Vecchie fotografie

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Piero Petroni

VECCHIE FOTOGRAFIE

Storie degli avoli III

Edizione in Proprio ~3~


Le Storie degli avoli: I – La bisnonna che sparava agli indiani (2010) II – L’Aubergo della Posta (2012) III – Vecchie fotografie (2013)

© Dicembre 2013 Progetto grafico: Caterina Petroni

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INDICE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Vecchie fotografie Tornano gli emigranti Torna in fretta ... Serafino, una storia al condizionale Zie d’America Navi Questa non è una vecchia fotografia! Strumenti di conservazione

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Da molto tempo abbiamo rinunciato a chiedervi di assisterci. Forse temevamo che nel farlo avremmo riconosciuto che la nostra individualità, che noi tanto riveriamo, non è interamente nostra. Forse temevamo che un appello a voi sarebbe stato preso per debolezza. Ma siamo arrivati a comprendere che non è così. Noi comprendiamo ora che ciò che siamo è ciò che eravamo. (John Quincy Adams, dal film “Amstad” di Steven Spielberg, 2009)

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1 Vecchie fotografie Ogni foto ha una sua storia, che ti vuole raccontare. Ma alcune cercano di dirti qualche cosa di più. Provano ad attirare la tua attenzione per farti sapere qualche cosa che gli altri prima di te non sono riusciti a leggere, forse perché erano distratti, o perché avevano frainteso. Tentano di dirti che magari c’è un errore, che se guardi meglio puoi trovare quel particolare, sfuggito ai più, che ti rivela una storia diversa, un nome che manca. Alcune foto chiedono aiuto perché il loro messaggio non vada perso.

Piccolette

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2 Tornano gli emigranti Questo è il titolo della fotografia pubblicata da Giorgio Filippi nel 1992 su “L’alto Appennino bolognese in cento fotografie”. La didascalia recita: Fotografia scattata a Gabba e comprende un gruppo di “Americani” di ritorno. Sono stati riconosciuti Antonio Riccioni con cane e fucile, sua moglie Carolina Marcacci ed Eliseo Castelli al centro in alto con i baffoni. La foto era molto piaciuta anche a Mario Fanti, che l’aveva inserita nel suo volume “Una pieve un popolo” del 1981 e a Marco Cecchelli che l’aveva pubblicata in “Salviamo l’emigrante” del 2004. Nessuno di loro, però, ha aggiunto altre informazioni sull’identità dei personaggi. Nonostante le “scoperte” fatte sulle vicende dei bisnonni Antonio e Carolina oltre oceano, non sono riuscito a dare un nome agli altri compagni di viaggio. E la cosa mi dispiace. Sfogliando il volume di Marco Cecchelli, ho notato un’incongruenza: la data nella didascalia in cui si presume che sia stata scattata la foto a Gabba è il 1902. Ma come, non è possibile! In quell’anno i bisnonni Antonio e Carolina erano ancora in America. Sono tornati fra il 1906 ed il 1907. Con l’occasione di segnalare l’incongruenza, ho sondato se gli editori, Gente di Gaggio, fossero a conoscenza di qualche altro elemento per identificare i personaggi. In effetti una nuova informazione sono riuscito ad ottenerla: il secondo in piedi da destra è Enrico Marcacci, fratello di Carolina. Dai registri di Ellis Island arriva la conferma: Enrico Marcacci è sbarcato il 27/10/1901, diretto a Wilburton, nei Territori Indiani, oggi Oklahoma, dal cousin (forse voleva dire cognato) Antonio Riccioni. Aveva 16 anni. ~11~


Qui però l’indagine si è fermata di nuovo. Visto che la foto è stata scattata a Gabba, all’arrivo del viaggio di ritorno, gli altri potrebbero venire sì dai Territori Indiani, come Antonio e Carolina, ma anche da Vineland o dall’Illinois1. Compaesani che si incontrano sulla nave, fanno il viaggio di ritorno assieme fino a Gabba poi, prima di separarsi, ecco la foto! Se le cose stanno così, è difficile poterli identificare; il campo delle possibilità è troppo ampio per tentare una ricerca sistematica. A meno che… L’intuizione viene quando meno te lo aspetti, quando meno la cerchi. A meno che… anch’io non abbia fatto un errore. L’incongruenza sulla didascalia potrebbe riguardare non la data come avevo pensato, ma il luogo. Ovvero che la foto sia stata effettivamente scattata nel 1902, ma non a Gabba come indicato in tutte le precedenti pubblicazioni, ma in America. In effetti riguardando tutti i dettagli da questo punto di vista, molte cose sembrano più logiche. L’aspetto, l’abbigliamento di tutti i presenti, il cane, il fucile, sembrano consoni più ad una foto scattata “in posa”, che all’arrivo di un viaggio durato quasi un mese, in condizioni tutt’altro che confortevoli. Marco Cecchelli, nel suo libro “Salviamo l’emigrante”2 afferma: “Come è noto il raggiungimento di un certo benessere si traduceva nel miglioramento anche dal punto di vista dell’abbigliamento. Si teneva molto a comunicare, attraverso questo linguaggio visivo più eloquente di qualsiasi notizia scritta, la propria condizione a parenti, amici e compaesani.” E se la foto è stata fatta in America, non c’è dubbio che il luogo sia Lutie, dove stavano Antonio e Carolina, e che i personaggi abitassero, più o meno tutti, da quelle parti. 1 2

Altre mete tipiche dell’emigrazione belvederiana. Didascalia foto pag. 36.

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Può darsi altresì che il riferimento di Gabba riguardasse l’origine delle persone, anziché il luogo dove le persone erano in posa. Ovvero: “Foto di un gruppo di emigranti di Gabba – Lutie, 1902.” Verifichiamo meglio la data. Abbiamo già detto che Antonio, Carolina ed Enrico Marcacci erano sicuramente a Lutie in quell’anno. Vediamo invece l’altro personaggio conosciuto: Eliseo Castelli. Un'ottima fonte di informazioni è la storia raccontata da Clara Castelli sui tre prozii, Giovanni, Giulio ed Eliseo3. Giulio partì per l’America nel 1898. Inizialmente si fermò a Ladd, nell’Illinois, dagli zii Ercole e Maria che gestivano uno store (spaccio). Dopo qualche tempo, assieme ad un amico, prese un treno ed andò in un luogo …dove c’erano i pellirosse a cavallo, con i volti dipinti che, anche al galoppo, riuscivano a colpire gli uccelli posati sui fili del telegrafo… Restò per un certo periodo laggiù, poi decise di tornare nell’Illinois, non senza qualche difficoltà a ritrovare dove abitavano gli zii. Abbiamo due possibilità per verificare le date di questa storia: una informatica ed una cartacea. Dai registri elettronici di Ellis Island risulta che Giulio è arrivato negli Stati Uniti il 14/11/1901, età 20 anni, mentre Eliseo il 28/10/1902 a 24 anni. Invece dalla corrispondenza che il parroco di Gaggio, Don Meotti, riceveva dalle Americhe e che pubblicava regolarmente su una rivista da lui curata, La Coltura Rurale, veniamo a sapere che Giulio era effettivamente andato nei Territori Indiani e si trovava ad Hartshorne nel Febbraio e nel Maggio del 1903, mentre nell’Ottobre 1903 Eliseo si era già trasferito a Ladd, Illinois.4 La presenza di Eliseo Castelli limita l’arco temporale 3 4

Musola n° 53 pag. 107 e n° 60 pag. 10. La Coltura Rurale n° 2-5 del 3/4/1904.

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della foto fra i mesi di Novembre 1902 e Settembre 1903. Dal momento che la didascalia nel libro di Marco Cecchelli riporta come data l’anno 1902, possiamo ragionevolmente dire che la foto deve essere stata scattata fra Novembre e Dicembre del 1902. Bene, adesso possiamo cercare fra i vari “compaesani” presenti in questo periodo nella zona di Wilburton, Hartshorne e Lutie qualcuno che avesse un nesso logico con gli altri. In particolare con le tre bambine. L’idea immediata, che le bambine siano le tre figlie di Antonio e Carolina, ovvero Giuseppina, Caterina ed Elide, è da scartare. Già per il fatto che Elide sia nata nell’Aprile del 1904, ma soprattutto perché non si capirebbe come mai in una foto “importante” da mandare in Italia a parenti ed amici, le figlie non dovessero essere vicine ai propri genitori. Parto invece con una ricerca sistematica. Sfrutto ancora le lettere inviate a Don Meotti ed in particolare gli elenchi di chi aveva partecipato alle varie raccolte di denaro da inviare al paese natio. Devo trovare chi fra questi avesse figlie di età compresa fra 1 e 5 anni. Di ogni nominativo riportato vado a cercarne su www. ellisisland.com la registrazione di ingresso, con la speranza, ovvero la quasi certezza, di trovare facilmente i nomi delle figlie che viaggiano con i genitori. Certezza mal riposta. Il risultato è praticamente nullo. Dico praticamente perché, dopo aver verificato almeno un centinaio di nomi, ho trovato solo una bambina che sia arrivata nei Territori Indiani: Ida Albicocchi, figlia di Giovanni e Maria Tomasi, sbarcata nell’Ottobre del 1899, all’età di 11 mesi. Ed oltretutto provenienti non da Gabba, Lizzano o Gaggio, ma da Montese. 5 5 Nei registri di Ellis Island si trovano una ventina di Bicocchi provenienti da Montese. Albicocchi potrebbe dunque essere una storpiatura di tale cognome.

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Quindi, deduzione logica, le bambine devono essere nate in America. Questo fatto costituisce un problema di ricerca molto grave. Nei Territori Indiani, finché rimasero tali, non esisteva un registro anagrafico delle nascite. I censimenti della popolazione, ancorché consultabili con difficoltà, viste le abnormi storpiature dei nomi, erano stati fatti nel 1900 e nel 1910. C’è quindi un “buco” di 10 anni proprio nel periodo che ci interessa. Le possibilità di trovare indicazioni di lieti eventi sono veramente scarse. Con qualche altro tentativo di ricerca abbastanza casuale fatto con Google, riesco a trovare un registro dei matrimoni celebrati nella Choctow Nation. 6 Ce ne sono alcuni anche fra nostri compaesani. Alfonso Brasa si sposa nel 1905 con Adele Gugini (forse sarà Guccini) a Lutie. Enrico Brasa si sposa il 23 Settembre 1901 con Clorinda Tommasi ad Hartshorne. Il cognome Brasa, tipicamente gaggese, compare spesso fra lettere e registri. Silvio Brasa era un veterano. Nato nel 1867, era arrivato nei Territori Indiani nel 1893 assieme al bisnonno Antonio. Spesso promotore di raccolta di denaro da inviare in Italia, era sempre stato un riferimento per gli altri compaesani. Tra il 1900 ed il 1901 fa un viaggio di andata e ritorno in Italia. Prima della fine del secolo era stato raggiunto dai fratelli Vincenzo, nato nel 1861, Alfonso, nato nel 1883, ed Enrico, nato nel 1874. In una lettera del Maggio 1904 firmano una colletta anche 2 signore Brasa: Clorinda ed Evelina. Visto che Alfonso sposa l’anno successivo Adele Guccini e Clorinda è moglie di Enrico, verrebbe da dire che Evelina sia la moglie di Silvio Brasa. Chissà se è vero!

