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Piero Petroni
L'AUBERGO DELLA POSTA
Storie degli avoli Volume secondo
Edizione in Proprio ~3~
© Settembre 2007 1ª stampa: Marzo 2008 2ª stampa: Dicembre 2011 3ª stampa: Dicembre 2012 Progetto grafico: Caterina Petroni
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INDICE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.
La cassetta del Maestro Decrittazione In piazza Tangentopoli ‘800 L’Aubergo della Posta E’ giusta la sequenza? Ferro Ricordi ed istruzioni Agriturismo La rivalità Lizzano - Vidiciatico Questioni ereditarie Sunnyside La terra dei vigneti Distacco Elettricità Indietro nel tempo Come si fa il carbone?
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“Mi piacciono gli inizi; nell’aria c’è aspettativa, ottimismo…” Dal film “The lost city” di Andy Garcia.
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1 La cassetta del Maestro Nella vecchia casa di Lizzano c’erano delle stanze che consideravo speciali, fin da quando ero bambino. Una di queste non la si può proprio chiamare stanza, in quanto era un vano nell’interrato, fatto a volta, con i muri grezzi e sempre umidi, in cui i nonni conservavano salumi, formaggi e vino da vendere nella bottega di piazza. Questa cantina passava al di sotto della strada dietro casa, via Sant’Antonio, finendo nel fabbricato di fronte. Sembrava un luogo fuori dal tempo, una catacomba. Speciali erano le camere che davano sul retro, silenziosissime, fresche in estate, chiamate le stanze degli Americani. Speciale era anche il sottoscala. Avevo sempre avuto un po’ di timore ad entrarvi, in quanto il nonno mi aveva fatto credere che, nella parte più nascosta, ci fosse l’apertura di un pozzo profondo; ma la particolarità di questo posto piccolo, buio e polveroso, era che qualunque cosa vi venisse appoggiata, rimaneva sempre lì, per anni. Vi ho ritrovato di tutto: palloni da calcio forati, soldatini di plastica, ombrelli sbrindellati, bastoni da passeggio, borracce di metallo, racchette da tennis, panni per spolverare il cruscotto delle automobili, chiavi, pacchetti di monete fuori circolazione. Mi ricordo che una delle prime volte che vi entrai, notai una cassetta di legno scuro, con ferramenta lavorata, marcata con il numero 3 e chiusa con un lucchetto con un intarsio a forma di occhio. Già intimorito per la storia del pozzo, non mi azzardai nemmeno a toccarla. Ma la cassetta ed il lucchetto mi rimasero impressi.
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Un giorno, più o meno quarant’anni dopo, chiesi a mio padre se avesse più visto in giro una cassetta con un lucchetto particolare, che una volta era nel sottoscala. “Se era là, sarà ancora là.” Fu la risposta, assolutamente coerente con la logica montanara. In effetti, nascosta dietro una scatola piena di vecchie palle da tennis, sotto pacchi di biancheria ingiallita coperta da due dita di polvere, senza lucchetto, la cassetta era ancora là. Anzi ce ne erano due. Pulii immediatamente uno dei coperchi, ma rimasi un po’ deluso nel vedere che, invece dell’atteso numero 3, una sagoma in ferro elegantemente disegnata riportava il numero 2. Memoria scarsa? Inutile dire che provai immediatamente sull’altra cassetta. Meno male, l’amor proprio era salvo: con uno stile identico alla prima, sul coperchio era fissata una sagoma in ferro del numero 3. Aprire quello che è rimasto chiuso per anni dà sempre una emozione particolare. Pensi di poterci trovare qualcosa di speciale o di ritrovare qualcosa dimenticata. Alzato il coperchio della cassetta 2, trovai un fascio di disegni a carboncino, volti soprattutto… Schizzi di Majani1? Magari, ma non mi sembrarono tanto pregevoli. Ancora una possibilità, con la cassetta numero 3. Un fascio di documenti notarili che profumavano di antico, su carta ingiallita, legati da un cordone rosso. E sotto i documenti, con le due chiavi accuratamente legate, c’era il famoso lucchetto intarsiato: da una parte, contornato da disegni floreali, l’inquietante occhio, dall’altra decori vari e la sigla NHC. Che cosa significava? All’interno del coperchio, un’etichetta scritta a mano con bella calligrafia. 1 Pittore ed umorista bolognese (1867-1959). Era solito fare villeggiatura a Lizzano.
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Il Maestro di ogni ferriera riceverà in consegna la presente Cassetta contenente n° 41 sagome di ferro che descrivono la grossezza e la larghezza dei ferri piani di ordinaria fabbricazione contrassegnati con numeri sopra di essi impressi, ed ogni volta che gli verrà data comunicazione di qualcuno di quei ferri ne metterà fuori la sagoma per riporvela quindi dopo eseguita la commissione. Questa cassetta sarà sempre serrata a lucchetto e la chiave la terrà presso di sé il Maestro. Se alla restituzione della consegna mancassero qualcuna di queste sagome egli le pagherà in ragione di quindici bajocchi l’una come pure sarà tenuto alla buona manutenzione della cassetta. Questo dì 10 Gennaio 1839. ....Bellarini Anche all’interno del coperchio della cassetta 2 c’erano i resti di un’etichetta con una scritta del tutto identica. Le Cassette del Maestro di ferriera. Da dove vengono? Quel giorno, anni fa, sfogliai con deferenza quei documenti ultracentenari; provai anche a cercare di capire di che cosa trattassero, ma i risultati furono molto modesti, dal momento che la calligrafia ed il gergo utilizzati erano quasi indecifrabili. Riuscii però ad aggiungere qualche elemento alla genealogia della famiglia Petroni fino ad allora conosciuta. Il primo antenato di cui trovai traccia era un certo Michele Petroni, padre di Pierro, sposato con Rosalba Tonielli, padre di Ermelinda, Francesco, Onorato ed Ernesta. Onorato, sposato con Emilia Bonucci, era padre di Adele, di Gustavo e del nonno Pierino, sposato con la nonna Caterina. Di Michele non sapevamo assolutamente nulla. Sapevamo invece che Pierro e Rosalba avevano ricavato nella casa di Lizzano l’”Aubergo della
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Posta”, dove offrivano vitto e alloggio ai villeggianti dell’inizio Novecento. I figli Francesco e Onorato avevano poi aggiunto una bottega dove vendevano salumi, spezie e, soprattutto, il pane preparato e cotto nel forno di Porchia. Sempre a Porchia i fratelli Petroni avevano installato una centrale elettrica, dalla quale distribuivano la corrente e l’illuminazione a Lizzano e Monteacuto. Da quello che sapevamo, il vero capo della famiglia divenne presto Francesco, single impenitente, fondatore della banda musicale di Lizzano ed animatore di tutte le iniziative “sociali” del paese. Da sempre, appesi alla parete dell’ingresso della casa di Lizzano, c’erano 4 grandi fotografie rappresentanti Pierro, con una barba alla Landru, Francesco, con la divisa della banda, Onorato, con l’aria della persona per bene, e Rosalba che, anche attraverso il vetro del quadro, faceva chiaramente capire chi teneva i cordoni della borsa. Da buon ingegnere, disegnai un bell’albero genealogico, aggiungendo i vari componenti “più recenti” della famiglia. Poi presi i documenti, li legai di nuovo con il cordone rosso, li rimisi dentro la cassetta e la chiusi con il lucchetto. Solo qualche anno più tardi mi venne voglia di saperne di più.
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Pierro e Rosalba. Sul retro della foto, scritta a matita, c’è la data del 1885. Se così fosse, chi sarebbe il bimbo ritratto? In quell’anno i nipoti Gustavo, Pierino e Adele non erano ancora nati!
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Albero genealogico Michele
Pierro
Ermelinda Maddalena 1850-1925 sp. Pietro Filippi
Francesco 1855-1927
Ernesta 1859-?
Onorato 1861-1922
sp. Emilia Bonucchi 1859-1934
Pietro Virgilio (Pierino) 1889-1964
sp. Catterina Riccioni 1900-1986
Alberto 1922-2003
sp. Anna Legnani
sp. Gustavo Sabbatini
Adele 1894-1980
Gustavo 1887-1962
sp. Raffaele Baraldi
sp. Adalgisa
sp. Rosalba Tonielli
Franca 1925-1926
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2 Decrittazione La casa di Lizzano, quando e da chi è stata costruita? I bisnonni abitavano a Porchia o a Lizzano? La famiglia Petroni è originaria del territorio del Belvedere o vi è arrivata da qualche altra parte? E’ possibile risalire ad altri progenitori? A casa nostra la Settimana Enigmistica ha sempre avuto un posto di rilievo. Con gli anni ho preso dimestichezza con i vari schemi di parole crociate, incroci obbligati, Ghilardi, Bartezzaghi padre e figlio. Credo però che anche il più difficile degli schemi “destinato ai solutori più che abili” non raggiunga la difficoltà che ho trovato a leggere e cercare di capire atti notarili scritti più di 150 anni fa. Già al giorno d’oggi per intendere il significato di certe formule legali correnti bisogna essere degli addetti ai lavori. Se si pensa poi che allora l’utilizzo di espressioni pompose e involute serviva ad accrescere l’autorevolezza del notaio, che spesso venivano utilizzati vocaboli oggi desueti, che la punteggiatura era inesistente e che il tutto era scritto (volutamente?) con una calligrafia quasi crittografica, si può immaginare l’improbo compito che attende chi dalle carte antiche vorrebbe informazioni alla stregua di un motore di ricerca Google o Yahoo. Da buon enigmista non mi sono scoraggiato. Ho fotocopiato tutti i documenti, in modo da poterli scarabocchiare, e li ho ingranditi per leggerli meglio. Con la penna, rigorosamente rossa, ho cominciato a segnare i nomi propri e le parole di immediata comprensione. Poi, in una successiva lettura ho cercato di trovare un punto di attacco, ovvero una
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frase che fosse “traducibile” per poter capire la struttura del documento. Un buon aiuto mi è stato dato da una serie di espressioni che si ripetevano in ogni atto. Un po’ alla volta qualche cosa è cominciata ad affiorare. In nome di Dio e del Popolo. L’anno dell’Era Volgare 1849, primo anno della Repubblica Romana e terzo del pontificato di Sua Santità Papa Pio IX……., questo giorno di Lunedì 23 del mese di Aprile, in presenza di un Capitano Agesilao Ercole Bartolini Visconti pubblico notaio residente in Belvedere e delli testimoni sottoscritti che sono noti e forniti di tutti gli altri requisiti voluti dalle leggi, nell’intradicendo luogo costituiti li cittadini Catterina e Lucia sorelle figlie del fu Giuseppe Amadori… e per l’altra parte il cittadino Pietro del fu Michele Petroni, tutti possidenti di maggiore età da me notaio conosciuti… Pierro, abitante in Lizzano, Comune di Belvedere, compera così il suo primo immobile: è un fabbricato a Casale di tre locali ed altri vani, chiamato casa Amadori. Spende 45 scudi. Pierro ha 25 anni. Probabilmente è nello stesso anno che si sposa con Rosalba. Negli anni successivi, Pierro diventa possidente di altri terreni, per lo più castagneti, attorno a Casale e a Vignado, lungo il torrente Silla. Compera anche un fienile vicino alla casa acquistata nel 1849. In un atto del 1856 si dichiara residente a Casale. Porchia, 19 Settembre 1860. Finalmente qualcosa che si riesce a leggere e capire abbastanza bene. Perché? Semplice, perché non è scritto da un notaio. Sono Ricordi ed istruzioni per Pietro Petroni scritte da un certo E. Succi proprietario dei fabbricati di
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Porchia. Ho deciso che l’avrei ripreso però più tardi, volevo prima trovare tracce della casa sulla piazza a Lizzano. Fra il 1870 ed il 1888 Pierro acquista varie proprietà a Lizzano: una stalla, un fienile, un paio di orti. Non c’è però la casa sulla piazza. I documenti più ricchi di informazioni sono una serie di “certificati di denunziata successione”. Da uno di questi, relativo ai beni della trisnonna, Rosalba Tonielli fu Battista, morta il 23 Gennaio 1903, risulta che Rosalba aveva nominato le due figlie Ermelinda ed Ernesta eredi legittimarie, i due figli Francesco ed Onorato eredi universali, fatta salva una quota di un sesto del patrimonio riservata a Giulio Polmonari fu Pietro (colpo di scena! 2). Il patrimonio è costituito dall’usufrutto di tutte le proprietà ereditate dal marito Pierro, morto due anni prima, tra cui due fabbricati posti a Lizzano, uno denominato Cà di Guido, di due piani e due vani, e l’altro Piazza, di quattro piani e diciannove vani, acquistato quest’ultimo da Rosalba con atto del notaio Dionisio Marconi, stipulato a Castelluccio il 16 Maggio 1868.
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Vedi “La bisnonna che sparava agli indiani”.
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3 In piazza Un fabbricato a quattro piani e diciannove vani. Non c'è dubbio che sia la parte vecchia della casa, quella sulla piazza. Ma allora è stata la trisnonna Rosalba a comprarla? Era già costruita? Chi l'aveva costruita? C'è qualche cosa che non quadra. Occorre indagare ulteriormente. Ormai i documenti della cassetta li ho girati e rivoltati, altre informazioni non ci sono. Bisogna andare all'Archivio di Stato e cercare i registri del Notaio Marconi, di Castelluccio. Già, perché un notaio di Castelluccio e non quello di Lizzano? A quei tempi era chi vendeva che sceglieva il notaio. Che il precedente proprietario fosse di Castelluccio? Fondo Notarile, Serie 161/10 Notaio Dionisio Marconi. Atto del 16 Maggio 1868 Solita calligrafia illeggibile, anzi particolarmente illeggibile. Parto dal fondo, le firme di solito sono più facili. Infatti, la prima firma è di Pietro Petroni (che cosa c’entra, non era Rosalba a comperare?), poi quella di Agesilao Ercole Bartolini Visconti (ma... che cosa c’entra? Questo è il Notaio di Lizzano3), poi due testimoni. Capisco sempre meno. Devo riuscire a tradurre quello che c’è scritto nell’atto. Con un particolare sforzo visivo, mnemonico e di concentrazione, riesco a intendere che Agesilao Ercole Bartolini Visconti è lì convenuto per vendere un immobile acquistato nel 1859 da un certo Ferdinando (o Fortunato) 3
Fu anche sindaco dal 1860 al 1866.
