Storia di arezzo di luca tognaccini

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Luca Tognaccini

STORIA DI AREZZO dalle origini ai nostri giorni

AREZZO

MMXVI



A mia madre Anna Maria Nocentini



Luca Tognaccini

Storia di Arezzo dalle origini ai nostri giorni

AREZZO

MMXVI


in copertina:Immagine di Arezzo,opera del pittore aretino Zenone (alias Emilio Giunchi)


Prefazione

In questa sua storia di Arezzo,Luca Tognaccini,laureato in storia a Firenze ma aretino di origine,compendia l’intera parabola della gloriosa città toscana,dalla preistoria ai nostri giorni.La letteratura storiografica sull’antico e illustre centro,già cospicua per i tanti contributi di studiosi di ogni epoca,si arricchisce di una nuova voce che viene a colmarvi una lacuna fattasi sempre più evidente:quella della pubblicistica destinata alla divulgazione a vasto raggio. La storia locale in generale,e quella aretina in particolare,sono da sempre appannaggio di studiosi di professione e di specialisti:un settore di studi appartato,frequentato da esigue minoranze di lettori. L’autore propone in questo agile libretto una ricognizione essenziale,seppur prodiga di dati e circostanze,filtrando abilmente l’enorme congerie di notizie,e in tanti casi di leggende o di ipotesi controverse,fornite dalla letteratura di riferimento,entro la quale peraltro ha operato una preliminare selezione in vista della particolare finalità del suo lavoro. Il racconto storiografico,pur compendioso,comprende ogni aspetto della vita,secondo i dettami della storiografia più aggiornata:oltre che dell’organizzazione politica e delle vicende militari,si occupa dell’architettura e dell’urbanistica, dell’economia,del costume, dell’arte e dell’artigianato.

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Gli undici capitoli del libro si dividono in una prima parte illustrativa delperiodo considerato e in una successiva sezione “annalistica”, nella quale sono ricordati in dettaglio i principale eventi; l’uso delle evidenziature in neretto e corsivo aiuta i lettori a seguire e memorizzare i contenuti,narrati con un linguaggio iano e di tono giornalistico,nell’intento di renderli subito familiari. Questa Storia di Arezzo è la prima monografia divulgativa sulla città del Petrarca; una proposta innovativa che si rivolge almondo della scuola e a tutti i viaggiatori e turisti ammaliati dalle bellezze aretine.

Silvio Ulivelli

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Arezzo preistorica Chi ha posto la prima pietra della città della Chimera, di Petrarca, Vasari, della Giostra del Saracino? Un giovane e determinato condottiero etrusco di nome Arrenzio. Il nome invece glielo ha dato la ninfa Arezia, che viveva sino allora in beata solitudine nel fiumiciattolo Arnezia (piccolo Arno, poi ribattezzato dai Romani col nome di Castro) che solca la sella del colle lunato accogliente la più antica città. Abbiamo testimonianze precise sulla presenza, già in età paleolitica, di esseri umani che sono vissuti sul territorio. Ciò risulta principalmente dal rinvenimento casuale (in zona Olmo) di una calotta cranica sepolta insieme ad altri animali che all’epoca popolavano il territorio, come un Elephans Meridionalis (un elefante meridionale, che viveva nell’Europa del sud, per sfuggire alle glaciazioni. I nostri trisnonni quando ne ritrovavano le zanne, pensavano fosse uno di quelli di Annibale che avevano superato le Alpi. Invece era un fossile ben conservato). Il Primo Aretino venne alla luce nel 1863: durante i lavori di scavo per la galleria ferroviaria viene trovato da Igino Cocchi un teschio umano, accanto c’è anche una pietra appuntita di selce. Il cranio dell’Olmo appartiene ad un uomo come noi, un Homo sapiens sapiens, vissuto circa 50.000 anni fa; è il più antico Italiano finora ritrovato. Abbondanti sono i ritrovamenti di manufatti consistenti in schegge di pietra che servivano o per raschiare le pelli degli animali uccisi o come punte di lance non differenti da quelle trovate in Dordogna e altrove. Scarsi reperti abbiamo invece dell’epoca successiva all’ultima glaciazione. Eppure se si scavasse lungo il Vingone, si potrebbero trovare altri reperti mesolitici, cioè vecchi di ben 12.000 anni, alla fine della grande glaciazione di Würm. Col Neolitico e l’inizio dell’allevamento e della transumanza, i corsi d’acqua, secondo alcuni studiosi, assunsero un valore sacrale che perdurò fino in epoca etrusco-romana col culto della acque e di alcune fonti sacre.

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Con ragionevole certezza, si può affermare anche una certa presenza villanoviana (secondo alcuni, civiltà proto-etrusca) ad Arezzo, se non altro per la posizione geografica ove si sviluppò tale popolamento e per alcuni ritrovamenti archeologici di ceramiche e di una fibula bronzea riportabile all’VIII secolo a.C. circa. Difatti, sappiamo che la civiltà villanoviana – così chiamata perché i primi ritrovamenti furono rinvenuti a Villanova, presso Bologna – possedeva una avanzata abilità nelle tecniche metallurgiche. Se di villaggio neolitico su palafitte si è trattato ai tempi della preistoria, immaginiamolo sopra gli ameni ristagni dei torrenti Castro e Vingone, utili alla pesca come testimonia il toponimo Pescaiola. I reperti preistorici trovati dal nobile Vincenzo Funghini nella seconda metà dell’800 e poi generosamente donati al Museo Archeologico statale di Arezzo, poco ci dicono della loro provenienza. Mentre le tracce di uomini preistorici provenienti da Poggiosecco (un’altura dei Funghini a tre chilometri e mezzo a sud est del Palazzo comunale odierno, con la cima spianata in cui si è trovato l’unico esemplare intero di tempio etrusco con annesso teatro) fanno pensare che quando nel medioevo fu costruito il polo santo sul colle del Pionta attorno alla sepoltura miracolosa del martire Donato, probabilmente era ancora a portata di vista ciò che avevano realizzato gli antenati a sud-est invece che a sud-ovest. La società si sviluppa anche per imitazione. Dopo i pescatori e cacciatori del villaggio su palafitte in Pescaiola, i primi agricoltori cominciarono a coltivare la fertile piana sotto-stante e i primi pastori a condurre le greggi d’estate sui monti cir-costanti – come facevano fino a tempi non troppo lontani i Casen-tinesi spostandosi a piedi, d’estate, in Maremma – per poi ritirarsi la notte ed in caso di guerra nelle munite alture del colle lunato. Uo-mini che avevano imparato a produrre un surplus di formaggio e grano per gli anni di carestia, proteggendolo dentro rudimentali for-tificazioni di pali aguzzi; sacerdoti che misuravano il tempo scanden-dolo con 13 mesi di 28 giorni, seguendo le fasi lunari ed i cicli vege-tativi della natura dall’alto del monte. Guerrieri che si proteggeva-

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no sulle alture, come gli Italici. Ma anche metallieri che sapevano produrre il rame ed il ferro, come testimonia il cinturone di ferro di un guerriero dell’VIII secolo (dicono gli studiosi, ma già dal 1000 si conosceva il prezioso metallo nuovo), rinvenuto subito fuori la porta di Colcitrone. Persone che offrivano già i deliziosi bronzetti votivi trovati nell’area urbana, con le braccia a cerchio come ad abbracciare il mistero invisibile, gli stessi che a Firenze non ci sono; che interpretavano il volo degli uccelli come fasto o nefasto, tecnica degli auspìci ripresa poi dai generali romani che la applicano alle imprese belliche, dal latino bellum = guerra; che leggevano il futuro nel fegato di una pecora. Il salto culturale fra i Villanoviani e gli Italici da una parte, e gli Etruschi dall’altra, fa comunque pensare ad un popolo orientale più evoluto arrivato chissà da dove nel corso di una lunga migrazione marittima. Fino a Napoli c’erano già i rognosi Greci. Più su i barbari Liguri. La Maremma gli dovette apparire disabitata (esclusi quei quattro gatti di Italici montanari), selvaggia, appetibile, con fertili pianure da bonificare (ma loro sapevano come fare). Come manca l’anello di congiunzione fra l’uomo e la scimmia, così gli archeologi ed i paleontologi non hanno saputo mostrarci niente di intermedio fra l’ago ricavato dall’osso di un cinghiale ed il bronzetto votivo finemente lavorato. Rimanendo ai dati della storia, alle fonti scritte, Arezzo appare già ben formata, stando agli storici romani che pure avevano molte buone ragioni per occultare il passato, come una delle dodici capi-tali dell’Etruria, già dal 500 a.C., insieme a: Veio, Chiusi, Roselle, Tar-quinia, Bolsena, Vetulonia, Perugia, Cortona, Fiesole, Volterra, Populonia. Arezzo: Arrétion in greco, Arretium in latino. Forse vanta addirit-tura un’origine umbra, fondata dall’antica popolazione pre-romana, che fu poi sopraffatta dagli Etruschi. Gli Etruschi sconfissero gli Umbri e ne conquistarono 300 città, come ricorda Plinio il Vecchio (lo scrittore latino morto mentre osservava l’eruzione del Vesuvio

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che sommerse Pompei), costringendoli a spostarsi oltre la riva orientale del Tevere. Lucumonia famosa, stazione sulla via Cassia al tempo dei Latini, il nome della città ha impegnato gli studiosi. La base arra, di significato incerto, apparterrebbe ad una fase linguistica pre-etrusca, anteriore all’VIII secolo. Sono possibili riscontri col prenome etrusco Arnth, poi Arruns, con la gens latina Arria e il nome gentilizio Arrenius. Documentato con il nome latino di Arretium e greco di Arretion, pare quindi che Arezzo derivi da una radice etrusca (arra) collegata al nome etrusco Arnth, e latinizzato poi in Arruns (per le persone), Arrenius (come nome di famiglia) e Arrone (nome di fiume). Ma, secondo me, Arezzo deriva da Piccolo Arno Etrusco. Ma io credo che la spiegazione più semplice sia la migliore. Così il nome etrusco Arnth (da un più antico Aranth, Arunth) latinizzato in Arnus, potrebbe anche essere stato il cognome del fondatore etru-sco, da cui deriverebbe la Gens latina Arria dopo la romanizzazione. Sappiamo poi che il figlio di Arnth si chiamava “Arnthza” cioè il piccolo Arnth, latinizzato in Arnezio: così si chiama anche il figlio di Vel Saties, con cui si fa ritrarre vestito di porpora e cinto di alloro nella tomba delle Onde Marine di Caere (350 a.C.). Il nome di “Pic-colo Arno” sarebbe poi passato dal primo colonizzatore al fiume cit-tadino fratello minore dell’Arno, che i Romani ribattezzeranno mili-tarescamente con Castro. Da Arnezio ad Arrezio e poi Arezzo, il passo è breve. Machiavelli nelle sue Istorie Fiorentine testimonia che il primo municipio etrusco-romano di cui si è persa traccia e su cui più tardi Giulio Cesare impianterà Florentia, si chiamava Villa Arnina. Perché dunque la Arezzo più antica, quella ancora a preva-lenza etrusca, non avrebbe potuto essere stata latinizzata dai futuri dominatori in Arnezia, Arezia, partendo dal nome etrusco-romano di Villa Arnetina, Arrezzina, Arretina? Preistorici e gli Italici lasciano ad Arezzo il mistero, tuttora insoluto, delle origini.