6 Una delle nazioni indiane confluite poi nello stato dell’Oklahoma.

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Ma ancora nessuna bambina.7 Tutto questo è comunque troppo poco per poter stabilire chi siano “gli altri della foto”. Cambiamo ancora direzione di ricerca. Che le persone ritratte nella foto possano essere parenti di Antonio o Carolina? In effetti altri Riccioni da quelle parti c’erano, per lo più provenienti da Gaggio. Sempre dalle lettere inviate a Don Meotti, risulta che ad Hartshorne fra il 1903 ed il 1904 ci fossero Raffaele e Luigi Riccioni. Altri Riccioni arrivano più tardi, quando Antonio e Carolina erano già tornati in Italia. Giuseppe, Federico e Riccardo, fratelli di Luigi, e Ursulina, moglie di Luigi. In ogni caso non ho nessun elemento per dire che siano nostri parenti né tanto meno che siano le persone ritratte nella foto.8 Non so più cosa fare. Sospendo le ricerche. Nuovi elementi per ripartire con le indagini li ho trovati, in un articolo del numero di Dicembre 2007 di Gente di Gaggio che parlava di una certa Ermelinda Cioni, figlia di Evelina Brasa, nata da Enrico e Clorinda Tomasi, il 29 Luglio 1902 ad Hartshorne, Oklahoma, USA. Caspita! Tutti nomi che conosco! Ecco chi era Evelina: non la moglie di un Brasa, ma una figlia! E non una figlia qualsiasi, ma una che all’epoca della foto doveva avere un’età compresa fra 5 mesi e 15 mesi. Quindi potrebbe essere una delle bambine della 7 Nei registri dei matrimoni e separazioni della contea di Latimer, Oklahoma, sono registrati un Enrico e una Ida Brasa che si separano nel 1917 e divorziano nel 1922. Di fratelli Brasa nei Territori Indiani ne sono passati anche altri: Teobaldo, nato nel 1865 e Giuseppe nato nel 1882. 8 Uno di loro, Riccardo, poi, morì nel 1918, a 36 anni, presumibilmente per un incidente in miniera. È sepolto al cimitero di Hartshorne.

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foto. Inutile dire che ho praticamente divorato l’articolo, alla ricerca di altri elementi utili. Che c’erano. Evelina fu battezzata nella chiesa del S.S. Rosario dal Reverendo F.J.Schaaf e tenuta a battesimo da Silvio Brasa di Eugenio e Maria Tomasi fu Sante. Maria Tomasi Albicocchi era la madre di Ida, l’unica bambina che finora avevo trovato fra i Belvederiani nei Territori Indiani. E adesso scopro che Maria è madrina dell’altra bambina che potrebbe essere ritratta nella foto.9 Forse ci siamo! Proviamo a far quadrare il tutto. L’uomo a destra di Antonio Riccioni è Enrico Brasa e tiene sulle ginocchia la figlia Evelina. Alla sua destra c’è Giovanni Albicocchi (o Bicocchi), con la figlia Ida di 4 anni, in piedi, ed un’altra figlia (di cui non so il nome, ma nata in America), fra le gambe. Le tre bimbe sono cugine, in quanto le mamme, Clorinda e Maria Tomasi, sono sorelle. Ci sono poi i già noti Eliseo Castelli, in piedi al centro, ed Enrico Giovanni Marcacci alla sua destra. Rimangono 3 volti sconosciuti. Oltre a Carolina, l’unica donna. Chissà quante volte ho già guardato questa foto, ma solo ora mi accorgo di un particolare che finora mi era sfuggito. La posizione della mano destra di Carolina … non è che volesse indicare a chi avrebbe guardato la foto che un altro bimbo era in arrivo?10

9 Ho poi avuto ulteriore conferma che l’ipotesi che Evelina fosse moglie di Silvio Brasa era del tutto sbagliata. Infatti Silvio Brasa, nato nel Dicembre 1866 da Eugenio e Domenica Bettocchi, si era sposato in prime nozze con Stella Tonelli nel 1891; rimasto vedovo, si era risposato negli Stati Uniti con Valentina Genova. Tornato in Italia, prese in gestione lo spaccio del Crociale di Gaggio. Maria e Clorinda Tomasi sono sorelle. 10 Non può trattarsi evidentemente di Elide, essendo nata nel Luglio del 1904. È possibile pertanto che si tratti del figlio a cui accennava Luciana, che morì ancora piccolo.

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3 Torna in fretta… Notizie interessanti sulla famiglia Marcacci me le ha fornite Loredano, figlio di Dino, figlio di Enrico. Il padre di Carolina ed Enrico (nonché degli altri fratelli Letizia, Ermelinda, Guglielmo e Luigi) si chiamava Luciano ed era proprietario di un vasto appezzamento di terreno, che andava dalla valle sotto Gabba fino quasi alla sommità del Monte Belvedere, 200 ettari, più o meno. Non si può dire che fosse povero. Luciano morì in circostanze non chiare durante un viaggio a Bologna, all’inizio del 1900. La moglie, Virginia Pozzi, per un po’ di tempo decise di mantenere tutta la proprietà indivisa. Solo verso il 1908 accettò invece di dividere il patrimonio ereditato dal marito fra i vari figli11. Loredano mi disse anche che il nonno era stato in America una sola volta, nel 1907, per un periodo molto breve … “No, non è corretto – non potei fare a meno di obiettare - è stato sì in America una volta sola, ma nel 1901, come risulta dai registri di Ellis Island … guarda: Enrico Marcacci…- La registrazione che tu dici del 1907 l’ho vista anch’io ma riguarda un Giovanni Marcacci che non credo che sia parente.. “ “Parente non lo è, visto che è sempre lui, Enrico Giovanni Marcacci.” Comincio a credere che lo facessero apposta, per rendere la vita più difficile a chi, cento anni dopo avesse voluto seguire le loro tracce. Il nonno di Loredano, Enrico Giovanni Marcacci era stato in America due volte. La prima, nel 1901, fu registrato 11 La divisione dell’eredità di Luciano potrebbe essere stata una ulteriore motivazione per indurre la figlia Carolina, sposata Riccioni, e la famiglia a ritornare definitivamente dall’America.

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come Enrico Giovanni, la seconda solo come Giovanni. La ricerca automatica del sito Ellis Island lavora solo sul primo nome, per cui ognuno di noi pensava di aver trovato l’unico viaggio fatto dal progenitore. Bene, chiarito l’arcano! “Loredano, perché dicevi che Enrico, o Giovanni che sia, era stato in America solo per un breve periodo?”“Perché quando arrivò a Lutie, nel 1907, ricevette un messaggio, per telegrafo, suppongo, che diceva: Torna in fretta, la tua fidanzata sta per sposare un altro!” Come è andata a finire la storia? Loredano non mi ha raccontato i particolari, mi ha solo detto che evidentemente Giovanni, o Enrico che dir si voglia, è riuscito a tornare in tempo utile prima che la focosa fidanzata, Zelinda Pozzi, compisse azioni irreparabili. Tant’è vero che il 13 Febbraio 1958 a Gabba, Enrico e Zelinda celebrarono le nozze d’oro, assieme ai figli, nipoti e parenti. “Sono sicuro della data perché sono anni che sto cercando un filmato in 8 mm che qualcuno, non mi ricordo chi, girò quel giorno. Pagherei non so che cosa pur di ritrovarlo!” Nella mia famiglia le macchine fotografiche hanno sempre avuto un’attenzione particolare. Il nonno usava, già dal 1921, una Contessa Nettel Piccolette, praticamente una delle prime tascabili. Passò poi ad una Exakta Standard reflex a pozzetto del 1938. Il babbo invece si appassionò a fare riprese e filmati in 8 mm con una cinepresa Paillard Bolex C8 del 1954. Si divertiva anche a montarli e regalarli agli amici. Fra tutti quelli che ho trovato nel suo archivio, uno mi lasciava perplesso. Di tutte le persone riprese in quel filmato ero riuscito a riconoscere solo il nonno Pierino, che evidentemente era stato invitato ad un festeggiamento; ma chi erano i festeggiati? Tutti gli ~20~


altri erano per me volti ignoti, senza nome ‌ e che tali sarebbero rimasti se Loredano non mi avesse raccontato la storia del nonno e della focosa fidanzata. La foto di pagina 16 è tratta dal filmato in 8 mm girato il 13 Febbraio 1958 a Gabba durante i festeggiamenti delle nozze d’oro di Enrico e Zelinda, assieme ai figli, nipoti e parenti.