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Polmonari. Intanto si è chiarito perché l’atto è stato stipulato a Castelluccio: semplicemente perché il notaio di Lizzano, essendo parte venditrice, non poteva rogitare se stesso. Chi compera è effettivamente Rosalba Tonielli fu Battista, autorizzata dal di lei marito Pietro Petroni. Evidentemente a quei tempi ad una donna sposata non era concesso acquisire proprietà se non autorizzata dal marito. È possibile? Parentesi giuridica. A seguito di una specifica ricerca è emerso che la risposta alla domanda è “sì”. La prima versione del Codice Civile del neonato Regno d’Italia, detto Codice Pisanelli, era entrato in vigore il primo Gennaio del 1866 e faceva largamente riferimento al precedente Codice Napoleonico. Sia Napoleone che Pisanelli avevano subordinato in modo esplicito le donne ai loro uomini. Una volta sposata, una donna perdeva il controllo delle decisioni sulle sue proprietà, sul luogo di residenza, sul lavoro e sui figli. L’art. 217 del Codice Napoleonico citava: “La donna, ancorché non sia in comunione o sia separata di beni, non può donare, alienare, ipotecare, acquistare, a titolo gratuito od oneroso, senza che il marito concorra all’atto, o presti il suo consenso in iscritto”. Il Codice Civile italiano non cambia sostanzialmente, in quanto l’art. 134 impone: “La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito. Il marito può con atto pubblico dare alla moglie l’autorizzazione in genere per tutti o per alcuni dei detti atti, salvo a lui il diritto di revocarla”. Pisanelli, rispetto a Napoleone,
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toglie l’impedimento alla donna di acquistare, ma il vincolo di subordinazione moglie-marito rimane talmente forte che, evidentemente, Pierro, Rosalba ed il notaio Marconi non se la sentono di andare contro la consuetudine. Pertanto Rosalba acquista, ma l’autorizzazione e la firma sono del marito. Che Rosalba volesse intestare a proprio nome un immobile doveva essere, per quei tempi, già un fatto molto particolare, segno di una determinazione molto forte. L’immobile oggetto della compravendita è un piccolo fabbricato, da cima a fondo, con annesso... (parola incomprensibile) dal lato di mezzodì, chiamato Bottega da Fabbro Ferraio, o anche Bottega di Menghino, che confina con la pubblica piazza, la strada, gli eredi di Luigi Baruffi e gli eredi di Bartolomeo Filippi. Il prezzo pagato è di 600 Lire. 1. Bottega da fabbro ferraio. Che la cassetta del Maestro venga da qui? La Musola ci viene in aiuto con due riferimenti. 1 – Memorie storiche di Don Giulio Pacchi – 1889. Io medesimo che non tocco ancora i cinquant’anni, mi ricordo assai bene la differenza palpante che passa dal Lizzano della mia infanzia al Lizzano d’adesso. Era più piccolo e squallido! Ingombrato d’alberi, di siepi, di orti. Nella piazza, che in allora era più ineguale e sassosa che non al presente, ergevasi quasi nel suo mezzo un grosso ed alto noce che co’ i suoi rami larghi e nodosi copriva più di un terzo dell’area plateale. … Presso la casa dei signori Martini vegetava un ciriegio sotto la cui ombra mostravasi una massiccia e ruvida croce di sasso. Sull’altro lato, ove ora si innalza maestosa la casa Petroni vedevasi una macerie di
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rottami, e di sassi, poi un orto ed un vecchio gelso.4 2 - Olindo Amadori, delle Piantade, raccontava che a Lizzano, dove c’è ora la casa dei Petroni, c’era una volta una mas’era di sassi. Raccontavano i vecchi che lì sorgeva la casa di uno (un Polmonari?) che aveva il vizio del gioco d’azzardo. Ma vinceva troppo. Un brutto giorno fu trovato morto. Fu seppellito davanti al voltone di Cà di Guido. La sua casa, dopo un lungo abbandono, sbrozzò. Rimasero per tanto tempo le macerie che furono poi comperate da Pierro da Porchia, che ci costruì la sua grande casa.5 Adesso è chiaro. I coniugi Petroni-Tonielli fra il 1868 ed il 1871 acquistano tre lotti sulla piazza di Lizzano: la Bottega da Fabbro, precedentemente di un certo Polmonari, che in realtà era solo un cumulo di macerie, una stalla da Gertrude Biagi e Pietro Baruffi (ovvero gli eredi di Luigi Baruffi); infine un orto da Pietro Filippi fu Bartolomeo (Pietro Filippi è o sta per diventare loro genero, ovvero marito della figlia Ermelinda). Demolito e sgomberato tutto, sui tre lotti unificati costruiscono poi la grande casa a 4 piani e 19 vani. La Bottega da Fabbro Ferraio è quindi solo il nome di qualcosa che non esiste più. La cassetta del Maestro non viene da qui. Che venga da Porchia? Rimane un dubbio: perché uno dei tre lotti acquistati, la Bottega da Fabbro, è intestato a Rosalba? La risposta più logica potrebbe essere: perché i soldi 4 Musola n.20 pg 128 5 Musola n.42 pg 78. Il riferimento fra parentesi del nome Polmonari è stato inserito dall’autore dell’articolo, Giorgio Filippi che, presumibil-mente, doveva aver letto il rogito del notaio Marconi.
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con cui è stato comperato erano suoi. Forse anche quelli con cui è stata costruita la casa? Bisogna sapere qualcosa di più sulla famiglia Tonielli.
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4 Tangentopoli ‘800 Ottobre 1827. Il Comune del Belvedere ha predisposto i progetti per la costruzione di due nuovi cimiteri, uno a Lizzano ed uno a Monteacuto. Il primo progetto, a firma del mastro muratore Domenico Antonio Fioresi, riguarda la recinzione di un’area quadrata di circa 12 metri per lato, limitrofa alla Pieve, con un muro alto 7 piedi (2,60 m circa) e relativo cancello in ferro, il tutto per una spesa prevista di 133,70 scudi. Anche per Monteacuto si tratta di realizzare la recinzione di un terreno, più piccolo, 70 mq, sito al Balzo della Torre, con un preventivo di spesa di 94,70 scudi, firmato dal mastro muratore Dionigio Pozzi. Anche a quei tempi, evidentemente, le procedure di approvazione erano lunghe; infatti solo l'1 Giugno 1829 il Priore, Bartolomeo Ori, bandisce le due aste per l'appalto dei lavori. A quella per il cimitero di Lizzano partecipano Lazzaro Zaccanti di Gaggio, Pellegrino Bonucci di Lizzano e Giuseppe Bartolini di Castelluccio. Applicata la procedura di gara che prevede offerte in ribasso da farsi nell'arco di più giorni, risulta vincitore Giuseppe Bartolini per la cifra di 126,60 scudi. Per il cimitero di Monteacuto partecipano Giacomo Biagi, Dionigio Pozzi e Vincenzo Pozzi, tutti di Monte Acuto, e Battista Tonielli di Lizzano. Qui la gara è molto più serrata, tant'è che viene aggiudicata a Giacomo Biagi per 46,85 scudi. Subito si capisce che c’è qualche cosa che non quadra. Perché la prima gara è stata aggiudicata con un ribasso del 5% e la seconda con uno del 50%? La differenza è troppa e troppo evidente. Lazzaro
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Zaccanti, uno degli sconfitti della prima asta, non ci sta e presenta un ricorso al Cardinal Legato Bernetti, accusando la Segreteria Comunitativa di Lizzano di aver truccato l'appalto a favore del Bartolini. A questo punto l’autore dell’articolo6, Edoardo Rosa, non ci racconta come sia andata a finire la questione. Da documenti da lui consultati all’Archivio di Stato di Bologna, è riuscito a sapere solo che il Priore Bartolomeo Ori ebbe una reazione violentissima (non è specificato di che tipo), ma che poi fu tutto messo a tacere. Due secoli di differenza, ma le cose vanno allo stesso modo. E nonostante Di Pietro, Borrelli e il pool Manipulite. Al di là delle vicende di cronaca, abbiamo così saputo che Battista Tonielli, padre di Rosalba, faceva il costruttore edile. E come tutti i costruttori, non doveva passarsela male, dal punto di vista economico. L’attività edile fu poi proseguita da uno dei figli, Costante Tonielli. È possibile che Battista abbia lasciato a Rosalba una certa somma in eredità con cui si sia potuta comperare la Bottega da Fabbro. Uno dei documenti della cassetta del Maestro, datato 1871, è l’attestato di un’ipoteca fatta da Rosalba sul lotto “Bottega da Fabbro”, evidentemente per ottenere il denaro per costruire l’Aubergo della Posta7. È possibile che i lavori siano poi stati affidati all’impresa del fratello Costante. Un’altra ipoteca era stata fatta undici anni prima 6 Musola n° 36. 7 Nel documento c’è un appunto scritto a matita in calce, da cui risulta che Battista, oltre a Costante e Rosalba, aveva anche altri due figli maschi e due femmine.
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da Pierro, sul suo terreno di Casale, a garanzia della somma di lire 106,40 prestatagli dalla moglie Rosalba. Tale somma, come cita il documento, costituiva la dote devoluta a Rosalba dal fratello Giovan Luca a contemplazione del di lei matrimonio col Petroni Pietro. Non c’è che dire, Rosalba non guardava in faccia a nessuno! Ha preteso una garanzia reale anche dal marito. Si conferma l’idea che ci eravamo fatti di Rosalba, una donna che sapeva curare i propri interessi. Molto bene. Anche a quei tempi.
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5 L’Aubergo della Posta Musola n. 62 pagina 4: “A Lizzano, più di un secolo fa, saliva da Porchia una molella con una tavola in co8, piena di pagnotte. Le vendeva in piazza. E quello fu l’inizio della bottega che suo padre mise poi su a Lizzano, dopo essersi costruito una casa con una grande facciata. Quella era la bottega ed quii da Porchia”. Oltre al pane e agli altri generi alimentari, la casa offre vitto ed alloggio ai viandanti. E anche il cambio dei cavalli. Così, nel momento in cui c’è da battezzare il nuovo esercizio, il nome “della Posta” viene abbastanza naturale (come è successo del resto in quasi tutti i paesi delle montagne italiane). Ci vuole però un tocco di raffinatezza ed originalità: così invece del tradizionale “Albergo”, viene preferito l’allora più esotico “Aubergo”9. Il vero e proprio servizio postale viene poi dato in dote da Pierro e Rosalba alla figlia Ermelinda10, la molella delle pagnotte, quando sposa il giovane paesano Pierin d’Bortlin (nonno di Giorgio Filippi, autore dell’articolo). I due vanno ad abitare nelle casa di Pierin, a fianco dell’Aubergo, che fu trasformata in modo da ricavarvi l’ufficio delle Regie Poste di Lizzano11. 8 “In testa”: espressione dialettale lizzanese. 9 In Francia l’Auberge è la locanda. 10 Secondo quanto affermato da Franco Petroni, figlio di Gustavo. 11 Lo Stato Pontificio regolò il servizio postale con la Venerata Legatizio Circolare n. 1863 del 16/4/1846, dando l’incarico di Diramatore Postale ai segretari comunali, che a quei tempi erano chiamati segretari comunitativi. Il Regno d’Italia nel 1862 emanò la Legge Postale Nazionale con la quale aboliva tutte le concessioni private e creava il monopolio statale, con 2382 uffici
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L’1 Aprile 1891, alle quattro del pomeriggio, arriva a Lizzano, a cavallo, Francesco Burchi, il nuovo dottore ventinovenne, proveniente da Sestola. Il giovane medico si sistema provvisoriamente all’Aubergo della Posta, gestito dalla famiglia Petroni. Del resto, non ha molte alternative, in quanto “il Posta” è l’unica possibilità di alloggio per forestieri che offre il paese. La dozzina (ovvero il prezzo dell’’ospitalità) è di 60 lire al mese. Dalle pagine del suo diario12 veniamo a sapere che il dottor Burchi è un gran brontolone, si lamenta un po’ di tutti i paesani; Lancioni è un gran bursone, i Biagi ed i Guccini sono dei gran bischeri, altri sono porci, vigliacchi o peccatori. In particolare, poi, non gradisce molto il servizio offerto dall’Aubergo in cui alloggia o, quanto meno, non lo ritiene a buon mercato. In data 2 Luglio, annota infatti “...caffè, colazione, pranzo dai Petroni!! Ultimo, finalmente!!...” E, presi armi e bagagli, si trasferisce a casa dell’Arciprete. Evidentemente, col tempo, si deve essere ricreduto sull’affabilità dei cittadini del Belvedere, visto che a Lizzano vi è rimasto per la bellezza di altri 73 anni. Sempre sul suo diario, il 21 Novembre del 1900, due mesi dopo la “terribile notizia” dell’assassinio del Re Umberto I, si legge: “Partita per l’America famiglia Vai”. Il dottor Burchi non si era trovato bene. Qualcun locali, 7305 agenti e 3000 postini. Nel 1866 venne avviata la costruzione della rete telegrafica con apparati ricetrasmittenti dislocati su tutto il territorio. Tutto il sistema fu completato nel 1889 con la creazione del Ministero delle Poste e dei Telegrafi. Gli addetti erano complessivamente 23.000. I comuni dotati di ufficio postale erano 5.000 e altrettanti poterono usufruire di un servizio rurale, composto da un organico di oltre 12 mila addetti, tra procaccia e agenti rurali. 12 Musola n° 67.
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altro invece sì. Allora non esistevano ancora le stelle della Michelin, le forchette del Gambero Rosso o le medaglie del Touring, ma l’Aubergo della Posta si guadagnò una più che onorevole citazione. Marco Visciola – Stazioni climatiche della Toscana – Impressioni, norme, consigli ecc. - Firenze – Stabilimento Tipografico G. Criveli - 1904 - Lizzano in Belvedere Non incanta tanto la splendida posizione del paese, il clima saluberrimo, essendo situato a ben 650 metri sul livello del mare quanto il carattere e la cortesia degli abitanti i quali, pare, che abbiano stipulato un patto segreto fra di loro. Mettere a disposizione dei villeggianti le case che possiedono e quelle che fabbricano, anno per anno, e stringersi in una fraterna amicizia fra di loro per rendere più che sia possibile desiderabile il soggiorno in paese a coloro che lo visitano. Passa poi in rassegna i maggiorenti del paese, capitanati dall’arciprete Don Augusto (Alfonso) Montanari, il quale estende il suo ministero della cura delle anime sino a mettere in opera il precetto contenuto nel versetto: “Servite Dominum in laetitia”. Ci sono poi il segretario comunale Domenico Montani, il farmacista Giuseppe Berti, il maestro Luigi Zanetti, il negoziante Giuseppe Roppa. Alberghi veri e proprii non ne mancano. Quello di Francesco e Onorato Petroni(o) è nel centro del paese. È da molti anni che il padre ha cominciato a dare alloggio e vitto. I figli hanno poi aggiunto un forno e iniziato un commercio attivo di carni , una drogheria e una trattoria. L’albergo consta di tre piani con otto stanze illuminate a luce elettrica, che dispensano anche agli abitanti. Sono popolarissimi a Lizzano. Anche i fratelli Roberto
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e Vittorio Mattioli, da quarant’anni proprietari di uno spaccio di vini e di sali e di tabacchi, hanno disponibili appartamenti per famiglia, e siccome sono intraprendenti, continueranno a fabbricare. Lettori, non mi rimproverate se ho parlato più degli abitanti che del paese, che io non esito a dichiarare ridente e saluberrimo. La colpa è la cortesia del nucleo degli amici che mi hanno conquistato, appena giunto. Nei primi anni del secolo scorso, la villeggiatura a Lizzano è preferita da commediografi, restauratori, aristocratici, tenori, poeti, pittori, professori, direttori di banca, ambasciatori, glottologi, deputati. Soggiornano tutta l’estate, fino al tempo delle castagne. Partecipano alla vita paesana e, in amicizia con molti lizzanesi, costituiscono un “Circolo dei villeggianti”, per organizzare recite, conferenze e concerti. Principali animatori del circolo sono Augusto Majani e Dino Provenzal, dei quali sono famose le ironie, gli scherzi e le prese in giro. Ma chi tiene le redini della vita mondana lizzanese è senza dubbio lei, Cleonice Galletti Rusconi, la Marchesa. Che marchesa poi lo sia diventata quasi per caso, con una storia alla Pretty Woman o My Fair Lady, ai lizzanesi non importa. Per loro è la Marchesa. Già poco tempo dopo le nozze con Alberto Pio Rusconi13, 13 Alberto Pio Rusconi, nato a Bologna il 23/2/1848, confermato
Conte ed estensione per sé e la discendenza del titolo di Marchese con Breve Pontificio del 11/2/1868, Cameriere Segreto soprannumerario di cappa e spada del Papa, Cavaliere dell’Ordine Supremo Gerosolimitano del Santo Sepolcro. Cleonice Galletti, nata nel 1851, vendeva fiori a Bologna, sotto il portico del Pavaglione. Il Conte Alberto se ne innamorò, la fece studiare “buone maniere” in un collegio e la sposò nel 1872. Alla morte di Alberto, nel 1898, la nobile famiglia, che non aveva mai digerito la nuova componente, esiliò definitivamente Cleonice nelle ospitali terre del Belvedere. Un’interessante analogia può
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Gruppo di famiglia: Francesco, la Marchesa, Onorato, la moglie Emilia, il piccolo Gustavo ed il cane Flock. La data presunta della foto è il 1889. Il cane Flock è citato, ancora vivente, nella pièce teatrale di Majani e Provenzal del Settembre 1905, mentre è ritratto dallo stesso Majani nel 1906, “a ricordo di un compagno fedele ed intelligentissimo”.