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Arezzo etrusca Mistero fitto sulle origini della città murata ed anche sul suo nome. Manca un mito scritto fondante come quello di Romolo e Remo anche se il nobile con il cappello a punta che tiene un aratro trasci-nato da una coppia di buoi, il gruppo bronzeo dell’Aratore attribui-to al V secolo a.C., proveniente dal santuario di via delle Gagliarde, pare proprio intento nell’atto sacro di imprimere sul suolo i confini della nascitura città. E se fosse il personaggio principale di una nar-razione ancora diffusa ai tempi in cui il bronzo fu forgiato, risalen-te a qualche secolo addietro? Non sarebbe comunque un caso isola-to di “furto di memoria” da parte dei Romani il far diventare l’ara-tore etrusco, Romolo. Anche la Lupa capitolina è di matrice etrusca. I gemelli ce li hanno messi i Romani. Già in epoca imperiale il mito di Enea si riallaccia al racconto dell’assedio di Troia, collegandosi alla mitologia greca. Come accoglievano nel Panteon le divinità dei vinti accanto alle loro, romanizzandole in parte (Zeus che diventa Giove; alcuni dei primi re di Roma che probabilmente erano Etruschi e diventano tutti Romani), così potrebbero aver cambiato i nomi ai racconti delle origini delle città e del mondo. E poi come giustificare le similitudini fra Romolo e Remo ed il principio dei princìpi, la Genesi, con la storia di Caino ed Abele, conoscibile da un popolo proveniente da Oriente come appunto gli Etruschi secondo il greco Erodoto? Le storie appassionanti girano tutto il mondo oggi come ieri: Caino e Abele, Arrenzio ed Arrunzio, Romolo e Remo… Allora non c’era il mondo globalizzato che conosciamo oggi, ma il Mediterra-neo è stato equiparato ad un grande stagno su cui si affacciano tante rane, cioè i vari popoli. Il mare era un grande vettore di storie, idee, merci. E poi come spiegare allora le memorie che un noto tombaro-lo ha consegnato ad una famiglia di Cavriglia affinché siano rese pubbliche solo dopo la sua morte, in cui si narra di una tomba etru-sca della costa maremmana tagliata con la sega elettrica in enormi

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rettangoli e spedita negli States via cargo? Sapete cosa rappresentava? I canguri. Perché non ammettere allora che il Pentateuco (i primi cinque libri dell’Antico testamento) fosse noto in Oriente fuori della cultura ebraica, per arrivare in Toscana con le navi etrusche? Romolo e Remo non sono forse deposti in una cesta abbandonata sul fiume, come Mosè? L’Arezzo originaria è difficile scorgerla perché i Romani hanno costruito sopra gli Etruschi per cancellarne la memoria; ed i medie-vali hanno costruito sui Romani per sfruttare quanto di utile e saldo fondamento già esisteva. Scelta intelligente se si pensa ai ponti, alle strade, ai pozzi, agli acquedotti, alle mura che ancora oggi sfidano i secoli. Ogni tanto affiorano tratti di mura ciclopiche, i medievali credevano le avessero costruite dei giganti e terrore dovevano incu-tere all’invasore (come ai Fiorentini all’assalto di Fiesole) al pensie-ro di quali enormi esseri vi si celassero dentro; emergono nelle fon-damenta di palazzo Funghini sul Corso, ed altrove, vedremo dove. I bombardamenti alleati del 1944, spazzando via le case medievali di via Colcitrone, fecero affiorare alla luce grossi blocchi di arenaria locale. In direzione sud-ovest. Altri affioramenti delle più antiche mura verso ovest lungo via Pescioni, a nord per Borgunto verso Piaz-za Grande. Sempre sulla curva di livello a quota 285 metri è appar-so un muro di spina fra le case di via Albergotti e la soprastante via dell’Orto; mura anche al Palazzo Pretorio e ad angolo con via Cesalpino, in via de’ Montetini. Un tratto angolare è custodito nei sotterranei del Seminario; in via Sassoverde la cantonata a valle di Palazzo Subiano, che ospita le ragazze madri del Thevenin, era la base di una torre che sporgeva dalla linea delle mura che proseguivano poi ad ovest sotto gli orti del Palazzo vescovile; ancora mura giganti sotto il bastione nord della Fortezza Medicea. Dagli orti vescovili verso il colle di San Donato, a nord della cima di San Pietro, il tracciato corre poco sopra le mura duetrecentesche e medicee cinquecentesche. Il cardo (la strada principale), dirittissimo in direzione nord-sud, era costituito da via Pellicceria, via Fontanella, via delle Gagliarde dove

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è stato rinvenuto l’Aratore: sembra in un santuario sulla riva destra del Castro, in prossimità di un ponte per Pellicceria. Il Castro non era coperto come oggi e scoperto rimarrà fino al 1867. Solo con la fine della paura delle invasioni barbariche, e con il Rinascimento la città scende di livello; fino al medioevo, quindi, si mura in alto, sulle due cime di San Donato (320 metri) e di San Pietro (297 metri); e nella “sella” non profonda che li divide. E che oggi ospita Il Prato, colmato con terra di riporto, un tempo luogo del Foro romano. Si tratta di un “colle lunato” come quello di Fiesole, che nella sella ospita la Cattedrale medievale, ed al tempo degli Etruschi evidenziava i due poteri, quello politico-militare e quello religioso-trascendente, in grado di contattare misteriosi dèi protettivi. A sud scorre il Castro, che fino al medioevo muoveva le pale di alcuni mulini ed assieme al Vingone alimentava i pozzi. Le città etrusche dominavano dall’alto la campagna, ma racchiudevano al loro interno anche terre-ni da coltivare in caso di assedio. Qualcosa di simile agli “orti di guerra” che sorgevano nei giardini delle città italiane durante i gior-ni del passaggio del fronte nella seconda guerra mondiale. Altra caratteristica etrusca, poi romana e medievale, ma stavolta sopravvissuta anche ai tempi moderni, era quella di sviluppare il centro abitato soprattutto lungo due assi principali disposti in direzione nord-sud, est-ovest: i Romani chiameranno questi assi viari di base cardo e decumano. Anche in questo caso si nota uno scivola-mento verso sud-est di queste due strade principali, accompagnato da un sensibile abbassamento di quota, nel corso dei secoli. Per gli Etruschi di Arezzo però le due vie non si incontrano ad angolo retto a metà del loro percorso, formando una matrice a croce da cui partire per allineare parallelamente le strade via via costruite entro le mura; ma lo stesso accadeva anche in grandi città del mondo antico, anch’esse in salita, come Atene e Roma. Nella città etrusca il cardo correva a sud-est lungo l’asse via Pellicceria, via Fontanella, via Colcitrone. Il decumano lungo via Ricasoli, Piaggia di Murello, via San Lorentino. (Ovviamente i nomi delle vie sono quelli di oggi); alla loro confluenza, il Foro, oggi sepolto sotto Il Prato. Ed

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anche le porte erano più alte rispetto a quelle medicee riconoscibili dallo stemma a sei palle. Cosa ci rimane di Arezzo etrusca? Poche cose di una città che dovette essere una capitale dell’antichità. Ciò che non ha distrutto Silla, è stato trafugato all’estero, frammenti di statue compresi. Se qualcosa si è salvato, per assurdo lo dobbiamo ai tanto odiati fiorentini, soprattutto ai Medici, che non avevano bisogno di vendere come tombaroli ed antiquari, e quindi hanno conservato alcune importanti testimonianze di questo lontano passato. Grandi statue in bronzo, innanzitutto, (l’Arringatore, la Minerva) fra cui spicca la terrificante Chimera affiorata durante gli scavi per gettare le fondamenta delle mura, nel 1553, davanti a Porta San Lorentino che ne custodisce oggi una copia. La Chimera di Arezzo raffigura il mostro ferito, che si ritrae di lato e volge la testa in atteggiamento drammatico di sofferenza, con la bocca spalancata e la criniera irta. La testa di capra sul dorso è già reclinata e morente a causa delle ferite ricevute. Il corpo è modellato in maniera da mostrare le costole del torace, mentre le vene solcano il ventre e le gambe. Sulla zampa destra la scritta etrusca TINSCUIL o TINSVIL significa dono a Tin, dio del giorno. Suo padre fu Tifone, il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago. Giace relegato sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che lo portò un giorno lontano a sfidare gli dei, a cacciarli dall’Olimpo ed a feri-re Zeus. Sua madre fu Echidna, la vipera, per metà donna bellissima e per metà orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori. Chimera (dal greco chímaira, letteralmente ”capra”; in latino chimaera) è solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fra-telli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra ucci-sa da Eracle, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione. Chimera è la personificazione della Tempesta, simbolo del Male assoluto nell’Antichità assieme a Medusa; la sua voce è il tuono.

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Varie sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario. Probabilmente ad Esiodo (che scrisse la Teogonia, cioè come nascono gli dei) si ispirò l’artista che la raffigurò a Cerveteri con tre teste frontali, le cui due laterali di leone e di drago e la centrale di capra. All’Iliade invece sembra ispirato l’artefice della Chimera di Arezzo, leone davanti, capra sul dorso e serpente dietro: «Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di fo-co…» (Iliade, VI, 223-225 traduzione di Vincenzo Monti). Chimera fu allevata dal re Amissodore e per lunghi anni terrorizzò le coste del-l’attuale Turchia, seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio Poseidone, a fermare le scorri-bande del mostro. Con l’aiuto di Pegaso, Bellerofonte riuscì a scon-figgere Chimera con le sue stesse, terribili, armi; infatti «non c’era freccia o lancia che avrebbe presto potuto ucciderla». Allora Bellerofonte immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l’animale. La Minerva sembra databile al 260, una dea della guerra di alta qualità creata sicuramente per un committente aristocratico. E poi l’Arringatore, ma anche il Bambino con la spina nel piede, del Louvre. Il gruppo bronzeo dell’Aratore, il Romolo etrusco, è datato solo al 500, come la Chimera, che secondo altri è più recente. Poi ci sono i bronzetti votivi (cioè usati come ex voto, ringraziamento o richiesta per una guarigione), alcuni anche databili dall’800 al 600, quelli ancora orientalizzanti, frutto di ricordi della lontana patria mediorientale (anzi, del Vicino Oriente). Bronzetti anche sotto Porta Colcitrone, la Pieve, il Duomo Vecchio. Ed i bei vasi a vernice nera, databili dal 500 al 100 a.C., mentre i più famosi corallini rossi, rinvenuti anche in India, sono una produzione più recente, dal 100 a. C. al 100 d.C. Racconta il medievale Ristoro di Arezzo come tali vasi affiorassero ancora ai suoi tempi dalla terra appena smossa e come sembrassero vive le figure rappresentatevi a bassorilievo oltre che a disegno graffiato. Reperti anche dai dintorni immediati: dalla acropoli di Castelsecco, con tempio e teatro risalenti al 150, poi donati ai musei comunale e

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statale dal nobile Vincenzo Funghini, proprietario dell’area sita a due chilometri da viale Giotto; pezzi anche dalla miniera di ferro a Staggiano, tre chilometri a sud-est del palazzo comunale; e dalla necropoli di Poggio del Sole, scavata durante gli sventramenti del 186070, esposta a sud ovest. Michelucci ci costruisce sopra il Palazzo del Governo, esemplato sopra le ampie arcate degli Olivetani e dell’anfiteatro, con cui fa da pendant ma alla parte opposta del sud città, negli anni ’30; e quindi adesso è difficile recuperare altri oggetti. Riassumendo: quando sbarcano, i Rasenna non trovano quasi nessuno a ostacolargli il passo. Poi però nell’interno devono aprirsi la strada fra Liguri ed Umbri. Prevalse però l’incontro a lungo termi-ne sullo scontro; e con esso nacque la città murata. Così i miei stu-denti del Buonarroti non sono molto contenti quando ricordo loro che la carnagione aretina non è proprio bianchissima come quella dei nordeuropei, essendo i nostri antenati l’incrocio fra un popolo orientale maschile proveniente dal mare (come quelli che sbarcano oggi a Lampedusa ma portatore di cultura più evoluta dei locali) con donne autoctone presenti in zona da 40mila anni, in parte pure già incro-ciate con Italici giunti a cavallo da oltre il Danubio, chissà da dove. I nemici numero uno degli Aretini più antichi sono i Galli-Celti. Sono loro che cacciano gli Etruschi dalla Valle Padana (conquistando Bologna, Mantova, Marzabotto) spingendoli al di qua dell’Appennino, aumentando così l’importanza di Arezzo come presidio di confine e territorio di scambi. Bloccheranno anche i Romani fino al II secolo a.C. quando, assorbita l’Etruria, si porranno l’obiettivo dell’espansione a Nord, con i Galli sconfitti definitivamente solo da Giulio Cesare che ricorre a mutilazioni e genocidio per piegarli, da quanto erano tosti. Gli Etruschi raggiunsero il massimo della loro potenza con l’espansione nella valle del Po e in Campania, tra il 550 e il 500 a.C. Di questo periodo i reperti più importanti di Arezzo: il cratere attico a figure rosse di Euphronios e l’anfora del pittore di Meidias, oreficerie provenienti in particolare dalla necropoli di Poggio del Sole,

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una lastra decorativa policroma del frontone di un tempio scoperto presso piazza S. Jacopo. Anche Roma per un lungo periodo fu una città etrusca in cui accanto al latino si parlava la lingua dei dominatori. Il regno dei Tarquini, espulsi dalla città nel 519, aveva avuto inizio, secondo la tradizione, nel 616. Raggiunta l’autonomia, Roma si afferma nella Lega Latina e si volge contro i Veienti, durante una pausa della guerra contro i Volsci. Con la presa di Veio (396) inizia la conquista romana dell’Etruria, che si conclude nel 265 con la distruzione di Volsinii. Con Veio per la prima volta gli Italici hanno la meglio sugli Etruschi i quali difettando di sentimento nazionale, cadevano separatamente attendendo in ordine sparso l’arrivo del prossimo nemico per schierarsi con l’alleato più lontano, anche se di altra etnia. Finché Arezzo rimase alleata e distante da Roma, le cose andarono più che bene. Dopo il 310, anche l’Etruria interna settentrionale di Peru-gia, Chiusi, Arezzo invia ambasciatori a Roma, da noi si manda gente della famiglia dei Cilnii da cui discenderà Mecenate, accusati però di aver venduto la città e cacciati nel 301, ma reinsediati a forza dal dit-tatore M. Valerio Massimo che restaura i Cilni e la pace in Villa Arne-tina, racconta sempre Tito Livio. VILLA ARRETINA diventa così Municipio Romano intorno al 300, non per costrizione forzosa, sì per sinergia contro i barbari Celti ben più grezzi e pericolosi dei pastori latini; e contro anche i fratelli-coltelli etruschi. Dionigi d’Alicarnasso parla di aiuto degli Aretini ai Romani contro il loro re etrusco Tarquinio Prisco. Nel Foro di Tarquinia c’è un elogio di una guerra antica condotta nel territorio di Arezzo. Nessuna meraviglia quindi se la nostra città viene presidiata da legioni romane in cui militano anche giovani aretini. Non deve meravigliare questa scelta di campo a favore di un alleato pericoloso che ha conquistato una città della dodecapo-li dopo una guerra aspra durata ben 10 anni, come l’assedio di Troia. Pressati in Val Tiberina dai Galli Sènoni, gli Aretini scelgono l’alleato più lontano (Roma) contro il nemico più vicino (Celti). Lo stesso fanno le lucumonie del Sud Etruria, che si alleano con i nemici più lontani (Galli e Sanniti), contro i nemici più vicini (Roma). Quindi