Piccolette

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4 Serafino, una storia al condizionale Serafino Muratori, figlio di Antonio, era nato a Lizzano il 26 Maggio 1861, almeno così dice. Era sbarcato negli Stati Uniti a 16 anni, il 19 Dicembre 1877, con la nave La Bourgogne, almeno così dice. Prima di andare a Clarke City, nell’Illinois, era stato sei anni nell'Iowa, almeno così dice. Sarà come dice lui, ma ogni volta che leggo qualcosa su Serafino Muratori, mi vengono dei dubbi. Non sono mai sicuro che il tutto sia completamente vero. Il nome Muratori non è originario di Lizzano, ma questo non vuol dire che non possa esserci nato. Non ho mai sentito di nessun altro Belvederiano che sia andato nell'Iowa. Il fatto che sia arrivato in America nel 1877 è ancora più particolare. Sarebbe stato il primo dei nostri montanari ad aver attraversato l’oceano, e con un notevole vantaggio sugli altri. Ma non è detto che non possa essere così. Con la nave La Bourgogne, no, non è possibile: la nave è stata varata nel 1885! Forse si è confuso con il viaggio fatto nel 1888, quando effettivamente arriva a New York con la nave Bourgogne il 17 Dicembre. Di viaggi in America Serafino Muratori ne ha fatti tanti altri: nell’Ottobre del 1893, assieme alla moglie Pasquina Riccioni, dichiarando di andare a Ladd nel 1899, sulla stessa nave di Rita Riccioni e Carolina Marcacci, nell’Agosto 1910, nell’Ottobre 1911 con tutta la famiglia, nel 1923 con la figlia Maria e la nipotina Alina. In realtà dai registri di Ellis Island del 1893 risulta che Serafino e Pasquina viaggiassero separati e ciascuno dichiarando il proprio cognome. Che non fossero ancora sposati? La prima figlia, Maria Bertha, nasce nel 1896 in Italia. ~23~


Questo vuol dire che Pasquina, e presumo anche Serafino, qualche mese prima abbiano fatto un viaggio di ritorno in Italia. Sicuramente in Italia devono essere rimasti per poco tempo perché la seconda figlia, Pia, nasce a Ladd nel Dicembre del 1897. Sempre a Ladd nascono poi Gino nel 1900, Bruno nel 1909 e Vito nel 1915. Nell’Ottobre del 1892, Serafino viene naturalizzato cittadino americano. Che mestiere facesse non sono riuscito a capirlo. Una volta aveva dichiarato di essere farmer, agricoltore, un’altra workman, operaio, un’altra ancora merchant. Di sicuro non faceva il minatore. Almeno così credevo. Almeno fino a quando ho trovato le schede compilate da Serafino per il rilascio del passaporto americano.12 In una di queste, nel 1910, dichiara infatti di essere merchant, nell’altra, dodici anni dopo, ormai sessantunenne, dichiara di essere coal miner, minatore. Sarà, ma faccio fatica a crederci. Adelfo buongiorno, ti confermo che il personaggio di Serafino Muratori mi interessa molto. Innanzitutto perché era marito di Pasquina Riccioni, che continuo a credere fosse sorella di Antonio Riccioni, mio bisnonno. In realtà il motivo di maggiore interesse è dato proprio dagli innumerevoli dati contraddittori trovati sul suo conto. La varietà di mestieri che sembra aver fatto è abbastanza improbabile. Come pure i molteplici avanti e in indietro per l’Oceano Atlantico. Tutto questo rende Serafino molto ambiguo. Nel corso delle varie ricerche fatte sui migranti del Belvedere, mi ero già più volte detto che ci dovessero per forza essere degli “agenti” delle compagnie di navigazione che spingessero i nostri avi ad andare in America. Qualcuno che prima li convincesse che in America “le strade erano lastricate d’oro” e poi che “andare” non era poi così difficile: l’importante era che trovassero i soldi per 12

La foto di pag. 20 è presa dalla scheda del 1923.

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il viaggio e qualcuno avrebbe organizzato tutto. Anche il fatto che praticamente tutti i nostri montanari abbiano seguito il medesimo percorso via Le Havre è cosa assai singolare, considerando che comunque esisteva la possibilità di un più agevole imbarco via Genova. Avevo idea che Serafino potesse essere uno di questi agenti, ma era solo un’idea, che peraltro mi guardavo bene dal manifestare, vista la non certo buona nomea che tali personaggi hanno sempre avuto. Sono stato molto contento quando ho visto che Pier Giorgio Ardeni nel libro che avete appena pubblicato13 è arrivato alla medesima conclusione. Ho quindi deciso di proseguire le ricerche per vedere se ulteriori elementi in materia possano dare nuove chiavi di lettura del personaggio. Cordiali saluti Piero

“Finalmente il desiderio di migliorare la condizione anche quando non è pessima, e anche la brama di ricchezza e di facili acquisti di terre incolte, spinge molti ad abbandonare la propria patria per sempre. Famiglie numerose che trascinano una vita piena di sofferenze, ove possono raggranellare, vendendo le povere suppellettili, il prezzo del nolo, si recano nelle Americhe a trovarvi una sorte peggiore di quella a cui sfuggono. Spesso sono sollecitate per l’offerta di un viaggio gratuito, il che fu tante volte un’insidia tesa da scaltri e ingordi speculatori: imperocchè messo il piede in paese ignoto, senza mezzi, ignari degli usi e della lingua, stretti dal bisogno, gli emigranti si son dati al primo agente di colonie che farà loro pagare due o tre volte le spese del viaggio, con una tratta di nuovo genere non più di poveri negri ma di bianchi, fratelli nostri, fatta sotto i nostri occhi e senza speranza di redenzione”.14

13 Titolo: Dagli Appennini allo Spoon River - Gente di Gaggio 2011 14 Mons. C.E. Meotti, Relazione dal secondo congresso democratico cristiano dell’Appennino Bolognese Riola 25/9/1905.

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Negli ultimi decenni del 1800, l’emigrazione assunse tali proporzioni e tale radicamento da prefigurare un vero e proprio esodo di massa e allarmare la classe dirigente del nuovo Stato Italiano. Industriali e latifondisti erano molto preoccupati del fenomeno in quanto temevano che il gran numero di espatri potesse portare ad una carenza di manodopera a basso costo e ad un conseguente incremento dei salari minimi. La pressione che esercitarono sulla classe dirigente fu tale da costringere il Governo ad intervenire con normative volutamente repressive e che limitavano fortemente la possibilità di partire. Un prima circolare del Presidente del Consiglio del 1868 disponeva ai Prefetti di impedire l’espatrio in Algeria e Stati Uniti a chi non poteva dimostrare di possedere in questi paesi un lavoro garantito o adeguati mezzi di sussistenza. Una seconda circolare nel 1873 aggiungeva che l’emigrante avrebbe dovuto provvedere di persona al proprio viaggio di ritorno in caso di malattia o indigenza. Si cercava così di evitare un eccessivo onere a carico dei consolati italiani all’estero dovuto al gran numero di rimpatri forzati. Fu invece la Legge Crispi del 30 Dicembre 1888 che introdusse la figura dell’agente di emigrazione che poteva “arruolare emigranti, vendere e distribuire biglietti per emigrare o farsi mediatore a fine di lucro tra chi voglia emigrare e chi procuri o favorisca l’imbarco.” Queste figure che potevano e dovevano tutelare l’emigrante nei confronti delle grandi compagnie di navigazione diventarono invece in molti casi “sensali di carne umana”, come venivano definiti da chi combatteva questa forma di sfruttamento. “L’emigrante viene preso per mano fino al porto di imbarco e poi lasciato al proprio destino” era un’altra affermazione di chi vedeva in questa legge una vera a propria forma di ~26~


sfruttamento. Fra queste persone “illuminate” che si ersero a paladini dei più deboli deve essere ricordato in particolare Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza dal 1876 al 1905, che per la sua azione costante e determinata fu definito il “Padre dei migranti” e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997. Effettivamente Giovanni Battista Scalabrini fu il primo, e per decenni il solo, a comprendere e definire il fenomeno dell’emigrazione nella sua vastità e permanenza. Due furono le sue grandi intuizioni. La prima quella di aver percepito il fenomeno migratorio come parte integrante, sul piano internazionale, della “questione sociale ed operaia”. La seconda quella di aver previsto che l’avvenire della Chiesa si sarebbe giocato più sul terreno della mobilità umana, dell’incontro e della convivenza dei popoli, piuttosto che sulle frontiere missionarie della propagazione della fede. Scalabrini cercò di convincere anche il presidente Theodore Roosevelt che per l’America “l’immigrazione è una risorsa straordinaria, un grande regalo per un Paese in corso di costruzione, da non vedere come un problema di carità, ma da trasformare nella percezione di un fatto conveniente, per poi ottenere condizioni convenienti, cioè umane.” In Italia le proposte di Scalabrini divennero la base della Legge sull’emigrazione del 1901. Don Meotti la commenta così: “Questa Legge provvide un freno allo sfruttamento degli agenti e subagenti di emigrazione, i quali sono arrivati a godere di una senseria di £50 per ogni emigrante.” 15 Il numero degli agenti e subagenti aveva raggiunto 13.000 unità. Con la legge del 1901 questa figura venne abolita. Il compito di arruolare i migranti venne dato, 15

Da “Salviamo l’emigrante “ pag. 134.

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previa autorizzazione ministeriale, a una ventina di compagnie di navigazione, le quali potevano operare tramite propri “rappresentanti dei vettori”, i quali, a loro volta, venivano obbligati a richiedere annualmente al Commissariato una specifica “patente di vettore”. Altri provvedimenti importanti della Legge del 1901 furono il riconoscimento del pieno diritto di emigrare e soprattutto una serie di strumenti di protezione dell’emigrante quali la creazione del Commissariato Generale per l'emigrazione (a cui erano demandate tutte le incombenze relative al problema migratorio), le commissioni ispettive nei porti di imbarco di Genova, Napoli e Palermo (con il compito di controllare se le navi rispondessero ai requisiti imposti dalle normative sanitarie), i commissari viaggianti e i medici militari a bordo dei piroscafi (che avevano il compito di verificare l’osservanza delle disposizioni sancite dalla legge). La norma non si limitava a tutelare l'emigrante fino al momento dello sbarco in terra straniera, ma assicurava un'adeguata protezione anche dopo la conclusione del viaggio, con la creazione, nei principali paesi di immigrazione, di patronati e di enti di tutela obbligati a fornire assistenza legale e sanitaria a chi ne avesse bisogno. La legge del 1901 venne poi integrata dalla Legge 2 Agosto 1913 n° 1075 e dal decreto luogotenenziale del 29 Agosto 1918 n° 1379, che inasprivano le penali da comminare alle società di navigazione e ai loro agenti in caso di inosservanza della legge. Con il testo unico del 1919 si intese, infine, riorganizzare tutta la normativa in materia di emigrazione, conferendo maggiori poteri al Commissariato per l’emigrazione, che fu in grado di intervenire nei paesi esteri in modo più incisivo per garantire all’emigrante norme adeguate ai tempi e sancire il principio, finalmente del tutto affermato, della libertà di espatrio per motivi di lavoro (anche se ~28~


era prevista la possibilità di impedire temporaneamente l’espatrio in quelle nazioni che non offrivano adeguati margini di sicurezza). Con l’avvento del fascismo al potere, il fenomeno migratorio venne sottoposto dal regime ad un generale ripensamento che ne cambiò la natura arrivando, addirittura, ad abolire il termine “emigrante” per sostituirlo con quello di “lavoratore italiano all’estero”. A Genova il treno arrivava già. Perché la maggior parte degli Italiani del Settentrione si imbarcò da Le Havre piuttosto che da Genova? Perché si adattò a fare un viaggio via terra ben più lungo, attraversando la Francia e affidandosi a compagnie di navigazione straniere? Una possibile risposta è che le compagnie di navigazione francesi furono più brave e più tempestive di quelle italiane a organizzare una rete commerciale nell’Italia settentrionale. E quindi ad arruolare uno stuolo di agenti e subagenti che battevano capillarmente le montagne e la pianura per illustrare le “convenienze” del viaggio via Francia. È verosimile che le compagnie francesi offrissero opportunità particolarmente interessanti per chi non aveva il passaporto o era ancora soggetto agli obblighi di leva. Una di queste era quella del “contratto” stampato in più lingue che poteva essere stipulato fra la Compagnia di Navigazione e la persona che volesse emigrare. Una volta vistato da un agente consolare del Governo Francese tale contratto era accettato dalle autorità francesi come passaporto per entrare in Francia o ripartirne.

