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Il dolce in Sicilia si declina solo al plurale. Il singolare non sarebbe capace di contenere quelle incommensurabili dosi di zuccheri: più del miele, più di qualunque altra dolcezza estrema conosciuta in continente. Al solo pensiero dei dolci siciliani la glicemia schizza alle stelle e la salivazione si prepara a contrastare l’arrivo d’una dose eccessiva di sostanze zuccherine.
L’estetica tumultuosa che distingue la Sicilia in ogni sua espressione raggiunge l’apice nella pasticceria, dove fa ricorso alle colorazioni e alle preparazioni più estreme. Non a caso è probabilmente questo il settore nel quale, più che in ogni altro, si è sedimentato un gran numero di influenze culturali e di usanze dai più svariati angoli di costa del Mediterraneo. Dolci al plurale, sottolineo, perché la domenica, che è giorno dolce per antonomasia, porta con sé il rito della guantiera: vassoio di cartone riempito a dismisura di paste e pasticciotti d’ogni forma e colore, nel sincero sforzo di venire incontro ai gusti di tutti i commensali. I dolci in Sicilia si comincia a mangiarli con gli occhi. Quando ero piccolo non avevamo la televisione a colori, ma le vetrine delle pasticcerie erano uno spettacolo unico per luminosità e cromia. In Sicilia ogni ricorrenza religiosa è legata a un dolce. Anche la meno popolare, che non gode della notorietà sul calendario, vanta degli adepti. E sta a loro prepare il dolce consacrato a quel giorno. L’elenco è lunghissimo: la cuccìa per Santa Lucia, i biscotti per San Martino, le sfingi per San Giuseppe, la cubbaita per Santa Rosalia, le minne di Sant’Agata... Non avendo fretta, sarebbe facile assegnare a ogni santo del calendario il dolce di sua esclusiva pertinenza.
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sguardo complice: in un modo o in un altro avremmo fatto cadere a terra, in pezzi, uno dei pupi. Non per cattiveria, era anzi l’unico modo, per molti fra noi, di avere accesso a quel dolcissimo tesoro. Durante l’estate la dolcezza annunciava il suo arrivo con un fischio lungo e ripetuto. A bordo di una piccola Ape o di una bicicletta, il gelataio aveva un fischietto quale unico mezzo di richiamo. La mattina distribuiva granita, il pomeriggio gelato. Al suono del fischietto, lungo strade ancora deserte calavano quasi per incanto i cestini di vimini, dai piani superiori delle case, con all’interno i bicchieri da riempire di granita. Un catalogo di bicchieri spaiati e sbeccati, antichi contenitori di Nutella, qualcuno osava una tazza, i più golosi azzardavano boccali da birra. La colazione con la granita, più che un pasto, è un vero e proprio rito che in molti si sono provati a regolamentare. Accreditato dalle varie scuole era che la granita andasse accompagnata con il pane, preferibilmente tiepido, e che ideale fosse la mafalda, anche se io ci preferivo addirittura il pane di grano duro. Il risultato è un alternarsi di dolce e salato, di caldo e freddo, che ha pochi eguali. Non dimenticherò lo shock subìto uno dei primi giorni che arrivai in Piemonte.