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la Marchesa si stabilisce a Lizzano, dove si crea una sua “corte”, dando un particolare tono alla vita paesana. Soggiorna all’Aubergo della Posta, dove occupa il secondo piano, ed intrattiene i suoi ospiti nel giardinetto, già allora fiorito di ortensie. Ma... che vedo? Un giardino incantato; ogni tavolino è coperto di un albero, sicché sembra che il ferro verniciato dia rigogliosi germogli, secondo il sistema scoperto dagli illustri fratelli Petroni14. In quei tavoli si vedono tazze di caffè, thè ed ambrosia mista a nettare; tutto versato dalle abili mane della Pia agli ordini della gentilissima Marchesa Rusconi. Questo giardino è il famoso Arcibobolone, sempre meraviglioso, con quelle panchine grigie ritrovo del fior fiore della grazia dell’intellettualità lizzanese. Tra quelle piante si legge, si scrive, si medita, si filosofeggia, si sciolgono sciarade ed enigmi, mentre da mani gentili il terreno viene seminato di bucce di cocomero simbolo nei loro tre colori, del vessillo nazionale. E dopo le adunanze degli uomini e delle Signore si riuniscono quelle dei cani.... Il commento è della coppia Majani - Provenzal, tratto dallo spettacolo con cui intrattennero il pubblico il 17 Settembre 1905 nella “sala musicale”. I due non si risparmiarono nemmeno sull’ospitalità offerta dall’Aubergo della Posta. ... La cosiddetta Camera dei Deputati, parlo di quella camera al piano nobile dove dormirono l’on. Lugli, l’on. Rava, on. Gallini, l’on. Scano ed un altro centinaio di onorevoli, in omaggio ad uno dei proprietari che essere trovata con il personaggio della Contessa nel romanzo Macaronì di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli. 14 Si riferisce alla pratica di aggiungere solfato di ferro al terreno per rendere più rigogliose le piante e dare colore alle ortensie.
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ha nome Onorato. Oggi ci sono tanti letti, tutti pronti per gli... eletti. Del resto fanno bene a venire quassù, perché non c’è comodità che vi manchi: letti imbottiti di cicale per conciliare il sonno, camere tappezzate di poesie di Ugo Ghiron, tali che chi le legge dorme come un ghiron, specchi che riflettono la parte più intima dell’animo. E quali sorprese quegli specchi! Quanta gentilezza si vede esser finta, quanti baci di signore si vede che vorrebbero esser morsi, quanta carità si scopre che in fondo in fondo è pelosa!
Augusto Majani e Dino Provenzal, il 17 Settembre 1905, durante lo spettacolo “Lizzano nel 2000”.
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6 È giusta la sequenza? Ancora un esercizio di enigmistica: 1) Le foto della piazza di Lizzano e dell'Aubergo della Posta sono riportate nell’esatto ordine cronologico? 2) Che cosa c’entra l’immagine 13?
Immagine 1
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Immagine 2
Immagine 3
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Lizzano: il vecchio caffè dei Mattioli
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Immagine 12
Immagine 13
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Sì, la sequenza delle foto rispetta l’ordine cronologico: 1 C’è la maestà dei Filippi, non c’è il Caffè Commercio. 2 C’è la maestà dei Filippi, non c’è il Caffè Commercio, c’è la fontana piramidale (costruita nel 1885). L’insegna è: “AUBERGO...”. 3 C’è la maestà dei Filippi, c’è la fontana piramidale. L’insegna è: “ALBERGO POSTA”. Il secondo portone da sinistra ha l’architrave orizzontale e non l’arco. 4 13 Aprile 1893. 5 Sempre 1893? 6 Sempre 1893? 7 1909. Non c’è più la maestà dei Filippi. 8 C’è ancora la fontana piramidale (demolita nel 1912). La facciata dell’Albergo della Posta è stata restaurata: sono state aggiunte lesene e cantonali, sono state eliminate le riquadrature del pianterreno. Nel secondo portone da sinistra è stato realizzato un arco. 9 C’è il caffè dei Mattioli. Nel giardino dell’Albergo della Posta, sulla sinistra, c’è il bersò. 10 Dalla facciata dell’Albergo della Posta, sulla destra, sono sparite lesene, cantonali e insegna. L’ingresso al caffè dei Mattioli sulla sinistra sembra essere sul lato opposto dell’edificio rispetto all’immagine 9. 11 Dalla facciata dell’Albergo della Posta sono sparite lesene, cantonali e insegna. 12 La foto potrebbe essere stata scattata durante la seconda guerra mondiale. L’insegna dell’Albergo della posta è definitivamente sparita ed è stata sostituita da una nuova, non leggibile in questa foto: “FORNO SALUMI DROGHE”. 13 Questa foto nulla ha a che vedere con le altre. È infatti l’Albergo della Posta di Vidiciatico, di Angello Carpani.
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Quindi la famiglia Petroni, “ed quii da Porchia”, si è insediata sulla piazza di Lizzano nel 187315, anno più anno meno. È possibile che una parte dei soldi utilizzati per questo investimento provenissero da Rosalba; ma proprio il fatto che fosse una donna che sapeva curare molto bene i propri interessi, ci fa presumere che la famiglia Petroni dovesse avere avuto altre consistenti fonti di reddito. Facciamo quindi un passo indietro, a Porchia.
15 In un atto del 1874 Pierro si definisce “possidente e negoziante”. Negli anni successivi i coniugi Petroni-Tonielli comprano i terreni dietro la casa e costruiscono un edificio, chiamato Ca’ di Guido, dove viene ricavato il forno. Fornaio nei primi anni del 1900 sarà Giulio Polmonari.
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7 Ferro Nel 1543 Cosimo I de’ Medici decide di dare un impulso determinante all'industria della lavorazione del ferro che, ovviamente, vuol dire produzione di carri, cannoni ed armi di ogni tipo. Grazie ad un accordo con i signori di Piombino, acquisisce il diritto esclusivo del commercio dei minerali di ferro estratti dall'isola d'Elba. Potenzia i quattro altoforni di Pracchia, Valpiana, Follonica e Campiglia dove si produce il ferraccio, ossia il ferro semilavorato, oggi chiamato ghisa. Finanzia la costruzione di svariate ferriere dove si distende il ferraccio in ferro o acciaio e si producono i vari utensili, attrezzi o armi. Per gestire tutto questo affare costituisce una società commerciale, la Magona Granducale, della quale, neanche a dirlo, la famiglia de’ Medici è il maggior azionista. Il luogo ideale per installare nuove ferriere è l’Appennino Toscano, dove c’è ricchezza di corsi d’acqua perenni per far funzionare i magli e abbondanza di legna da cui si può ricavare il carbone vegetale per la fusione del materiale. Così a Pracchia, a Maresca, a Cutigliano e in tanti altri paesi della montagna pistoiese si sviluppa un’attività di lavorazione del ferro che prospera e si consolida nelle epoche successive. Nella seconda metà del 1700, la costruzione della strada Pistoia - Abetone - Modena dà un ulteriore slancio alle ferriere dell’alta valle del Reno. Nel 1825 Egidio Succi è il Ministro Generale delle Imperiali e Reali Magone e Miniere di Firenze. Passato il ciclone napoleonico e restaurato lo Stato
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Pontificio, Egidio Succi pensa che siano maturati i tempi per dare il via ad un progetto che da tempo tiene in tasca: estendere l’attività della produzione del ferro all’altro versante dell’Appennino, ovvero verso la Pianura Padana. Alcuni fattori gli fanno credere che questo possa essere davvero un buon affare. Il legname sulle montagne pistoiesi comincia a scarseggiare; il costo aggiuntivo per trasportare il ferraccio, che già arriva a Maresca, fino al territorio del Belvedere è abbastanza ridotto; è iniziata la costruzione della nuova strada Porrettana, che faciliterebbe il trasporto dei prodotti finiti verso il mercato della Pianura Padana; inoltre ha trovato il posto ideale per la prima delle ferriere del Bolognese. L’anno successivo, a Porchia, sotto la direzione del maestro bergamasco Giuseppe Pierallini, entra in funzione il nuovo impianto composto da due fuochi e tre magli azionati da altrettanti motori idraulici, per una potenza complessiva di 15 CV. L’affare sembra promettente, tant’è che anche altri concorrenti si lanciano nel mercato. In breve tempo sorgono altre ferriere a Panigale di Sotto, di proprietà dei bolognesi Bontempelli e Lodi (due magli per 10 CV), a Ponte della Venturina, dei toscani Vivarelli e Colonna (quattro magli per 25 CV), a Porretta, del bergamasco Calvi (due magli per 12 CV), altre anche a Riola, alle Pioppe, al Brasimone e sul Limentra. Anche Egidio Succi, assieme al socio porrettano Tommaso Francia, avvia un altro impianto, più piccolo, a Panigale di sopra (due magli per 10 CV). A pieno regime le due ferriere Succi-Francia possono produrre quasi 300 tonnellate di ferro lavorato in un anno, prevalentemente assali per carri e utensili; in pratica la produzione media si stabilizza attorno al valore già ragguardevole di 190 tonnellate
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annue. Sono impiegate 16 persone: 3 maestri, tutti bergamaschi, un sottomaestro, 9 ferrazzuoli e 3 brascini (manovali). Le paghe vanno dai 60 ai 15 Bajocchi al giorno (da 3 a 0,75 Lire16). La materia prima, il ferraccio, arriva dagli altiforni della Maremma: prima via mare, poi risalendo l’Arno e l’Ombrone fino a Poggio a Caiano; qui nel magazzino della Magona Granducale viene caricata su barrocci fino a Capostrada, a nord di Pistoia, e finalmente a dorso di mulo fino a destinazione. Il carbone viene prodotto nei boschi della zona e trasportato a sua volta a dorso di mulo. All’arrivo in ferriera i muli sono presi in consegna da un gruppo di operai che provvedono a scaricare il materiale; dal momento che il loro compito è di vuotare le some, in gergo sono chiamati vuotini. Il lavoro non è di poco conto: se pensiamo che per produrre le 190 tonnellate di ferro all’anno sono necessarie 285 tonnellate di ferraccio e 630 tonnellate di carbone, calcolando 300 lavorativi all’anno, risultano più di 3 tonnellate di materiale da caricare o scaricare ogni giorno a mano. Per una ventina d’anni gli affari vanno bene. Egidio Succi ha già in mente di avviare anche la produzione del rame, per la qual cosa ha già allestito a Porchia un fabbricato specifico, sull’altra riva del torrente Silla. Poi, un po’ alla volta, qualcosa cambia. Già nel 1851 alcuni abitanti del Belvedere e dintorni inviano un’istanza al prolegato pontificio preoccupati per il futuro incerto dell’attività di lavorazione del ferro, vista “la concorrenza estera del ferro con 16 Fino al 1860 venivano utilizzate le monete dello Stato Pontificio, scudi e bajocchi. Solo successivamente all’unità d’Italia furono introdotte le Lire. Uno scudo, composto da 100 bajocchi, valeva 5 lire.
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avvilito prezzo”. La risposta del prolegato è semplice: si tratta di timori infondati. Invece tanto infondati i timori non sono perché, verso gli anni ‘60, i conti cominciano a non tornare. I prodotti finiti vengono venduti a 470 lire a tonnellata, per cui il ricavo annuo è di circa 90.000 lire. Per il ferraccio si spendono circa 43.000 lire e 25.000 per il carbone. Tolte altre 8.000 lire per la manodopera e 7.000 per il trasporto verso la Pianura Padana, rimangono circa 7.000 lire che servono a coprire sì e no le ulteriori spese. Il margine di profitto è sparito. Che cosa è successo? È successo che gli inglesi hanno lavorato sodo. Fino alla seconda metà del 1700 gli inglesi non erano riusciti a sfruttare le loro le ricche miniere di ferro a causa della scarsità del carbone di legno sul loro territorio, cosa che rendeva non concorrenziale il prezzo del prodotto finito. I tentativi di utilizzare come combustibile il carbon fossile avevano fino a quel momento dato risultati pessimi perché lo zolfo, contenuto in alte percentuali, peggiorava drasticamente le caratteristiche meccaniche del ferro, rendendolo praticamente inutilizzabile. Abraham Darby è il primo a risolvere il problema, utilizzando del carbone fossile che, prima di essere utilizzato, viene “parzialmente bruciato” (da cui il nome di carbon coke). Un altro importante contributo all’industria metallurgica inglese viene dato da Mr. Henry Cort che, nel 1784, brevetta il processo detto puddellaggio, con cui è possibile produrre del ferro più resistente eliminando l’ossido di carbonio tramite mescolamento ripetuto dell’impasto di fusione (dall’inglese to puddle, rimescolare). Sempre Mr. Cort apporta anche un’altra variante determinante
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al sistema di produzione, introducendo i cilindri scanalati, che permettono di modellare agevolmente le barre di ferro senza l’utilizzo dei tradizionali martelli e magli. Già queste tre innovazioni permettono agli inglesi di ottenere un incremento di produzione quasi impensabile, passando dalle 15.000 tonnellate anno nel 1730 alle 1.500.000 tonnellate nel 1840; e il tutto a prezzi più bassi dei concorrenti europei. Il contributo decisivo alla conquista del mercato e al trionfo della rivoluzione industriale inglese viene dato però da Henry Bessemer che, nel 1855, perfeziona un processo di ossidazione che permette di “convertire” la ghisa in acciaio allo stato di fusione. Diventa quindi disponibile un materiale di qualità eccellente, facilmente lavorabile e a basso costo. Gli inglesi mettono la concorrenza in ginocchio. Tutta l’industria siderurgica italiana in questo periodo soffre. Peraltro il neonato governo italiano non riesce a mettere in atto quelle misure protezionistiche, da più parti invocate, che potrebbero contrastare l’importazione del ferro inglese. Per le ferriere di Porchia e Panigale un altro problema si aggiunge: la strada Porrettana è stata sì completata, ma finisce per avvantaggiare i concorrenti posizionati lungo il fiume Reno, mentre le Magone della valle del Silla devono sopportare un extra costo di trasporto non indifferente; di costruire una strada da Lizzano a Porretta se ne parla spesso, ma sono ancora solo parole. Poi, fattore determinante, muore Egidio Succi. La proprietà delle ferriere passa alle tre figlie, tutte sposate con persone addette ai lavori, ma che non sembrano all’altezza del suocero e sono comunque più interessate alle loro attività in Toscana che a quelle dell’altro lato dell’Appennino.
