BOLZANO testo di Lilli Gruber - foto di Massimo Sestini BOLOGNA testo di Pupi Avati - foto di Monica Silva PIÙ la tabella della stagionalità degli alimenti

servizi FotoGraFici per sette

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Dialogo tra casalinga e venDitore di Maurizio Costanzo

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Roma, come ovunque, i mercati rionali sono i genitori o i nonni dei supermercati. Il mercato di piazza Campo de’ Fiori è sicuramente uno dei più caratteristici della città. Come lo sono comunque i mercati rionali, per la capacità che hanno i venditori di attirare l’attenzione di chi fa la spesa con frasi, rime, spesso spiritosaggini. Si stabilisce un rapporto tra il venditore di verdure e la casalinga che tutti i giorni va a fare la spesa. C’è una sorta di copione non scritto che prevede il “richiamo” del venditore: «Affrettateve donne che c’ho ’na cicoria da sturbà!». Il senso è chiaro, ma spesso la casalinga si avvicina al banco, con mano esperta tocca la cicoria proposta e ne rileva per esempio una certa durezza. In quel momento, perciò, la donna e il venditore combattono ad armi pari. Alla fine la cicoria finirà nella borsa della donna che però pagherà qualcosa meno del previsto. Il “copione” contempla anche un commento sul tempo, sul traffico, volendo sulla politica e trovandosi Campo de’ Fiori in centro, anche su eventuali cortei, con quel che ne consegue. Intorno alle 14.0014.30 il mercato viene smontato, arrivano gli uomini della nettezza urbana con le pompe per lavare e la piazza torna ai cittadini. Nel momento del passaggio tra il mercato e la vita di tutti i giorni, anni fa, ho assistito a una scena interessante: attirato dagli odori del mercato, un grosso topo uscì da un tombino per cercare di mangiare qualcosa. A distanza c’era un gatto tigrato, tipico gatto romano, che vide il topo ma si girò dall’altra parte, per non essere costretto a intervenire. Le dimensioni del ratto lo avevano indotto a lasciar perdere. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

Il mercato Ballarò di Palermo, il più antico della città, nel quartiere dell’Albergheria


Il mercato di Campo de’ Fiori a Roma, ai conÔni dei rioni Parione e Regola

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laboratorio (aliMentare) italiano di Roberto Alajmo

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allarò è il mercato più ventrale di Palermo. Non turisticamente usurato come la Vucciria. Non architettonicamente distinto come il Capo. Ventrale: nel senso che l’umore biliare di Palermo si misura soprattutto in questo caos organizzato, dove i turisti in cerca del genere molto pittoresco si avventurano di rado. Il nome deriva a quanto pare da Balhara, un antico villaggio dal quale provenivano la frutta e gli ortaggi che qui venivano messi in vendita. Nel cuore di Ballarò nacque Giuseppe Balsamo, sedicente Conte di Cagliostro, l’esemplare umano che meglio rappresenta l’indole mistificatoria dei siciliani peggiori. Il fascino attuale di Ballarò consiste nell’essere un osservatorio puntato sul futuro probabile dell’Italia e del mondo. Un futuro in cui i colori delle persone sono destinati a mescolarsi anche oltre le intenzioni di ciascuno. Ballarò è il mercato multietnico di Palermo, quello in cui indigeni e immigrati si relazionano quotidianamente. Non si mescolano del tutto, ma nemmeno si limitano alla fredda tolleranza: convivono. Senza affettazioni, senza buonismi, senza clamorosi strappi di integrazione. La bancarella del tunisino e quella del fruttivendolo locale si trovano fianco a fianco. Sarebbe strano un atteggiamento diverso, da parte dei siciliani, visto che qui, nel quartiere dell’Albergheria, gli stranieri extracomunitari, i Nivuri, sono venuti ad abitare quando nel centro storico i Cristiani non ci volevano stare più. Palermo: forse l’unica città al mondo dove i ricchi preferiscono vivere nelle banlieue, e il centro storico è lasciato ai diseredati. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

