Negroni Cocktail, Anima mente e cuore

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Anima, mente e cuore gin, bitter e vermouth



GIN

Lo spirito nobile Per la sua potenza alcolica e per la sua caratteristica nota speziata, diversa a seconda del produttore, il Gin è la struttura portante del cocktail Negroni e il suo primo elemento essenziale. Nato in Olanda, questo distillato ha raggiunto il successo planetario passando dall’Inghilterra e dalle sue colonie.

Cartolina promozionale dell’american bar dell’Hotel Baglioni a Firenze, risalente agli anni del Dopoguerra. Il Gin Gordon’s, molto diffuso in Italia già nei primi anni del Novecento, appare qui simbolicamente come ideale partner del barman per i suoi cocktail.

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All’origine, il ginepro Si narra che il Gin sia nato in Olanda da uno speziale, una sorta di farmacista antesignano, di nome Franciscus Sylvius o De Le Boë, medico e professore all’Università di Leida. Grande conoscitore della farmacopea antica e dei trattati di medicina galenica, Sylvius era esperto di erbe che raccoglieva e studiava per ricavarne estratti che avevano lo scopo di guarire o quantomeno curare vari malanni. Verso la metà del Seiecento mise a punto un preparato alcolico a base di ginepro che chiamava “acqua di vita” o acquavite di ginepro. In olandese Jenever.

Il ginepro (Juniperus communis) è una conifera arbustiva della famiglia delle Cupressacee che cresce in luoghi silvestri. I suoi coni, le cosiddette “bacche”, sono stati raccolti fin dall’antichità e usati come rimedio antisettico, contro i disturbi digestivi, per le malattie respiratorie e delle vie urinarie e anche per curare i reumatismi. Le bacche di colore bluastro del ginepro, considerate quasi magiche per questo insieme di proprietà curative, sono ancora oggi l’ingrediente principale di ogni Gin. Il loro odore è resinoso, pungente, persistente. Il sapore amaro, astringente e molto speziato. Una rivendita di Gin ai tempi del Gin Craze in una stampa d’epoca.

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Incisione realizzata da William Hogarth nel 1751 a sostegno di una campagna contro l’abuso di Gin da parte della popolazione povera di Londra.

L’alcol e la legge La storia del Gin ha però passato anche periodi bui. Tra il XVII e il XVIII secolo, quando i rapporti commerciali tra Olanda e Inghilterra erano molto stretti e si contavano migliaia di olandesi residenti a Londra, l’antesignano del Gin, il Jene-

ver olandese, era molto diffuso nella capitale, tanto da essere ribattezzato Dutch courage. Una svolta nella produzione e nel consumo di alcolici in Inghilterra si ebbe a quel tempo con la salita al trono di Guglielmo III d’Orange, che nel 1689 succedette a Giacomo II. 189


Essendo di origine olandese e avendo vissuto in prima persona l’invasione della sua terra nativa da parte dei francesi nel 1672, una volta divenuto re bloccò tutte le importazioni di alcolici dalla Francia con il noto Distilling Act del 1690. L’emanazione di questa legge innescò un processo a catena che ebbe come risultato una catastrofe sociale. Infatti, mancando le importazioni di prodotti come Cognac, Brandy e vini, permise senza troppi controlli una produzione libera di distillati alcolici che invasero il mercato interno. Ognuno senza licenza distillava tranquillamente e nella sola Londra i consumi di alcol avevano raggiunto volumi spaventosi. Iniziò così un periodo tristemente famoso con il nome di Gin Craze o Gin Madness, dettagliatamente illustrato in un famoso quadro di William Hogarth del 1751, che portò a problemi di ordine pubblico e crisi delle strutture sanitarie, tanti erano i casi di alcolismo e follia. L’industria in pieno sviluppo giunse quasi alla paralisi, le condizioni igieniche erano disperate. Si contavano più decessi per l’alcol che per la malaria. 190

Il Governo intervenne drasticamente emanando The Eight Gin Acts, una serie di leggi la più famosa delle quali fu quella del 1736 che istituì una tassa di 50 sterline per l’acquisto di una licenza per la distillazione. Pochi potevano permettersi una cifra così alta. Le prime aziende a regolarizzare furono Finsbury nel 1740 Booth’s nel 1742, Greenall’s nel 1761 e Gordon’s nel 1769. Nei decenni successivi la Rivoluzione industriale richiamò migliaia di lavoratori dalle campagne e questi diedero vita ai così detti Gin palace, luoghi ricreativi dove in qualche maniera l’attività di distillazione illegale in minima parte continuava. Per eludere i controlli, a questi alcolici illegali venivano dati nomi di fantasia tipo the no mistake, the real knock me down, the young Tom e così via. La qualità del Gin comunque migliorò, grazie anche al progresso tecnologico e ai controlli sempre più severi. Nello stesso periodo il governo inglese diminuì la pressione fiscale sulla birra, agevolandone il consumo in diversi locali che col tempo si trasformarono in pubblic house o, se preferite, pub.