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La produzione continua, ma è chiaro che è già iniziato il declino. Le proprietarie decidono di affidare a terzi la gestione di tutto quello che non è strettamente legato alla lavorazione del ferro. Così, la dispensa (ovvero la foresteria) di Porchia, il mulino, gli animali, la cantina e le attività agricole vengono prese in gestione da una famiglia di Casale. La ferriera vera e propria cessa l’attività tra il 1887 ed il 1889. Dallo Stato delle anime della parrocchia di Castelluccio risulta che nel 1890 a Porchia sono rimasti solo i mugnai. Nel 1893 le sorelle Succi vendono tutti i beni immobili di Porchia alla famiglia che aveva preso in gestione la Dispensa, ovvero a Pierro Petroni ed ai figli Francesco ed Onorato. Delle Magone Granducali rimane solo il soprannome degli abitanti di Lizzano. 17
17 Da due frammenti del Corpus Chronicorum Bononiensium si viene a sapere che una vena di ferro fu già scoperta nel mese di Giugno dell’anno 1451 lungo la via che da Casale conduce a Porchia, e che nel 1491 il capitano di ventura Alessandro della Volta aveva avviato nello stesso luogo l’arte della lavorazione del ferro, a favore della famiglia bolognese dei Bentivoglio.
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8 Ricordi ed istruzioni Ricordi ed Istruzioni per Pietro Petroni Porchia, 19 Settembre 1860 1) Pietro Petroni come vuotino e facchino ha in genere tutti gli obblighi ed incarichi affidatigli dal Regolamento dell’anno 1838, più quelli che gli fossero stati addossati in seguito con ordini verbali, o con la consuetudine, e per tutti questi servizi egli è retribuito con col mensile assegno di £ 6. 2) All’intendimento di migliorare la sua condizione ed in vista del suo fedele servizio sin quegli viene concesso l’esercizio della dispensa che il M° Turi va ad abbandonare, e la più gelosa custodia della casa d’abitazione, delle mobilie, suppellettili, biancheria, e non che la vigilanza intorno ai fabbricati tutti, compresa la cappellina, intorno ai terreni, in una parola intorno a tutto interessa l’Amministrazione e la proprietà Succi. Questo incarico di sorveglianza generale è stato affidato anche al M° Vivarelli, ma il Petroni per tutto quel tempo che gli Edifizi lavorano non avrà né assumerà ingerenza alcuna per ciò che concerne l’interno degli Edifizi stessi, né i relativi magazzini, essendo tale incarico affidato esclusivamente e per detta epoca al M° Vivarelli dagli ordini del quale dipenderà il Petroni in caso di bisogno. 3) Alle cure esclusive del Petroni è raccomandato il cavallo, o il somaro qualora quello si vendesse. Sarà pensier suo il ben nutrirlo, il ben conservare i finimenti, ma procurando nel tempo stesso ogni possibile economia. Cercherà quindi di utilizzare ogni piccolo pezzo di terreno senza però tagliar alberi
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o indebolire d’altra guisa il suolo onde seminarvi fieno. Gli viene proibito espressamente d’adoprar per sé il cavallo stesso a meno di urgenti giustificati bisogni dell’Amministrazione ed eccetto il caso di dover condurre e ricondurre dal molino il proprio grano, né lo conceda facilmente ad altri anzi procuri di limitare più che si possa quegli usi che per necessità di convenienza o d’amicizia si fossero introdotti. 4) L’esercizio della Dispensa gli viene accordato come si è detto di sopra ma a patto però che a) a) Egli sia il più possibile parco ed onesto nel guadagno interessando all’Amministrazione che nessuno, specialmente i ferrazzuoli abbiano motivo alcuno di dolersi. b) Che le faccende della Dispensa non gli tolgano b) il tempo di eseguire tutti gli altri suoi obblighi a vantaggio dell’Azienda. c) c) Che l’Amministrazione non sia mai esposta a somministrare denaro per tale esercizio. 5) In corrispettivo di tale concessione ed esercizio di Dispensa il Petroni si obbliga: a) A vuotare gratis tute le some di carbone che a) rimetteranno a Porchia. b) In mancanza di Segnasome a farne giornalmente b) le veci senza pretenderne il minimo compenso. c) A fare nei terreni e nei fabbricati tutti quei lavori c) che occorressero pel buon uso e mantenimento ad eseguire i quali bastassero puramente le sue braccia. d) d) A fornire la dozzina18 al Ministro di Porretta od altri appartenenti all’Amministrazione o alla Società per baj 30 il giorno tutto compreso ed al Gerente di Bologna a baj 35 avuto riguardo per questi al maggior consumo d’olio da lume. e) e) Userà a prò dell’Azienda e senza diritto a 18 Camera in affitto.
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compenso veruno l’opera della moglie e dei figli fino a che non siano grandi da potersi guadagnare altrove la giornata. 6) Per l’esercizio di tale dispensa gli viene accordato l’uso della cucina e di tutti gli ambienti terreni nell’interno eccettuato quello che serve ad uso di scrittoio che dovrà rimanere riservato al semplice uso di scrivervi. Gli viene pure accordato in riguardo a tale esercizio l’uso della cantina, del forno, del gallinaio, come aveva il Turi e gli si permette di ritirare a Porchia quelle due botti ed il tino che trovasi a Panigale. 7) Per uso di abitazione poi gli si assegna il piano superiore eccettuate le due camere a mano destra salendo, le quali dovranno sempre tenersi chiuse meno due o tre ore per darci aria e riservate esclusivamente ad uso dei Superiori. Nelle altre due camere collocherà la moglie ed i figli soltanto lasciando a Casale la propria madre, o al più collocandola nella casa di sopra. 8) Si desidera che specialmente quanto ai letti adoperi la roba propria però di tutto quello che gli fosse consegnato per suo uso in tutta la casa salvo le indicate eccezioni sarà fatto esatto inventario firmato da ambe le parti ed in doppio originale indicante lo stato in cui trovasi la roba che gli si consegna ad uso, ed altro uguale inventario sarà fatto delle altre cose tutte di cui gli viene affidata la semplice custodia. 9) Tanto delle cose concessegli in uso quanto delle altre affidategli in custodia egli dovrà usare di aver cura da uomo dabbene, obbligandosi a mantenerle e restituirle nello stato in cui si trovano all’atto della consegna. Di quest’obbligo è fatta specialissima a sua moglie usi di paragone ad esempio usi questo proposito la Cherubina moglie del Turi. Alla medesima s’impone l’obbligo di tener tutto pulito, in buon ordine, d’impedire che i suoi figliuoli od altri
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sciupino o insudicino le più piccole cose o vadano dove non debbano andare. Si calcola poi principalmente sulla prudenza, riservatezza, e buona maniera della moglie stessa troppo facile essendo che le donne o con la lingua troppo sciolta o con i modi parziali e non umili provochino pettegolezzi, risentimenti, scandali, discordie. Sarà tenuta a prestare amorevolmente ai ferrazzuoli le sue cure in caso di malattia, o per bisogni relativi all’alimento. Terminate le lavorazioni avrà cura di sorvegliare la pulitezza dei camerazzi, la conservazione delle materassa, dei seccami e insomma farà per tutto quanto appartiene alle donne quello che farebbe una brava donna da casa. Manterrà pulita la Cappellina, e conserverà in buono stato gli arredi sacri, i candelieri, e quant’altro. Laverà, stirerà, rassetterà la biancheria datale in uso e l’altra affidatale in custodia. 10) Saranno obblighi del Pietro Petroni a) Mantenere le siepi e metterle ove non fossero e a) tornassero utili. b) b) Sorvegliare le opere che col consenso del Ministro di Porretta fosse necessario di prendere. c) c) Sorvegliare il raccolto di castagne, patate, noci e arzole. d) Manterrà colmo il piano del ponte di Porchia in d) modo che non vi stagni l’acqua e lo scaricherà dalla neve. e) e) Avrà cura speciale delle balle da carbone per conservarle, rassettarle, procurando di notare e riavere quelle che occorresse dar fuori. f) f) Guarderà di tener conto del legname da magistero procurando che non vada a male o non se ne perda e cavando profitto di qualunque pezzo di legno che potesse essere rivolto ad uso degli Edifizi. g) g) Prestare l’opera sua pel mantenimento delle strade tutte, e spalare le nevi secondo il solito.
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11) Tutta la raccolta della farina di castagne procurerà di venderla al miglior vantaggio della Ditta concertandosi col Ministro di Porretta al quale passerà il denaro. Saranno prelevati 150 scudi da mandarli a Pistoia alla Sig.ra Aurelia Ved. Succi a cui dovrà mandarsi anche un sacco fra noci e castagne, a meno che Ella non preferisca avere il denaro anziché le cose in natura. 12) È conservato alla famiglia del povero Battista Amadori l’incarico di raccogliere le castagne nella Macchierella e luoghi soliti col diritto ad un terzo del prodotto della farina. 13) Tutti i raccolti dei terreni di qualunque natura appartengono alla Ditta ad eccezione naturalmente di quelli di Panigale affittati al Betti, ad eccezione dell’orto e della selva davanti alla ferriera il cui godimento si concede al Petroni a patto però che continui a passare ai ferrazzuoli il solito quantitativo di castagne, come pure un paniere di noci al Carrera. Il contadino di Treggiana deve ritenersi un terzo del raccolto con l’obbligo di fornire la semente a metà. La macchia appartiene esclusivamente all’Amministrazione. 14) Qualunque Domenica che non vi sia da fare andrà in Treggiana per vedere che fa quel contadino e raccomandargli interesse comune. 15) È riservato al Gerente di Bologna o al Ministro di Porretta il diritto d’aggiungere quelle ulteriori istruzioni che si credessero opportune. 16) In caso d’inosservanza anche d’un solo dei patti ed ordini che sopra sia per parte del Petroni sia per parte della moglie (il che vuolsi sperare non accada) sarà in piena facoltà dell’Amministrazione il ritogliere l’uso della abitazione e l’esercizio della dispensa, con l’aggiunta delle relative ammende di danno e salve anche tutte le altre misure che si credessero del caso. Qualora invece, come è da credersi, adempiano
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pienamente il dover loro e si facciano onore si renderanno degni per sempre d’ogni riguardo da parte dell’Amministrazione e si guadagneranno la stima, l’amore ed il rispetto di tutti. Sig. E. Succi
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9 Agriturismo Monteacuto. Oggi è difficile a credersi, ma a partire dalla metà del Quattrocento fino a cent’anni or sono, Monteacuto era un centro di fiorenti attività, meta di rilevanti flussi immigratori. I traffici commerciali, più o meno leciti, fra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, le soccide ovine19, le grandi transumanze, le richiesta del legname dalle città e dalle ferriere, il carbone prodotto nei boschi, richiamavano gente non solo dalle comunità vicine, Lizzano, Capugnano, Rocca, Gaggio, Bombiana, ma anche dall’“estero”, come il Frignano ed il Milanese. Per quasi quattro secoli la popolazione di Monteacuto è stata mediamente di 400 persone con un record di 496 nel 1790. Davvero un record, se si pensa al piccolo paese arroccato a 900 metri di altitudine, senza un terreno che si possa chiamare agricolo. E assieme a Monteacuto fiorivano anche Pianaccio, Fiammineda, Casale e Porchia. Porchia. Prima di essere acquistata da Egidio Succi, Porchia era stata, fin dal 1600, proprietà della famiglia Amadori. Doveva la sua esistenza al fiume, il Silla, le cui acque davano la possibilità di effettuare varie lavorazioni fondamentali per quei tempi: “il molino a grano, la tintoreria, la gualchiera (maglio per pressare i tessuti), il mangano (ordigno a pesi per dare lustro e marezzo ai tessuti20)”. La 19 Forma di contratto in cui il soccidante affida le cure di un gregge o una mandria al soccidario, che ha l’obbligo d’allevarlo e trasformare i prodotti; gli utili sono ripartiti in percentuale. 20 A. Bignardi, “Le ferriere di Lizzano”, Strenna storica bolognese, 1978
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famiglia Amadori doveva essere molto devota alla chiesa; furono infatti molti i suoi componenti che presero i voti21. Don Luca, nel 1700, in particolare, fece costruire a Porchia un “…Oratorio dedicato al Precursore22, per comodo di sé e della famiglia, ma aperto in pari tempo alla pubblica frequenza. Nelle “Memorie storiche di don Giulio Pacchi” (cap. IX) si legge: “Sussistette l’oratorio sino al cominciare dell’anno 1800 (o 1814?), ma in quest’epoca…. Dovette subire la sorte delle cose umane, cioè andare distrutto. Questo però successe non per noncuranza o dispregio, ma per necessità: apperò la Ditta signori Succi ne volle sostituito un altro, più ampio, più pulito, più elegante in capo alla piazzetta della località, dedicato pure a S. Giovanni Battista. Mentre quel piccolo villaggio fioriva e per la lavorazione e smercio del ferro e per la frequenza de’ clienti per la compera dei diversi generi che ivi si vendevano e per la continua dimora che vi facevano i ferrazzuoli o lavoranti toscani (che ascesero fino a una trentina in ogni anno) anche l’Oratorio guadagnò maggior decoro”. Casale. Nel catasto Boncompagni, del 1785, l’abitato sopra Porchia non è chiamato Casale, ma Caselle. I vari fabbricati erano suddivisi in una ventina di piccolissime unità immobiliari, che fanno appunto pensare ad una serie di piccole case (caselle) come quelle che oggi chiameremmo a schiera, case piccole che costavano poco. Se Porchia era abitata dal capofamiglia Amadori, è possibile che a Casale, o Caselle, abitassero invece tutti quelli che a Porchia 21 Don Francesco Saverio fu parroco di Lizzano dal 1801 al 1815, anno in cui preferì andarsene a Bagnarola. Fu sostituito dal fratello, Don Martino, per un periodo di tre mesi, dopodiché anche lui se ne andò in pianura, a Castenaso. 22 San Giovanni Battista.