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della coalizione etrusco-sannita-umbra sconfitta dai Romani a Sentino, nel 295, nell’ambito della Terza Guerra Sannitica, non fa parte Arezzo. I Galli poi partecipano con le loro truppe irruente e disordinate anche alle Guerre Sannitiche (di cui appendice risulta l’assedio di Arezzo intorno al 285); ed a quelle Puniche, partecipando alla vittoria annibalica di Canne. Infine, nel 225, scendono per l’ultima volta in Etruria, dove vengono sconfitti a Talamone, dopo aver vinto a Fiesole, nonostante i rinforzi Gesati (provenienti dalla valle del Rodano: Asterix e Obelix), Insubri e Boi. L’organizzato stato repubblicano ha la meglio su popoli più forti in battaglia ma meno strutturati dal punto di vista socio-politico. Solo dopo arrivano le scelte sbagliate frutto della miseria che si stava diffondendo fra i piccoli proprietari etruschi, mentre l’aristo-crazia senatoria espandeva immensamente i suoi sconfinati latifon-di nonostante i tribuni della plebe (dal 494), il matrimonio fra patri-zi e plebei (dal 445), l’abolizione della schiavitù per debiti (dal 300). Gli Etruschi oggi, 2016: rinasce la Dodecapoli (= 12 città). Gli Etruschi ci insegnano ancora a vivere. La Dodecapoli etrusca si sta di nuovo formando. Ma ne parliamo dopo. Riaffiora la saggezza politica di quelle genti che hanno lasciato nella nostra regione, e non solo, testimonianza grandissima di civiltà. Le loro città belle, ricche, potenti, spesso si trovavano in conflitto fra di loro per motivi commerciali e politici: l’una tendeva ad invadere il territorio dell’altra. Questo le rendeva deboli all’esterno: quando dovevano fronteggiare un nemico, non c’erano i presupposti per un’azione comune che fosse efficace. Un patto di alleanza parve allora il rimedio da adottare; sorse così la “Dodecapoli”, ossia l’unirsi delle dodici città più importanti. Si era circa nel 750 a.C., a Roma vivevano ancora nelle capanne. Fu un accordo di carattere politico-militare che ebbe anche risvol-ti economici. Gli Etruschi sono il popolo del mistero e anche in que-sta questione ci sono margini di incertezza. Ma la formazione origi-naria dovrebbe essere: Arezzo, Cere, Chiusi, Orvieto, Populonia, Rosel-le, Tarquinia, Veio, Vetulonia, Vipsi (Gonfienti), Volterra e Vulci. Vipsi fu

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poi abbandonata nella piana di Prato e in quella zona il luogo più importante divenne Fiesole. I rappresentanti dell’alleanza si riunivano una volta all’anno al “Fanum Voltumnae”, un santuario scomparso di cui parla anche Tito Livio collocandolo a Orvieto ed a Tarquinia. Ogni primavera gli appartenenti alla lega vi si recavano per eleggere il capo della federazione, per discutere di politica e di economia, soprattutto per adorare gli dei comuni. Vi si teneva anche un grande mercato. Questa formula vincente, la Dodecapoli, fu riproposta anche fra gli Etruschi della Val Padana e della Campania. Dopo 2500 anni le antiche e belle e storiche città etrusche di Um-bria, Lazio e Toscana, per iniziativa del sindaco di Chiusi Stefano Sca-ramelli, si uniscono di nuovo; esse sono: Arezzo, Castiglione della Pesca-ia, Cerveteri, Chiusi, Cortona, Formello, Grosseto, Montalto di Castro, Pe-rugia, Piombino, Tarquinia e Volterra. Rinasce la Dodecapoli fra comuni che hanno caratteristiche simili, con lo scopo di chiedere l’iscrizione delle città etrusche al patrimonio dell’Unesco, per rendere più semplice la conservazione e la fruizione a livello comunitario di una storia straordinaria e dei suoi monumenti. È la prova evidente che il passato serve a suggerire al presente come rendere migliore il futuro. Gli Etruschi lasciano ad Arezzo il senso di appartenenza ad una cultura superiore.

Arezzo romana Arezzo romana è un grande bluff, nel senso che sono gli Etruschi che prendono nomi latini, cambiano lingua ufficialmente ma continuano a parlare il dialetto in casa, lasciano comandare i pratici roma-

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ni in cambio della pace fra di loro, imparano dalla nuova classe dirigente giunta in città come si amministra uno stato che va oltre le mura cittadine. Fino al 100 d.C. sono pur sempre i due terzi della popolazione totale, anche se non comandano più sulle loro fabbriche, sui loro campi più fertili, nelle loro caserme e fortificazioni. Molti dei loro segreti lavorativi sono stati consegnati ai nuovi arrivati da famiglie etrusche che sono forti alleate di Roma, da Roma ottengono la costru-zione di opere pubbliche imponenti come l’acquedotto, le terme, le strade, lo stadio, addirittura un nuovo quartiere dirigenziale ad est, fuori porta Colcitrone (da culcitrones cioè i materassai in latino medievale. Perciò quando oggi i popolani chiamano Culcitrone il proprio quartie-re, sono più corretti dei dotti perché si rifanno più correttamente all’e-timologia latina di quelli che parlano invece di Colcitrone. È questo uno dei tanti suggerimenti sparsi per il libro, di cui sono debitore al professor Luigi Firpo, Presidente della gloriosa Accademia Petrarca). Anche gli Etruschi avevano il teatro, le strade, gli aratri e le armi moderne. Però presero, con la lingua, le strutture romane assieme al vantaggio della pace imperiale che teneva lontani i barbari ed evi-tava i litigi interni fratricidi fra Etruschi, con una migliore legisla-zione scritta. Comunque, come si vede dalle facce simili a quelle dei sarcofagi, il patrimonio genetico etrusco è arrivato sino ai nostri giorni e sopravvive nella Ci alla fiorentina ed altrove. I Greci conquisteranno quasi i Romani con la loro cultura superiore, ma anche gli Etruschi hanno fatto quasi lo stesso, cedendo solo ad una mag-giore praticità (e forza militare) dei Latini. FEDELI MA RIBELLI: Durante l’invasione annibalica, prove tecniche di stato etrusco indipendente mettono in allarme i Romani, che pure continuano a vendere e comprare terreni come se non fossero sotto occupazione nemica, con il potente Senato che invia ad Arezzo Terenzio Varrone a prendere 120 ostaggi da condurre a Roma. La nostra città rischia così di perdere il vantaggioso stato di Municipio, ma si redime con la straordinaria offerta alla capitale di armi prodotte in casa, messe a disposizione di Scipione l’Africano che si appresta a distruggere Cartagine, sempre su ordine del Senato.

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Nel tentativo di recuperare l’indipendenza della città-stato etrusca, nonostante l’elevato grado di Municipio, gli Aretini si tro-veranno sempre dalla parte sbagliata, quella dei perdenti: Mario versus Silla e Catilina versus il Senato e Cicerone. Salvo redimersi agli occhi della storia, con lo straordinario contributo in armi forni-to a Roma nella guerra contro l’oriente da cui loro provenivano e di cui conoscevano il dispotismo assolutistico evidentemente ben peg-giore di quello repubblicano dei Romani, che comunque con l’aiuto di Arezzo iniziano a gettare le basi del futuro impero mediterraneo. Eccezionale fu l’offerta aretina fatta nel 205 all’esercito romano per l’ultimo attacco a Cartagine diretto da P. Cornelio Scipione. Assai di più e meglio questa offerta ci testimonia sulla potenza industriale di Arezzo. Basta fare un paragone tra quello offerto da altre città etrusche e quello offerto da Arezzo: Caere dette frumento e viveri, Populonia ferro, Tarquinia tele per le vele, Volterra grano, Perugia, Chiusi e Roselle dettero legname; Arezzo, da sola, fornì: «tremila scudi, altrettanti elmi, giavellotti corti, aste lunghe, giavellotti tutti di ferro, in ugual numero per ciascuna specie fino a raggiungere la somma di 50.000; e scuri, zappe e falci, gabbioni e macine quante ne occorrevano per 40 navi da guerra; e 120.000 moggi di frumento (il moggio romano corrisponde a litri 8,7) e viveri per i decurioni e per la ciurma» (Tito Livio 28, 45). Evidentemente gli scuri africani vicino-orientali erano visti più pericolosamente dei bianchi Latini. Forse erano più affini ai popoli orientali che li avevano costretti ad emigrare in Toscana. Potessi tornare indietro nel tempo, li intervisterei volentieri su questo punto. Dopo la vittoria di Zama (202 a. C.) fermenti antiromani in Arezzo non ci furono più. La romanizzazione progrediva implacabile, aiutata dalla fondazione di colonie romane in Etruria. PERSONAGGI: Mecenate, il cui nome proprio è diventato sinonimo di sponsor, nome comune per indicare qualsiasi protettore di artisti, di poeti, di geni, è il “romano” chianino più famoso di Arezzo. Consigliere prediletto del Principe Augusto, anche riguardo alle politi-che matrimoniali, oltre che culturali (la famosa superiorità culturale

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etrusca), comandava Roma allorché l’imperatore se ne allontanava. Spendeva oltre misura per grandi feste nel suo palazzo sull’Esqui-lino. Quando tornava a casa per riposarsi dalle fatiche della capita-le, sembra lo facesse nella sua deliziosa villa sita a quattro miglia dalla città, su un amenissimo colle da lui detto Mecena, poi divenuto Mer-cena, infine Marcena. Per il I secolo a.C. si può ricordare anche Tito Pomponio Attico, letterato amico di Cicerone e per il I secolo d.C. la poetessa Sulpicia «l’unica poetessa della letteratura latina che aveva villa e possessi nei dintorni di Arezzo (forse in località Sulpiciano oggi Pieve S. Giovanni) ma che non pare essere stata molto innamo-rata della nostra campagna aretina da lei ritenuta “noiosa” e che si domandava se fosse veramente adatta ad una giovane donna la villa e il freddo fiume della campagna aretina» (Fatucchi). IL TERRITORIO: Il territorio municipale aretino era vastissimo: più ampio di quello della nostra provincia e uguale a quello del-l’antica diocesi aretina che non è difficile ricostruire: dal Tevere al-l’Arbia e all’Ombrone, da Certignano nel Valdarno fino all’Orcia. Quindi la Provincia di Arezzo esisteva già al tempo dei Romani e si chiama-va Municipio. Ritornerà fuori nel 1825, concessa dai Lorena austria-ci, col nome di Compartimento aretino, intra Tevero et Arno, come ri-compensa dell’insorgenza contro i Francesi. ARTE: FORO, TERME, MURA, STRADE, TEATRO ED ANFITEATRO, CENTURIAZIONE: questi i punti di forza identitari della città romana, che si identifica con le sue macrostrutture globali ed entra in crisi col loro deperimento per mancata manutenzione ordi-naria (Federico Zeri docet), in seguito al liquefarsi dello stato cen-trale e della piccola proprietà campestre che vede la villa del lati-fondista trasformarsi in fortezza autarchica durante le invasioni barbariche. Per quanto riguarda l’attività artistica nell’Arezzo romana, specialmente la scultura e la ceramica, una attenta visita al Museo Archeologico è indispensabile. Sia la conoscenza della topogra-fia di Arezzo romana che gli avanzi archeologici di essa sono ben più ricchi di quelli dell’Arezzo etrusca, perché ci hanno costruito sopra. Molti i resti di strade romane sia all’esterno che all’interno della

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città: Via Vittorio Veneto, Corso Italia, Via delle Gagliarde, Via M. Perennio, Via Vecchia di S. Clemente. Soltanto sul lato nord e nord-est della città il Fatucchi riconosce quattro strade romane. Il Foro non ha lasciato tracce visibili ma si sa bene dove fosse ubicato: tra l’abside del Duomo e la Fortezza, specialmente nella depressione che ivi si trovava e che venne colmata dai Napoleonidi per farci sopra la pista per la corsa dei cavalli ed il parco cittadino de “Il Prato”. Quanto agli edifici termali, si conoscono l’ubicazione e qualche resto di almeno tre: presso la porta S. Clemente, in Via delle Terme (presso la Piazza di Porta Crucifera) e in Via dei Ninfeo - Via Crispi. Ma resti di molti altri ne esistono, come quelle sotto Palazzo Lambardi sul Corso, locali termali impiantiti a mosaici con animali marini umanizzati stile tardo-impero, accoglievano lungo il Cardo i forestieri e la discesa favoriva la defluizione delle acque reflue. Altre terme presso porta Stufi ce le rivela non l’archeologia bensì la toponomastica germanica, erano in attività anche al tempo dei Longobardi, da stufo = locale riscaldato e dotato di acqua calda. E mentre il teatro si trovava nella parte alta della città (tra la Fortezza e Viale Buozzi); l’anfiteatro, come si vede ancora, era nella parte bassa a sud-ovest fuori le mura, troppo pericoloso introdurre migliaia di provinciali in città, durante i giochi. E resti o indizi di molti templi in ogni parte della città; e vicino, il tempio di Giunone Lucina (la etrusca Uni) la popolare dea dei parti e delle madri, sulla splendida cima di Castelsecco, è etrusco più che romano. Le figure fittili di bambini e vecchi in fasce rinvenute nei pressi della necropoli annessa al tempio, alludono forse al mito orientale della trasmigrazione delle anime e della reincarnazione? Si è detto delle industrie cittadine di ceramica a rilievo di colore ros-so corallino e dei metalli, già etrusche, quindi romane. Idem (lo stes-so) per quanto riguarda i prodotti agricoli: si può ricordare come Plinio il Vecchio menzioni l’ottimo grano “siligo” della Valdichiana e Plinio il Giovane l’ottimo vino dal nome etrusco di “talpona”.