A fronte, sulla sinistra: cartellone pubblicitario del 1910 che sanciva il sodalizio ormai consolidato in America tra Gin e Vermouth in una locandina promozionale per l’Europa. Da notare il bicchiere di servizio della mistura, che riprende il concetto della nascita del Negroni.


In alto a destra, una vecchia pubblicità del Curtis Gin recita: «Il Gin senza parallelo. Coloro che sanno conoscono Curtis Gin in tutto il mondo», a dimostrare l’internazionalità di questo distillato.

Trovata la sua giusta dimensione, il Gin uscì dai confini dell’Inghilterra per giungere in ogni colonia inglese e in ogni porto commerciale. In America ebbe subito larga diffusione, tanto da essere un elemento di spicco nei vari periodi della storia della miscelazione: dalla punch era fino alla Golden age of cocktails all’inizio del Novecento.

L’attuale offerta di Gin Oggi sul mercato troviamo molte etichette di Gin che in base alle scelte che facciamo possono determinare strutture ben diverse da cocktail a cocktail. Se volessimo provare a clas-

sificare in maniera generica il Gin, potremmo suddividerlo in diverse categorie in base alla provenienza e alle metodologie di produzione. Il più diffuso è indubbiamente il London dry Gin che viene fatto prendendo un alcol a grado pieno e aromatizzandolo con bacche di ginepro e botanicals. Con questo termine si indicano una serie di erbe, radici, foglie, fiori o altre sostanze vegetali che formano il pacchetto aromatico che caratterizzerà il Gin e che sarà sempre diverso da tutti gli altri. Questo Gin è secco, netto e pulito, talvolta ha gradazione 191


alta e viene detto London cut. Rispetto agli altri, la differenza sostanziale sta nel processo di lavorazione delle botanicals, che devono essere distillate in un’unica volta. Un altro Gin molto diffuso alla fine dell’Ottocento è l’Old Tom Gin, rotondo e profumato, che ha generato numerosi cocktail tra cui il Tom Collins e il Martinez. Questo tipo di Gin, che si rifà allo stile morbido del Gin olandese, ha un piccolo residuo zuccherino aggiunto che lo rende piacevolmente amabile. Degno di nota anche il Plymouth Gin, nato nell’omonima città portuale del Devon, che veniva usato dai marinai delle baleniere in partenza per i mari del Nord. Tradizionalmente ad alta gradazione alcolica, è un Gin leggermente abboccato grazie

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a una selezione di botanicals dalle sensazioni “dolci”. Il Gin olandese o Dutch Gin o più comunemente Jenever è un antico distillato che veniva imbottigliato in contenitori di terracotta. Sul mercato oggi ne troviamo due tipologie principali: jonge cioè giovane, non invecchiato, e oude, cioè invecchiato in botti di legno. Quello che caratterizza il Jenever è la scelta dei cereali distillati che donano delle fragranze molto rotonde al prodotto finale. Negli ultimi vent’anni, sui mercati mondiali il Gin ha avuto una riscoperta notevole ed è ritornato ad avere nel rating mondiale il posto che merita. Questo fenomeno di rinascita ha portato alla riscoperta di vecchie etichette e alla nascita di nuovi brand che al di fuori dell’Inghilterra hanno iniziato un percorso qualitativo diverso dallo stile inglese. Il cosiddetto Distilled Gin è prodotto usando differenti sistemi di distillazione (Carter Head, Bennet, Small batch), dove in ogni ciclo di distillazione ci possono essere sia tutte le botanicals sia una o più componenti separate. Al termine di questo processo, i vari componenti alcolici aromatici sono assemblati, cosa che è vietata per il London dry.

Etichetta della metà del Novecento che testimonia della produzione di un Gin da parte dell’azienda Campari. A fronte, questa pubblicità del 1910 sottolinea come l’accoppiamento fra Vermouth italiano e Gin inglese sia perfetto per l’aperitivo.