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A Licata, ed è un tratto peculiare, manca il dolce del patrono, Sant’Angelo, ma nella fiera che si celebra in suo nome, protagonista è il torrone di mandorle: dolce per mandibole muscolose e denti sani. Il massimo tripudio di dolcezza e di colore è assegnato, di nuovo l’eccezione, non a un santo ma a un giorno, il 2 novembre: il giorno dei morti. Nel resto del Paese i morti si commemorano, in Sicilia si festeggiano. Non è una ricorrenza come altre. In quella data più che mai s’intrecciano influenze pagane e religiose, e culture varie. Quel giorno i morti (anime dei defunti) regalano ai bambini giocattoli e dolci. Giocattoli secondo il variare delle mode: a lungo, pistole per maschietti e bambolotti per le femminucce. Per i dolci due sole coloratissime varianti: frutti di Martorana e pupi di zucchero. Proprio di fronte a casa di mia nonna vi era il piccolo laboratorio dove la moglie d’un pasticcere realizzava pupi di zucchero. All’avvicinarsi del 2 di novembre chiamava a raccolta i bambini del quartiere, me compreso, perché l’aiutassimo a dipingere quelle dolcissime statuette a forma di paladini di Francia o personaggi dei cartoni animati. In capo a qualche ora di lavoro, dentro quell’antro profumato di zucchero e vaniglia, scambiavamo fra di noi uno
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Ancora la scuola non era iniziata, e mi godevo quei giorni di libertà in bicicletta, per le strade del quartiere che esploravo curioso. Non incrociavo altri bambini, nessun capanello, nessuna partita a pallone, nessuna voce infantile di chi improvvisasse giochi per la strada. Decisi di non abbattermi: stavano tutti in altri luoghi, certamente, per me ancora da esplorare. Anche il Piemonte mi avrebbe regalato momenti di gioia e caldi scenari. Volendo dissetarmi, decisi di entrare in un bar per una granita. Mi avvicinai al bancone, e m’indicarono la cassa. A Licata la cassa nei bar neanche c’era, i soldi venivano riposti in un cassetto. Regole nuove: mi sarei adeguato. Munito finalmente di scontrino, potei effettuar l’ordinazione, e fu lo scandalo. Sotto i miei occhi il barista prese del ghiaccio, lo tritò con un rumore insopportabile e aggiunse uno sciroppo di limone. Seguivo ogni gesto sbalordito, con incredulità. Ma veramente stava accadendo tutto questo? E io, cresciuto a pane e granita, adesso che dovevo fare? Assaggiarla forse? Quel che mi stupiva ancor più era che nessuno degli altri clienti dicesse nulla: seguivano la scena con distacco, come fosse cosa del tutto normale. Ero forse vittima di uno scherzo, di una truffa? No, era il Piemonte. Furono queste le prime avvisaglie che avrei dovuto fare i conti con la realtà:
non ero più in Sicilia e anche le cose più banali ma a me care, come la granita, sarebbero state un semplice ricordo. Forse anche per questo episodio, il ricordo della granita è impresso ancor di più nella mia mente. Negli anni Ottanta, in molti ristoranti, compresi quelli in cui lavoravo io, si serviva il sorbetto al limone a fine pasto o fra un secondo e l’altro. Dal canto mio lo detestavo e non ero contento di prepararlo. Per riscattarmi ed evocare il ricordo del gelataio che colmava di granita i bicchieri che gli venivano calati dai balconi, nel mio ristorante offro la granita come predessert: servito, ora come allora, nel più semplice bicchiere. Tiranno assoluto fra i dolci della domenica è il cannolo di ricotta. Antico e famoso dolce della millenaria pasticceria siciliana, immutato nei secoli. Capolavoro di croccantezza nella buccia e voluttuosa, serica morbidezza nel ripieno di ricotta. Cultore e amante della buccia più che della ricotta, ho concentrato le mie attenzioni su questa, per farne un contenitore delicato. Ne ho cambiato la forma per renderlo più comodo da mangiare con le mani, e per disporlo nei piatti di un ristorante gourmet. Impresa, sino a quel momento, impossibile. Prima trasformazione è stata quella da cannolo a cono, con pistacchi, marmel-
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circolo sedie di varie fogge, colori e dimensioni, si chiacchierava per ore. Se la visita si prolungava più del previsto, era bene rifornirsi di qualche alimento, per sfamare tutti. Ai piccoli venivano date indicazioni e soldi per andare in pasticceria e comprare il necessario. Alcune volte era però mio padre a chiamare me da parte e ad affidarmi questo grave compito. Tornavo a casa con due enormi guantiere fra le mani. Una calda, stracolma di arancine, l’altra fredda con sopra i pezzi duri di gelato: cassata o zuccotto, tagliati a fette.
I dolci della domenica
lata e canditi prelibati, per darle forma e sostanza di vera cornucopia. Il dolce legato alle feste principali, quando parenti vari e famiglia siedevano alla stessa tavola, è il profiterole. Troppo sontuoso e troppo caro per un singolo nucleo familiare, la sua presenza si giustificava, forse, nelle ricorrenze più importanti. Ma i dolci della domenica avevano un’imprevista appendice, la sera d’estate. Al tramonto, con la sospirata tregua dalla canicola, si andava a fare visita ai parenti. Salotto di casa in cui inscenare tali consessi familiari era la strada, proprio di fronte all’uscio. Qui, sistemate a
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