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Nel 1840 il nobile Giovanni Guillichini scopre le terme presso l’antico teatro (in Vicolo delle terme) su cui i medievali costruiranno la cittadella arroccata ed i Medici la fortezza. Negli stessi anni i Fiorentini fanno lo stesso con Palazzo Vecchio messo sopra il lento declivio del teatro romano in direzione di Piazza San Firenze. Probabilmente si conosceva la storia della presa di Veio e si voleva evitare che un cunicolo sotterraneo prendesse alla sprovvista gli assediati, costruendo le fondamenta su un solido zoccolo di pietra. Oppure ispiravano i Vangeli quando invitavano a costruire in maniera duratura sulla roccia e non sulla sabbia. Il teatro ospita 3mila posti a sedere (molto più grande di quelli di oggi). L’anfiteatro fuori le mura e vicino alla strada che giunge da Roma, a due anelli più attico, ha un’arena grande quasi quanto quella del Colosseo ed ospita 15mila posti a sedere. Funzionerà solo per due secoli e mezzo perché i Cristiani otterranno nel 404 la chiusura degli spettacoli violenti nel corso dei quali erano stati uccisi alcuni di loro ancora 100 anni prima. Nell’alto medioevo diventa cimitero per barbari stazionanti fuori le mura, alla ricerca di una sepoltura di prestigio. Nel basso medioevo viene usato come cava di pietra per la nuova espansione della città. Infine i frati Olivetani ci costruiscono sopra il convento e la chiesa. Cambia il cardo, che si sposta da via Pellicceria etrusca per diventare quello che inizia con via dei Pileati, prosegue in Corso Italia, passa sotto la ferrovia e prosegue per via Vittorio Veneto, in direzio-ne Roma. Si inizia a costruire parallelamente rispetto a Corso Italia. Ma cardo e decumano nemmeno stavolta sono ortogonali. Il decu-mano semicircolare comprende via Chiassaia, via Cavour, via Mazzini, via Pescioni. La città si ingrandisce e scende di livello in direzione sud-ovest. Solo la città nuova voluta dall’imperatore Augusto ad est di via Pellicceria presenterà un andamento ortogonale che è rimasto sepolto ma di cui sono ancora spia le parallele via Sansovino e via Bartolomeo di ser Gorello. Un nuovo centro direzionale pensato a tavolino dagli ingegneri di Mecenate, che replica le strutture base della città roma-

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na, facendole più belle, come i nuovi anfiteatro e terme e foro e acque-dotto che adesso attinge direttamente dalla sorgente di Fonte Gran-de sull’Alpe di Poti; da quota 854 metri le limpide acque arrivava-no in un mega-serbatoio adesso interrato a nord-ovest del colle di San Donato, a quota 305 metri. Da lì, a caduta per l’intera città anche con tubature in stagno, unico punto debole dell’intero sistema. Anche la cloaca (fognone) ha resistito ai secoli, quella sotto Piazza Grande, ed emersa in via Guido Monaco durante gli sventramenti del neonato stato italiano e riutilizzata come scolmatore. Ed i mosaici, come quello scoperto alla base della torre del Palazzo Pretorio. Ma terme anche sotto la torre campanaria di San Michele che si affaccia sul Corso, anche sotto Palazzo Lambardi. I nuovissimi teatro, ter-me, platea forense sono ortogonali all’asse di via Pellicceria, quindi perfettamente allineati in direzione est-ovest. Da qui provengono gli Elogia Arretina, iscrizioni celebranti i padri della patria uguali a quelle del Foro di Roma. Ritrovamenti anche in via Crispi come uno snodo con saracinesca in piombo per le acque, recante la scritta «colonia Julia arretinorum publice» (acquedotto pubblico della colonia di Arezzo fondata da Giulio Cesare) che rivela come l’acqua corrente servisse parti di città mai raggiunte prima dagli Etruschi e nemmeno dopo dai medievali. Solo la città novecentesca supererà in espansione la metropoli romana. Abbandonata la necropoli già etrusca di Poggio del Sole, si pone rimedio ai tanti morti affermando la moda delle ceneri custodite nel busto del defunto, venerato in tempietti casalinghi assieme ai Lari, le divinità domestiche. Solo le famiglie più potenti, come a Roma, costruiscono mausolei ai lati della strada per la Capitale fuori le mura, l’attuale via Vittorio Veneto. Le strade rappresentano un altro campo di sfida con i loro predecessori. Siccome costruire una strada sopra un’altra è difficile senza l’asfalto e poi non cancella il nome ed i meriti della vecchia, allora decidono di costruirne una più breve e sicura che colleghi la città non con un’altra etrusca, bensì con una nuova colonia romana e con il porto di Pisa sul mare Tirreno (l’Arno in 2000 anni coi suoi

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detriti ha allontanato il porto), controllato ottimamente da Ostia. Così nasce la Cassia Nuova che sale da Roma lungo la Val di Chiana, si congiunge ad Arezzo con Via San Lorentino uscente dalla città, gira a ovest correndo sugli altipiani a sinistra del corso dell’Arno, in Valdarno. Su un ripiano meno pronunciato di quello valdarnese a destra dell’Arno, dove corre la Cassia Vetus che unisce le sorelle città etrusche di Arezzo e Fiesole, la nuova strada salta l’etrusca Cortona non sede di esercito, prevalentemente popolata da etnia non romana, economicamente decadente dopo il sacco di Silla. Sicuramente l’Arezzo romana era molto più importante e grande della colonia di Florentia, nata solo nel primo secolo a.C. dall’espansione di un accampamento militare romano nei pressi di un guado sull’Arno. Per questo era al centro di uno snodo di strade che andava nelle quattro direzioni dei punti cardinali ed era presidiata giorno e notte dall’esercito più forte del mondo. La fedele Arezzo, carissima ormai a Roma per la sua posizione strategica, venne ricostruita ed ebbe una nuova superba cinta di mura laterizie, ammirata più tardi da Vitruvio e da Silio Italico. Ci è ignoto il suo perimetro perché l’unico tratto sicuro è quello scoperto dal Pernier, nel 1916, su segnalazione di Alessandro del Vita. Si trova a 140 m. circa a nord delle attuali mura della città. Lo spessore dell’anima tutta in mattoni crudi è di m. 4,30. Ma con il rivestimento in mattoni cotti raggiungeva certamente i cinque metri. Con la costruzione di questa terza cinta muraria, detta la cinta laterizia, Fatucchi ha messo in relazione un nuovo impianto urbanistico del quale ha cercato di raccogliere tracce e reliquie specialmente nella zona a nord della città, intorno all’attuale Via Pietramala. Tra coloni, proprietari di fabbriche espropriate, operai e militari truppe d’occupazione delle legioni stanziate in Arezzo, i Romani erano oramai un terzo della popolazione totale, 10mila su 30mila. Poi ci furono i matrimoni misti. Gli Etruschi parlavano e scrivevano in latino. Ma il loro patrimonio genetico ha superato anche le posteriori invasioni barbariche.

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I Romani lasciano ad Arezzo poche parole, molte leggi e tante opere pubbliche, come era nel loro carattere di persone pratiche.

Arezzo cristiana I Cristiani aretini della prima ora sono mercanti viaggiatori in Oriente e militari, severe matrone influenzate dalla religione dei loro schiavi. Ignoti i più, con alcuni nomi di spicco di cui si parla ancora oggi. 3 miracoli mariani accertati e tramandati; 5 santi cittadini. Questi i numeri principali della chiesa aretina. Il 26 febbraio del 1490 piange una statua della Madonna, attorno alla quale viene costruita la chiesa della Santissima Annunziata, dove si festeggia ogni 26 febbraio il fatto straordinario. Poi la Vergine appare di persona a San Polo, dove sorgerà la Chiesa intitolata appunto alla Madonna del Giuncheto. Il 12 luglio 1573 la statua della Madonna del Prato di Giustizia parla a una pia donna, ma la chiesa costruita attorno al miracoloso evento presso Porta Santo Spirito viene soppressa nel 1785 e la miracolosa immagine spostata in San Bernardo, all’anfiteatro. Il 15 febbraio del 1796, l’immagine mariana di terracotta invetriata, la Madonna di Provenzano, che sarà ribattezzata “Madonna del Conforto”, risplende ed interrompe una scossa di terremoto. I Santi sono Donato vescovo a cui è intestata la Cattedrale in condominio con San Pietro; i fratelli Lorentino e Pergentino, la cui chiesa fu costruita col lascito di un orafo; Flora e Lucilla, le due vergini claustrali “importate”, alle quali è dedicata l’omonima Badia benedettina ammodernata da Giorgio Vasari. Il merito più grande dei cristiani aretini è quello di tutti gli altri

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cristiani italiani: riuscirono a convertire i barbari, addomesticandoli ad una utile vita civile; prima ancora, avevano convinto i Romani a smettere con il sangue negli anfiteatri. Tutto ebbe inizio con San Benedetto, che non a caso Papa Paolo VI, nel 1964, nominerà patrono, cioè padre e protettore, d’Europa. Nel 500 parla a quattr’occhi con Totila, predicendogli la sua triste morte, perché chi di spada ferisce di spada perisce. Il barbaro diventerà più buono, ma non riuscirà ad evitare la sua triste fine. Da Montecassino manda per tutta Italia i suoi benedettini a dissodare le terre impaludate da quando gli operai romani se ne erano andati; a coltivare la vite per il vino della santa messa; a seminare il grano affinché un certo benes-sere gli permetta di essere ospitali verso i pellegrini, assistendoli in caso di malattia. Insegnano a lavorare ai laici che gli vivono vicino. Nobilitano la fatica umana facendola diventare crescita personale, e non obbligo servile. Inventano anche l’opus Dei (cioè il lavoro che riguarda Dio), mettendo per iscritto come va fatta una santa messa. Si dedicano anche alle scienze, alle lettere, alle arti (sono i primi pittori anonimi di santi e miracoli) e, dalla caduta dell’impero romano alla nascita delle prime libere università comunali dopo il 1000, sono gli intellettuali di punta durante la nascita del mondo nuovo, sorto dalle rovine dell’impero romano, difendendolo finché era possibile, perché ogni autorità proviene da Dio; e poi bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Ma ad Arezzo, quando da Roma oramai non arriva più nulla, con la nuova cinta di mura proteggono le nuove chiese di San Pietro Maggiore e di San Donato in Cremona, sugli omonimi colli, lasciando fuori le oramai inutili, indifendibili vestigia dell’impero romano. Quando la città tornerà ad espandersi, utilizzeranno l’anfiteatro, regalatogli dai legittimi proprietari cioè i re del nuovo Sacro Romano Impero, come cava di pietra e marmo per le nuove case e mura. La vicenda del Cristianesimo ad Arezzo come nel resto d’Europa, che nel medioevo sarà definita Respublica Christianorum, ci confer-ma del fatto che la dottrina di Cristo è di origine divina, discende direttamente dall’alto; mentre lo stesso non può dirsi delle religioni

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precedenti, tentativi meramente umani di gettare un ponte verso l’Assoluto, contando sulle forze più perspicaci di un qualche visionario poeta sacro. Il regno etrusco dura un millennio, dal 1100 al 100 ed i suoi dei scompaiono con la fine della forza del loro popolo adorante. Stesso destino per la religione romana, che sopravvive ancora qualche secolo nei pagi cioè villaggi isolati di montagna, ma scompare col collasso dell’impero ed oggi compare soltanto nei musei e nella psicanalisi, assieme alla greca. L’uomo è sempre stato un animale economico, conservando e tutelando ciò che serve ad affrontare la vita di tutti i giorni, religione compresa. Quindi dobbiamo constatare come per i concreti Romani il Cristianesimo funzionasse assai bene. Con l’Editto di Costantino (313), che rese tutte le religioni ugualmente praticabili, l’impero si era cristianizzato; Arezzo ha il primo vescovo ufficiale, Satiro. Ma al crollo dell’impero, la religione del pescatore Pietro e dell’ebreo Paolo sopravvive alla riprova delle armi, riesce a convertire i barbari superando la sconfitta militare e l’invasione (accogliendo santi longobardi con la spada come San Michele che usa la lama solo contro Satana leonino), per poi ripresentarsi in sella al comando nell’alto e poi nel basso medioevo con un vescovo Tarlati ghibellino che riunisce in sé il potere di comunicare con Dio per conto della città e quello di amministrare e guidare il popolo aretino nel suo esilio sulla Terra, in nome dell’Imperatore lontano. La storia cristiana di Arezzo inizia fuori le mura, lungo le vie consolari. Lungo via Vittorio Veneto, presso il quartiere dei saiones cioè degli addetti a riscuotere le imposte e i pedaggi e quanto spettava al fisco imperiale, dove si converte il primo Zaccheo aretino. Sul lato sud del Pionta, ad un tiro di sasso da via Vittorio Veneto con sotto la strada romana per la capitale; e lungo via Marco Perennio, che nasconde sotto di sé quella Cassia nuova che conduceva a Fi-renze ed al mare di Pisa. Poi entra nella cittadella medievale con San Donato in Cremona, riscoperta nel 2012 sotto la Fortezza; e con San Pier Maggiore, sotto la Cattedrale.