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FirenZe

Dritti Dritti nel girone Dei golosi di Marco Vichi

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l mercato Centrale di San Lorenzo fu progettato intorno al 1870 dall’architetto Giuseppe Mengoni – lo stesso che ideò la Galleria di Milano – dopo la distruzione del mercato Vecchio (dove, al posto dell’antico ghetto ebraico, fu realizzata piazza della Repubblica, forse una delle piazze più brutte d’Italia). È un edificio imponente e piacevole, a due piani, dove spiccano il ferro, il vetro e la ghisa (una modernità per l’epoca), ispirato alle antiche Halles di Parigi. A piano terra troviamo le “botteghe” dei pizzicagnoli, le pescherie e le macellerie, che nel tempo sono assai cambiate: quando ero ragazzo erano più semplici, più popolari, e camminando tra i banchi si aveva quasi l’impressione di essere in un tipico mercato all’aperto. Adesso invece troviamo una specie di galleria di boutique del gusto eleganti e luminose, dove si possono trovare vini pregiati, formaggi francesi dai prezzi imbarazzanti, cacciagione e carni particolari, salumi di ogni parte d’Italia, pasta di ogni colore e forma, marmellate specialissime, insomma la via principale per arrivare dritti dritti al girone dei golosi. I banchi del pesce, riuniti tutti in un’unica zona, conservano però un’aria più antica, con i pesciaioli che si scambiano battute a voce alta, non di rado sotto lo sguardo curioso di stranieri che non capiscono una parola. Ma la zona rimasta più simile al passato è certamente il primo piano, riservato a frutta e verdura, che soprattutto in certe stagioni esplode di colori e di profumi, un vero spettacolo per gli occhi e per l’olfatto. Ed è qui che si può cogliere appieno la bellezza della struttura, la sua parte più leggera, con gli alti soffitti e le grandi vetrate che anche in inverno lasciano passare una bella luce. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

Il mercato di Porta Palazzo a Torino, il più grande d’Europa all’aperto


Il mercato Centrale di San Lorenzo a Firenze, progettato intorno al 1870

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io, tentato Dal CarreFour express di Paolo Giordano

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ono stato addestrato a fare la spesa al centro commerciale. Per anni ho difeso quell’abitudine e i suoi corollari – la praticità, l’insalata già lavata, il parcheggio ampio, l’assenza dei vincoli stagionali e di contatti umani –, giudicando con sprezzo chi perdeva tempo fra bancarelle e botteghe. La spesa era soprattutto un fastidio da sbrigare in fretta. C’entrava anche il mio carattere, credo: soffro i posti dove si grida molto e dove bisogna sgomitare per difendere il turno. Il mercato non faceva proprio per me. Manco a dirlo, la donna che ho incontrato e con cui ora vivo non concepisce neppure l’idea astratta di centro commerciale. Ha una serie intricatissima di riti personali riguardanti la spesa e tutti quanti ruotano attorno al mercato del quartiere. Una mattina, appellandosi alla flessibilità del mio mestiere, ha detto «da oggi la spesa la fai tu». Mi ha affidato un umiliante carrellino e indicazioni dettagliate sui prodotti e i banchi. Ho camminato fino al mercato, rimuginando, e poi mi ci sono trovato in mezzo. Ero disorientato, lento, sentivo la tentazione dal Carrefour Express nei paraggi, ma temevo la punizione. Ho estratto il foglietto e seguito le istruzioni. Con il tempo ci ho preso la mano. Adesso conosco le stagioni di alcuni ortaggi e mi permetto azioni prima impensabili, come assaggiare l’uva senza averla acquistata o inquisire il contadino sul fatto che i suoi spinaci siano davvero teneri come promette. Ho imparato anche a prendermi certe libertà surrettizie, eleggendo a miei alcuni banchi che la mia ragazza disdegnava e azzeccandoci pure, qualche volta. Il mio criterio, lo ammetto, discende ancora dalla vita antecedente: prediligo i venditori poco chiassosi, quelli dove non va nessuno, insomma. Ho il sospetto che non sia la scelta migliore, ma è un inizio. Sto ancora imparando. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