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GENOVA, li 14 Gennaio 1873 PREFETTURA DELLA PROVINCIA DI GENOVA Circolare N° 141 OGGETTO: Emigrazione per l’America Ai Signori Sindaci della Provincia di GENOVA. È noto alla S. V. che gli Armatori Francesi, che attendono al trasporto di emigranti per l’America, ed i loro Agenti in Italia, mediante una formula stampata in più lingue, fanno dei contratti colle persone che emigrano, e che pel passato tali scritture, quando fossero munite del Visto di un Agente consolare del Governo Francese, erano accettate dalle autorità Francesi come passaporti per entrare in Francia o per partirne. Accadeva così che emigrati italiani, i quali non avevano potuto ottenere il passaporto, potevano imbarcarsi nel Regno su bastimenti francesi, o passare il confine per la via di terra, presentando il loro contratto di emigrazione, stipulato coi Rappresentanti di armatori Francesi, e vistato dagli Agenti Consolari della Repubblica. Il Governo del Re, avendo fatto osservare tale inconveniente al Governo francese, questo ha disposto che i Consoli della Repubblica [Francese] non appongano per l’avvenire il loro visto ai contratti di emigrazione presentati da sudditi italiani, ove tali documenti non sieno già rivestiti del visto delle autorità italiane. Ora siccome nessuna Autorità del Regno [Italiano] si permette certamente di apporre il proprio visto ai contratti di emigrazione, mercé la disposizione data dal Governo Francese è posto riparo all’inconveniente lamentato. Porto a notizia della Signoria Vostra questa disposizione, d’incarico del ministero dell’Interno. Durissima sorte toccherà alla maggior parte dei nostri disgraziati emigranti, e finché tristissime notizie e dolorosi racconti di reduci non distruggeranno nelle menti dei contadini le illusioni, che scaltri emissari vi hanno insinuate, essi saranno vittime di questa disonestissima speculazione. Il Governo non può vedere con indifferenza, che ogni mese migliaia di Italiani s’imbarchino a Napoli o a Genova e passino le frontiere del Cenisio per imbarcarsi a Havre diretti per le Americhe, e crede suo dovere di mettere in opera tutti i mezzi possibili per colpire le immorali speculazioni e la emigrazione illegale, rispettando però scrupolosamente la libertà dei

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cittadini, che sciolti da ogni obbligo verso il paese intendono espatriare malgrado gli sforzi che l’Autorità non manca di fare per dissuaderli. Nè è soltanto l’obbligo di colpire la frode e di mantenere l’osservanza della legge, che induce il Governo a provvedere colla massima energia, ma un sentimento di pietà verso una classe disgraziata di cittadini, il decoro del paese, e i reclami della pubblica opinione all’estero, e i gravi imbarazzi che la tutela degli emigrati poveri abbandonati ed oppressi crea ai Regi Agenti nei porti francesi ed in America. Il Ministero si rivolge prima che ad ogni altro ai signori Prefetti di Genova, Napoli e Torino, che sono i luoghi dai quali partono gli emigranti, pregandoli di dare istruzioni precise e rigorose affine di colpire la disonesta speculazione degli agenti, di impedire la emigrazione illecita, e quando lecita, di frenarla con ogni mezzo. (…) Si raccomanderà inoltre di agire severamente verso gli emissarii delle Società di emigrazione e degli spedizionieri, che percorrono i villaggi e le campagne, applicando loro gli articoli 57, 64, e 65 della legge. Si raccomanderà infine il massimo rigore nello eseguire le disposizioni delle leggi relativamente alla concessione dei passaporti per l’interno e per l’estero, obbligando i richiedenti a presentarsi personalmente agli Uffizi di Prefettura e Sotto Prefettura, e a dimostrare di avere i mezzi per fare il viaggio; per dimorare qualche tempo nel luogo d’arrivo, presentando la garanzia di persona solvibile, la quale si obblighi a rimborsare, occorrendo, la spesa pel viaggio di ritorno. Il Ministero spera che con questi mezzi si riuscirà a reprimere la immorale speculazione degli agenti di emigrazione, si farà cessare l’emigrazione illecita dei giovani soggetti alla leva e dei militari non sciolti da ogni vincolo, e si frenerà la crescente tendenza nei contadini ad abbandonare la terra natia. Nel manifestare siffatte prescrizioni Ministeriali a’ signori Sindaci, li prego vivamente a volerne curare l’osservanza. IL PREFETTO G. COLUCCI

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“Da per tutto sono sparsi commessi che fiutano intorno la miseria e il malcontento e offrono il biglietto d’imbarco a quei disgraziati che vogliono abbandonare la patria, o li eccitano a vendere la casa, le masserizie e la terra, per procurarsi il denaro per il viaggio.” 16 Tra gli agenti più attivi in Italia ed in America ci fu il mantovano Adelelmo Luigi Tirelli, nato a Carbonara Po il 3 ottobre 1844. Partì per la Pennsylvania nel 1882, si trasferì poi a Vicksburg nel Mississippi, dove ottenne la cittadinanza americana nel 1887. Ufficialmente gestiva un banco per la vendita di frutta e verdura, ma come molti altri negozianti diventati più o meno importanti capì presto che il commercio di braccia avrebbe reso molto di più. Infatti, a suo nome fu aperto un ufficio di rappresentanza di linee di navigazione al numero 406 di Washington Street a Vicksburg. A lui si deve l’odissea di centinaia di marchigiani, modenesi, bolognesi, pistoiesi, veneti e mantovani che lasciarono le loro case verso le terre inospitali del Delta del Mississippi. A.L. Tirelli era stato molto vago durante il suo viaggio di propaganda in Italia nel 1904, inteso a magnificare le prospettive di una nuova vita oltre oceano. Destino e destinazione rimanevano ambigui. Maggiori informazioni non venivano fornite dai subagenti che reclutò in Italia, più interessati alla commissione che al benessere dei propri compaesani. Per aggirare le leggi italiane ed americane contro l’immigrazione a contratto escogitò un sistema molto semplice. Tirelli si faceva mandare dai suoi subagenti in Italia gli elenchi delle persone interessate a partire e preparava falsi affidavit, ovvero atti di richiamo dei “cugini” italiani, firmati da sponsor fittizi, vidimati dal 16 Da “Storia dell’immigrazione italiana VI - Il commercio dell’immigrazione, intermediari ed agenti” di Amoreno Martellini.

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consolato italiano a New Orleans e spediti ai subagenti in Italia. A questo punto i “cugini” in Italia, senza fare parola con nessun altro, dovevano rivolgersi ai subagenti indicati, che erano sempre in una posizione tale da poter provvedere a tutto quanto necessario. Come nel caso di Sermide, nel mantovano, in cui Tirelli aveva assoldato Luigi Cavicchini, impiegato dell'ufficio anagrafe e Silvio Negri, capostazione ferroviario, proprietario di un negozio di mobili ed anche sindaco del paese. A chi accettava di partire per il Delta, Tirelli e soci, finanziati dai produttori di cotone, anticipavano i costi del viaggio nonché il denaro da mostrare alle autorità americane al momento dello sbarco. Fornivano pure una lista con le risposte da imparare a memoria per le possibili domande in fase di registrazione. In questo modo chi accettava di partire, arrivava indebitato fino al collo. Veniva bloccato a lavorare nella piantagione con contratti capestro, quasi sempre firmati in maniera inconsapevole. Chi tentava di fuggire veniva arrestato. E tra i compiti dell’agente A.L. Tirelli c’era anche quello di dare la caccia ai fuggiaschi e riportarli con le buone o con le cattive alle piantagioni. Questa pratica di larvata schiavitù (peonage) era largamente diffusa nel sud degli Stati Uniti dove i proprietari terrieri avevano da poco perduto il diritto all’utilizzo dei veri e propri schiavi. Nonostante la chiara violazione di uno degli emendamenti base della costituzione americana, la costrizione al lavoro per ripagare un debito rimase per una trentina di anni tacitamente tollerata. Fu proprio la denuncia della schiavizzazione degli immigrati italiani nel Mississippi che obbligò il Dipartimento di Giustizia americano a dare un primo forte impulso alla lotta contro questa nefasta pratica. Soprattutto perché in questo caso le vittime erano bianchi. ~33~


Charles Wells Russell fu nominato procuratore generale contro il peonage e Mary Grace Quackenbos sostituto procuratore speciale. Già nei primi anni del loro incarico riuscirono a portare allo scoperto un'impressionante serie di pratiche illecite e di soprusi fisici ed economici perpetrati fino a quel momento impunemente nel Delta. La lobby dei proprietari terrieri era talmente forte che solo in pochi casi Russell e la Quackenbos riuscirono a far condannare agenti, capisquadra o datori di lavoro, ma il clamore ed il movimento di opinione che generarono attorno a questo tema fu tale che nessun immigrato fu più forzato al lavoro. Nel 1908 gli immigranti italiani nel Delta, ovvero quelli sopravvissuti, furono liberati dai contatti capestro. In uno dei rapporti della Quackenbos si legge che nel Luglio 1907, Tirelli era stato processato e condannato in Italia dal tribunale di Pavullo assieme ad altre sedici persone per tre diverse violazioni della legge italiana sull'emigrazione (travisamento fraudolento della realtà, fornitura di false istruzioni finalizzate all'emigrazione e di falso utilizzo di dichiarazioni legali). Nonostante le diverse denunce a suo carico, il Tirelli però riuscì a farla franca anche negli Stati Uniti, fuggendo precipitosamente nel Tennessee sotto l’ala dei suoi protettori latifondisti. Tutto questo succedeva nel sud degli Stati Uniti. Non c’è invece evidenza che vi fossero situazioni altrettanto drammatiche nelle zone delle miniere di carbone del nord est. Esistevano comunque i cosiddetti “padroni” o gang bosses, ovvero persone che avendo sviluppato una relazione di fiducia con una o più aziende in una determinata zona degli Stati Uniti erano in grado, grazie alle conoscenze nel Paese europeo di origine, di reclutare manodopera fra le persone in cerca di lavoro. I padroni procuravano il posto di lavoro, conducevano gli operai sul luogo, ~34~