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E che dire del polo religioso del Pionta, “il Vaticano Aretino” secondo una felice espressione del Tafi? E che l’illustre storico medievista J. P. Delumeau (Università di Rennes) paragona a Tours come luogo spirituale fondativo dell’Occidente? La Cronaca dei Custodi di Donato annota la visita devota di ben 5 imperatori prima del Mille; e due papi vi muoiono in odor di santità. Nel 304, sul colle sacro viene tumulato il corpo di Donato. Dopo l’Editto di Costantino (313) vi viene eretta una cappella-oratorio, seguìta dalla chiesa paleocristiana del IV secolo la cui ricerca è in corso; nell’VIII secolo vi sorge la cattedrale di Santo Stefano e Santa Maria. Nell’840 vi si eleva la Canonica presso la Cattedrale; nel 1032 il vescovo Teodaldo consacra il Tempio di San Donato rea-lizzato ad immagine di San Vitale a Ravenna capitale, dall’architet-to Maginardo; il vescovoconte vi vive in un munitissimo castello. Dal Pionta, Guido d’Arezzo inventa la scrittura musicale. Dalla scuola della cattedrale, costretta anche lei ad inurbarsi dal 1203 nel rivale quartiere guelfo di Borgo della Badia-Borgo San Piero, nasce prima del 1215 la terza università pubblica dell’occidente cristia-no, dopo Bologna e Parigi. Ma se i Custodi furono costretti a conse-gnare alla città i segreti della musica e della cultura scientifico-uma-nistica, avranno pure consegnato il vero corpo di Donato, la cui de-vozione mistica aveva permesso di così progredire nell’alta cono-scenza intellettuale, venerato come San Giacomo a Santiago de Compostela? Arezzo è una delle poche città italiane che possegga l’elenco sicuro dei suoi vescovi (le altre città sono Roma, Napoli, Lucca, Ravenna, Bologna, Reggio Emilia, Aquileia, Sabiona, Trento, Verona, Brescia, Milano, Pavia, Novara e Vercelli) ma non è facile assegnare date approssimative ai loro episcopati. Il dominio dei Franchi, che si estese sul territorio e la città di Arezzo, non si affermò con la violenza ma con moderata saggezza anche nei riguardi della popolazione longobarda ancora numerosa in città. Carlo Magno mirò piuttosto ad estendere anche ad Arezzo una riforma, portata avanti pure dai suoi successori, che favorì un

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ulteriore sviluppo delle strutture ecclesiastiche a tutto vantaggio dei vescovi che così si videro favoriti e arricchite e abbellite le loro Chiese. Tra questi si ricorda: Pietro I (830?-850?) che ottemperò alla richiesta di Lotario che presso la Cattedrale di Pionta fosse istituita la Canonica. A lui successero Pietro II (853-865) e poi Giovanni (868?-900). Da Arnaldo in poi (1052), durante la lotta per le investiture, nelle mani del vescovo passò il potere temporale e religioso. Si creò la figura del vescovo-conte. In questo periodo, ad Arezzo, i vescovi furono: Everardo (960), Elemperto (986-1010), Guglielmo (1010-1013?), Teobaldo (1023-1036), Immone (1036-1051), Arnaldo (1052-1062), Gregorio I (1104-1114). Nel 1111 Arezzo subì l’occupazione, la devastazione e il saccheggio da parte dell’esercito di Enrico V per cui questi incorse successivamente (1115) nella scomunica da parte del Papa Callisto II. L’imperatore aveva semplicemente applicato la legge del contrappasso, sbassando le mura esterne del Comune da cui erano par-titi i danneggiatori del castello del suo conte-vescovo, sul Pionta. Nel 1122 terminarono le lotte tra Papato e Impero col concordato di Worms tra Enrico V e il Papa: i vescovi-conti ripresero la loro auto-nomia in Arezzo come nelle altre città della Tuscia. Ma gli Aretini, indignati, nel 1131, arrivarono al punto di assali-re di nuovo e distruggere il castello vescovile che era stato edifica-to sul colle di Pionta. In questo periodo si susseguirono come vesco-vi: Buiano (1129-1134), Mauro (1134-1142), Girolamo (1144-1177). Poiché il popolo o almeno gli estremisti stavano recando danni alla cattedrale, il vescovo e il suo seguito decisero di trasferirsi dentro le mura urbane e ciò avvenne nel 1203. Stessa sorte toccò qualche anno dopo ai Benedettini di Torrita presso Olmo. I primi documenti scritti ufficiali della chiesa aretina risalgono al 750, sono carte e pergamene dell’Archivio Capitolare (cioè dei tomi divisi in capitoli) di Arezzo. Non meraviglia che il Vescovo fosse l’unica autorità capace di dialogare col barbaro invasore. Ma questo

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ci porta già al prossimo capitolo. Risalendo ancora addietro, mancano fonti scritte, la sopravvivenza quotidiana non concedeva tempo alla scrittura. Motivo per cui i primi tempi sono talora avvolti in un’aura di leggenda. Luce sulle origini mitiche di Arezzo cristiana proviene da un poker d’assi, santi importanti, da calendario: Donato, Lorentino e Pergentino, Ilariano. E dalle loro Passioni, scritte subito dopo la loro morte, anche se le prime versioni che possediamo oggi, ricopiate dalle originali, non sono antecedenti al 500. San Donato, secondo vescovo di Arezzo dopo Satiro, nasce a Roma dove viene convertito. Per sfuggire alle persecuzioni tremende della capitale pensa di rifugiarsi da Ilariano, un monaco che vive ad Arezzo, il quale invece di nasconderlo, lo fa diventare vescovo per i tanti miracoli compiuti. Catturati in seguito ad una spiata, al tempo delle persecuzioni di Giuliano l’Apostata (soprannome significativo, era uno che aveva perso la fede), Donato ed Ilariano furono decapitati ad Arezzo il 7 di agosto del 362. Il miracolo più famoso è quello del calice, per via del quale sarebbe stato condannato al martirio: durante la celebrazione della messa entrarono nel tempio dei pagani che con violenza mandarono in frantumi il calice di vetro, di cui Donato raccolse i cocci e li rimise insieme, ma ne mancava uno. Noncurante di ciò, vi avrebbe versato del vino servendolo ai fedeli senza che ne cadesse dal fondo. Dallo stupore, 79 pagani si convertirono al Cristianesimo. Dopo un mese, fu arrestato e ucciso. Altro miracolo: durante uno dei suoi viaggi a piedi, ospite dell’imperatore romano d’oriente Teodosio, a Costantinopoli, uccise un drago che con il suo fiato pestilenziale ammorbava le acque di una sorgente. Fu sepolto sul colle del Pionta, dove sorgerà la prima cattedrale di Arezzo. L’arca marmorea di San Donato sovrasta l’altare maggiore del Duomo e contiene all’interno le reliquie. La sua festa cade il 7 di agosto. È venerato come protettore e guaritore degli epilettici, per-ché gli è attribuita la guarigione miracolosa di un bambino affetto da questa malattia. Notizie della sua vita sono riportate nel Martiro-

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logio Geronimiano, del 500, in una Passio Donati del 600, in varie altre Passiones di origine medievale e nella Cronaca dei custodi, documento del 1000. Nel 1384, il capitano di ventura francese Enguerrand de Coucy espugnò e depredò Arezzo. Poi valicò l’Appennino, recando con sé, tra l’altro, la preziosa reliquia della testa di San Donato, patrono della città. Alla sua venuta a Forlì, Sinibaldo Ordelaffi, il Signore di quella città, riscattò la reliquia, che tenne con grande venerazione fino a che essa fu restituita agli aretini e messa nella Pieve di Santa Maria, dentro al preziosissimo busto che lo rappresenta, tempestato di pietre preziose. Lorentino e Pergentino erano due fratelli che non rinnegarono Gesù Cristo e si rifiutarono di adorare gli dei romani durante le precedenti persecuzioni dell’imperatore Decio. Allora il capo della chiesa era un prete pauroso che viveva nascosto, di nome Cornelio, il quale non riuscì a nasconderli. Decapitati il 3 giugno del 250, riposa-no nella chiesa poco fuori Porta San Lorentino, tenuta da don Dino Liberatori, nell’attuale via Fiorentina, all’altezza del Castro; luogo che ha restituito interessanti tracce archeologiche di altre sepolture di età romana. È la chiesa più antica di Arezzo, anche se l’edificio di pietre per metà crollato e rifatto, è medievale. Altro ritrovo antichissimo dei cristiani è il Pionta. Ancora è una religione fra tante altre, non ha una sede prestigiosa dentro le mura, dove entrerà portata da stranieri, perché professarla è pericoloso. Questi cristiani non vogliono rendere omaggio agli dei romani ed affermano che esiste un unico Dio onnipotente, quello degli Ebrei, che si è fatto uomo di nome Gesù per salvare tutti rendendosi visi-bile. Nel loro panteon i Romani adorano tutti gli dei, compresi quel-li dei popoli sottomessi, compreso il dio ignoto che ancora non conoscono. Mettano i cristiani dunque il loro Dio alla pari degli altri e rendano onori divini all’Imperatore che è sopra tutti perché ha sconfitto tutti i popoli conosciuti ed i loro dei. Ma i cristiani rifiuta-no questo culto della personalità, andando incontro alla morte. Decapitati, si rialzano, prendono la loro testa sotto il braccio (cefalo-

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fori, cioè portano da sé la loro testa) e vanno a farsi seppellire dove c’era la loro comunità, a destra di via Marco Perennio. Una storia per immagini del martirio dei due fratelli è leggibile nei 6 bassorilievi che adornano il fregio sulla facciata della chiesa omonima, in Piaggia di Murello, sull’angolo con via Cavour, dove c’era la vecchia porta. Un posto importante, all’ingresso del decumano, perché Porta del Foro era prima più alta. Nel 1000 Santa Maria in Gradi è fuori le mura e la porta subito lì. Poi scende dove c’è la chiesa dei fratelli martiri e via Cavour gira attorno alle mura. Poi si abbassa dove oggi c’è la nuova porta della ZTL A. Il museo lì è nel Palazzo della Dogana, dove appunto c’era la dogana a cui pagare il dazio per le merci in entrata ed in uscita. Poi scende ancora nel Cinquecento, occupando la sede attuale. San Lorentino (o Laurentino, cioè Lorenzino) fu dunque un martire, in seguito canonizzato come santo romano assieme al fratello Pergentino. La festa dei due Santi, ricordati nel Martirologio geronimiano, viene celebrata il 3 giugno. Lorentino e Pergentino sono oggi protettori della città di Arezzo e del Quartiere di Porta del Foro, partecipante alla locale Giostra del Saracino, nel cui territorio sorge la chiesa ad essi dedicata. Come una volta la porta cittadina all’altezza della loro chiesa, oggi la Porta di ingresso lato est al centro storico della città, nei cui locali ha sede il Quartiere, è intitolata proprio e solo a San Lorentino per motivi di ordine alfabetico, per brevità e perché era il maggiore dei due fratelli. I Santi convertono le masse, che radunano in adunate oceaniche. Ma il cristianesimo ad Arezzo nel primo secolo, con Pietro e Paolo a Roma, aveva già fatto il suo ingresso in città seguendo modalità simili a quanto accaduto nella vicina Firenze. Qui, entrando dalla porta a sud verso Roma, si erano insediati già dal I secolo d.C. colo-nie di mercanti siriaci, uscio e bottega con la Terra Santa quindi, che avevano esportato culti egiziani superstiti ma anche la nuova fede nel figlio del falegname di Nazareth. Tracce di immigrati orientali ci sono anche ad Arezzo nello stesso periodo. Coloro che hanno esportato la ceramica corallina rossa (detta anche “terra sigillata”,