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milano

dalle acciugHe alla granadilla di Andrea De Carlo

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a bambino a volte accompagnavo mia madre al mercato comunale di Porta Ticinese, dove osservavo un venditore siciliano staccare da una grande latta le acciughe sotto sale, rigide, iridescenti. Le arance e i limoni sulle bancarelle portavano colori vivi nel grigio e nella luce filtrata della città industriale. I comparti all’interno del mercato coperto vendevano ai clienti della Milano popolare gli ingredienti della loro cucina tradizionale: riso, verze, cavoli, ossibuchi, lingue di bue, cervella, animelle, nervetti, salami, formaggi molli. Il mercato comunale è ancora lì, ma è cambiato. I venditori alle bancarelle esterne vengono dall’Ecuador o dal Bangladesh, e vendono a clienti sudamericani e nordafricani e asiatici banane verdi da forno, avocado, tuberi di eddo e yam, radici di ginger. Dentro i colori, le forme e i nomi dei frutti sono ancora più sorprendenti: piccoli cumuli di feijoa, salak, sapodilla, mangustan, pepino, pitaya gialla e rossa, physalis, tamarillo, maracuja, curuba, granadilla, guava, carambola, kiwano, lulo, litchi, cirimola, mangosteen, pitahaya della Colombia, peperoncini molto rossi e molto verdi, potenti. I panettieri vendono pane arabo più che michette, e sacchi di piccoli fagioli scuri del Cile, farina di manioca, cuscus. I macellai espongono ali di pollo, cuori, fegati, reni, orecchie di maiale. Nel reparto dei formaggi, ultimi custodi della milanesità originaria del luogo, venditori in camice bianco dispensano stracchini e gorgonzola, pallido grana padano. Fuori, a poche decine di metri, l’antico porto della Darsena è trasformato in una putrida palude, a testimonianza di generazioni di cattive amministrazioni, e di come una città ricca di elementi vitali e interessanti sia incapace di esprimerli in modo organico, e di amare i propri cittadini. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA


Il mercato ittico di Milano, il più importante d’Italia per la vendita del pesce

Il mercato del Borgo di Sant’Antonio a Napoli, detto anche “Bùvero”

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il piacere di perdere ’o tiempo di Erri De Luca

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nizia al buio qualunque mercato del mondo. In mezzo alla notte nei magazzini generali si carica e si scarica l’acquisto destinato al dettaglio. Uomini arrugginiti dal sonno si procurano il prodotto da esibire sui banchi. Il mercato, come il teatro, ha un sipario dietro il quale si allestisce la scena. È il posto più cordiale per l’incontro del genere umano, per un loro scambio in mezzo all’uguaglianza di una piazza. Nei grandi magazzini in fila col carrello ognuno è solo con la propria spesa: una strisciata alla macchina del prezzo, uno scivolo dentro un sacchetto, il pagamento e avanti un altro. Al mercato evviva l’opposto: si grida, si cantano e si vantano le merci, si chiama il passante, si offre l’assaggio, si contratta il prezzo. “Tengo le alici freeee schè”. “Queste olive so’ pietre ’e zucchero”. “So’ asciuti i friarielli”. “Rose e che belle rose”. Mentre il giorno si alza, si alzano le voci. Le donne sono le più capaci a vendere e a comprare. Gli uomini che vivono da soli, detti single per distinguerli dalle confezioni monouso, sbagliano spesa e girano spaesati. Li irrido perché sono dei loro. Viva le bancarelle del Sud e del Nord: un giorno su un mercato in Finlandia ho comprato delle patate solo perché erano di varietà “Van Gogh”. Il mercato di Napoli è per me quello della domenica, dove è abolito anche il vago pretesto della fretta. Intorno ai colori squillanti di richiami è bello, sano e giusto perdere ’o tiempo. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il trIonfo del meltIng pot di Lilli Gruber