contrattavano il salario e provvedevano all’alloggio e al cibo. Il tutto a fronte di una percentuale sul salario. È chiaro che tale sistema in molti casi portò a situazioni di sfruttamento simili a quelle del caporalato oggi diffuso nel sud Italia per il controllo della manodopera stagionale. Spesso queste squadre furono usate come crumiri, manodopera di emergenza laddove esistevano situazioni di conflitto o di sciopero. È altrettanto vero però che non tutti i “padroni” furono malvagi e approfittatori. Alcuni di loro sfruttarono la conoscenza del sistema e della lingua per svolgere onestamente il necessario ruolo di mediazione di selezione del lavoro in arrivo e della disponibilità delle offerte. “Il sistema dei padroni può essere definito come il tributo forzato che un nuovo arrivato deve pagare a coloro che sono già a conoscenza dei modi e della lingua del paese.”17 Questo può confermare il fatto che ci potessero essere agenti “buoni” e agenti “cattivi”, intermediari in buona fede o in mala fede. Che alla fine la differenza la facesse proprio la serietà della persona che proponeva il viaggio. Nuove notizie interessanti le ho trovate sul sito www. ancestry.com. Immettendo nome, cognome e data di nascita di una persona che abbia vissuto per un certo periodo negli Stati Uniti, puoi andare a sbirciare svariati elenchi, dalle richieste del passaporto, alle liste di leva, ai necrologi. Il tutto con dovizia di particolari e di consigli su come affinare le ricerche. Basta pagare e puoi avere informazioni in abbondanza. Una situazione diversa da quello che accade in Italia dove la tutela della privacy “imperversa”. O almeno così ci vogliono fare credere. La nascita del villaggio di Ladd può essere fatta risalire al 26 Aprile 1888 quando il consiglio di amministrazione 17 Dichiarazione del Console Italiano Egisto Rossi tratta dal “Report of the industrial commission on immigration and education”, 1901.

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della Whitebreast Fuel Co. di Ottumwa, Iowa per espandere le proprie attività estrattive oltre i confini dello stato, deliberò di negoziare l’acquisto dei diritti minerari su 10.500 acri di terreno nella contea Bureau nell’Illinois. I primi operai arrivarono dall'Iowa ed erano prevalentemente scozzesi ed irlandesi. Qualche anno più tardi fu la volta invece degli italiani dai vicini paesi di Braidwood, Coal City, Clarke City e Clarksville. La municipalità di Ladd fu ufficializzata (incorporation) il 26 Aprile 1890. Quindi un riferimento all'Iowa esiste. Può pertanto essere vero che Serafino fosse arrivato nel 1877 a sedici anni, avesse lavorato nelle miniere dell'Iowa per la Whitebreast Fuel Co. poi, dopo qualche anno, d’accordo con la dirigenza, fosse tornato in Italia per cercare e organizzare nuova manodopera da impiegare per l’espansione delle attività della compagnia. Nel viaggio del 1888 non tornò nell'Iowa, bensì nell’ Illinois, perché è lì che erano già concentrati i programmi di sviluppo della compagnia. Dichiarò di andare a Braidwood, perché in effetti Ladd non esisteva ancora. E quando il momento fu propizio si trasferì e fece trasferire con sé i minatori italiani per andare a lavorare nelle nuove miniere appena aperte. Bastarono cinque anni perché la popolazione passasse le mille unità e nel 1900 a Ladd vivevano 94 famiglie, di cui 46 italiane e 29 irlandesi, per un totale di 1054 residenti facenti parte di gruppi familiari e 218 pensionanti (boarders). Tenere minatori a pensione era un’attività che permetteva alle famiglie di incrementare sensibilmente le entrate e toglieva ai migranti “single” ogni problema di sistemazione logistica. Donne e ragazze erano occupate a tempo pieno a preparare i pasti, a pulire le stanze, a ~36~


lavare e stirare la biancheria. La scarsità di alloggi ed il desiderio di maggiori guadagni portava però spesso a situazioni critiche per la convivenza. Non di rado capitava che i pensionanti dividessero i letti fra loro o con i membri della famiglia o, quantomeno, che li utilizzassero a turni. Dal censimento del 1900 risulta che la composizione media di un gruppo familiare era di più di dieci persone e che 17 famiglie di Ladd ospitavano sette o più pensionanti. Tra queste anche la famiglia Muratori. I registri riportano infatti come ospitati Domenico e Vincenzo Farneti, Impalato Maggi, Giovanni e Vincenzo Margelli, Carlo Torri, e Santo Palmieri ed una domestica, Lamina Giacomelli. Tutti nomi tipici delle nostre parti. A differenza di altri piccoli villaggi, a Ladd c’erano anche una scuola, una chiesa, il municipio, una caserma dei pompieri, una banca, una centrale di polizia, la stazione ferroviaria, vari artigiani, oltre naturalmente ai saloon. Il saloon aveva una funzione sociale fondamentale, come spiegò bene un minatore irlandese: “Quando tu scavi per tutto il giorno negli umidi cunicoli sottoterra e tu esci e non c’è la luce del sole, non c’è un’onda che si infrange contro la scogliera rocciosa, ecco che un saloon diventa il paradiso!”. Il saloon diventa il modo per uscire dal buio e dalla tristezza di una miniera di carbone, il posto in cui i membri della comunità si incontrano, si scambiano informazioni, notizie e pettegolezzi, il posto in cui si incontrano gli amici. A Ladd di saloon ce ne erano ben sedici. Oltre al “Why not?” di Albert Farneti di Rocca Corneta, al “The corner saloon” di Telesforo Ballerini di Fanano, al “Rip’s Chicken” di Silvio Gualandi e a quelli di Silvio Cioni, Carlo Torri, Guerrino Monterastelli, Armando Lanuti, all’angolo fra la Main Street e la Chestnut Street c’era anche quello gestito da Serafino Muratori e dalla moglie Pasquina. ~37~


Sempre dai dati dei censimenti risulta che Serafino e Pasquina si fossero sposati nel 1893. Oltre alla casa di Ladd, mantenevano anche una casa in Italia, alla Saracca, fra Lizzano e Gabba. Nel 1930 Pasquina era già rimasta vedova: viveva sempre a Ladd, con i due figli scapoli Bruno e Vito, mentre Gino abitava poco lontano con la moglie e i due figli Eugene e Berenice. In effetti al cimitero di Ladd si trovano due lapidi affiancate. Queste ci dicono che Serafino morì il 31 Gennaio del 1928 e Pasquina il 22 Giugno del 1938. Anche altri componenti della famiglia sono sepolti a Ladd. La figlia Pia sposata Giacomelli, morta nel 1940 a 42 anni, nonché il fratello Louis e la moglie Alfonsa. Nel 1940 Bruno Muratori era general manager della compagnia cerealicola La Salle Elevators e segretario del corpo dei Pompieri. Pompiere fu anche il figlio Eugene. Considerazioni finali. È possibile che Serafino abbia fatto parte dei mediatori di lavoro o agenti di immigrazione o comunque di quel gruppo di persone che operarono a stretto contatto con le compagnie di navigazione o altre agenzia di emigrazione. Sta di fatto però che gran parte dei montanari che seguirono l’itinerario evidentemente proposto da Serafino trovò lavoro nelle miniere dell’Illinois ed una sistemazione. Molti di loro ebbero così la possibilità di guadagnare quel po’ di soldi che permise loro di cambiare le proprie condizioni di vita. Alcuni tornarono sulle montagne di origine, altri rimasero nel nuovo mondo. Serafino, con la sua famiglia, visse nel villaggio in cui aveva fatto arrivare i suoi compaesani. Fece sempre parte della comunità che aveva contribuito a costruire. E dopo di lui i suoi figli e i suoi nipoti. Credo che questa dovrebbe già essere una testimonianza che la sua opera sia stata tutt’altro che negativa e che le sua memoria non possa in nessun modo essere ~38~


paragonata a quella di altri nefandi personaggi. Ormai sono convinto che fosse questo il messaggio che la foto di Serafino cercava di trasmettere.

Piccolette

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5 Zie d’America A chi si sia avventurato a leggere “La bisnonna che sparava agli indiani” rimane un amletico dubbio: Rita e Pasquina erano davvero sorelle di Antonio o lo erano solo nella mia immaginazione? O era solo una segreta speranza di avere ancora dei parenti America? Il dilemma andava risolto. Non si poteva continuare una storia seria con un interrogativo del genere! La foto l’ho trovata per caso. Avevo sfruttato a lungo l’indice analitico degli ottanta numeri della Musola, cercando tutte le possibili notizie sui Riccioni, Petroni, Vai, Marcacci, Polmonari. Mi stavo chiedendo se una qualche notizia non mi potesse essere sfuggita. Meditavo sull’opportunità di procedere con una ricerca più sistematica quando, sfogliando un po’ perplesso le pagine di una delle riviste, mi sono saltati all’occhio quei due strani tipi, uno con lunga barba bianca e l’altra con grandi orecchie a sventola. Il caso ha voluto che leggessi la didascalia e scoprissi che i due soggetti altri non erano che i trisnonni Sabatino e Catirola Riccioni, genitori del bisnonno Antonio. In effetti l’articolo nulla aveva a che vedere con la discendenza maschile dei due avoli. Riguardava infatti la figlia Alfonsina, sposata Borgognoni, la nipote Adele, sposata Castelli e la pronipote Clara, autrice dell’articolo.18 Così ho scoperto che il bisnonno Antonio, oltre alle due presunte sorelle Rita e Pasquina, un’altra sorella ce l’aveva davvero, Alfonsina, appunto. A quel punto la ricerca sistematica sui vari numeri della Musola non potevo più evitare di farla, visto il primo 18

Musola n° 54 pag. 45.

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risultato “casuale”. Sono riuscito a trovare così altre informazioni dimenticate dall’indice analitico. Ad esempio, ho scoperto che Sabatino era proprietario di bestiame che affittava ai pastori i quali, a loro volta, lo portavano al pascolo in cambio di una quota sugli utili derivati dal suo sfruttamento. Il 30 Giugno del 1872 Sabatino ed un gruppo di “colleghi” proprietari di bestiame del Belvedere firma una petizione al Prefetto di Bologna per chiedere la riduzione di una nuova tassa che andava ad aggiungersi sulla già esistente tassa sul pascolo. Per contro il Sindaco replica al Prefetto che i ricorrenti avevano travisato i fatti ed agito in malafede. Dopo varie argomentazioni conclude che “… se alli ricorrenti venisse fatta ragione […] per questo Comune non riuscirebbe nessun profitto.” Considerazione elementare ma efficace. Come è andata finire? Nell’unico modo che ci si poteva aspettare. Il 2 Agosto successivo il Sottoprefetto consiglia al Prefetto di non abolire la tassa in questione per non pregiudicare troppo le finanze del Comune! Ho scoperto anche che Catirola era la levatrice di Gabba ed abitava con Sabbatino all’Amper, un terreno ai margini del quale c’era un cumulo di grandi sassi. Dittaggi raccontano che le bambine di Gabba passassero ore fra quel mucchio di sassi a rimuoverli e svoltolarli. Un motivo c’era: quando nasceva un bimbo, le mamme raccontavano ai fratellini che era stato trovato dalla Catirola all’Amper, lassù in mezzo ai sassi. E le bambine abbandonavano le loro bambole per andare a cercare un vero pupin in quel posto magico.19 Una telefonata a Clara Castelli avrebbe potuto svelare uno dei dubbi che ancora mi attanagliavano: Rita e 19

Musola n° 31 pag. 102.