Infine due parole sul cosiddetto Cold Compound Gin nel quale non è obbligatoria una ridistillazione dell’infuso alcolico, ma si può utilizzare la base neutra di un distillato di qualitĂ al quale si aggiunge la componente

botanica (anche in cicli di distillazione differenti e separati) e, dopo avere raggiunto il punto ottimale di estrazione degli aromi e delle sostanze, si filtra il composto alcolico senza doverlo ridistillare come negli altri casi. 193


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Bitter Unico e italiano

La storia e l’evoluzione di questo prodotto così straordinario sono un vanto nazionale. Il merito va all’azienda Campari, che da un secolo e mezzo lavora in tutte le direzioni per il successo del Bitter. Sul banco del Casoni, il primo Negroni fu miscelato con il Bitter Campari e da allora questo binomio ha riscosso un successo planetario. Prima etichetta del Bitter Campari, dell’anno 1880 circa, a firma di Gaspare Campari. Sotto lo stemma si nota il motto Je maintendrai, sinonimo di tenacia e determinazione.

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Le radici di un successo La creazione del Bitter Campari si deve a un capace erborista e liquorista vissuto tra Otto e Novecento, in un periodo in cui in Piemonte erano in gran voga il Vermouth, alcolici di ispirazione galenica e curativa e altri liquo-

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ri dolci che venivano chiamati “rosoli”, “ratafià”, “elixir”. Il nome dell’inventore del Bitter è Gaspare Campari, nato nel 1828 a Cassolnovo in provincia di Pavia. Ultimo di dodici figli di una famiglia contadina, Gaspare partì giovanissimo per la città

Ritratto di Gaspare Campari, 1870 circa. Sotto: il moderno packaging del Bitter Campari. Talvolta l’azienda, sfruttando l’enorme archivio storico, riprende alcune immagini di vecchie pubblicità per creare nuove etichette da limited edition che impreziosiscono il valore dell’oggetto.


La sede Campari a Sesto San Giovanni, in una foto d’epoca.

di Torino in cerca di un lavoro che trovò nel famoso caffè e liquoreria Bass. Dopo un periodo di tirocinio, in cui sviluppò la conoscenza delle botanicals, si spostò al famoso ristorantecaffè Del Cambio come maître liquorista. All’epoca il Cambio era frequentato da nobili e po-

litici, compreso il Re Vittorio Emanuele II. Cavour aveva un tavolo sempre riservato vicino alla finestra di fronte al suo ufficio situato nel palazzo Carignano, allora sede del Governo e oggi cornice del Museo del Risorgimento. Gaspare decise poi con la mo-

Due immagini dell’attuale sede Campari: sui muri esterni sono stati riprodotti, con un gioco di mattoni, due bozzetti di Fortunato Depero.

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glie, che perderà tragicamente durante il parto, di trasferirsi a Novara, dove lavorò al Caffè dell’Amicizia, che successivamente acquisterà. E finalmente, nel 1860, fondò la sua Fabbrica di Campari Gaspare liquorista e iniziò a produrre l’Elixir di lunga vita, l’Olio di Rhum, il Rosolio, alcuni estratti e sciroppi. Mentre in gran segreto iniziava a sperimentare cinque o sei liquori di sua creazione, diversi da tutti gli altri. Sono questi i primi passi verso l’invenzione del suo celebrato Bitter. Le seconde nozze, con la milanese Letizia Gelli, furono in198

vece il preludio al trasferimento nella capitale meneghina, al definitivo successo e quindi alla nascita del binomio imprescindibile Campari-Milano. Gaspare Campari arrivò a Milano nel 1862, data che coincide con l’apertura della sua nuova bottega nel Coperto dei Figini e con l’inizio della produzione del suo Bitter uso Olanda, presentato come “liquore stomatico forte di alcol, amarognolo e di colore scuro”. La bottega si trovava a due passi dal Duomo, proprio dove presto iniziarono i lavori per la costruzione della Galleria Vit-

Sopra: fase di lavorazione del Bitter Campari durante la quale si fa la selezione e la pesa delle erbe in un’immagine d’epoca. A fronte: in alto i preparativi per l’imbottigliamento del Campari e, in basso, panoramica della distilleria in due rare immagini d’epoca.


mo cittadino milanese nato in Galleria. Il Caffè Campari s’impose in breve tempo come un posto di gran classe frequentato tra gli altri dagli scrittori Giacosa e Boito e dal compositore Puccini. Il suo Bitter Campari divenne così famoso da essere ben presto identificato come il Bitter tout court. torio Emanuele II, inaugurata il 17 Settembre 1867. Sopra il locale, proprio all’angolo della galleria con la piazza, Gaspare aveva anche l’abitazione dove il 17 novembre dello stesso anno nacque suo figlio Davide, il pri-