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iazza delle Erbe è il luogo simbolo del melting pot sudtirolese. E non solo perché sui banchi del coloratissimo mercato la frutta tropicale convive con le castagne, ma soprattutto perché in quella piazza si può apprezzare il mosaico delle diverse identità che rende così unica Bolzano. Dietro quei banchi capita di sentir parlare il Südtiroler Deutsch dei masi di montagna, ma anche il veneto e persino il calabrese. O almeno, capitava quando io ero bambina, perché adesso, anche in piazza delle Erbe, la gamma dei linguaggi si è di molto arricchita. I nuovi commercianti di frutta e verdura, ma anche di vino e formaggi, fiori e pollame, sono indiani, pakistani e persino finlandesi, il che provoca qualche mal di pancia a chi si occupa di marketing turistico ma conferma la vocazione multiculturale di Bolzano, che tra le città italiane ha uno dei più alti tassi di immigrazione straniera accompagnati dai migliori standard di integrazione. Era stato il conte Mainardo II che nel 1277 aveva fatto abbattere le porte e le mura della città e, dopo aver ricoperto il fossato, aveva creato questa stretta e lunga spianata alla quale mi legano molti ricordi. Fu in piazza delle Erbe (Obstplatz) che Alexander Langer negli anni ’70 organizzò la manifestazione in cui per la prima volta si ritrovarono insieme studenti di lingua italiana e di lingua tedesca. Era un sit-in per protestare contro la retorica del 4 Novembre, festa della Vittoria (che per metà della popolazione coincideva con la sconfitta). Da quel giorno la ricorrenza fu dedicata anche alla memoria di tutti quelli che erano caduti nella I e nella II guerra mondiale, da una parte e dall’altra. In piazza delle Erbe, mi pare al civico 38, fu aperto in quegli anni anche il primo consultorio dell’Aied, l’associazione per l’educazione demografica, frequentato da centinaia di giovani donne. Lì si discuteva di contraccezione e diritti femminili. E se non ricordo male, il tabacchino da cui si servivano le più grandi vendeva ancora le sigarette sciolte. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

Il mercato di piazza delle Erbe (Obstplatz) a Bolzano


Il mercato di via Pescherie Vecchie a Bologna

bologna

Una vera boUtIqUe del cIbo di Pupi Avati

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ia Drapperie, degli Orefici e Pescherie Vecchie, praticamente il cuore di Bologna, a due passi da piazza Maggiore, me le ricordo, certo. Da quelle parti c’erano ed esistono tuttora delle vere e proprie boutique dell’alimentazione. Un tempo non per tutti, ma solo per le famiglie borghesi che potevano spendere. Si andava da Tamburini, il re dei tortellini e della mortadella, simboli della mia città, e subito dopo da Alcisa, dove trovavi la mortadella d’asino. Di fronte, il pastificio Atti. In questo paradiso del gusto, sono gli odori, i profumi ad attirarti: in autunno, per esempio, è da provare un negozio con i migliori funghi porcini dell’Appennino bolognese. C’è da dire che in questi mercati alimentari si trovano le eccellenze dell’alimentazione italiana. Per esempio, dove un tempo c’era il cinema Eliseo, oggi una libreria – teatro del mio infelice debutto cinematografico col film Balsamus, l’uomo di Satana – mi ricordo di una formaggeria con una invitante burrata pugliese. Man mano che ci si addentrava tra i vicoli, si scopriva una Bologna più verace, dove il mercato, pur riempiendosi di gente, conservava il tipico pudore emiliano: non è mai stato il nostro un mercato urlato. Riconoscibilissimo sì, grazie ai consigli dei venditori, e imprevedibile. La sorpresa per me, ragazzino undicenne, è stata mangiarmi per la prima volta un sandwich con gamberetti e maionese: l’eccezione. Per il resto, i mercati sono rimasti un mondo a parte, per fortuna. Ma l’avevo già capito 40 anni fa, quando, in veste di capo-area della Findus, cercavo di convincere le pescherie del centro a fornirsi di moderne celle frigorifere: mi respingevano, come un barbaro alla corte della tradizione. Í © RIPRODUZIONE RISERVATA

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