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Pasquina Riccioni erano effettivamente sorelle del bisnonno Antonio o no? Speranza delusa. Clara si ricordava infatti del prozio Antonio Riccioni ma non aveva mai sentito parlare di altre sorelle della nonna, meno che mai emigrate in America. Come fare ad andare avanti? I registri parrocchiali. Abbiamo una data di nascita abbastanza attendibile, non dovrebbe essere difficile. Il difficile è trovare i registri. Le parrocchie di Grecchia e Gabba non esistono più. Dove sono andati a finire? Prima indicazione. Sono stati portati all’archivio arcivescovile di Bologna. Ricerca. Risultato negativo. Non ci sono. Seconda indicazione. Sono stati portati nella parrocchia che ha assorbito le due chiese. Leggasi Lizzano. Ricerca. Risultato negativo. Nessuna traccia di alcun Riccioni in quel periodo. Terza indicazione. Sono stati portati nella chiesa più vicina. Leggasi Querciola. Ricerca. Risultato negativo. Quarta indicazione. Se li saranno presi quelli di Gaggio, anche se non c’entrano niente con Grecchia e Gabba. Ricerca. Risultato positivo! Nell’archivio parrocchiale di Gaggio, superate alcune difficoltà per la legge sulla privacy, riesco a svelare l’arcano. ~43~


Sì, Rita, nata il 20 Febbraio 1869, e Pasquina, nata il 10 Settembre 1871, sono figlie di Sabbatino Riccioni e Catterina Piacenti e quindi sorelle di Antonio, nato il 23 Novembre 1865. Alfonsina è invece nata l’11 Gennaio 1863 ed è quindi la primogenita. Mi sembra giusto che la prima ad avere conferma dell’esistenza di una nuova zia Rita sia Luciana. Era stato proprio casuale che Luciana abbia chiamato Rita la sua prima figlia? “Ma pensa! Avevamo due zie in America e non lo sapevamo! Comunque ribadisco che Lino ha voluto ~44~


chiamare Rita nostra figlia perché l’abbiamo battezzata qualche giorno prima della festa di Santa Rita. Ricordo che il parroco Don Giuseppe ci ha tanto sgridati perché abbiamo aspettato troppo tempo prima di battezzarla.20 Però forse Lino sapeva di questa zia…” “Comunque, tu che sei tanto bravo a riscoprire quel che è già passato, vedi un po’ queste due foto che sono da sempre nell’album di famiglia. Nessuno di noi sa chi possano essere le persone ritratte, non ne abbiamo la più pallida idea.” 20 Rita è nata il 9 Maggio; Santa Rita cade il 22 Maggio. Non mi sembra che abbiano aspettato poi così tanto…

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La prima idea è talmente ovvia che va esclusa subito: non possono essere Antonio e Carolina con le tre figlie Giuseppina, Caterina ed Elide. Non ci sarebbe stato bisogno di chiederlo a me! Le tre bambine… Chissà che non siano le stesse della foto degli emigranti? Potrebbe essere, anche se guardando bene le due foto non mi sembra che siano state scattate in America. Le foto che vengono dall’America di solito ritraggono persone in posa, vestite con cura, spesso in uno studio fotografico. In America le case erano tutte in legno, o quanto meno quelle della gente normale. Lo stipite di questa porta sembra in pietra, finitura tipica delle case dei nostri monti. Le due donne hanno lineamenti simili, sorelle forse… Se non fosse per i vestiti diversi, si potrebbe pensare che sia la stessa donna… La stessa donna che posa una volta con i suoi “uomini” e un’altra con le proprie figlie. Padre, madre, un figlio maschio e tre femmine… Vuoi mai dire che possano essere Sabbatino, Cattirola, Antonio, Rita, Pasquina e Alfonsina? Da un confronto con i due nonni di Clara Castelli sembrerebbe proprio di sì. Del resto il fatto che Lino e Luciana avessero “da sempre” nel loro album fotografico di famiglia queste foto farebbe pensare che un nesso con la famiglia ci dovrebbe proprio essere. “Uno che si chiama Filippini non poteva che venire da Sambuca Pistoiese” – dice Raffaella, moglie di Giuliano – “con le informazioni che ci avevi dato abbiamo fatto una nostra ricerca. Ho chiesto ai miei parenti che abitano ancora da quelle parti. Ma nessuno di loro conosceva una Rita Riccioni o Filippini che dir si voglia. Mi hanno detto però che più su, verso il Mulino dei Tappi, ci doveva essere qualcuno con quel nome. Siamo andati, abbiamo chiesto un po’ in giro e mi hanno detto di provare a Casa Capecchi. Ci abita una signora anziana. Ho detto a Giuliano di provare a chiedere a lei.“ ~46~


“Scusi signora, sto cercando informazioni su una certa Rita Filippini ...“ “Sono io!“ “Mi scusi, con tutto il rispetto, non è possibile. La Rita che cerco io è nata nel 1869. Non è possibile che lei…” “Giovanotto, è ovvio che non posso avere 138 anni. Lei può pensare quello che vuole, ma io mi chiamo Rita Filippini. La Rita che cerca lei probabilmente è mia nonna. Emigrò in America alla fine del secolo scorso dove sposò mio nonno…” “Domenico?” “Bravo, proprio lui. Ebbero un figlio, Edoardo, che a sua volta ebbe due figli, Walter, mio fratello, e la sottoscritta.“ “Si ricorda come si chiamava la nonna da ragazza?” “Che domande, certo che me lo ricordo. Si chiamava Riccioni, Rita Riccioni.” “Scusi la nostra sorpresa, ma pensavamo che Rita e Domenico fossero rimasti in America, non avevamo più avuto notizie di loro.“ “No in America sono rimasti pochi anni. Mio nonno tornò in Italia, con il figlio Edo, mio padre, e comperò il mulino giù a valle.“ “Ha detto che tornarono padre e il figlio, ma la madre, sua nonna Rita?“ “La poveretta morì giovane, nel 1905, quando Edo aveva solo 3 anni. Hanno avuto solo disgrazie. Mio padre mi ha spesso raccontato di non aver voluto dare il nome di Domenico a suo figlio, come da tradizione, perché il nonno aveva avuto una vita troppo sfortunata.“

Superstizioni.

Due giovani sposi la prima sera che vanno a dormire, nessuno vuole spegnere il lume, perché dicono che è il primo a morire quello che lo spegne. È questo uno dei dittaggi tramandati da Aurelia Riccioni e riportati da Marco Cecchelli nel suo libro “Una castagna sotto il guanciale”. ~47~


In nota l’autore riporta alcune brevi note biografiche di Aurelia: figlia di Gaetano Riccioni e Faustina Palmieri, abita nel 1912 al Casino di Gaggio Montano, oltre il fosso della Grilla. La famiglia si è trasferita vent'anni prima da Capugnano dove Aurelia è nata nel 1888. I fratelli Riccardo e Federico erano a quel tempo emigrati in America. Non c’è ancora nessun riferimento di parentela con i nostri Riccioni, ma il Riccardo emigrato in America non mi è nuovo. Che sia… Ellis Island, immancabile. Non trovo nessun Riccardo Riccioni, ma un Federico, sì. Sbarca nel 1910, a 17 anni, assieme al fratello Giuseppe di 38 anni. Il biglietto è stato loro pagato dal padre Gaetano. Sono diretti a Wilburton, dall’altro fratello Riccardo. Sì, purtroppo è lui, il Riccardo Riccioni che muore nel 1918. Cerco anche Aurelia. Nessun risultato. Ormai so già che devo provare anche qualche altro nome che possa essere una storpiatura del nome originale. Vediamo, anno di arrivo non anteriore al 1912, provenienza Gaggio … risultato: Therclia Riccioni. Nome inverosimile, ma è proprio lei. Biglietto pagato dal padre Gaetano, va a Lutie dall’uncle Cioni Riccardo. Sono loro; non c’è alcun dubbio. Ma che cosa c’entra lo “zio” Cioni Riccardo? Oppure è sbagliato ed era Riccioni Riccardo, fratello? Ulteriore ricerca su Ancestry.com. Aurelia Riccioni, nata in Italia nel 1888, sposa il coetaneo Riccardo Cioni nel 1912. I primi due figli, Ettore e Renato, nascono a Wilburton, la terza, Augusta, a Dalzell, Illinois. Evidentemente la famiglia aveva lasciato l’Oklahoma per andare nell’altra classica zona mineraria, l’Illinois. Un ulteriore trasferimento lo fanno pochi anni dopo, in Pensilvania, dove rimarranno per tutta la vita. L’intera famiglia è infatti sepolta nel cimitero di Nanty-Glo, in Pensilvania. Aurelia muore nel 1967, i figli fra il 1980 ed il 1988. Un brivido viene invece nel leggere la data di morte del marito Riccardo Cioni: 1923. ~48~


Triste destino per la povera Aurelia. Un fratello Riccardo morto in miniera, il marito Riccardo morto in miniera anche lui. Aurelia avrà sicuramente seguito il proprio consiglio di tenere acceso il lume per illuminare con il suo vitale chiarore la notte di nozze, ma con lei il fato è stato comunque crudele. Questi Riccioni cominciano a diventare un po’ troppi. Facciamo un riepilogo altrimenti se ne perde il conto. · • Antonio e Carolina, con 8 figli ed una discendenza che ormai conosciamo bene. · • Due sorelle, Rita e Pasquina, in America, un’altra, Alfonsina, in Italia. · • Aurelia, Federico, Riccardo, Giuseppe, Luigi e Raffaele, figli di Gaetano, in America, ma non sappiamo se abbiano una parentela con i precedenti. · • A Lizzano ci sono ancora i discendenti dei sei fratelli Gino, Ilario, Narciso, Berto, Lepanto e Margherita, figli di Giuseppe, nonché i “Locchi”, ovvero la progenie di Rafflo, il mitico giornalaio di Lizzano, e della moglie Esterina che hanno messo al mondo la bellezza di sedici figli. 21 Ci sarà pure una legame di parentela fra tutte queste persone, un progenitore comune! Una prima risposta arriva in fretta: Musola n° 59 pag. 122. Gino Riccioni in una lettera manda i saluti al padre Peppe, alla madre Mariuccia e alla zia Esterina. Questo vuol dire che il padre Peppe e Rafflo sono fratelli. Bene. Peppe e Rafflo potrebbero anche essere i fratelli Giuseppe e Raffaele trovati in America? Mi ricordo che Rafflo spesso raccontava di aver fatto il minatore, in Francia e in altri posti. Quali altri posti? In America? Potrebbe essere, ma non è sicuro… 21 Soprannome che deriva dalla località di origine, ovvero Montilocco, sopra Gaggio.