Il nuovo corso di Campari Il 17 Dicembre 1882 Gaspare Campari morì lasciando alla moglie Letizia e ai cinque figli un patrimonio stimato di circa mezzo milione. L’azienda di famiglia venne por-

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tata avanti da Davide, che dopo gli studi e un periodo di specializzazione vi si mise alla guida coadiuvato dalla madre Letizia e da Guido, suo fratello minore. La nuova ditta prese il nome di Gaspare Campari – Fratelli Campari successori. Da questo momento l’attività assunse un contorno diverso: da piccola 200

azienda a conduzione familiare a vera e propria industria, tanto che nel 1888 arrivò il riconoscimento del marchio di fabbrica dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, insieme a quello del marchio Bitter. Davide aveva un forte senso degli affari, era un ottimo imprenditore e ben presto il suo

Un celebre bozzetto di Fortunato Depero per Campari.


Un disegno in chiaro stile futurista di Depero simboleggia l’elegante signore che ha la chiave d’accesso per il segreto del Campari.

intuito nell’anticipare mode e costumi lo portò a migliorare la produzione, che incrementò progressivamente.

Per ampliare la sua conoscenza come liquorista viaggiava molto anche all’estero e per raggiungere nuovi mercati presentò 201


l’azienda all’Esposizione nazionale di Milano del 1881, che contò più di 7000 espositori e oltre un milione di visitatori. Questa operazione di pionieristico marketing proseguirà nel tempo, con la presenza ad altre grandi esposizioni, compresa quella Universale di Parigi del 1900 con ben cinquanta milioni di visitatori. In quell’occasione tra gli espositori c’erano anche altre eccellenze italiane della liquoristica come Buton, Martini & Rossi, Cinzano e Branca. Sono gli anni in cui il laboratorio, che contava dodici dipendenti, venne trasferito nei 202

pressi di Porta Genova, sempre a Milano. Qui Davide, insieme ai suoi collaboratori, si dedicò particolarmente allo studio di nuove confezioni dove servire i suoi prodotti. Anche nel design del packaging industriale mise così alla prova il suo fiuto per l’innovazione. Nel 1892 il laboratorio si trasferì in via Galilei, in uno spazio più grande dove prese vita il Cordial Campari, un liquore sopraffino a base di lamponi e alcol che ebbe un successo dilagante. Annoverato tra i liquori tipici dell’epoca, traeva ispirazione dalla tradizione dolciaria e li-

L’interno del “Camparino” nella galleria Vittorio Emanuele II a Milano, in una fotografia del 1925.


quoristica francese, allora molto in auge con prodotti come Chartreuse e Bénédictine. Ma l’idea più geniale avuta da

Museo Campari: una rara bottiglia degli anni Venti realizzata per il mercato americano. La scritta “per scopo medicinale” serviva ad aggirare il divieto che il XVIII emendamento o Volstead act aveva introdotto e che, di fatto, aveva dato origine all’èra del Proibizionismo.

Davide fu quella di ritoccare la ricetta segreta del famoso Bitter di suo padre, riducendone la gradazione alcolica, e di servirlo con il seltz. La concorrenza che seguiva le orme del celebre Bitter rimase spiazzata quando la scelta di Davide Campari creò di fatto un nuovo prodotto. Mentre la tendenza del mercato di allora era quella di proporre liquori stomatici digestivi da servire a fine pasto, il Bitter Campari si proponeva come aperitivo. Tante aziende di conseguenza cominciarono a stampare sulle etichette dei loro liquori la dicitura “Aperitivo-Digestivo”. Il Bitter Campari si distingueva però dal suo colore rosso carminio brillante, a fronte della maggior parte dei liquori dell’epoca che erano di colore scuro, giallo, rosa o trasparenti ma mai rossi. La scelta azzardata dell’ancor giovane Davide si dimostrò azzeccata e lungimirante. Il 1904 resta la data storica del trasferimento dell’azienda a Sesto San Giovanni, dove tutt’ora ha sede la Campari. Lo stabilimento, costruito rispettando lo stile liberty di certe abitazioni già esistenti e ancora visibili, era 203