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marchiata col timbro della fabbrica), sino all’India, con le merci portavano anche le nuove idee in giro per il mondo, alla ricerca sempre del prodotto migliore per la vita materiale, ma anche per quella dello spirito. Sappiamo inoltre che nel 364, e fino al 375, il vescovo Gaudenzio insieme al diacono Columato cercano di trovare soluzione al proble-ma delle reliquie dei santi aretini, al fine di una corretta adorazio-ne. Il successore di Gaudenzio, il vescovo Decenzio, seppellisce i martiri e completa l’evangelizzazione della città. Quindi quando nel 476 Romolo Augustolo, il principe adolescente viene esautora-to, Arezzo era già una città cristiana. Lo testimoniano sepolture importanti, sul Pionta, come quella della bambina ricca ma sfortu-nata Candidilla (Bianchina); e quella di Valeria, datata 408, moglie di uno “Scutario”, soldato di un corpo d’assalto scelto, all’occorrenza ultima difesa dell’imperatore assieme ai pretoriani. Ci piace pensa-re che questo soldato così innamorato della moglie da fornirle una tale sepoltura, fosse pure un “discendente” di quel centurione che in Palestina ebbe il servo guarito da Gesù. La religione degli schia-vi poi entrò ai piani alti delle città grazie alle matrone che godeva-no del loro lavoro. Forse Valeria era una di loro. Queste ed altre tombe ci confermano che la prima cattedrale dovesse situarsi sul colle del Pionta, fuori città, attorno alla miraco-losa tomba di San Donato. Da lì la nuova fede sarebbe partita alla con-quista della città e vi sarebbe tornata durante le nuove persecuzio-ni barbariche, nel 700, quando i Longobardi ariani e pagani mal tol-leravano di non poter realizzare gli stessi miracoli dei Cristiani. La fede si propaga talora anche per invidia della santità altrui. Memo-ri della rivincita terrena ed ultraterrena partita dal Pionta, dove sarebbe potuta sorgere anche una nuova Arezzo cristiana come polo attrattivo dei migliori campagnoli nel libero nuovo comune, i Medici nel 1561 raseranno il Duomo Vecchio, avendo però cura di non violare le tombe sante protette direttamente da Dio e Donato. Oggi gli archeologi ci dicono che sottoterra ci sono i resti della Cattedrale dei Santi Maria e Stefano; e, più sotto ancora, un sepol-

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creto contenente i “cristiani della prima ora”, con ricchi corredi funerari in cui compare anche l’oro. Ma non era quello che mancava ai Medici, quando distrussero il colle sacro. E infatti vi si ritrova ancora oggi. Più sotto ancora vi potrebbe essere la necropoli etrusca mancante. 991: nasce Guido Monaco, detto anche Guido D’Arezzo e Guido Aretino. Genio incompreso all’abbazia di Pomposa sul delta del Po, trova al Pionta pace e fiducia da parte del vescovo dal nome longobardo Teodaldo, a cui dedica il famoso trattato “Micrologus”, mentre il suo antifonario (salmi musicati) è andato perso. Alcune cronache lo dicono beato, sicuramente ha inventato le note musicali ed il tetragramma, guida la scuola di musica e canto sorta presso la cattedrale del Pionta per interessamento dei re franchi, primo nucleo del futuro Studium, anche se non una delle magiche sette scuole palatine volute in Italia da Carlo Magno. 1190: nasce la Societas universitaria, con magistri ecclesiastici che spostano le cattedre dal Pionta al convento di San Domenico, non a caso casa dei benedettini come il dottissimo San Tommaso. 1220: Roffredo di Benevento, il più grande avvocato del tempo, insegna legge nello Studium aretino. Proveniente da Bologna, defi-nì Arezzo «città nobile e cortese», la terza città universitaria al mon-do dopo Parigi e Bologna, dove accanto alla romanica Pieve sorgo-no adesso edifici all’ultima moda, gotici, come San Domenico, San Francesco, la Cattedrale ma anche i laicissimi Palazzo del Comune e Palazzo del Popolo dove ora c’è il Praticino, rasati 300 anni dopo per non creare zone al riparo dal tiro dei cannoni medicei. Con Roffredo l’Università si sposta da San Domenico ai locali del quar-tiere guelfo intorno a San Pier Piccolo di proprietà della Abbazia delle Sante Flora e Lucilla. Nel 1250 conta ben quattro cattedre di Diritto ed altrettante di Medicina, Filosofia, Storia, Retorica. 1190: nasce Benedetto Sinigardi, da Elisabetta Tarlati di Pietramala. Nel 1211 l’incontro con San Francesco in Piazza Grande gli cambia la vita. Rinuncia anche lui a tutte le sue ricchezze e segue il Santo. Costruisce il primo convento francescano a Costantinopoli e

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viene inviato a dialogare con i Mussulmani. Quindi quando loro protestano per il Saracino, sappiano che Arezzo vanta una lunga tradizione di dialogo interreligioso che ha prodotto molti frutti. Benedetto inventa anche la preghiera dell’Angelus (L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria…). Morto nello scomparso convento di Poggio del Sole, viene sepolto in San Francesco dove, nel maggio 1993, sulla sua tomba, ha pregato Papa Giovanni Paolo II. 1225. nasce Fra Guittone, guelfo, figlio del tesoriere comunale, autore del Canzoniere, che passa dalla poesia amorosa sul modello dei Siciliani, alla canzone politico-civile prima di Dante, dopo essere entrato nei Frati Gaudenti. Dall’amore profano a quello sacro, lancia grida di dolore: «Ahi, dolze terra aretina» pensando a come il disordine cittadino nasca dalla superbia degli opposti contenden-ti guelfi e ghibellini. 1257: nasce Giustina, dei nobili Bezzoli Francucci. Figlia unica e ricca ereditiera, rifiuta illustre marito e a 12 anni si chiude murata nel Monastero di San Marco che non esiste più. Col permesso del vescovo Guglielmino Ubertini, la donzella si rinchiude in una grotta presso il Castello di Civitella assieme alla eremita Lucia. Si flagella col cilicio, cade in estasi, diviene cieca nell’oscuro antro, molti ottengono grazie per sua intercessione. 10 anni dopo la sua morte, il corpo ancora flessibile ed incorrotto spinge a venerarla ma dal 1968 riposa a Firenze dove le consorelle dell’ordine da lei nato si sono ritirate. Con la nascita della Fratèrnita dei Laici, nel 1262, di cui entrano a far parte di diritto tutti i battezzati cittadini, la storia di Arezzo cristiana viene a sovrapporsi con quella della città tutta intera. I Cristiani lasciano ad Arezzo il culto dei Santi, le chiese, le opere d’arte e l’arte del governo, i barbari divenuti cittadini.

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Arezzo durante le invasioni barbariche È stato un gigantesco 8 settembre 1943, prolungato per secoli. Liquefatto lo stato, scomparse le legioni reclutate dalla capitale, le città fanno da sé arroccandosi a difesa ma divenendo preda non difficile per la migrazione di un popolo di guerrieri che ha tutto il tempo che vuole per accamparsi attorno alle città, per saccheggiare le campagne, per imparare il linguaggio dei dominati, per far crescere i propri figli nelle scuole locali e magari da grandi lanciarli in politica, per scegliere chi deve riscuotere le tasse in cambio di protezione armata contro nuovi barbari in arrivo. Lo Stato non può più intervenire. Già nel 300 l’impero sarebbe potuto cadere senza i due imperatori riformatori Diocleziano e Costantino. Nonostante la loro opera, inizia quel processo di disorganizzazione urbana che porta a costruire la villa agricola romana ritrovata sotto la Fortezza, per pagare meno tasse di quelle elevatissime richieste dall’impero occidentale in seguito alla grave crisi economica che lo investe. Coi Longobardi che mettono Lucca a capitale della Tuskania, sarà il massimo del degrado, con acquitrini e boscaglie che si impossessano della Piana. Saranno dei privati come i Benedettini ad iniziarne il recupero mediante la grande fatica silenziosa del dissodamento e della bonifica. Lo Stato scompare nel corso del 400 per ricomparire solo la notte di Natale dell’800 e così la destrutturazione barbarica delle città colpisce anche Arezzo, la città si riempie di ruderi indifendibili che vengono lasciati fuori dalle nuove mura ritratte, anche quando saranno i Goti romanizzati a commissionarle o gli imperiali giustinianei, e che verranno recuperati come cave di pietra e marmo durante l’espansione edilizia del libero comune. Come nelle città italiane durante il passaggio del fronte nel corso della seconda guerra mondiale, ma senza la fretta delle moderne guerre di movimento, la Chiesa rimane per decenni l’unico potere

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esistente di fatto sul territorio, capace di organizzare il popolo. Fin-ché bastano le ricchezze, si pagano i barbari affinché desistano dallo scendere verso Roma. Il clero delle città a nord funge da mediatore con gli invasori, che cerca di convertire; organizza l’assistenza a feri-ti e derubati contando sull’esperienza fatta coi primi ospedali sorti sulle nuove vie europee di pellegrinaggio per assistere gli appieda-ti nel cammino verso Roma sulla via francigena o sul cammino di Santiago di Compostela, alla tomba miracolosa dell’apostolo Giaco-mo. Non rinunciano nemmeno ad organizzare un esercito diocesa-no, raccolto al suono delle campane, guidato magari da un vescovo-conte che conosce anche il mestiere delle armi. La chiesa ha infatti una struttura capillare sul territorio che le dona una autorità anche politica di fatto, mentre gli impiegati statali, soldati compresi, gettano le divise imperiali. Lo stato non ha più soldi per mantenere le strutture economiche, politiche, edilizie. Basta poco per bloccare una città evoluta, basta interrompere l’ordinaria manutenzione. Nelle ville di campagna fortificate, le prime a cadere, cento schiavi armati non possono bloccare qualche migliaio di selvaggi, scheggia impazzita di popolo barbaro. Il vescovo di Arezzo deve supplire al ruolo dell’imperatore scomparso, tanto più in una colonia abbandonata dalla capitale, e forse per questo diventerà ghibellino cioè imperiale in politica, col potere di amministrare il popolo attraverso tribunali, tasse, lavori pubblici, difesa. I monasteri benedettini nasceranno come vere e proprie fortezze inaccessibili rette asceticamente da monaci guerrieri che troveranno nell’ordine dei Templari alla difesa armata dei pellegrini in terra santa la loro più evidente esemplificazione. Dopo il primo corpo a corpo, cercheranno di integrare i barbari nel nuovo tessuto sociale nato dalla disgregazione dell’impero. Sanno solo combattere? Mettiamoli nell’esercito già romano. Qualcuno ha imparato a leggere e scrivere dai frati? Diventi giudice del suo popolo scrivendo le prime leggi. Uno ha sposato la figlia di un latifondista presa con la forza all’inizio ed ora ha figli meticci

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battezzati? Li faccia studiare per diventare senatori o magari vescovi o re taumaturghi. All’inizio le città, come Arezzo, si restringono, si ritraggono sulle cime dei colli per ragioni di difesa e per stringersi attorno al vescovo a cui si chiede di rivolgersi a Dio per evitare miracolosamente il flagello. Sempre più chiesa e sempre meno stato, più società e meno autorità centrale, aumentano il ruolo difensivo del vescovo che anticipa i castelli chiamando tutti dentro la cerchia più alta delle mura, per prendere tempo in attesa dell’intervento divino. Anche i barbari hanno paura del Dio di questi nuovi sacerdoti che hanno creato immense città da loro mai viste prima. E li temono. La loro autorità personale nasce anche dalla capacità di eseguire miracoli. Ed il miracolo più grande avviene: i nuovi venuti desiderano integrarsi dentro la cultura superiore cristiana, anche se lo fanno da un punto che privilegia la loro forza bruta. È un primo passo che limita di molto il numero delle vittime delle invasioni. Si tratta, si cede ma si salva la vita, il bene più prezioso, si continua a vivere con il supplemento di fatica generato da una economia chiusa e dalla zavorra costituita da masse prepotenti di incivili da convertire alla società. Ancora i Longobardi, fra gli ultimi arrivati, dagli scheletri giganteschi, alti quasi due metri, si facevano seppellire con le armi. In queste condizioni l’occupazione dell’Italia da parte di Teodorico e dei suoi Ostrogoti nel 488 portò un solo padrone stabile con cui fare i conti. Nel VI secolo tutto parve sprofondare durante i diciotto anni della terribile guerra greco-gotica (535-553) e benché lo storico Procopio non ricordi Arezzo, una non documentata tradizione riportata dagli eruditi aretini del passato parlava della distruzione della città ad opera di Totila in guerra contro Narsete al tempo del vescovo Cassiano. E una leggenda narra perfino della morte di Totila a Caprese dopo la battaglia di Taginae del 552. Siamo, per quanto riguarda Arezzo, per mancanza assoluta di documenti, in un fittissimo buio, che perdura per tutto il periodo della conquista e il primo secolo del dominio longobardo.