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Manca ancora il progenitore comune per ottenere un'unica grande famiglia Riccioni. “No, no, no.” È ancora Giuliano che parla. “Mio babbo Arturo ha sempre detto che nessuno degli altri Riccioni è nostro parente.” Forse sarà così, ma sembra impossibile che la presenza di tanti Riccioni in uno stesso posto sia solo un sensazionale caso di omonimia. Infatti…

In piazza a Lizzano.

All’Archivio di Stato a Bologna non fanno problemi per la privacy. Devi dichiarare generalità, recapito e motivo della ricerca e puoi avere accesso ai registri dei documenti conservati. Non è facile districarsi fra i vari fondi, brogliardi, assunterie, quinternetti, fumanti, ristretti, libri dei trasporti e scutati prediali, ma una volta capiti i meccanismi di consultazione, la varietà di informazioni è veramente notevole. Preziosissimi sono stati ad esempio i censimenti della popolazione degli anni 1852 e 1858, gli ultimi fatti dallo Stato Pontificio. Nel 1852 a Lizzano abitavano 64 famiglie, divise fra la Piazza, la Corniola, Cà di Guido, Borgo Piatto, il Fondaccio ed il Martignano. In Cà di Guido abitava la famiglia di Domenico Vai, consigliere comunale, padre, nonno e bisnonno di tutti i Vai che ritroveremo poi a Vineland. In Borgo Piatto abitava Federico Polmonari, nonno di Giulio Polmonari, anche lui destinato ad attraversare più volte l’oceano. In Piazza, oltre ad altre due famiglie Vai, c’erano i Tonielli (Rosalba era però già andata sposa a Pierro Petroni), i Lancioni, dove ancora oggi abitano i loro discendenti, i Martini, dove oggi c’è il caffè Riccioni, il mitico Ercole Agesilao Bartolini Visconti, notaio e futuro primo sindaco, ~50~


ed Andrea Polmonari che, assieme al figlio Fortunato, faceva il fabbro ferraio nel fabbricato che sarebbe poi stato ricostruito e ingrandito per diventare l’Aubergo della Posta. Erano anche abitati i borghi di Biana, Bargi, Sassocchio, Soliva, Casale (Pierro Petroni e famiglia), Porchia (dal Maestro di Ferriera Giuseppe Torri con la moglie Cherubina Pasquini), Panigale (altri Petroni). I Marcacci presidiavano la Cà e i borghi circostanti, mentre di loro non c’era alcuna traccia né a Grecchia né a Gabba. Come pure non c’era traccia in tutto il territorio del Belvedere di alcun Riccioni. Nel territorio del Belvedere no, ma a Cioppeda sì. Cioppeda, caseggiato lungo il fiume Silla, subito al di là del ponte di Panigale, pur essendo sempre stata di giurisdizione del comune di Capugnano, era a quel tempo soggetta alle tasse del Comune del Belvedere e inclusa nella parrocchia di San Mamante. A Cioppeda, nel 1852, abitava il colono Antonio Riccioni, fu Giacomo, nativo di Guzzano di Camugnano, sopra Castel di Casio. Antonio e la moglie, Catterina Palmieri, dovevano aver girato quasi tutta l’Alta Valle del Reno. Infatti le prime due figlie, Rosa e Francesca, erano nate a Casio Castello; i figli Sabbatino e Giacomo erano nati a Castelluccio di Porretta; gli ultimi figli, Teresa e Gaetano, erano invece finalmente nati a Cioppeda. Quindi il progenitore comune c’è e si chiama Antonio. Caspita, in un colpo solo ho trovato il collegamento che mancava fra tutti i Riccioni incontrati finora. A questo punto conviene fare un bell’albero genealogico e vedere se tutto quadra! Aggiungo però altre due informazioni. Nel libro di Giampaolo Arienti “I moti di Masonte” si narra di un colono che, corrente l’anno 1868, viene ~51~


bastonato da due loschi individui. “Interrogato sulle sue generalità ha dichiarato di chiamarsi Riccioni Antonio fu Giacomo di anni 66, nato a Gazzano, maritato a Caterina Palmieri, con 8 figli, due dei quali presso di sé ai Ronchi di Gaggio, contadino di Cesare Palmieri.” Che sia il nostro Antonio senior non ci sono dubbi, anche se non coincide esattamente l’età. Questo vuol dire che dobbiamo aggiungere altri due figli, nati evidentemente dopo il 1852, in quanto nel censimento di quell’anno, ne era registrati solo sei.

GIACOMO RICCIONI

| Nel 1868 ai Ronchi di Gabba, contadino nei terreni di Cesare Palmieri con 8 figli di cui 2 presso di sé (nati dopo il 1852).

ANTONIO Guzzano di Camugnano1797-? colono

sp.Catterina Palmieri Vimignano di Tavernola 1802-? fu Pasquale

| Rosa Casio Cast.1822-?

Francesca Casio Cast.1830-?

SABBATINO Castelluccio 1835 Gabba ? allevatore sp. Catirola Piacenti levatrice

Pasquina Gabba11/9/1871 Ladd IL 22/6/1938 sp. Serafino Muratori Gabba 26/5/1861 Ladd IL 31/1/1928 | Maria Pia Vito Bruno Gino Giuseppe | Eugene Berenice

Rita Gabba 20/2/1869 Illinois 1905 sp. Domenico Filippini USA 1899-1905 | | Edoardo | | | Walter Rita

ANTONIO Gabba 23/11/1865 Lizzano 1942 sp. Carolina Marcacci

Giacomo Castelluccio 1838-?

Teresa Cioppeda 1

Giuseppe Capugnano 1872 Lizzano ? sp. Mariuccia Amadori USA 1907-1910 | | Gino Iilario Berto Narciso Lepanto

Luigi Capugnano ? sp. Orsolin

| Alfonsina 11/1/1863 23/08/1940 sp. Battista Borgognoni | | | Adele sp. Antonio Castelli | | Clara

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USA 1893-1906 | | Giuseppina Catterina Elide Dino Arturo Anselmo Lino Lidia

USA 1901M | | Elvira ? 19


Nel 1857 la famiglia non abita più a Cioppeda. Dalla biografia di Aurelia Riccioni, si può presumere che la famiglia di Antonio Riccioni “senior” (per distinguerlo dal nipote Antonio, marito di Carolina) si sia trasferita in un'altra località del comune di Capugnano. Aurelia, figlia di Gaetano, nasce infatti a Capugnano nel 1888. Da lì Sabbatino si sarà a sua volta trasferito a Grecchia e Gaetano al Casino di Gaggio.

eri ernola 1802-?

?

Teresa Cioppeda 1840-?

Gaetano ? Cioppeda 1851-? sp. Faustina Palmieri abitano al Casino di Gaggio nel 1912

Domenico ?

| Luigi Raffaele Riccardo Federico Aurelia Marianna Capugnano 1874 Capugnano 15/9/1881 Capugnano 1882 Capugnano 1883 Capugnano 1883 ? Lizzano 3/9/1972 Wilburton 1918 ? Nanty Glo 1967 sp. Orsolina ? sp. Esterina sp. Riccardo Amadori Cioni USA 1901-1912 USA 1903 USA 1911-1918 USA 1911-? USA 1912-1967 Montilocco di Gaggio da cui " i LOCCHI" | | | | Ettore 1913-1988 USA Domenico Mengarino | Elvira ? 1904 Aldo Renato 1917-1984 USA Nello Augusta 1918-1980 USA Francesco Antonio Nerio Derina Augusta Itala Giovanni | Luigi

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Clelia

sp. Angelo Peri


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6 Navi Vecchi. La prima impressione che ho avuto guardando la foto è stata che, a quel tempo, sia Giulio che Margherita fossero già vecchi. Dalla lettera scritta da Margherita a mia nonna Caterina, sappiamo che Giulio Polmonari morì nel Febbraio 1962, all’età di 72 anni. È presumibile quindi che il viaggio sulla nave “Roma” sia stato fatto qualche anno prima. Cerco un conferma. Dal sito Web di Ellis Island, ottengo presto una risposta: Giulio e Margherita risultano effettivamente iscritti nel registro della nave Roma della Società Italia di Navigazione, partita da Genova e arrivata a New York. La data mi lascia invece un po’ perplesso: Ottobre 1932. Non è possibile. A quel tempo, Giulio aveva 42 anni e Margherita 36. Non è possibile che dimostrino vent'anni di più di quello che avevano. Probabilmente la nave Roma avrà fatto altri viaggi anche in seguito. Ulteriore ricerca. Ci sono alcuni siti web nei quali si possono trovare svariati elenchi di navi: storiche, moderne, velieri, vapori. Sul sito www.agenziabozzo.it ci sono tutte le navi a vapore italiane, con tanto di foto e storia. C’è anche la Roma, costruita nel 1926 nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente. 32000 tonnellate, 232 metri di lunghezza, 1675 passeggeri. Prima del varo della Rex, era il più grande piroscafo della marina mercantile italiana. Rimase in servizio sulla linea Genova-New York fino al 1935. Nel ~55~


1943 iniziarono i lavori per convertirla in portaerei, con il nome di Aquila. Nel 1945 fu affondata da motosiluranti nel porto di Genova. Recuperata al galleggiamento subito dopo la guerra fu rimorchiata a La Spezia, dove fu demolita nel 1951. Pertanto Giulio e Margherita non fecero altri viaggi con la nave Roma. Allora? Altra ricerca su Ellis Island. Nell’Ottobre del 1953 effettivamente Giulio e Margaret Polmonari, cittadini statunitensi, fecero un altro viaggio Genova-New York, questa volta sulla motonave Saturnia… Motonave Saturnia: costruita nel 1924, fece servizio Mediterraneo – New York fino al 1941, quando fu sequestrata dal governo degli Stati Uniti e utilizzata come nave ospedale. Restituita all’Italia nel 1946, fu riallestita per il trasporto passeggeri nel cantiere di La Spezia. Viaggiò fino al 1955. Possibile spiegazione della foto. Finita la guerra, i cantieri di La Spezia sono in piena attività per riportare le vecchie navi alla loro funzione originaria. La motonave Saturnia è in discrete condizioni e può essere rimessa in servizio; per la Roma, invece, non c’è più nessuna possibilità. Molte attrezzature della Roma possono però essere recuperate ed utilizzate sulla Saturnia, comprese le ciambelle di salvataggio. Durante il viaggio sulla motonave Saturnia, nel 1953, Giulio e Margherita vedono le ciambelle di salvataggio con impresso il nome della nave con cui avevano fatto il viaggio 21 anni prima. La foto, a questo punto, era d’obbligo! ~56~


Margherita è vissuta a Vineland fino alla veneranda età di 96 anni.22

Piccolette

22 Figlio di Giulio e Margherita, era Peter, sposato con Kathryn, e con due figli: Sandra e Peter F.. Sandra, sposata Martinelli, vive a Westlake, Ohio con i figli Chris ed Amanda. Peter F. vive ad Absecon, New Jersey, con i figli Mark e James e i nipoti.