moderno ed efficiente. La fabbrica si trovava proprio davanti alla linea del tram per Milano e quindi la condizione dei lavoratori per raggiungere il proprio posto di lavoro era privilegiata. In quegli anni la Campari perfezionò la propria organizzazione sul territorio nazionale, formando progressivamente una rete di depositi e distribuzione, e si dotò di agenti regionali che si occupavano delle vendite e davano un report sull’andamento commerciale di ogni zona. Nel 1910 la ragione sociale della ditta fu trasformata nell’acco-

mandita Davide Campari & C. che contava cinquanta dipendenti. Iniziava l’epoca delle sponsorizzazioni degli eventi sportivi e la Campari era presente nel calcio, nel ciclismo, nello sci e anche nei circuiti e sulle strade dove le prime macchine sportive iniziavano a rivaleggiare. Negli anni Venti e Trenta Campari lanciò campagne pubblicitarie di altissimo livello attraverso cartelloni e inserzioni su giornali, sulle maniglie dei tram milanesi e perfino su dodici fontane che fece costruire dallo scultore GiuUn prezioso disegno di Depero del 1927 per la pubblicità Campari.

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Straordinario disegno progettuale del 1928 che attesta la nascita dell’idea del flacone del Campari soda, un rivoluzionario packaging che ha dato l’avvio, nel 1932, ai prodotti sodati monodose.

seppe Gronchi per piazzarle in località dove, oltre alla promozione del marchio, si rendeva un servizio di pubblica utilità. Grandi nomi del design dell’epoca come Dudovich, Depero, Villa, Cappiello, Metlicovitz, Munari, Sacchetti, Negrin e tanti altri promossero Campari attraverso immagini divenute icone e apprezzate ancora ai giorni nostri. Altra data importante è il 1915, quando aprì il celebre Camparino, all’angolo opposto del vecchio Caffè Campari. Il locale venne dotato di un avanzato impianto di seltz che permetteva il perfetto servizio del Bitter Campari. Subito dopo la ditta dovette ridurre la produzione a causa del conflitto mondiale, ma nel dopo-

guerra riprese la sua crescita. Aprì filiali e agenzie in molte città italiane e stabilimenti a Nizza e Lugano, poi nel 1930 anche a Nanterre.

Il Campari soda Si giunge così al 1932, quando Davide ebbe il colpo di genio assoluto: proporre ai tanti estimatori il Campari perfettamente servito direttamente in una particolare bottiglietta, il cui disegno aveva commissionato a Fortunato Depero. Nasceva il Campari soda, il primo ready to drink aperitivo pre mix in bottiglietta conica, monodose e senza etichetta, poiché tutti i dettagli del prodotto erano stampati sul tappo a corona. Fu un’autentica 205


La famosa immagine d’après “Maga” di Severo Pozzati disegnata nel 1928 per la pubblicità del Bitter Bonomelli prodotto a partire dal 1920.

rivoluzione commerciale. La forma originale di questo flacone entrerà nella storia della comunicazione pubblicitaria. L’espansione della Campari era ormai inarrestabile e aprirono succursali addirittura a Buenos Aires. 206

L’avventura della globalizzazione del resto aveva già avuto inizio con i nostri connazionali emigrati, in particolare in Argentina e in Somalia, che furono i primi consumatori all’estero del Bitter Campari.

A fronte: oggetti “cult” della pubblicità del secondo dopoguerra italiano erano i posaceneri, onnipresenti sui tavolini dentro e fuori i bar di ogni città e paese. Questo raro esempio promuove il Bitter Moroni, prodotto da un’azienda di Sesto San Giovanni fondata nel 1843. Con Gamondi e Bonomelli, rappresentò la vera concorrenza al Bitter Campari fino agli anni Venti del Novecento.


Campari oggi Nel 1936 Davide Campari, ambasciatore del savoir vivre e perfetto esempio di imprenditoria ed eleganza, morì a San Remo. La Campari passò agli eredi che hanno saputo mantenere e incrementare questa azienda che oggi è un colosso multinazionale proprietario di brand importanti come Barbero, Averna e molti altri ancora. Nella nuova sede direzionale di Sesto San Giovanni, inaugurata nel 2009 e disegnata da Mario Botta e Giancarlo Marzorati, che hanno voluto riprendere le linee di alcuni disegni di Depero, trovano spazio il Museo Campari, il ristorante, il bar e l’Academy, un padiglione dedicato agli incontri didattici per professionisti e appassionati.

Il nome di questa azienda, legato a doppio filo con il cocktail Negroni, è un esempio e un orgoglio di italianità nel mondo.