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di tutto quello che non è strettamente legato alla lavorazione del ferro. Così, la dispensa (ovvero la foresteria) di Porchia, il mulino, gli animali, la cantina e le attività agricole vengono prese in gestione da una famiglia di Casale. La ferriera vera e propria cessa l’attività tra il 1887 ed il 1889. Dallo Stato delle anime della parrocchia di Castelluccio risulta che nel 1890 a Porchia sono rimasti solo i mugnai. Nel 1893 le sorelle Succi vendono tutti i beni immobili di Porchia alla famiglia che aveva preso in La produzione continua, ma è chiaro che è già iniziato il declino. Porchia
Casale
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andavano a lavorare, ovvero i mugnai, i tintori, i gargiolari, i manovali delle ferriere. E probabilmente tra questi anche Pierro e i suoi genitori. Pierro, nato il 29 Aprile 1824, di mestiere fa il vuotino, cioè scarica le some, alla ferriera di Porchia. Acquista una casa a Casale nel 1849, anno in cui presumibilmente si sposa con Rosalba. Evidentemente il lavoro e la fedeltà di Pierro sono molto apprezzati, tant’è che, nel 1860, gli viene affidata la gestione della dispensa e di tutte le risorse agricole della ferriera. La famiglia si trasferisce così a Porchia e avvia una fiorente attività di agriturismo, offrendo pasti, camere per dormire, prodotti del mulino e della terra. I servizi della “Dispensa delle Ferriere” vengono sempre più graditi, sia da chi viene nel Belvedere per commerciare il ferro, sia da chi è di passaggio per Monteacuto o Pianaccio. Gli affari vanno bene, molto bene. I coniugi Petroni-Tonielli cominciano a comperare una serie di terreni e fabbricati, prima a Casale, poi a Vignado, lungo il torrente Silla, poi anche a Lizzano, sulla piazza. Qui, nel 1872, costruiscono un grande edificio (molto grande per quei tempi), per continuare, aiutati dai figli maschi, l’attività di ospitalità e vendita di pane e altri generi alimentari. Anche l’Aubergo della Posta si afferma. Negli anni successivi continuano gli acquisti da parte di Pierro e Rosalba (Rosalba in realtà non appare più in nessun rogito, ma non ho dubbi che fosse sempre ben presente e vigile). Altri terreni alle Fontane e a Panigale, ed altri lotti a Lizzano, per allargare la proprietà e costruire un nuovo forno. I figli si sposano: Ermelinda con il già citato Pietro Filippi; Ernesta con Gustavo Sabbatini, proveniente da Pracchia, persona
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in qualche modo legata all’attività delle ferriere, che giocherà un ruolo fondamentale nel convincere i fratelli Petroni a diventare produttori di energia elettrica; Onorato con Emilia Bonucci; Francesco rimane single, ma poi arriva la Marchesa… L’attività della ferriera si esaurisce, ma l’esercizio dell’”agriturismo” prosegue. Nel 1893 la famiglia Petroni diventa definitivamente proprietaria di tutti i fabbricati e i terreni di Porchia. Oratorio compreso. Le cassette del Maestro della ferriera vengono quindi da Porchia? Sembra proprio di sì.
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10 La rivalità Lizzano - Vidiciatico Che i Magoni abbiano sempre cercato di primeggiare, meglio se arrecando danno ai vicini, i Magalini lo dicono da sempre. Fondano l’origine di tali angherie ai duecento anni23 durante i quali la chiesa di Vidiciatico era alle dipendenze di quella di Lizzano e il parroco andava di rado e malvolentieri a celebrare la messa “in trasferta”. Ribadiscono che il sopruso continuò nei trecento anni successivi24 quando, conquistata l’autonomia, la chiesa di Vidiciatico non riuscì però ad ottenere il fonte battesimale, ragion per cui i poveri Magalini dovevano scendere a Lizzano per battezzare i pupini e le pupine. Affermano che decisiva fu poi la nuova strada Porretta-Fanano che, di punto in bianco, fu costruita “saltando” Vidiciatico. Una tesi interessante e degna di essere verificata è che la famiglia Petroni possa aver contribuito nel tramare quest’ultima vessazione. Il buon Egidio Succi si lamentava già dagli anni 1850 della necessità di realizzare un collegamento stradale efficiente almeno fra Lizzano e Porretta, meglio ancora si si fosse raggiunta anche Fanano. Il primo progetto della nuova strada porta la data del 1861. Fu discusso fino al 1865 quando fu chiarito che se il Comune di Lizzano voleva costruire la strada doveva reperirsi autonomamente i fondi. Progetto sospeso. 23 24
1380 - 1586 1586 - 1860
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Nel 1868 il Regno d’Italia emanò una legge che rendeva obbligatoria la costruzione di una serie di nuove strade, tra le quali la Fanano-Porretta, autorizzando i Comuni a esigere nuove tasse ed avvalersi anche delle prestazioni d’opera degli abitanti. Quattro giorni di lavoro all’anno, e questo valeva per i cittadini fra i 18 ed i 60 anni e per le bestie, da soma, da sella o da tiro. Un nuovo progetto fu predisposto nel 1874, ma ancora i soldi non erano sufficienti, neanche lontanamente. Fu solo con l’intervento diretto, tecnico ed economico, della Provincia di Bologna, che fra il 1878 ed il 1882 si poté finalmente costruire il tratto fra le Borre (confine del Comune) e Lizzano. I lavori furono eseguiti dall’impresa di Eugenio Pozzi di Grecchia25. A quel punto i cittadini di Lizzano, ottenuto il collegamento con il loro paese, poterono dedicare più tempo a decidere se fosse opportuno che il proseguimento della strada verso Fanano dovesse o meno passare per Vidiciatico. Quali erano i pro e i contro di questa ipotesi? I pro, nessuno, i contro, tanti. Vidiciatico aveva l’opportunità infatti di ritrovarsi a metà strada fra Fanano e Porretta, nel punto più alto del percorso, luogo nel quale tutti i birocciai (ovvero gli autotrasportatori del tempo) si sarebbero fermati per rifocillarsi e far riposare i cavalli. I commercianti Lizzanesi non potevano certo concedere questo vantaggio ai concorrenti di Vidiciatico. Fu pertanto avviato un intenso lavoro, che oggi chiameremmo di lobby, per convincere la Provincia di Bologna che esistevano altri percorsi per raggiungere la Masera, più comodi ed economici. Le riunioni segrete si susseguirono. 25 Eugenio Pozzi fu sindaco dal 1890 al 1896 e dal 1899 al 1902. Il figlio Diego fu sindaco dal 1925 al 1927 e dal 1951 al 1956. Il nipote Renzo fu sindaco dal 1960 al 1964.
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Si racconta che la decisione finale fu presa nel corso di un sontuoso pranzo organizzato in onore dell’ingegnere capo del Genio Civile a Porchia, nella “Dispensa delle Ferriere”, di proprietà del consigliere comunale Francesco Petroni. L’abbondanza del vino, la fragranza dei cibi, ma soprattutto la vicinanza di una bella signora, avrebbero avuto un peso determinante sulla decisione finale. Il collegamento di Lizzano con Fanano fu realizzato fra il 1899 ed il 1902, passando per la Ca’ Bura, la Serra e la Masera. Saltando Vidiciatico, quindi. Evidentemente l’ospitalità della “Dispensa delle Ferriere” era stata apprezzata. A Vidiciatico fu dato il contentino di una bretella di collegamento a partire dalla località che fu chiamata il Bivio. Da allora ogni occasione fu buona per i Magalini per dire che Lizan el vol fare el leon e a nualtri el c’à lasc’à al brisc’ole.
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11 Certificati di denunciata successione Torniamo ai certificati di denunciata successione. Il 9 Novembre 1904, in una casa delle parti contraenti posta in Lizzano di Belvedere, in Piazza Maggiore e detta Locanda della Posta, d’abitazione dei signori cessionari Petroni ed in locale a pianterreno che riceve luce a mezzogiorno, le sorelle Ermelinda ed Ernesta Petroni, alla presenza dei relativi mariti Pietro Filippi fu Bartolomeo e Gustavo Sabbatini di Davide26, che intervengono nel presente rogito per prestare alle proprie mogli ogni opportuno e legale e maritale consenso (caspita, ancora nel 1904, mogli sottomesse...) vendono ai fratelli Francesco ed Onorato tutte le quote di proprietà di tutti gli immobili ereditate dalla comune madre Rosalba Tonielli. La somma pagata è complessivamente di 170 lire che si aggiungono alle 2250 lire già corrisposte il 29 Ottobre 1901 in esecuzione delle volontà testamentarie di Pierro. Il 29 Settembre 1913, in casa dei fratelli Petroni, Francesco Petroni, possidente, servendosi di denaro suo e di suo fratello Onorato, paga la somma di lire 1800 al signor Polmonari Giulio, fornaio, a saldo del legato di lire 1500 e dei relativi interessi disposto dal signor Petroni Pietro con testamento pubblico del 24 Giugno 1891, nonché una ulteriore somma di lire 106 a fronte della cessione di tutti diritti a lui spettanti dall’eredità di Tonielli Rosalba con testamento pubblico del 28 Maggio 1891. Quindi i trisnonni Pierro e Rosalba, contemporanea26
Domiciliato a Pracchia, assieme alla moglie.
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mente, nel 1891, redigono un testamento ufficiale nel quale inseriscono Giulio Polmonari come erede, praticamente alla stregua degli altri figli maschi e femmine27. Che cosa era successo perché arrivassero a questa decisione? Torniamo a Giulio Polmonari. Quello che sapevamo: Giulio Polmonari, nato a Lizzano nel 1890, fu adottato da Emilia Petroni perché rimasto senza genitori. Visse con la nostra famiglia nella casa di Lizzano, facendo il fornaio, fino a quando si trasferì in America, a Vineland, New Jersey, dove aprì una italian bakery. Laggiù sposò Margherita Zucca, da cui ebbe un figlio, Pete, il quale a sua volta ebbe due figli. Quello che abbiamo saputo indagando sulla “Bisnonna che sparava agli indiani”: Giulio Polmonari arrivò a New York il 14 Ottobre 1913, da Le Havre. Aveva 23 anni, altezza 5’7” (1,70), occhi neri, 30 dollari in tasca ed è diretto a Vineland, New Jersey, dal padre Pietro Polmonari. Pietro Polmonari era sbarcato ad Ellis Island il 17 Dicembre 1900, proveniente da Napoli assieme alla moglie Francesca Vai (1873) e ai figli Adele (1896), Dino (1897) e Maria (1900). Era diretto a Vineland dallo zio-cognato Alfonso (Vai o Polmonari?). Sulla 27 La quota legittimaria corrisponde, in questo caso, ad un sesto del patrimonio; è ipotizzabile pertanto che trisnonni avessero disposto che il loro patrimonio fosse diviso in sei quote uguali, assegnate quattro ai figli, una a Giulio Polmonari e la sesta residua ai figli maschi.
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Le famiglie Vai e Polmonari all’arrivo a Vineland (1900-1901)
stessa nave c’erano anche Giuseppe Vai, la moglie Sabina Guglielmi e i figli Agnese ed Alfredo, che vanno a Vineland dai figli/fratelli Amalia e Pio. Che fossero i genitori di Francesca e quindi i nonni di Giulio? Pensavamo che Giulio fosse orfano e lo abbiamo ritrovato con una grande famiglia. Quello che abbiamo scoperto dopo: Che Francesca, detta Fanny, fosse figlia di Giuseppe Vai, è stato confermato dal pronipote Alberto Baruffi28. Che Pietro fosse il padre di Giulio è stato confermato da Adele Baruffi, la quale ha però smentito che Francesca fosse la madre. Francesca era la seconda 28 Una delle sorelle di Francesca, Ida, ebbe una figlia, Itala, che sposò un Baruffi da cui nacquero Alberto e Adele.
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moglie di Pietro. La madre di Giulio, nata Petroni, era morta probabilmente di parto. Solo dai Registri Parrocchiali è arrivata la versione definitiva. Adele, figlia di Pierro e Rosalba (quindi non erano quattro fratelli ma cinque), nata nel 1867, sposa Pietro Polmonari, possidente. Il 20 Agosto 1890, nella casa di Borgo Piatto, nasce Giulio. Un mese dopo, a seguito di un forte attacco di epilessia, Adele muore. Quindi Giulio rimane orfano di madre dopo un mese di vita. Viene pertanto “adottato”, come sapevamo, dalla zia Emilia, moglie di Onorato e cresce assieme ai cugini Pietro, Gustavo e Adele, più o meno coetanei. I nonni Pierro e Rosalba si rendono presto conto che Giulio, benché sia di fatto parte della famiglia, non lo sarebbe mai stato dal punto di vista legale ed economico. Decidono pertanto di assegnargli la quota di eredità che sarebbe spettata alla figlia Adele, morta prematuramente. Il 29 Settembre 1913, Giulio si fa liquidare dai cugini la quota parte di eredità. Pochi giorni dopo parte per l’America. In tasca non ha solo 30 dollari, come dichiarato agli ufficiali dell’immigrazione, ma un bel gruzzolo che gli permette di proseguire e sviluppare l’Italian Bakery già avviata dal padre a Vineland.
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Gruppo di famiglia ristretto: Pietro Polmonari, Francesca Vai e le due figlie Adele e Maria (Vineland, 1901). Manca il figlio Dino, il cui nome è registrato nei documenti di sbarco a Ellis Island, ma che non compare mai in alcuna delle foto successive.
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12 Sunnyside Continuo a chiedermi perché tanti Lizzanesi siano andati a Vineland, New Jersey. Capisco l’Illinois, i Territori Indiani, là c’era il carbone, ma a Vineland che cosa c’era che potesse giustificare un trasferimento di intere famiglie? Uno strano paese piantato su una terra che sembra sabbia e gli abitanti sono tutti lizzanesi, come dice nel 1928 Giulia Baruffi.29 Adelfo Cecchelli, sul numero 3 di Viandare, riporta una teoria, anzi, direi quasi una leggenda. Giuseppe Vai, detto Juffa, sbarcato a New York, a Ellis Island, storica isoletta della baia riservata alle operazioni di immigrazione, fu incuriosito da un cartello pubblicitario che invitava gli emigranti: “Come to Vineland”. Juffa ascoltò il suggerimento attratto da quella bella immagine campagnola e familiare e dal nome, la terra del vino, che prometteva un lavoro certamente più umano e appropriato. Si trasferì laggiù. Fu lui il pioniere della colonia belvederiana. Oggi si potrebbe dire: potenza della pubblicità. Come tutte le leggende che si rispettino, credo che anche questa sia basata su un fondo di realtà intorno al quale sia stata costruita una storia più accattivante. Quando arrivò ad Ellis Island, Juffa sapeva già di preciso dove sarebbe andato. In effetti i funzionari dell’Immigrazione registrarono che la sua destinazione finale sarebbe stata Vineland, dai son Amalia and Pio. Allo stesso modo la famiglia di Pietro Polmonari, che viaggiava con lui, dichiarò di andare a Vinelande Maine dagli uncles and brother29
La Musola n. 27 pg 47
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in-law Alfonso. Quindi qualche componente del clan Vai-Polmonari era già arrivato là prima di loro30. È tutt’altro da escludere invece che possa essere stata una pubblicità a suscitare l’interesse per questa terra delle vigne. Gino Baruffi (Musola 43- Adelfo Cecchelli) “Le famiglie lizzanesi e belvederiane a Vineland? Fammi pensare. prima di tutto i Vai che furono i pionieri, credo, eppoi i Goffredi, i Camparri, i Fiocchi, i Carpani, i Marcacci, i Polmonari, i Giovanelli, i Cheli, i Mattioli, i Lenzi, gli Orlandini, i Biagi, i Filippi”. A conferma che i Vai-Polmonari devono essere presumibilmente stati i pionieri, sui registri di Ellis Island non ho trovato nessun belvederiano che dichiarasse di andare a Vineland prima del 1900. A quei tempi, esistevano due vie completamente diverse di “emigrare in America”. La prima era quella dei minatori. Partivano per lo più da soli, almeno la prima volta; la famiglia, semmai, li raggiungeva in seguito. Si imbarcavano tutti, indistintamente, dalla Francia, Boulogne prima, Le Havre dopo; mai dall’Italia. Andavano nell’Illinois o nei Territori Indiani. Evidentemente esisteva un canale di informazione/prenotazione del viaggio già prefissato dal quale non si poteva derogare. Quelli che invece partivano dall’Italia, Genova o Napoli, erano dei paesant (contadini), dei negoziator 30 In effetti i son Amalia e Pio risultano essere arrivati qualche mese prima, esattamente il 27 Luglio 1900, provenienti da Genova con la nave Tartar Prince. Non so invece chi siano e quando siano arrivati gli uncles ed il brother in law di Pietro Polmonari.