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7 Questa non è una vecchia fotografia! Gennaio 2008 Nonostante fossimo attrezzati con piumini Moncler, scarponi Timberland e guanti in Goretex, il freddo ci sembrava insopportabile. Attraversando l’Hudson sul ferry boat assieme a Marzia, mia moglie e ai nostri figli Federico e Caterina, non potevo però fare a meno di pensare a quei disgraziati che cento anni prima dal freddo si dovevano riparare con i soli miseri stracci che da un mese si portavano addosso... No, nonnon è una vecchia fotografia, ma è il senso delle Stoè una vecchia fotografia, ma rie degli Avoli. è il senso delle Storie degli Avoli. La memoria di chi è stato prima di noi, delle tracce che ha lasciato, degli indizi che possono essere scoperti per ricostruire quello che è stato, per conservare e lasciare ulteriore memoria a chi verrà dopo di noi. Il dispiacere di una conoscenza, di un ricordo che possa andare perduto. “Se non lo scrivi, è come se non fosse mai accaduto.”123 Unire frammenti di realtà che possano risvegliare i ricordi di chi ha avuto esperienze simili. Stimolare il contributo di altri per aggiungere altri tasselli al quadro e per delineare le condizioni al contorno.

23

Da “Debito d’onore” di Tom Clancy – BUR - 1996

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Data? No, non è una vecchia fotografia, non maè una è vecchia il senso delle ma Storie deglidelle Avoli. No, fotografia, è il senso Storie degli Avoli. La memoria di chi è stato prima di noi, delle tracce che ha lasciato, degli indizi che possono essere scoperti per ricostruire quello che è stato, per conservare e lasciare ulteriore memoria a chi verrà dopo di noi. Il dispiacere di una conoscenza, di un ricordo che possa andare perduto. “Se non lo scrivi, è come se non fosse mai accaduto.”23 Unire frammenti di realtà che possano risvegliare i ricordi di chi ha avuto esperienze simili. Stimolare il contributo di altri per aggiungere altri tasselli al quadro e per delineare le condizioni al contorno.

23

Da “Debito d’onore” di Tom Clancy – BUR - 1996

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Qualcuno mi ha detto… “Ma lascia perdere, erano dei poveretti.” Parafrasando Christian Boltanski si potrebbe dire che è vero, le persone senza un destino straordinario di solito non interessano agli storici. Ma anche le persone senza qualità particolari hanno diritto alla memoria, per tentare di salvare ciò che di solito non è salvabile, quei dettagli che sono parte di un essere qualunque e che con lui scompaiono.24 “Ma a cosa serve tutto questo lavoro se non riesci a sapere che cosa facevano nella vita?” Una memoria sempre sfuggente. Anche archiviando tutte le foto e gli oggetti di un individuo, la persona reale sfuggirà sempre. Il tentativo di archiviazione costringe a confrontarsi con quello che manca. Vuole essere lo stimolo che permette a ciascuno di ricordare esperienze e comprendere meglio. “Sono andato al cimitero a controllare e ho visto che mi stavo sbagliando!” Il più bel complimento che mi è stato fatto!

24 Queste citazioni e le seguenti sono tratte da un articolo pubblicato su Repubblica del 1/9/2013. Da sempre l'opera di Christian Boltanski analizza il concetto di tempo, l'aspetto reliquiale della testimonianza e la sua esposizione attraverso forme installative rigorose e suggestive. A lui si deve tra l’altro il Museo della Memoria di Ustica a Bologna.

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Dopo aver acquistato dall’ingegner Jacque Bolex, che da una decina di anni produ Camera, nel 1935 la Paillard iniziò la fab della leggendaria H 16. La cinepresa o successo per le caratteristiche tecniche a apprezzata anche dai professionisti che s formato da 16 mm al ben più costoso standa Dal 1938 venne lanciato anche il forma modelli H8, L8, B8 e C8. Nel 1956 rivoluzionario sistema refex e nel 19 esposimetrica della luce attraverso l’obiettiv Nel 1974 l'azienda, pressata dalla concorr Kodak, fu venduta dall'austriaca Eumi Oggi, con l’avvento dell’elettronica, della B rimasto che il mito. Un mito che dà an manipolo di tecnici irriducibili, che p ordinazione, singoli esemplari dei modelli p

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8 Strumenti di conservazione della memoria La Piccolette è una fotocamera prodotta dalla Contessa Nettel Aktiengesellschaft a partire dal 1921 e dalla Zeiss Ikon dopo il 1926. è un apparecchio molto semplice ed economico, come peraltro indicato dal nome stesso, realizzato in metallo verniciato di nero. Il soffietto è in pelle di colore nero. Appartiene al gruppo di fotocamere “Vest Pocket”, lanciate dalla Kodak con pellicola da 127 mm, più piccola di quelle fino ad allora utilizzate e che quindi poteva state nella tasca di un vestito. Contessa Nettel è uno dei nomi più longevi della storia delle fotocamere analogiche. Ne furono realizzati ben quattordici modelli diversi, l’ultimo dei quali nei primi anni Sessanta per una 35 mm sempre della Zeiss Ikon. Dopo aver acquistato dall’ingegner Jacque Bogopolski la ditta Bolex, che da una decina di anni produceva la Auto Cine Camera, nel 1935 la Paillard iniziò la fabbricazione in serie della leggendaria H 16. La cinepresa ottenne un grande successo per le caratteristiche tecniche all’avanguardia e fu apprezzata anche dai professionisti che spesso preferirono il formato da 16 mm al ben più costoso standard da 35 mm. Dal 1938 venne lanciato anche il formato in 8 mm, con i modelli H8, L8, B8 e C8. Nel 1956 fu introdotto il rivoluzionario sistema reflex e nel 1958 la misurazione esposimetrica della luce attraverso l’obiettivo. Nel 1974 l'azienda, pressata dalla concorrenza di colossi come Kodak, fu venduta dall'austriaca Eumig. Oggi, con l’avvento dell’elettronica, della Bolex Pailard non è rimasto che il mito. Un mito che dà ancora lavoro ad un manipolo di tecnici irriducibili, che producono, solo su ordinazione, singoli esemplari dei modelli più famosi. ~63~


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Bibliografia - Pietro Liberati, Mantovani nel Mondo, Edizioni Mantovani nel Mondo onlus. - Ernesto R. Milani, Sermide, Dalle sponde del Po a quelle del Mississippi, Seminario di studio Emigrazione ed Immigrazione, Magnacavallo 8/9/2007. - Sandro Sbarbaro, Direttiva sul rilascio dei passaporti agli immigranti indigenti, www.valdaveto.net - La legislazione italiana in materia di emigrazione, www.terzaclasse.it/ emigrazione/legislazione.htm - Amoreno Martellini, Il commercio dell’immigrazione, intermediari ed agenti, tratto da Storia dell’immigrazione italiana, Donzelli Editore Roma 2001. - Walter Bellisi, La valigia di cartone Storie di emigrazione di Montese e dintorni (Appennino modenese e bolognese), Golinelli editore, 2004. - John H. Bracey jr. and August Meier, The peonage files of the US Department of Justice 1901-1941, University Publication of America. - Randolph H. Boehm, Mary Grace Quackenbos and Federal Campaign against peonage: the case of Sunnyside Plantation, Arkansas Historical Quarterly, 1991. - Cynthia Bruchman, Two coal towns in 1900 Bureau County: Seatonville and Ladd, Journal of the Illinois State Historical Society, Volume 97, No. 3 Autumn 2004. - Village of Ladd, Ladd Centenial 1890-1990. - Lorenzo Prencipe, Giovanni Battista Scalabrini. Il padre dei migranti, www.cser.it - Reports of the industrial commission on immigration and education, US Government Printing Office, 1901. - Pier Giorgio Ardeni, Dagli Appennini allo Spoon River, Gente di Gaggio, 2011 - Giampaolo Arienti, I moti di Masonte, Gente di ~65~


Gaggio, 2011. - Giorgio Filippi (a cura di), L’alto Appennino bolognese in cento fotografie, Gli scritturini della Musola, 1992. - Mario Fanti, Una pieve un popolo, Gli scritturini della Musola, 1981. - Marco Cecchelli (a cura di), Salviamo l’emigrante, Gente di Gaggio, 2004. - Marco Cecchelli, Una castagna sotto il guanciale, Gente di Gaggio, 2001. - Urs Mauer, Della Paillard-Bolex non rimane che il mito, www.swissinfo.ch, 2004. - www.storiadellafotografia.it, Contessa Nettel Aktiengesellschaft, 2010.

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Ogni foto ha una sua storia, che ti vuole raccontare. Ma alcune cercano di dirti qualche cosa di più. Provano ad attirare la tua attenzione per farti sapere qualche cosa che gli altri prima di te non sono riusciti a leggere, forse perché erano distratti, o perché avevano frainteso. Tentano di dirti che magari c’è un errore, che se guardi meglio puoi trovare quel particolare, sfuggito ai più, che ti rivela una storia diversa, un nome che manca. Alcune foto chiedono aiuto perché il loro messaggio non vada perduto. Piero Petroni, classe 1955, ingegnere di professione è ormai da alcuni anni sulle tracce degli avoli tra le montagne dell’Appennino bolognese. Come nei primi due volumi, le “Storie” si intrecciano tra chi è andato oltre oceano e chi è rimasto nella terra natia.

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