Il Bitter nel primo Negroni La dinamicità commerciale che, come abbiamo visto, da sempre contraddistingue Campari ha permesso all’azienda milanese di affrontare in passato difficoltà e concorrenza. Non dimentichiamo che sul mercato della seconda metà dell’Ottocento c’erano anche altri Bitter, altrettanto validi, come Gamondi, Moroni, Martini, Bonomelli. Nessuno di questi, pur avendo un certo rilievo commerciale, ha però saputo contrastare la forza imprenditoriale di Campari. Così ai tempi del conte Camillo, a cavallo del 1920, l’ampia e regolare distribuzione del Bitter Campari, in particolare nei caffè di Firenze, è attestata da una vasta documentazione. Ed è fuor di dubbio che il primo Negroni fu fatto con il Bitter Campari.

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VERMOUTH Figlio del Vinum Hippocraticum Ginevra 1949: Martini & Rossi spediscono Vermouth in tutto il mondo usando i mezzi piĂš moderni per una distribuzione capillare.

Vino aromatizzato con artemisia e altre erbe officinali, contenente alcol e zucchero. Questa è la semplice definizione di un prodotto straordinario che, nella sua versione torinese, è il terzo ingrediente del cocktail Negroni.

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Le origini Il Vermouth ha un antenato illustrissimo: il vinum hippocraticum ideato dal medico Ippocrate di Coo che per primo mise l’artemisia in infusione nel vino bianco intorno al 400 a.C. Anche Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia scritta verso il 77 d.C., descrive la preparazione di diversi vini artificiali, vini cioè a cui si aggiungevano uno o più ingredienti: uno di questi era il vino d’assenzio, per cui era suggerito di usare Artemisia pontica o assenzio romano. Preparati con vino e assenzio sono inoltre citati negli scritti di Lucio Giunio Columella (De re rustica) e di Pedanio Dioscoride (De materia medica), ambedue risalenti al I secolo d.C. Nel corso del Medioevo, questi antichi manoscritti medici passarono tra le mani dei monaci che si cimentavano nella ricerca del rimedio perfetto per guarire i mali, e rimasero un punto di riferimento della farmacopea fino al Seicento. Anche in Inghilterra e in Francia troviamo testimonianza del vino d’assenzio, che talvolta veniva chiamato ippocrasso. In Germania si faceva il Wermut (o Wermuth) wein, da cui poi deriva il nome di Vermouth alla francese e Vermut all’italiana. 210

In Italia le prime tracce di produzione di un Vermouth risalgono al Settecento. Nelle campagne venivano raccolte erbe officinali dalle proprietà balsamiche che poi erano messe a macerare nel vino per un certo tempo. Infine il tutto era filtrato e addolcito: un metodo efficace per recuperare vini poco inclini alla conservazione che, debitamente trattati, davano comunque un buon supporto alle erbe aromatiche. Di Vermouth vero e proprio si parla per la prima volta in una pubblicazione del 1773 di Giovanni Cosimo Villifranchi, Oeno-

Pagine di formule segrete per fare Vermouth in un ricettario del 1906 della casa liquoristica Sebastiano Vanni di Santa Croce sull’Arno. Da notare come la liquoreria producesse più tipologie di Vermouth, da quello di Torino, il più prestigioso, a quello toscano (di Prato).


Manifesti pubblicitari di Cinzano (1909) e di Martini & Rossi (1912) che sottolineano i successi in campo internazionale. In basso: la tecnologia subentra nelle ultime fasi di confezionamento del Vermouth. Le prime etichettatrici meccaniche sostituiscono le donne che apponevano le etichette a mano. Le casse per le spedizioni, invece, sono ancora fatte a mano da esperti falegnami.

logia toscana. Qualche sgualcito ricettario di liquori riporta ricette di Vermouth in Sicilia, in Campania, in Lombardia e in Toscana, dove ancora oggi si produce il Vermouth di Prato rispettando un’antica ricetta con il vino bianco della piana pratese e le erbe raccolte sul Monte Albano.