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(bottegai), o dei tailor (sarti), ma comunque non minatori; in genere facevano parte di nutriti gruppi familiari. Sempre su www.ellisisland.org ho trovato una settantina di famiglie italiane partite da Genova alla fine di Dicembre del 1896 e dirette tutte nell’Arkansas. Di queste, molte provenivano dall’Appennino Emiliano. Goffredi, Fiocchi, Baruffi, Filippi, Lenzi, Selva, Farneti, Taglioli, Giacomelli, Vai, Polmonari. La qualcosa è abbastanza strana perché, in date successive, non ho più trovato alcun riferimento a Belvederiani insediatisi in Arkansas. Gli stessi nomi li ritroviamo in gran parte, invece, anni dopo a Vineland. Coincidenza? Le coincidenze non esistono. Rileggendo alcuni appunti, un riferimento all’Arkansas lo avevo infatti annotato. In una delle sue riviste “La Coltura Rurale” (n. 1, settembre 1903), Don Emanuele Meotti, parroco di Gaggio, commentava la promulgazione di una legge del Regno d’Italia a tutela degli emigranti che, fra gli altri provvedimenti, istituiva i Comitati Comunali, forme di assistenza a chi intendesse emigrare all’estero. Il commento di Don Meotti è favorevole: “… così potremmo ultimamente dissuadere operai dall’accettare offerte di lavoro nella Louisiana e nell’Arkansas”. Che cosa c’era di così negativo nella Louisiana e nell’Arkansas da indurre Don Meotti a questo ragionamento? Pensavo che le condizioni di vita di chi andava a fare il minatore nell’Illinois o nei Territori Indiani fossero già molto precarie. Evidentemente, nel profondo sud degli Stati Uniti ci doveva essere di peggio.
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Proviamo a rimescolare insieme tutte queste considerazioni, impastare bene e lasciare lievitare. Che cosa salta fuori? Un’idea prende forma. Il gruppo diretto in Arkansas doveva essere partito con un’aspettativa ben precisa che invece non si era verificata. Probabilmente erano stati anche truffati. Avevano passato laggiù un certo periodo di tempo, breve, poi erano stati costretti ad andarsene, volenti o nolenti. Tutti. A quel punto qualche cosa li aveva attirati verso il New Jersey. Che cosa? Forse solo il fatto che nel New Jersey le condizioni di vita non erano disperate come dovevano essere nel profondo sud. Le cose purtroppo andarono proprio così. Anzi, anche peggio. Prima della Guerra Civile americana, Sunnyside era una fiorente piantagione del sud dell’Arkansas, distesa lungo i meandri del Mississippi, 300 miglia a nord di New Orleans. 10.000 ettari coltivati a cotone. Ma le truppe dell’Unione distrussero tutto. Sunnyside cambiò proprietario varie volte nei decenni successivi, ma nessuno riuscì a ridarle lo splendore di un tempo. Nel 1886 decise di provarci anche Austin Corbin, un finanziere d’assalto di New York. Ben presto si trovò di fronte al più grave dei problemi: la manodopera. Gran parte degli schiavi neri se n’erano andati appena ottenuta la libertà. Chi era rimasto gli fece subito capire che preferiva lavorare per i vecchi padroni piuttosto che per uno sconosciuto Yankee. Per un po’ di tempo Corbin provò ad utilizzare i condannati ai lavori forzati, ma i risultati furono pessimi. Poi la grande idea: visto che non ci era riuscito con ex schiavi e galeotti,
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pensò di reclutare gli italiani. Geniale! Ne parlò, non sappiamo in quali termini, con l’amico Alessandro Ondini, funzionario dell’ambasciata italiana a New York, e con il principe Emanuele Ruspoli, già sindaco di Roma31. La famiglia Ruspoli era ben nota e rispettata come una delle maggiori proprietarie terriere della zona di Senigallia. Ruspoli si associò all’iniziativa e diede l’incarico del reclutamento ad Alessandro Pierini, suo fattore ed amministratore nelle Marche. Il progetto di Corbin era di frazionare la piantagione in lotti di 5 ettari, ciascuno con la propria casa in stile coloniale, in modo che potessero essere acquistati da 250 famiglie assumendosi un debito di 2.000 dollari da ripagare in 20 anni al tasso del 5%, mediante i proventi della vendita del cotone coltivato. Corbin si impegnava a rilevare tutto il raccolto al prezzo della Borsa di New Orleans. La località era descritta come un paradiso terrestre, la proposta economica sembrava valida, l’idea di diventare proprietari terrieri era allettante, anche per chi in Italia faceva il sarto, il calzolaio o il barbiere. Il primo gruppo di italiani arrivò al porto di New Orleans il 22 novembre 1895. Erano 98 famiglie, la maggior parte dalle Marche, ma anche da Montese, Zocca e Castel d’Aiano. 540 persone, fra cui 110 adolescenti e 127 bambini. Al loro arrivo a Sunnyside, la situazione si rivelò ben diversa da come era stata loro prospettata. La società di Corbin non aveva ancora provveduto al frazionamento, per cui non poteva essere acquisito alcun titolo di proprietà. Corbin manteneva fede alla promessa di rilevare tutto il raccolto, ma solo alla condizione che i neo arrivati acquistassero qualsiasi cosa di cui avessero 31
Dal 1877 al 1880.
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bisogno, attrezzi, sementi, abiti e cibi, all’emporio di Sunnyside, ovviamente di proprietà dello stesso Corbin. E per finire, quello che doveva essere un paradiso terrestre, si rivelò come una ininterrotta distesa di paludi e acquitrini, infestati da voraci zanzare. Ben altro però doveva ancora capitare agli avviliti pionieri italiani. L’unico che poteva porre un qualche rimedio alla situazione, o quanto meno poteva esserne additato come responsabile, Corbin, morì l’anno successivo per un incidente. Il prezzo del cotone alla borsa di New Orleans precipitò ed il ricavato fu insufficiente anche per il solo mantenimento delle famiglie. Poi la tragedia: in soli due mesi la malaria si portò via ben 130 persone, e a molti di loro non fu nemmeno possibile dare una sepoltura decorosa. Nonostante tutto questo, il reclutamento in Italia proseguiva. Al principe Ruspoli fu fatta pervenire una relazione secondo cui i primi coloni si erano insediati e tutto procedeva favorevolmente, come previsto. Così fu dato il via ad un secondo gruppo di 72 famiglie che, partito da Genova sulla nave Kaiser Wilhem II, arrivò a New York il 29 Dicembre 1896. Questa volta c’era anche un nutrito drappello di lizzanesi: Arturo e Giuseppe Baruffi, le famiglie di Egisto Polmonari (fratello di Pietro?), di Giosuè Farneti, di Carlo Fiocchi, di Giuseppe Selva, di Pietro Vai (fratello di Giuseppe?), poi ancora Filippi, Bernardini, Lenzi, Giacomelli, Taglioli. Tutti questi, ed anche tutti gli altri italiani, dichiararono di essere diretti in Arkansas. E in effetti a Sunnyside, Arkansas, arrivarono il 5 gennaio 1897. Si aspettavano di trovare i primi arrivati ricchi e felici; li trovarono invece indebitati e disperati. Un anno dopo, a Sunnyside, erano rimasti solo 40 italiani.
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Che cosa poteva fare, del resto, chi aveva lasciato il Paese natale, con la convinzione di trovare un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, e scopriva di essere stato preso in giro, imbrogliato e derubato? In America, nel Paese delle grandi opportunità, bisognava trovare un altro posto che un’opportunità la desse, grande o piccola che fosse. Ci fu chi se ne andò verso nord, nel Missouri, e fondò delle comunità italiane,32 chi se ne andò a sud, nelle città della Louisiana, e chi seguì invece un altro messaggio che invitava gli Italiani ad andare nel New Jersey, in un nuovo posto chiamato “la terra dei vigneti”.33
32 Tontitown e Rosati. 33 Un primo (ed unico) atto di giustizia nei confronti di chi fu sradicato dalla propria terra con l’inganno fu ottenuto nel 1907 quando, negli Stati Uniti, fu aperta un’inchiesta su fatti di Sunnyside e più in particolare sulla violazione della Contract Labor Law che proibiva il reclutamento di manodopera all’estero.
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13 La terra dei vigneti Tutti pensavano che Charles Landis fosse matto. E probabilmente lo era. Di sicuro era un idealista. Nato nel 1833 a Filadelfia e completati gli studi di Legge, un bel giorno decise di fondare una nuova città che potesse crescere sulla base di nuovi concetti di convivenza e di tolleranza e non di mera speculazione. Con solo 500 dollari in tasca, convinse Mr. Wood, un grande possidente del New Jersey, a vendergli 20.000 ettari di terra posti lungo la nuova ferrovia che portava ad Atlantic City, senza garanzie e senza pagamenti per i primi 3 anni. Costruì una grande strada che doveva diventare il viale centrale del nuovo paese e vi aprì un ufficio postale. Tutti ridevano: aprire un ufficio postale dove non esiste una casa nel raggio di miglia? Charles Landis persistette, chiamò la strada con il suo nome, e si fece nominare ufficiale postale del nuovo paese, che battezzò Vineland, terra dei vigneti. Perché terra dei vigneti, che non ce ne era neanche uno nel raggio di miglia? Semplicemente perché nella mente di Charles i vigneti erano una coltivazione ideale per una nuova comunità. Nel 1862 cominciò a vendere i lotti. Matto o no che fosse, nel 1864 era riuscito a venderne la bellezza di 650. L’anno seguente, Vineland aveva già 5.500 abitanti. Landis però non era interessato a fare soldi, voleva perseguire il suo ideale di nuova città. Rifiutava regolarmente tutte le offerte di acquisto da parte di persone che non giudicava all’altezza, vendeva invece a prezzi scontati a chi aveva particolari meriti “sociali”, imponeva ai concittadini ferree clausole di convivenza, quali il divieto di recintare i lotti e
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di vendere alcolici. Gli invidiosi cominciarono a criticarlo, alcuni giornali lo definivano un dittatore. Nel 1875, quando un giornalista arrivò a scrivere sulla sua presunta insanità mentale, Charles non ci pensò su due volte e lo ammazzò, sparandogli in testa. Arrestato e processato, riuscì ad ottenere un verdetto di assoluzione in quanto temporaneamente incapace di intendere. Era vero o era stato bravo a fingere durante il processo? Non si sa. Si sa solo che tornò immediatamente al lavoro e riprese la sua attività come se niente fosse successo. Anzi, diede vita finalmente all’idea dei vigneti. Chi avrebbe potuto dargli l’esperienza per fare crescere le vigne in un posto in cui mai si erano viste prima? Facile, gli italiani. Da quel momento Landis indirizzò tutte le sue azioni promozionali e pubblicitarie verso l’Italia. Fondò il primo giornale italiano negli Stati Uniti, che chiamò The Echo of Italy, un nuovo quartiere in costruzione prese il nome di New Italy e, ovviamente, tutte le strade da allora ebbero nomi italiani. La campagna di informazione di questo nuovo angolo del mondo fatto apposta per gli italiani ebbe successo e numerose famiglie italiane cominciarono ad insediarsi a Vineland. Ancora una volta Charles, matto o no che fosse, aveva avuto una buona intuizione. Gli italiani che arrivarono gli fecero presto capire che al di là dei vigneti, che potevano sì essere coltivati, ma avrebbero sempre dato un vino scadente, il terreno di Vineland era ideale per la coltivazione di svariati tipi di frutta e di ortaggi. Charles seguì il consiglio alla lettera: nel 1882, non solo le fattorie di Vineland esportavano frutta ed ortaggi verso tutte le città del New Jersey ma, per non ammettere di essersi sbagliato in fatto di vigneti, inventò, assieme all’amico Dr. Welch, la produzione di vino non fermentato. Oggi, ancorché
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trasferita in un altro stato in cui il terreno è più adatto alla coltivazione dei vigneti, la Welch’s Grape Juice è un’azienda leader nella produzione di succhi di tutti i tipi. Gli italiani avevano dato a Landis quella produttività agricola che gli serviva per fare prosperare la sua creatura. Nel 1880 Vineland raggiunse i 10.000 abitanti e Landis si poté permettere il lusso di fare due lunghi viaggi promozionali in Italia. Quando morì, nel Giugno del 1900, Landis non era diventato ricco; aveva infatti sempre reinvestito tutto quello che aveva guadagnato, ma di sicuro aveva la soddisfazione di un uomo che era riuscito a creare dal nulla quello che aveva sempre sognato. Matto o no che fosse. Delle ipotesi che si potrebbero fare, io voterei per la prima. Ovvero che siano stati i Vai ed i Polmonari che scappavano disperati da Sunnyside a venire a sapere di quest’angolo di Italia in America, e che abbiano deciso di tentare di nuovo; del resto non avevano molte alternative. Una volta toccato con mano che le cose stavano davvero come magnificato, devono aver informato i parenti a Lizzano. Ma potrebbe essere anche il contrario: cioè che siano stati i Vai ed i Polmonari che erano ancora a Lizzano, a ricevere informazioni della colonia di Vineland dai viaggi promozionali che Charles Landis fece in Italia. E, una volta arrivati laggiù, toccato con mano che le cose stavano davvero come magnificato, possono aver chiamato i parenti che in America non avevano ancora trovato quello cercavano. Non credo però che sapere come sia andata esattamente faccia molta differenza. Quindi il fatto della pubblicità è vero. Che sia stato un Vai a vederla è possibile. Che sia stato Giuseppe non credo.
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Casa Polmonari a Vineland (1912). La famiglia si è allargata: ci sono tre nuove figlie. La bella casa in mattoni indica che gli affari dovevano andare bene per Pietro.
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14 Distacco Ad un certo punto la famiglia Petroni decide di spostarsi. Pierro, Rosalba ed i loro figli sono riusciti a ricreare a Lizzano tutto quello che avevano “inventato” e che aveva dato loro benessere a Porchia, l’ospitalità, il forno, la vendita. Monteacuto, Pianaccio e Porchia sono ormai in forte declino; ora il centro vitale è a Lizzano, sulla piazza. Ma Porchia e il torrente Silla hanno ancora una risorsa da offrire, prima di essere abbandonati.
15 Energia elettrica Nella speranza di riuscire a mettere in scena il numero del “trasporto umano”, Robert Angier, illusionista del film The Prestige, ricorre alla consulenza dello scienziato Nikola Tesla, impersonato da David Bowie. Angier si trova così faccia a faccia con gli scagnozzi di Thomas Alva Edison, inviati nel Colorado per distruggere il laboratorio di Tesla. Al di là della tecnologia immaginata dal regista Christopher Nolan per creare l’illusione, la rivalità Edison-Tesla è un fatto storico, e fu una lotta senza esclusione di colpi.