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Purtroppo dell’epoca paleocristiana non abbiamo almeno fino ad oggi quasi nulla. Non esiste ad Arezzo una muraglia che si possa sicuramente attribuire a quel tempo; solo delle epigrafi tomba-li del V secolo, qualche frammento di sarcofago del III-IV secolo (come quello col miracolo del paralitico nel nostro Museo Archeologico) e niente altro. Quando Arezzo verso la fine del VI secolo o agli inizi del VII cadde definitivamente sotto i Longobardi, la popolazione rimasta (si calcola che dai 30.000 del tempo di Traiano fosse scesa a poche migliaia) si era arroccata sul Poggio di San Donato cioè sulla collina della Fortezza. I primi a calare sono gli Ostrogoti, pochi e quasi allo sbando, diretti verso Roma, invece si fermano e si accontentano. Del feroce sacco di Totila, re dei Goti, abbiamo già parlato a proposito dell’origine del nome Arezzo e dell’incontro con San Benedetto. Poi ci fu la guerra greco-gotica, con l’impero romano d’Oriente e Giustiniano che vogliono riprendersi le province d’Occidente: una guerra non voluta dai cristiani locali, che miravano al compromesso ed all’assimilazione, al tirare il ben per la pace; e che causerà lutti e distruzioni immani, inadeguate al risultato. Un’ondata successiva vedrà calare i giganteschi Longobardi, che seguiranno la stessa strada di Annibale diretti a Roma attraverso il Valdarno, per impattare Arezzo, città benestante da saccheggiare. Preda non difficile sin da quando le legioni romane si sono liquefatte, anche se difesa da un tenace stregone col copricapo a mitria, che dice di voler trattare con loro, circondato da alcuni capifamiglia ben armati con una lega più forte della loro, l’acciaio. E poi i Franchi, fratelli nella fede, più protettori che dominatori, esperti nell’uso delle armi e per questo pagati, ma che non ostacoleranno la nascita di una società nuova, una democrazia cristiana senza gli schiavi come invece quella greca e romana; un posto dove tutti contano uguale, nell’arengo; dove comanda chi ha più fede, chi conosce meglio Dio, perché la chiesa è una gerarchia di fede e per-ché i miracoli favoriscono la sopravvivenza; dove il vescovo delega

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l’amministrazione della città-stato sempre più complessa a chi ha più studiato e conosce il mondo come mercante. L’imperatore abita lontano, nelle brume del nord, si accontenta di poche tasse perché ancora non conosce il benessere della società nuova; si fida del vescovo a cui si appoggia per amministrare cristianamente la giu-stizia secondo i codici barbarici che mettono tutto sul piano della forza fisica, affidandosi alla prova del fuoco sui carboni ardenti per-ché chi ha più fede e conosce meglio Dio, sopravvive alla prova. Si mettono per iscritto diritto di faida e guidrigildo. Se tu, aretino, uccidi un parente a me nuovo arrivato, in una rissa, anche senza volere la sua morte, anche se lui ti stava rubando la fidanzata; io ho il diritto di ammazzarti, perché la mia tribù è adesso meno forte di una unità e tu devi pagare; non puoi menare vanto di avere ucciso uno dei nostri e magari capeggiare l’opposizione al nostro potere. La vendetta ho il diritto di farla io, lo stato non c’entra. E nemmeno il vescovo, a meno che non operi un miracolo. La tua vita adesso mi appartiene. Se però mi versi una grossa somma di denaro in riscatto della tua vita ed a risarcimento del danno, allora, se vorrò, pagherai la tua libertà. E così farò ancora in futuro, quando mi verserai ancora denaro. Insomma, uno straccio di regolamentazione degli istinti bruti permette di gestire la violenza privata senza farla degenerare in strage, in lotta fra clan. Ma si governa anche col diritto romano ed il digesto (digerito cioè libro sintetizzato di leggi) giustinianeo portato in Italia dai “greci”. Leggi che continuano a valere nei rapporti fra aretini romani. Il diritto romano, trascritto dai monaci, verrà insegnato all’Università che vuol dire aperta a tutti, non solo nelle scuole per amministratori sorte all’ombra del palazzo regale. La cultura si diffonderà, diventando vita quotidiana. Ma non ci sono fonti scritte di prima mano al riguardo. Un po’ perché si tace delle sconfitte familiari. Un po’ perché la vita burra-scosa di quei secoli, soprattutto rivolta alla mera sopravvivenza, toglieva interesse per la scrittura e per un domani incerto. Correnti ereticali preannunciavano la fine del mondo con l’anno Mille. A che

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pro scrivere per i posteri allora? E poi che senso ha la storia profana, se ha avuto inizio da poco quella sacra e definitiva, che ci porterà tutti in un mondo migliore? Le scuole di stato romane erano chiuse da decenni. I monaci erano tesi a salvare il salvabile della cultura pagana, soprattutto quando cercava inconsciamente il Dio vero, e non avevano interesse a descrivere i loro tempi a meno che non si trattasse dei miracoli dei Santi. Sarebbe stato un peccato perdere secoli di prisca sapientia nel giro di pochi anni. Ma, asserragliati nei loro monasteri-fortezza, sapevano poco del mondo fuori. Toccava ai vescovi il “lavoro sporco” di presa di contatto col nuo-vo mondo nordico, mentre organizzavano anche la difesa della città. Per far capire loro che sarebbe autolesionista distruggere l’an-tica civiltà, bisogna anche insegnargli a leggere e a scrivere. Alcuni di loro decideranno di imparare un utile lavoro presso gli ordini monastici; col tempo saranno abbandonati quasi del tutto furti, rapine, violenze, e tutti si dedicheranno ad un mestiere. E si con-vertiranno anche, attratti dal superiore modello di vita propugnato dai frati. Quelli che abbandonano l’arianesimo, non si credono più un popolo superiore, accettano di imparare a vivere dai Cristiani. Testi alla mano, ne sappiamo poco. Era gente tesa all’immediato futuro, con una vita media di 30 anni, di passaggio. Qualcosa ci dice anche l’archeologia. I Longobardi sono stati ad Arezzo, dove si fanno seppellire con le loro armi. San Michele sul Corso è una chiesa che porta un nome di santo guerriero longobardo. Gli ariani che nel 700 cac-ciano i cristiani aretini romani fuori della città, sul Pionta, ritengono impossibile che Dio potesse essere fatto anche di carne perché inizia-no a capire che per essa loro stanno compiendo le peggio turpitudi-ni. È un inizio di sviluppo del senso religioso presente in ogni essere umano. Ma il loro dio eretico, introdotto a forza in Arezzo, crollerà assieme al loro potere militare, secondo uno schema già visto. Mentre Quello esiliato al Pionta rientrerà di nuovo vittorioso in città, dopo aver regnato anche durante l’impero romano e le invasioni barbariche. I Longobardi. Secondo il franco Paolo Diacono (cioè vice-prete), i Longobardi arrivano in Tuscia nel 568 o 569. Così scrive nella sua

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Historia Langobardorum (Storia dei Longobardi). Se si potevano raccontare, voleva dire che erano già usciti dalla storia, anche se esistevano sacche di resistenza armata. I loro duchi , dal latino dux cioè condottiero militare, attaccano guerra contro l’impero romano d’oriente presente in Italia dall’epoca dei Goti ed insediato ad est nell’esarcato (esarca era il titolo del loro capo) di Ravenna e nella pentapoli (cinque città alleate), a sud nel ducato di Roma che tutela il papato dai barbari e di cui fa parte anche Arezzo. Siena capitola nel 575 e poco dopo, nel 590, cede anche Arezzo, che viene annessa al ducato senese. Fino al 640 resistono i Greci, cioè i Bizantini, usando l’Arno come difesa, abbarbicati sulla spon-da sinistra. Poi Rotari dilaga ad est, conquista tutto il territorio già dipendente dal municipio romano aretino e, notizia interessante di fonte clericale, chiede soldi a tutte le chiese disposte fra Arno e Tevere, ma evitando superstiziosi spargimenti di sangue tra i devo-ti. Poi attacca Città di Castello, con l’obiettivo di conquistare Roma. Siena ha un gastaldo senese che riscuote le tasse anche da Arezzo. Notizie ci giungono riguardo a liti di confine con Siena che, siccome era sede di un duca longobardo e quindi di un potere terreno superiore, aveva diritto ad estendere il suo controllo anche sulle pievi aretine. Si tratta di ben 18 o 19 plebes cioè pievi e monasteri contesi. Strutture che producevano un surplus di olio di oliva, vino e grano per un migliaio di persone. Si andava però così contro una intuizione della chiesa primitiva, cresciuta dal basso, che distingueva i popoli più affini riunendoli nelle loro diocesi. Non un criterio amministrativo, bensì culturale. Effettivamente Fiesole, a sette chilometri soli da Firenze, era un altro mondo. E con essa il Valdarno, che sarà conteso ad Arezzo con l’edificazione delle terre nove dove poter commerciare liberamente, senza pagar gabella, sottratte al comando del feudatario, protette dalle mura cittadine di San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini, dove ancora oggi (ma anche a Montevarchi, Loro Ciuffenna), non-ostante l’annessione alla provincia di Arezzo, si appartiene alla dio-cesi di Fiesole e si parla con accento fiorentino. Insomma iniziano i

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primi screzi fra Arezzo e Siena proprio a causa della mediazione svolta dai Longobardi che invadono il campo d’azione della chiesa. L’invasione dei Longobardi, discesi in Toscana poco prima del 575, (occuparono Arezzo non molto tempo dopo), costrinse molti aretini a rifugiarsi sul Colle San Donato, luogo ritenuto più sicuro, ove rimasero fino al XII secolo. Qui il vescovo Cunemondo (753?-782?) fondò il primo monastero benedettino cittadino; sotto il suo dominio Carlo Magno pose fine alla dominazione Longobarda. Ma ancota nell’827 i benestanti monaci-lavoratori saranno taglieggiati dai Saracini risalenti l’Arno. Nell’899 Arezzo si trova ancora in Tusciana, già Etruria, presto Tuscania; ma dipende da un ducato carolingio presso Roma. Se ne deduce che i barbari non avevano mollato i dintorni di Siena, avevano interrotto la via francigena, quindi i pellegrinaggi alla città santa, esigendo esosi pedaggi. Uno smacco celato dagli storici di allora. Effettivamente nell’840 i duchi di Lucca, che non mi è chiaro da che parte stessero, si erano allargati ad est ma senza riuscire a ripristinare la francigena. Arezzo, Siena e Chiusi rimanevano ancora terra di nessuno. Forse l’epurazione dei tiranni longobardi era stata rallentata per motivi di opportunità politica. Stallo risolto dall’imperatore Carlo il Calvo che nell’875 assegna Arezzo ai Romani. Ciò avrebbe costretto il vescovo a ripristinare e proteggere anche militarmente la vecchia strada romana per la Città eterna, passante per la Val di Chiana. La “due mari” esisteva già ed era usata dai greci dell’impero d’oriente, quelli dei mosaici di Ravenna, per recarsi a Roma dalla costa romagnola, scavalcando gli Appennini. Il dottor Luca Berti, Presi-dente della Società Storica Aretina, mi ha spiegato dove passasse la strada per Ravenna (già capitale dopo il sacco di Roma del 410) e diretta ad Arezzo: da Pietramala, dove i Tarlati costruiranno il castello esigendo pedaggi. Stoppe d’Arca, Stroppiello e Stroppe-dello sono toponimi che indicano dove i Bizantini avessero i posti di blocco per l’accesso a Classis (poi, in longobardo, Chiassa), quasi un cartello con scritto: “da qui si va per la flotta (classis in latino) che

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ci riporta a Costantinopoli”. Stratos in greco significa lancia, arché comando, podos piede (in latino pede); quindi erano indicati anche i luoghi dove i lancieri appiedati erano accampati, fornendo indicazioni e rifornimenti per lasciare il far-west Italia e tornare all’impero romano d’oriente che avrà ancora quasi un millennio di vita ordinata. I Barbari lasciano agli Aretini la certezza che ogni uomo, anche il più bestiale, possiede un senso religioso e della giustizia.