Il Vermouth di Torino Ma il principe dei Vermouth è quello di Torino, fatto con vini piemontesi quali il moscato, il barbera e il nebbiolo, utilizzati anche per la correzione del colore. Questa nobile bevanda aveva la fama di “vino di lusso”, come riportato sul Dizionario enologico di Alfio Duro

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Pennisi del 1910. Aristocratici e altolocati amavano berne un calicino freddo nella pausa che precedeva il pranzo e la cena, perché era considerato un vino “da conversazione” che predisponeva perfettamente il corpo al cibo. Tradizionalmente il Vermouth di Torino è conosciuto come sweet red italian Vermouth e si contrappone al dry white french Vermouth, il Vermouth francese, che ha il suo capostipite nel Noilly Prat creato nel 1813: Gin and french e Gin and it erano due cocktail della categoria Martinis, fatti rispettivamente con Vermouth francese e Vermouth italiano. Il primo Vermouth di Torino messo in produzione fu quello di Antonio Benedetto Carpano,

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la cui ricetta risale al 1786 e grazie alla famiglia Branca rivive oggi nella prestigiosa Antica Formula. Molti altri produttori, alcuni ormai scomparsi, facevano Vermouth di Torino di grande prestigio e hanno avuto un’importanza di rilievo nell’export già nell’Ottocento, contribuendo a diffondere il Vermouth italiano in tutto il mondo. In particolare in America, come abbiamo visto, era distribuito e diffuso già a fine secolo. Si ritrova infatti in molte storiche ricette americane come il Manhattan e il Martinez. Tra le aziende storiche citiamo Cora, oggi non più in attività, che per un periodo è stata uno dei maggiori esportatori, insieme alle case Cocchi, Gancia, Cinzano e Martini & Rossi.

Pubblicità apparsa sulla “Illustrazione Italiana” nel 1929, che indica le ore dell’aperitivo: mezzogiorno e le sette del pomeriggio. In basso: locandina Gancia d’epoca che promuove il nuovo stile di Vermouth dolce bianco.


In alto a destra: etichetta storica del tradizionale Vermouth Torino di Giulio Cocchi. Al centro: rara etichetta del Vermouth di Torino Chazalettes. La casa, fondata a Torino da Clemente Chazalettes nel 1876, si è trasformata negli anni Sessanta in produttrice di liquori e bagne da pasticceria. In basso: una bottiglia da collezione del Vermouth Cinzano.

Le grandi aziende italiane L’azienda Cocchi, oggi di proprietà della famiglia Bava, fu fondata da Giulio Cocchi, pasticcere fiorentino che si trasferì ad Asti, nel 1891. Con poche risorse ma grande intuito commerciale egli seppe lanciare una ditta che, seppur piccola, ancora oggi gode di alta considerazione tra i barman e gli estimatori di Vermouth. L’azienda Cocchi, oltre al Vermouth di Torino e a quello amaro con doppia china, produce l’americano bianco e un ottimo barolo chinato, di cui fu inventrice. Gancia è uno dei tre colossi della produzione vitivinicola legata al Vermouth. Carlo e Edoardo Gancia furono i fondatori di questa prestigiosa maison italiana nel 1850. Si specializzarono nello studio della spumantistica, ispirandosi allo champagne francese. Oggi gli spumanti Gancia vengono elaborati nelle cosiddette “cattedrali sotterranee”, in aria di divenire patrimonio dell’Umanità UNESCO. A fine Ottocento Gancia iniziò a produrre Vermouth, occupando un posto importante sul mercato nazionale e nell’export; dobbiamo a Gancia il lancio del Vermouth bianco dolce nel 1915, ideato per un pubblico femmi-

nile che amava un prodotto più morbido. “Una vera delizia per signore”, recitava la pubblicità. Di importanza basilare nel mondo del Vermouth è la Casa Cinzano, oggi di proprietà Campari. L’azienda fu fondata nel 1757, anche se ci sono tracce di una licenza reale per distillare acquavite del 1707, e nell’Ottocento iniziò a produrre anche vini e Vermouth, diventando in

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breve uno dei marchi più diffusi a livello nazionale e internazionale. Tra Otto e Novecento promosse una campagna pubblicitaria di vaste proporzioni fondata sulla cartellonistica e sui muri dipinti scelti strategicamente sulle vie di grande comunicazione, avvalendosi di grandi firme dell’epoca, come ad esempio l’illustratore Leonetto Cappiello. Oggi Cinzano rivive la magia di un tempo attraverso la proposta della sua linea di Vermouth 1757 che annovera un classico “moderno” rosso, un bianco e un dry.