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Dopo aver inventato il fonografo e la lampadina ad incandescenza, Edison aveva messo a punto un sistema per produrre e distribuire energia elettrica34. Costruita nel 1882 la prima centrale elettrica al mondo, quella di Pearl Street a New York, cominciò proficuamente a vendere il brevetto in America ed in Europa. La tecnologia di Edison era basata sull’impiego di corrente continua che offriva il vantaggio della possibilità di accumulo in batterie e di essere poco pericolosa, ma che, per contro, poteva venire impiegata solo nelle vicinanze dell’impianto di produzione. Negli stessi anni, Nikola Tesla, serbo immigrato negli Stati Uniti, utilizzando il motore elettrico inventato da Galileo Ferraris, brevettò il sistema di distribuzione in corrente alternata, che permetteva di trasportare l’energia elettrica a grande distanza, con costi notevolmente ridotti. I motori alimentati a corrente alternata erano inoltre più affidabili ed efficienti di quelli funzionanti a corrente continua. Edison non poteva permettere che qualcuno mettesse in crisi quella che si stava rivelando un’eccellente fonte di guadagno e scatenò una guerra diffamatoria contro Tesla e le sue invenzioni. Dapprima cercò di dimostrare che Tesla era un pazzo visionario, poi puntò sulla pericolosità della corrente alternata. Arrivò, per questo scopo, a costruire la prima sedia elettrica, mettendo in scena, a beneficio della stampa, pubbliche esecuzioni capitali di animali. Ma non ci fu niente da fare: dopo qualche anno di battaglie non solo mediatiche, il mondo scientifico ed industriale 34 Il primo importante passo sulla strada della produzione industriale dell’elettricità fu dovuto al pisano Antonio Pacinotti che, nel 1864, presentò l’”anello” che da allora porta il suo nome: per effetto dell’induzione elettromagnetica esso funzionava sia da dinamo che da motore elettrico.
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Nikola Tesla
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Thomas Alva Edison
riconobbe che il sistema di distribuzione a corrente alternata era nettamente più vantaggioso e affidabile di quello a corrente continua. Edison non solo fu sconfitto in quella che fu definita la “guerra delle correnti”, ma perse tutti i beni investiti nell’impresa, finendo praticamente sul lastrico. Le invenzioni di Tesla avevano trionfato, ma nemmeno lui fu capace di gestire i guadagni che si prospettavano: la brama di scoperte sempre più ardite lo portò a spendere sempre tutto in apparecchiature e laboratori fantascientifici, per cui in breve si trovò in una situazione di bancarotta cronica. Nel 1915, a riconoscimento dei rispettivi contributi al progresso tecnologico, Edison e Tesla furono candidati contemporaneamente al Premio Nobel.
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Entrambi preferirono però rifiutarlo piuttosto che condividerlo con l’acerrimo rivale. Uno dei primi clienti di Thomas Alva Edison fu l’ingegnere milanese Giovanni Colombo. Colombo, affascinato dalle dimostrazioni fatte in giro per l’Europa della nuova tecnologia che dava elettricità alle città, decise di lanciarsi nell’impresa. Nel 1883 fondò una società, chiamata appunto Edison, acquistò i locali in disuso del teatro di Santa Radegonda, a fianco del Duomo, installò una caldaia a carbone, le macchine a vapore e quattro dinamo da 350 kW. Costruì anche una ciminiera alta 52 metri. Con una linea elettrica collegò poi i negozi dei portici settentrionali di piazza Duomo, i locali eleganti che si affacciavano sulla Galleria, il Teatro Manzoni e il Teatro della Scala, gli unici probabilmente disposti a pagare quasi il doppio delle tariffe di una equivalente illuminazione a gas. In tutto 4800 lampadine da 16 candele, alimentate a 110 volt, ovviamente in corrente continua. La vita dell’impianto di Santa Radegonda fu piuttosto breve; in effetti il sistema Edison era nel suo complesso ben progettato, ma aveva dei forti limiti per quanto riguardava la distanza utile di trasmissione della corrente. E, soprattutto, funzionava a carbone, risorsa della quale il nostro paese era ed è particolarmente povero. Fu questo che spinse anche altri imprenditori a prendere in seria considerazione l’utilizzo di risorse idriche come forza motrice per la produzione di energia elettrica. Il primo impianto idroelettrico d’Italia fu costruito nel 1885 a Tivoli, sfruttando il salto delle cascate dell’Aniene. I 28 km che separavano l’impianto di Tivoli da Roma erano però troppi per il sistema Edison. La società Anglo-Romana e la Ganz Company di Budapest, proprietarie dell’impianto, cominciarono
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così a seguire con interesse le notizie di esperimenti di una nuova e più redditizia tecnologia. Fu proprio qui che, sette anni più tardi, Nikola Tesla mise in opera, per la prima volta al mondo, il suo sistema di produzione di energia a corrente alternata e la capitale fu illuminata con un impianto di 1300 kW di potenza. Anche l’ingegner Colombo, come tanti altri al mondo, si rese presto conto che l’abbinamento della forza idraulica con la corrente alternata era vincente. Non esitò pertanto ad abbandonare la centrale di Santa Radegonda e il sistema Edison. Mantenne però il nome della sua società. Fu proprio la corrente alternata che, dando la possibilità di fornire l’energia elettrica anche a grande distanza dal luogo di produzione, permise al Regno d’Italia di sfruttare il grande bacino idroelettrico costituito dalle Alpi. Per incoraggiare lo sviluppo della produzione di energia elettrica, fu emanata fra il 1894 e il 1895 la legge 232 che fece cadere tutti gli ostacoli giuridici alla realizzazione degli elettrodotti, in quanto la conduttura elettrica veniva assimilata alla figura giuridica dell’acquedotto coattivo, per cui il proprietario del fondo attraversato dalla linea non poteva opporsi al suo passaggio, ed il terreno necessario era soggetto ad esproprio per pubblica utilità. Parallelamente, nello stesso anno, il Governo, con un’ altra legge, dichiarò acque pubbliche tutti i fiumi, laghi, torrenti, rivi e canali esistenti sul territorio nazionale, imponendo la richiesta di concessioni per il loro utilizzo. Importanti centrali idroelettriche furono realizzate a Paderno sull’Adda nel 1898 (sette turbine per un totale di 9600 kW ) ed a Vizzola sul Ticino nel 1901 (dieci turbine per un totale di 10.000 kW). Per assicurare un mercato alle sue nuove centrali, la
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La ciminiera della centrale elettrica di Santa Radegonda, di fianco al Duomo di Milano
Edison pensò di acquistare dal Comune di Milano la concessione dell’esercizio della rete tramviaria che, fino ad allora, funzionava a trazione animale. A fianco della Edison si consolidarono rapidamente altri primari produttori di energia come la Società Idroelettrica Piemonte (Sip), la Società Adriatica di Elettricità (Sade), la Società Meridionale di Elettricità (Sme).
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All’inizio del secolo l’elettricità cessava di essere un bene scarso e prezioso, destinato esclusivamente ad impieghi molto pregiati come l’illuminazione, per trovare il suo principale campo di applicazione nella forza motrice. Fu grazie alla grande disponibilità di energia idroelettrica che il nostro Paese poté mettere a segno, fra la fine del 1800 ed il 1915, un tasso di crescita record del 28% annuale, che consentì all’industria italiana un recupero almeno parziale sugli altri paesi europei. La disponibilità di energia elettrica ebbe effetti sulla localizzazione delle fabbriche, non più vincolate alla forza idraulica diretta, mentre la diffusione dei piccoli motori elettrici cambiò la fisionomia del lavoro artigiano, concorrendo al successo del modello della piccola impresa. Fra le prime applicazioni dell’energia elettrica rientra l’elettrificazione delle ferrovie, importante in un paese povero di carbone come l’Italia. Le prime realizzazioni riguardarono le linee Firenze-Pistoia (1890), Milano-Monza (1900). Nel 1914 il 74% della potenza elettrica installata in Italia era di origine idrica e nel 1940 si raggiunse il massimo del 90%. Sfruttato ormai quasi completamente il potenziale idroelettrico, negli anni sessanta tornarono in auge le centrali termoelettriche alimentate da idrocarburi, con le quali, nel 1973, si arrivò a coprire i tre quarti del fabbisogno energetico italiano. Anche dopo gli aumenti del prezzo del greggio degli anni Settanta, gli idrocarburi continuarono a mantenere una posizione predominante. Ora in Italia abbiamo 1933 centrali idroelettriche, 872 termoelettriche ed altre 122 sono geotermiche, eoliche e solari. Nessuna nucleare.
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Luce elettrica anche a Lizzano. È quasi incredibile, ma già prima della fine del 1800 a Lizzano, sperduto paese dell’Appennino Bolognese, è installata una centrale di produzione di energia elettrica. Sembra che sia stato Gustavo Sabbatini, geniaccio toscano, ad appassionare i cognati Francesco e Onorato Petroni all’elettricità. Comperati nel 1893 tutti i fabbricati e i terreni che erano stati delle ferriere Succi, i due fratelli e il cognato si mettono a studiare la possibilità di sfruttare in modo più moderno la forza dell’acqua del torrente Silla. Nel 1899, per la prima volta, le notti di Porchia si illuminano. Si tratta di un piccolo impianto da dodici cavalli, capace di alimentare solo dieci lampadine da 16 candele nel raggio di 200 metri. Energia elettrica ad esclusivo uso personale della famiglia Petroni, quindi, ma anche un test per verificare se la “nuova tecnologia” può essere estesa anche agli abitanti del Comune di Lizzano. Evidentemente il test è positivo. Infatti il 13 Ottobre 1901 viene rilasciata la concessione ufficiale all’esercizio dall’Intendenza di Finanza della Provincia di Bologna e dall’1 Gennaio 1903 l’“Officina Elettrica Petroni Nativi”, potenziato l’impianto, porta per la prima volta luce in 42 case di Lizzano, dall’imbrunire a mezzanotte. Dal registro dei consumatori, si può rilevare che la maggior parte dei clienti ha richiesto solo una o due lampadine da 8 candele, salvo alcuni maggiorenti quali il parroco, Don Montanari, con cinque lampadine, il brigadiere dei Carabinieri, che ne ha tre, l’ingegnere Giovanni Lardi, che ne ha quattro, il locale pubblico di Roberto Mattioli, con sette lampadine, delle quali però ne possono funzionare solo quattro contemporaneamente e, naturalmente, l’Aubergo della Posta, con la bellezza di dieci lampadine. Alla Società Musicale, invece, la luce elettrica viene fornita gratuitamente. Negli
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anni successivi la richiesta di lampadine aumenta. Da uno studio di fattibilità commissionato alla ditta Alessandro Calzoni di Bologna, risulta che è possibile potenziare ulteriormente l’impianto di Porchia. Francesco ed Onorato ordinano quindi alla Riva di Milano una nuova turbina e alla Siemens-Schuckert una nuova dinamo da 10 kW capace di alimentare 260 lampadine. I clienti lizzanesi diventano così 87. Abbiamo fatto i conti in tasca alle ferriere, facciamoli anche all’Officina Elettrica. Le tariffe sono a forfait mensili e vanno da un minimo di £ 1,80 ad un massimo di £ 7,00, per l’esercizio Mattioli. L’incasso medio annuo è di circa £ 2.300. Le tasse di concessione sono di £ 180 all’anno. L’elettricista che gestisce l’impianto costa £ 82 l’anno. Un migliaio di lire se ne va per ripagare l’investimento35. Considerate anche ulteriori spese per manutenzioni, imposte e varie, rimane sempre un margine tale da poter dire che l’affare deve essere buono. Sempre sui registri dei consumatori, vediamo che nel 1909 Gustavo Sabbatini disdice il contratto di fornitura e vi subentra Antonio Riccioni, tornato dall’America. Nel Marzo del 1914, viene staccato l’allacciamento a Giulio Polmonari, partito da qualche mese per l’America. Nel 1920 Gustavo Petroni, che ha preso le redini dell’Officina dal padre Onorato, compie la storica impresa di riportare la luce elettrica, “un palo dopo l’altro,” fino a Monteacuto36. 35 È possibile che sia stata la Marchesa Nice Rusconi a finanziare l’investimento del nuovo impianto nel 1909. Sul registro delle spese dell’Officina Elettrica, risultano infatti “pagati Marchesa £ 1.000” sia nel 1910 che nel 1911. 36 Riportare, perché Monteacuto era già stata illuminata, fra il 1912 ed il 1915, dalla corrente prodotta da Emilio Poli al Mulino della Squaja.
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Progetto della turbina di Porchia (1908).
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Progetto della turbina di Porchia (1908).
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Ad un certo punto la richiesta di energia elettrica a Lizzano e dintorni diventa molto più alta e l’impianto di Porchia non è più in grado di soddisfarla autonomamente. Gustavo Petroni non può fare altro che accettare l’offerta della Società Bolognese di Elettricità (SBE) che gli compera tutta la rete installata a Lizzano e Monteacuto. Gustavo conserva l’impianto di Porchia con il quale continua ad alimentare la rete con la potenza che è in grado di produrre, mentre tutta la richiesta eccedente viene invece fornita dalla SBE dalla nuova grande centrale del Brasimone. Il 27 novembre 1962 la Camera approva il disegno di legge sulla nazionalizzazione del sistema elettrico e l’istituzione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), cui vengono demandate “tutte le attività di produzione, importazione ed esportazione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica da qualsiasi fonte prodotta”. Così tutti i produttori, piccoli o grandi che siano, Edison, Sade ed SBE compresi, devono vendere le loro attività al nuovo soggetto. L’ENEL si trova così ad assorbire le attività di oltre 1000 aziende elettriche. Tra queste la centrale di Porchia, che viene chiusa senza mai essere più utilizzata37. 37 A Bologna, nel 1897, una ruota idraulica posta sul canale delle Moline fece girare la prima dinamo che alimentò l’impianto della luce elettrica di abitazioni e negozi in via Indipendenza. Seguirono altre iniziative del genere favorite dai molti canali che attraversano la città, tra i quali un impianto alla Grada che alimentava la prima apparecchiature a raggi X dell’Istituto Ortopedico Rizzoli. Solo nel 1901 la Società Bolognese di Elettricità (controllata dalla ben più importante Società Adriatica di Elettricità) costruì la centrale del Battiferro, dotata di una turbina da 400 kW. La domanda di energia a Bologna era tale che Il Consorzio della Chiusa di Casalecchio cercò durante molti anni di realizzare un altro impianto sfruttando il salto di 12 metri del canale Cavaticcio,
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Gustavo Petroni
ma fu sempre ostacolata dalla SBE che voleva scongiurare il sorgere in città di una sua concorrente. L’episodio di maggiore interesse per la storia dell’elettrificazione della regione fu indubbiamente la realizzazione dell’impianto del Brasiamone promosso dalla SBE per soddisfare le esigenze energetiche del capoluogo. La diga, denominata Scalere, ultimata nel 1911 e progettata dall’ingegnere milanese Angelo Omodeo, alimentava le centrali di S.Maria e di Le Piane, entrambe distrutte nel secondo conflitto mondiale e ricostruite negli anni del dopoguerra. Nel 1932 le Ferrovie dello Stato realizzarono a poca distanza dalla diga di Scalere, l’imponente impianto di Suviana. Nel bacino di Suviana è stata localizzata nel 1975 dall’Enel la grande centrale a pompaggio di Bargi che utilizza le acque del bacino del Brasimone.
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16 Indietro nel tempo Credo che ormai sia possibile affrontare la domanda iniziale: “Da dove vengono i Petroni?” Lizzano “centro” è ormai da escludere. La famiglia si è insediata lì solo nel 1872 e non vi ho trovato nessuna traccia antecedente di progenitori38. C’è l’ipotesi che possano venire da Porchia o Casale. In effetti ci sono notizie che altri membri della famiglia prima del trisnonno Pierro abitassero a Casale e lavorassero a Porchia. Anche nei secoli precedenti, prima cioè delle Ferriere di Egidio Succi, nell’abitato di Porchia-Casale dovevano sussistere delle possibilità di lavoro che permettevano a più famiglie di vivere in maniera continuativa. Dai registri dei rogiti di Pellegrino Serantoni di Sasso di Belvedere, risulta che, in una pubblica radunanza tenuta sul sagrato della pieve di Lizzano il 5 Agosto 1565 per dirimere una questione di utilizzo di boschi vertente fra gli uomini del Belvedere e di Monteacuto, abbiano partecipato anche un tale Cecco, figlio di Petronio da Casale ed un tale Paganino, figlio di Petronio da Grecchia. A quel tempo solo le famiglie più importanti avevano il cognome consolidato (nella radunanza c’erano dei Filippi, Chelli, Marcacci, Fioresi, Tanari, Betti), mentre gli altri erano identificati con un soprannome (Vecchietto, Tognolino, Santino) o con la provenienza (da Casale, da Grecchia, da Sasso). E’ possibile che sia il Petronio da Casale che abbia dato origine alla famiglia? Oppure che sia stato 38 In realtà nel 1852 al n° 20 della piazza di Lizzano abitava una Maria Petroni.
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l’omonimo da Grecchia? Non mi rimane che affrontare in maniera organica i Registi Parrocchiali. Per gli appassionati di ricerche genealogiche, i Registri Parrocchiali, ovvero gli elenchi di nascite, matrimoni e morti avvenute nelle varie comunità a partire dal 1563, anno in cui il Concilio di Trento decretò a tutti i parroci l’obbligo della registrazione, sono una fonte eccezionale di informazioni. Teoricamente facili da acquisire, praticamente molto laboriose. Ma efficaci. Si tratta di partire da uno dei libroni, ad esempio quello dei battesimi, e trascrivere nomi, paternità, data e luogo di nascita di tutti quelli registrati con un certo cognome. Non sempre i parroci si sono preoccupati di aiutare chi secoli dopo avesse voluto leggere quanto registrato: prima del 1650 i testi sono in latino, i cognomi non sempre sono riportati, per non parlare poi della calligrafia, spesso simile a geroglifici. Con questi dati si può comunque cercare di costruire un primo albero genealogico provvisorio. La cosa non è così facile perché ci sono molti casi di omonimia e spesso molte persone adottano, nel corso della propria vita, un nome diverso dal primo assegnato loro alla nascita. È inevitabile perciò ripetere la stessa procedura con il registro delle morti ed incrociare i due schemi. Per ottenere un risultato veramente ben fatto sarebbe necessaria una terza ulteriore verifica con il registro dei matrimoni. Con una decina di ore di ricerca ed altrettante di lavoro a tavolino e al computer, sono riuscito a tirare fuori tutti i componenti della famiglia Petroni, nati nella parrocchia di Lizzano dal 1650 al 1860 (confesso: proprio non ce l’ho fatta a leggere quanto registrato prima del 1650), per un totale di 139 componenti.
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Troppi? Sì. Un aspetto drammatico balza infatti subito all’occhio sfogliando i registi parrocchiali dei secoli passati: il numero elevatissimo di decessi di neonati o bambini. Condizioni igieniche precarie, malattie infantili, epidemie, o anche solo semplici febbri e bronchiti, riducevano drasticamente le possibilità di sopravvivenza. Pochi dati sono sufficienti a fotografare la situazione: il tasso di mortalità era del 25% nel primo anno di vita e del 50% entro i 5 anni. La speranza di vita era allora di non più di 30 anni39. Il tutto è sicuramente drammatico ma, pensandoci solo un attimo, è tutt’altro che inverosimile. In effetti basta pensare che, prima del 1796, vaccinazione era una parola sconosciuta, che solo nel 1847 un medico ungherese pensò che fosse opportuno lavarsi le mani fra una visita e un’altra, che fino al 1864 nessun alimento veniva sterilizzato, che la penicillina, scoperta nel 1928, fu utilizzata come antibiotico solo dopo la seconda guerra mondiale e che le varie antipolio, trivalenti e tachipirina sono ancora più recenti. Di questi tristissimi avvenimenti non ne sono stati esenti anche i nostri trisnonni. I figli di Pierro e Rosalba non sono quattro come pensavamo all’inizio, e nemmeno cinque come credevamo quando abbiamo saputo di Adele, bensì sette. Nel 1852 nasce Maria Cherubina, così chiamata in onore della signora Cherubina Curi, moglie del capo di Pierro alla ferriera e citata come paragone di virtù. La poverina muore però ancora bambina. Stessa sorte tocca al fratello Oreste, nel 1864, quando ha sei anni. Un altro Oreste, figlio di Onorato, muore nel 1885 all’età 39
Dati forniti da Lucia Pozzi.
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di due anni40 . Tornando agli antenati, il primo Petroni di cui ho trovato notizia è Domenico, nato nel 1661 e sposato con Catterina. La discendenza continua poi con Bernardo, Sabbatino e Michele Domenico, padre di Pierro. Domenico Michele, padre di Pierro, ha la prima figlia a 46 anni e l’ultima a 56; è già molto vecchio, non solo per quei tempi. Come si spiega? Che cosa ha fatto prima di sposarsi? Non so neanche che mestiere facesse. Dubbi simili anche per Sabbatino, nonno di Pierro. Ha un figlio, Domenico Michele, a 25 anni, poi basta. Cosa abbastanza inusuale per quei tempi. Che cosa gli è successo? Che mestiere faceva? Appare invece evidente che entrambi abbiano abitato a Casale, come pure uno dei fratelli di Sabbatino, Domenico. I loro progenitori invece no. Domenico e Bernardo non abitano né a Lizzano, né a Casale, bensì a Panigale. Sempre lungo il fiume Silla e sempre a lavorare come mugnai. In effetti trovo tutto un ramo della famiglia Petroni che, a partire dal primo avolo finora noto, Domenico, nato nel 1661, ha abitato e lavorato a Panigale, almeno fino alla fine del 1800. Torna il filo conduttore che ha sempre legato i vari componenti della famiglia: l’Italian Bakery…i figli hanno poi aggiunto un forno…la molella con le pagnotte in co’…c’erano rimasti solo i mugnai…il mulino di Panigale… Una conferma di questa presenza a Panigale viene da un articolo pubblicato sul n° 12 di Viandare, in cui vengono esaminati i vari “Stati delle Anime” redatti 40 Pertanto questo Oreste è il bambino della foto di pag. 11 assieme ai nonni Pierro e Rosalba..
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nei secoli dai parroci di Lizzano. In particolare riporta che “dal 1795 don Cristoforo Vecchi si dimostra molto più preciso dei suoi predecessori … specificando di volta in volta se la famiglia è a casa propria o no. Ad esempio a Panigale di Sopra è specificato Molino del Sig. re Tanari con mugnaio Giuseppe Fabbri e Panigale di Sotto Molino del Sig.re Albergati con mugnaio Bernardo Petroni.”41 I Tanari e gli Albergati-Capacelli42 di Gaggio sono stati per molto tempo signori della montagna bolognese. Nel territorio del Belvedere avevano vari possedimenti, tra Gabba, Panigale e le Vaie, oltre a terreni e castagneti a Vidiciatico e Monteacuto. Nell’archivio Capacelli, già dal 1552, è registrata una proprietà a Panigale costituita da “mulino, macina, gualchiera, ruota e fabrica”. Molte vicende, più o meno edificanti, di queste “nobili” famiglie sono raccontate da Alfeo Giacomelli in “Per una storia del banditismo montano”43. Un capitolo è dedicato ad un tale Adamo de Aimericis, vivente nel 1200 a Poggio Gainaia, vicino a Capugnano, e ai vari clan familiari suoi discendenti che nei secoli successivi sono stati al servizio di uno o dell’altro signore della montagna. Tra questi clan c’è anche quello dei Petroni da Grecchia originato dal già noto 41 Dai registri parrocchiali risulta che Sabbatino si sposa con Maddalena Fabbri e hanno il primo e unico figlio, Domenico Michele, nel 1777. Che Maddalena provenga dalla famiglia dei Fabbri del mulino di Panigale di Sopra? 42 I Tanari ed i Capacelli sono originari della montagna. Tutte le proprietà Capacelli confluirono però in quella dei bolognesi Albergati con il matrimonio dell’ultima discendente, Ippolita, con Silvio Albergati nel 1603 . 43 Pubblicata sulla Musola nn. 46, 48, 49, 50, 51, 62. Quanto alle vicende più o meno edificanti, vedi “Storie degli avoli 3”.
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Petronio padre di Paganino44. E’ quindi possibile che il clan dei Petroni di Grecchia, o quanto meno qualcuno dei suoi componenti, si sia insediato in una delle proprietà degli Albergati, ovvero al mulino di Panigale. Se così fosse sarebbe ricostruita un’intera ascendenza di oltre 900 anni. È una possibilità, concreta, ma ancora solo una possibilità. Per convertirla in certezza basterebbe riuscire a penetrare nelle informazioni ancora ben nascoste nei registri parrocchiali. Per ora ho rinchiuso tutti i documenti nelle due cassette del Maestro delle Ferriere, con tanto di laccio rosso e lucchetto. Ho aggiunto anche queste pagine, con le domande ancora senza risposta. Magari un domani si potranno inserire altri capitoli nella storia.
44 Petronio da Grecchia compare anche in un lodo del notaio Achille Panzacchi, datato 1577, conservato nell’archivio comunale di Lizzano.
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Albero genealogico
Giovanni Giovanni Domenico Peregrino Battista 1741-1743 Maria 1749-1814 1739-? 1744-1802 Domenico 1738-?
Domenico 1661-1737
sp. Caterina Gandolfi 1677-1747
Bernardo 1714-1784
sp. Gentile Gherardi 1723-1789
Sabbatino 1752-?
Giuseppe Maria Caterina 1753-1815 1757- 1759-? 1819
sp. Maddalena Fabbri
Domenico Michele 1777-1839
Maria Pasqua 1821-?
Pietro (Pierro) 1824-1901
sp. Rosalba Tonielli ?-1903
Ermelinda Maria Oreste Francesco Maddalena Cherubina 1855-1927 1858-1864 1850-1925 1852-1856 sp. Pietro Filippi
Oreste 1883-1885
Gustavo 1887-1962 sp. Adalgisa Gasparri
Franca 1925-1926
sp. Maria Palmieri
Paolo 1826-1826
Ernesta 1859-?
Onorato 1861-1922
Adele 1867-1890
sp. Gustavo Sabbatini
sp. Emilia Bonucchi 1859-1934
sp. Pietro Polmonari
Pietro Virgilio (Pierino) 1889-1964
sp. Catterina Riccioni 1900-1986
Alberto 1922-2003
sp. Anna Legnani
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Maria Rosa 1831-10 mesi
Adele 1894-1980 sp. Raffaele Baraldi
La cassetta del Maestro di ferriera
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L’inquietante lucchetto
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17 Come si fa il carbone? Quando Arturo45 portava noi ragazzi a funghi, diceva sempre di cercare bene nelle piazze da carbone, che sono posti da bolate. Io cercavo, ma spesso mi fermavo a chiedermi: “Come facevano a fare il carbone qui?” È questa un’arte ormai perduta. Si comincia col piantare il cavicchio in mezzo alla piazza; poi si segna un giro alla tonda con un raggio di nove dieci scarpe; poi intorno al cavicchio si intreccia la castellina con dei tondelli che lascino al centro il camino verticale. Poi tutt’intorno i tronchi ritti, fitti fitti e, addosso ai tronchi, la camicia di ramicci. Poi tutt’intorno un giro di codoni e, sopra, il pacciame delle foglie umide e, sopra le foglie, tutta una tunica di terra. Così la carbonaia è pronta: tonda come una immensa polenta. Ma adesso per avviarla viene il difficile: sulla bocca in alto si fa un graticcio; sopra ci si mette un gorbelo pieno di mozzi accesi. Quando sono braci, si lasciano cadere giù, fino al fondo della carbonaia, che comincia a prendere fuoco. Ma guai, se fa fiamma. E così dall’imboccatura in alto bisogna con pazienza e con arte buttar giù i tronchetti e striccarli con una pertica; poi chiudere la bocca. E mattina e sera rimboccare e tastare con la pertica per sentire dove brucia più e dove brucia meno per correggere l’andamento del fuoco aprendo e chiudendo, dall’esterno, in basso, gli arfummi. Se il fuoco scappa e fa fiamma sono guai grossi, perché tutta la legna va in cenere. Sarebbe una vergogna ed una rovina. Ma, se va tutto bene, dopo pochi giorni la carbonaia cala, si schiaccia: il carbone è cotto. Allora bisogna sommondare col sommondin 45
Arturo Riccioni.
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per raschiare via le foglie e stendere invece la terra ben compatta, che spenga tutto il fuoco. E il giorno dopo, finalmente si toglie la terra ed eccolo lĂŹ, il carbone: bello, nero, lustro. (Musola n. 30 pagina 234).
La carbonaia
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Queste pagine, senza pretese, sono state scritte per ricordare chi ha avuto la tenacia per costruire. Ogni osservazione, correzione, o ulteriore "ricordo" sarà ben gradito e magari permetterà di fare un aggiornamento della storia.
Fotografie non originali tratte da: - - - - - -
La Musola del Rugletto dei Belvederiani “Cento fotografie del Belvedere d’una volta”, a cura di Giorgio Filippi, 1992 www.storiadimilano.it. www.westjerswy.org. www.teslasociety.com www.nicosteyn.wordpress.com
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Bibliografia - Gian Luca Lapini, Origini del sistema elettrico a Milano, www.storiadimilano.it. - Paolo Maini, E luce fu, www.123people.it - Marco Poli (a cura di), Le acque di Bologna, Compositori, Bologna, 2005. - Poste Italiane (a cura di), La storia delle Poste, www.poste.it. - Paul Canonici, The Delta Italians, Madison, Miss. Calo Creative Designs, Inc., c. 2003 - Emilianiromagnoli nel mondo - n. 1/2005 - The founding of Vineland and growth as an agricultural center, www.westjerswy.org. - Storia dell’industria chimica - Metallurgia e materiali - Minerva, Università di Torino, www.minerva.unito.it - Davide Shamà (a cura di), Genealogie delle famiglie nobili italiane, www.sardimpex.com - Paola Foschi, Edoardo Penoncini, Renzo Zagnoni (a cura di), L’acqua e il fuoco: l’industria nella montagna fra Bologna, Pistoia e Modena nei secoli XV-XIX, Gruppo di studi alta valle del Reno, Porretta Terme, 1997 - Agostino Bignardi, Le ferriere di Lizzano, Strenna storica bolognese, 1978. - Aniceto Antilopi, Renzo Zagnoni, Ferriere e ramiere dal Granducato di Toscana allo Stato Pontificio, fino ad oggi - Marco Visciola, Stazioni climatiche della Toscana Impressioni, norme, consigli ecc., Firenze, 1904 - Augusto Majani, Dino Provenzal, Lizzano nel 2000 - Memorie storiche di Don Giulio Pacchi - Viandare del Rugletto dei Belvederiani - La Musola del Rugletto dei Belvederiani
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Un fabbricato a quattro piani e diciannove vani. Non c’è dubbio che sia la parte vecchia della casa, quella sulla piazza. Ma allora è stata la trisnonna Rosalba a comperarla? Era già costruita? Chi l’aveva costruita? C’è qualche cosa che non quadra. Occorre indagare ulteriormente. Aprire quello che è rimasto chiuso per anni dà sempre una emozione particolare. Pensi di poterci trovare qualche cosa di speciale o di ritrovare qualcosa dimenticata. Piero Petroni, classe 1955, ingegnere di professione è ormai da alcuni anni sulle tracce degli avoli tra le montagne dell’Appennino bolognese. Come nei primi due volumi, le “Storie” si intrecciano tra chi è andato oltre oceano e chi è rimasto nella terra natia.
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