Martini & Rossi L’azienda leader più conosciuta in Italia e all’estero è però senza dubbio Martini & Rossi. Questo prestigioso marchio, assorbito nel 1993 dalla multinazionale Bacardi, è sempre stato in prima linea nel panorama mondiale come autentico baluardo del Made in Italy. Negli anni Settanta, quando il Vermouth sembrava destinato a scomparire, la Martini è stata la sola azienda a incrementare gli investimenti, non soltanto in tecnologie ma anche in pubblicità, immagine e ricerca. Famose le sue “terrazze 214

Martini” di Milano, Barcellona, Parigi, Londra e San Paolo, e la sua presenza come sponsor in sport di prestigio come il rally, l’offshore e oggi la Formula 1. Martini è un brand inconfondibile ai quattro angoli della Terra e identifica uno stile di vita moderno che si apprezza attraverso le sue rinomate pubblicità. La storia dell’azienda inizia nel 1847 a Torino quando quattro imprenditori, Carlo Re, Clement Michel, Carlo Agnelli e Emilio Baudino fondano la Distille-

Manifesto Martini & Rossi del 1890. Il Vermouth, considerato un “vino di lusso”, è bevuto da persone eleganti ed altolocate.


ria nazionale di spirito di vino all’uso di Francia. Successivamente entreranno nell’azienda Alessandro Martini, Teofilo Sola e il liquorista Luigi Rossi. La produzione del primo Vermouth risale al 1863 e in seguito, nel 1892, verrà prodotto anche il Bitter, un binomio che per la primordiale miscelazione italiana dell’epoca era molto in

voga. Dopo varie vicissitudini aziendali, alla morte di Sola nel 1879 nacque la nuova Martini & Rossi, che iniziò la scalata verso il successo planetario di cui gode ancora oggi. Molti furono i riconoscimenti e le medaglie conquistate nelle varie esposizioni internazionali. La Martini & Rossi si ingrandì aumentando progressivamente

Una famosa immagine di Armando Testa promuove il Punt & Mes, un Vermouth piuttosto chinato e perciò descritto con “un punto di amaro e mezzo di dolce”.

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L’illustrazione di Guido Petiti degli anni Cinquanta propone uno stile di vita sportivo e moderno “da dandy” per promuovere l’immaginario del Vermouth Gancia.

la produzione, che comunque manteneva a carattere quasi familiare, facendo del proprio stabilimento di Pessione, costruito nei pressi della stazione ferroviaria del piccolo paese nei dintorni di Torino dove ancora oggi risiede, un gioiello di tecnologia all’avanguardia. 216

Le esportazioni aumentarono, ogni anno nel planisfero una piccola bandierina era collocata su un nuovo paese fino a contare ben 70 stati raggiunti dai suoi prodotti nel 1899. Questa vocazione, che non ha mai perso nel corso degli anni, è stata supportata da campagne pub-


blicitarie di notevole interesse. Grandi disegnatori, fotografi e registi hanno dipinto bozzetti, fotografato immagini, registrato spot divenuti epocali. Tutto questo, oltre la qualità dei suoi prodotti, ha creato l’identità e l’immagine di un marchio inconfondibile. Martini & Rossi ha inoltre saputo creare nella propria sede un polo di attrazione importante, offrendo anche la possibilità di visitare un bellissimo museo, a fianco dello stabilimento, dove sono raccolti suppellettili, attrezzi e macchinari antichi. Oggi l’azienda produce varie linee di Vermouth, vini aromatizzati e liquori, e ha recentemente presentato una linea di prodotti di alta qualità denominati Martini Riserva Speciale rubino e ambrato, realizzati utilizzando vini tipici piemontesi ed erbe differenti per due Vermouth che hanno il compito di rilanciare l’azienda nel mondo della miscelazione di alto livello.

siamo citare Contratto, Bordiga, Scarpa, Anselmo, Riserva Carlo Alberto, Mulassano, Gamondi, Spertino e Distilleria Quaglia, che ha creato il Vermouth del Professore. Tra le aziende di una certa dimensione citiamo anche Toso, Perlino, Oscar, La Canellese, Torino distillati e Mancino Vermouth. Molti di questi produttori nel corso degli anni si sono avvalsi della collaborazione e dell’esperienza di celebri barman.

A voi la scelta Alla fine di questo lungo percorso, denso di storia, aneddoti e fascino, adesso è giunta l’ora di scegliere gli ingredienti per fare il vostro Negroni. Il Negroni che incontri i vostri gusti, che soddisfi i vostri desideri e che, come una pozione magica, aiuti a realizzare i vostri sogni. Salute!

Altri produttori Il panorama dei Vermouth italiani si completa con una serie di realtà di piccole e medie dimensioni che hanno saputo differenziarsi per la qualità dei loro prodotti. Tra queste pos217


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