Arezzo libero Comune medievale Arezzo diventa così libero Comune in lontano impero. Nel 790 Arezzo può contare per la sua difesa su ben 1600 metri di mura che recingono un terreno largo 15 ettari cioè solo 15 campi di calcio. Non male se si pensa che la coeva Firenze era grande solo 16 ettari. Rivela piuttosto come le invasioni la abbiano ristretta ben più della piccola e recente colonia gigliata. Non solo i Franchi non prendono il comando diretto, ma favoriscono le donazioni alla Chiesa aretina di proprietà longobarde date in cambio di suffragi poliennali per ottenere il paradiso e come riparazione alle brutali espoliazioni eseguite dagli antenati loro. I Longobardi diventano così cristiano-romani nel momento della loro sconfitta, quando preferiscono perdere il potere tempora-le pur di conquistare il Cielo. Ma cambiano vita, anche pressati dalle armi franche. Al vescovo Ariberto donano l’anfiteatro romano che avevano preso durante gli assedi fuori le nuove mura. E il vescovo lo riutilizza come cava di pietra. Anche le pievi sino al fiume Arbia, a soli dodici chilometri da Siena, tornano sotto la diocesi aretina,

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anche se i litigi fra fratelli continueranno a causa loro sino al 1100, quando la nuova economia comunale in esuberante crescita li renderà una perdita di tempo. Sapevano leggere e scrivere, ma nel loro far crescere dal basso l’autogoverno comunale, il personale amministrativo franco in Arezzo ci ha lasciato scarsissime tracce e nessun nome. Probabilmente lavora-vano per una ricompensa non terrena bensì ultraterrena. Eppure dall’819 al 1016 sono presenti in zona. Con loro finisce il lungo periodo di disurbanizzazione della città, che ha raggiunto il cul-mine negli anni 400-700. Effettivamente, disperdersi nelle campa-gne dava maggiori possibilità di evitare un attacco frontale morta-le, in cambio di un buon nascondiglio che però poteva trasformarsi anche in una resa incruenta ma senza condizioni da parte del vinto. Coi Franchi si torna non solo a costruire in città, ma anche a parlare di comitato oltre che di diocesi, cioè rinasce un potere civile distinto da quello vescovile, unico nei tempi bui dell’emergenza della lotta per la sopravvivenza. Arezzo somma al titolo di capoluogo di diocesi anche quello, di fatto esercitato dal vescovo, di capoluogo di Comitato imperiale. Si conserva ancora un diploma dell’imperatore Ludovico il Pio (il soprannome la dice lunga sul clericalismo dei nuovi arrivati), datato 819, indirizzato ad «Haganoni comiti Arretine civitatis»: cioè ad Aganone, compagno nella fede quindi conte della città di Arezzo. Dall'820 Arezzo entra ufficialmente nel Sacro Romano Impero. Nell’843 anche l’imperatore Lotario scrive al vescovo Pietro Primo «in pago areciense», cioè nel villaggio aretino; la città era così ancora ristretta che il franco la chiama villaggio, cittadina, piccola città. Poi sono Carlo il Calvo ed i suoi successori a scrivere al «comitatus aretinus», cioè al sodalizio di compagni nella fede della città di Arezzo. Nell’875 addirittura l’imperatore in persona, Carlo il Calvo, vie-ne a svernare ad Arezzo. Nell’occasione, nella primavera dell’876, a strade di nuovo agibili parte pagando il lungo ritiro e le confessio-ni e l’ospitalità nel palazzo vescovile del Pionta con il dono del vec-chio Foro romano, quello sotto il Prato, al vescovo Giovanni, affin-

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ché vi si tengano i processi sotto la sorveglianza del clero e sulla base del diritto canonico e romano. Dono che riconosce un potere di fatto già esercitato nella società, quasi di stampo ierocratico, e che adesso si svolge nella continuità con la grande tradizione giuridica romana, risultando così più che pienamente legittimato. Nell’882 Carlo il Grosso difende le immunità della chiesa aretina dalle pretese del nascente comitato comunale cittadino. 820: Arezzo entra ufficialmente nel Sacro Romano Impero co-me città autonoma a guida vescovile. Gli scabini franchi si colloca-no anche loro presso la dotta Canonica del Pionta, con poteri di supervisione riguardo all’obbedienza della città laica. Ma se la dio-cesi aveva conservato i suoi vasti confini nonostante la lite con Sie-na, ecco che si scopre che lo stato comunale rinato non domina più sulla grande provincia già romana, che anche il contado più prossimo è fuori controllo, incastellato com’è da famiglie longobarde armate che pre-tendono financo di amministrarvi la giustizia esigendo tributi, che manca una massa di popolo bastevolmente numerosa da allestire un picco-lo esercito permanente; si inizia cioè a porre il problema della ricon-quista del territorio da parte della Dominante, mentre l’unico nu-cleo di milizia armata al momento esistente è quello riunito attorno al vescovo che ha guidato la resistenza contro i barbari. Nel giro di due secoli, il Comune quintuplica la sua popolazione, moltiplica i forni fusori per la produzione di aratri e campane e armi, riavvia le manifatture artigianali: il tutto sfruttando la prisca sapientia dei monaci benedettini che si situano all’esterno delle mura della città lunata, dove attirano capanne di nuovi inurbati e di vecchi cittadini desiderosi di imparare arti e mestieri e fede e cultura, prima di essere tutti inglobati dentro le protettive mura petrose, che crescono ad anelli concentrici attorno ai due colli più alti, scendendo di livello col crescere della città. Tre sono le cinte murarie comunali: la quinta (1111) e la sesta (1199) e la settima (1320) in ordine cronologico assoluto, ma anche l’ottava ed ultima, cinquecentesco-medicea, viene realizzata a spe-se e ad opera dei comunardi aretini e difende la parte di città non

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controllata militarmente da Firenze. Baby boom e sviluppo delle peri-ferie che presto verranno integrate entro le mura, è quindi la carat-teristica di base del basso medioevo aretino, per certi aspetti simile a quanto avvenuto negli anni della ricostruzione novecentesca. È quindi una urbe forte in diritto ed economia e popolazione giova-ne e armata quella che, col nuovo Millennio, intima alle ville forti-ficate ed ai castelli circostanti di entrare nella compagine urbana quale fonte di sostentamento primario per gli evolutissimi settori eco-nomici secondario e terziario che stanno crescendo alla grande nel-l’Arezzo dai frenetici contatti collaborativi. Anche la campagna rinasce, in seguito alla nuova collaborazione con la città, tanto che agli inizi del Trecento, Arezzo e la sua Piana sembrano come nel quadro del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Da Siena arriva il patto mezzadrile e le diritte vie di Guido Tarlati, che prolungano cardo e decumano cittadini in direzione dei quattro punti cardinali e delle quattro vallate, hanno ai loro lati una campagna ricca di grano, viti, alberi da frutto ed ortaggi. Già dal ‘200 dominano i poderi a mezzadria e le case di pietra su singo-lo podere: le chiamano Camperìe, da camparìa, e sono quasi tutte di proprietà dei cittadini sin dal ’300. Col ’400 cambiano di nuovo nome, diventano le Cortine, ma sono sempre pochi proprietari cittadini spesso nobili che accorpano frammenti di poderi in unità più grandi, con la casa padronale che adesso ha un’ala dedicata alla villeggiatura del padrone, sopra i locali che servono al ricovero ed alla lavorazione del raccolto. I veri nobili aretini sono quelli che hanno resistito alle ondate barbariche e dall’800 iniziano a farsi chiamare cives aretini, cioè cittadini legalmente riconosciuti della città-stato di Arezzo. Non che manchino i problemi anche sotto i Franchi. Lasciano agli Aretini la libertà di impegnarsi in quello che sanno fare meglio, ripristinare quella città-stato etrusca, preromana, che avrà il suo massimo sviluppo alla fine della tutela franca, con l’affermarsi del libero Comune. Il guaio è che come permisero ciò agli Aretini, così fecero con gli altri Etruschi di Tuscania. Così, 500 anni dopo il regno del

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buon Carlo, tornerà la guerra civile fra Etruschi un contro l’altro armati sotto le opposte insegne comunali ed anche sotto quelle dei due poteri universali del tempo: l’aquila nera ghibellina e la croce rossa guelfa. Rivalità anche sotto i Franchi, quando Lucca diventa sede del marchese di Toscana, si trattava pur sempre della terra di confine più meridionale dell’impero, ed Arezzo diviene “periferia della periferia” contesa dal Gran marchese e dal duca di Spoleto. Ma la città sta tornando a crescere in virtù di una nuova forza sconosciuta. Via Pellicceria, l’antico cardo maximus etrusco e poi tardo-romano, è scesa di livello; e la vecchia Porta Sant’Andrea lo chiude all’altezza dell'intersezione con via dei Pescioni. Parte del Prato entra dentro le mura con nuove costruzioni attorno a San Pietro Maggiore. Il nuovo millennio inizia con la morte del Gran Marchese Ugo di Toscana (1001), con la morte del giovane imperatore Ottone Terzo (1002) e con gli amministratori carolingi presi dal panico che cercano di colmare il vuoto di potere creatosi proponendosi come leaders locali stabili in un impero al momento a legami deboli; ostacolati però in questo da una società civile che grazie a loro è cresciuta in cultura, ricchezza, potere. Situazione complicata dal conte-duca più vicino che arrogava a sé il diritto di amministrare la giustizia, e dai meriti emergenziali e temporali del vescovo che nella persona di Arnaldo (che fosse un longobardo convertito? la mobilità sociale è sempre stata garantita dalla chiesa: comanda chi ha più fede, non chi ha più blasone), dal 1052, riscuote metà delle tasse ed addirittura batte moneta nella zecca ecclesiastica sul Pionta, che si conferma sempre più un centro di potere autonomo, con tanto di autorizzazione imperiale. L’ultima marchesa franca, Matilde di Canossa, proprio lei che darà la libertà comunale a Firenze, non si capisce perché proponga un conte per Arezzo. Forse perché non lo aveva permanente e residen-te? Proposta che non avrà luogo, osteggiata com’era dalla signoria extraurbana del vescovo pienamente legittimata dall’imperatore. Ecco forse perché i vescovi aretini saranno sempre ghibellini e per-

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ché la Firenze già guelfa dei Medici azzererà il polo di potere religioso sul Pionta, già sede anche del potere politico. Ma intanto la Storia corre a rotta di collo intorno alla città di Arezzo. Nel 1098 appare il primo console, carica che si rifà alla Roma repubblicana, limitando così di fatto il potere del comitato imperia-le ed anche, in teoria, quello vescovile che lo detiene. Prima e più forte che a Firenze, il console afferma l’importanza dell’esercito di popolo, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, il pote-re che deriva dall’intraprendenza economica e dall’eccellenza nelle varie arti e mestieri della città medievale. Dal 900 al 1203, anno in cui è costretto a risiedere in città, è soprattutto il vescovo-conte a far crescere il Comune in libertà, uguaglianza, giustizia e benessere, come primus inter pares fra i nobili cittadini aretini, in sinergia con gli amministratori franchi discreti e quasi invisibili. È l’Arezzo gotica di via Pellicceria e di molti rifacimenti ottonovecenteschi, l’Arezzo più vera ed amata dai suoi cittadini. Santi come Sinigardi e Giustina, pittori come Margarito il più grande dopo Cimabue, come Spinello un secolo dopo ed il suo maestro Andrea di Nerio, poeti come Fra Guittone, scienziati come Ristoro la abitano, mentre lo Studio Generale di San Pier Piccolo sembra quasi come il Quartiere latino universitario di Parigi. Gotiche come quelle tede-sche imperiali, le chiese di San Domenico, San Francesco e la Cattedrale, gotico il caduto Palazzo del Comune vicino a quello del Popolo ed il Palazzo dei priori, dal cortile però rinascimentale. Le case torri rendono la città quasi una Manhattan di pietra, i fondachi con gli sportelloni espongono le meraviglie del comune manifatturiero. Arezzo è sempre stata una città moderna nel senso che nel corso dei secoli ha sempre ospitato le strutture tipiche del periodo storico in questione, edifici belli e funzionali. La città romana era fatta per edonisti vincenti, pagani affamati di dolce vita, con le sue terme, con fonti d’acqua salutare tutt’attorno alla città, palestre per l’esercito e per i cittadini ma anche per i gla-diatori; i fori; i teatri dove assistere alla nudatio mimarum (lo spo-gliarello dell’epoca), alla satira, alla tragedia. Una città fatta per

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gente forte ed in salute, dove chi è debole non ha spazio. Ed è proprio sugli ammalati e sui morti che si vede il cambio di cultura avvenuto con il consolidarsi del Cristianesimo. Siccome siamo tutti uguali ed importanti allo stesso modo perché per ciascuno di noi Dio ha sacrificato il Figlio prediletto, anche i malati vanno assistiti anche perché diventano occasione di santificazione per chi li aiuta. Nella città medievale non solo sorgono gli ospedali presso gli ordini monastici inurbati assieme alle mense per i poveri, ma l’o-spedale pubblico è un edificio imponente, a disposizione di tutti i biso-gnosi, collocato in una zona centralissima come il decumano adesso chiamato Ruga Mastra, l’incisione più profonda nel volto vivo della città, dal Duomo a Porta San Lorentino. Dove oggi esiste il Seminario fatto costruire dal Vescovo Incontri, – il primo era sempre in Piaggia di Murello ma al numero 5, dentro palazzo Gamurrini –, c’era infat-ti la Chiesa di San Marco a Murello con annesso ospitale. Un cane caldo squartato sulla parte malata, probabilmente non sempre gua-riva. Ma la condivisione del dolore rendeva più lieve il trapasso. Anche i defunti non vengono più allontanati dalla città ma, su loro richiesta da vivi, vengono sepolti sotto i pavimenti delle chiese, addirittura nei muri, intorno alle loro mura, per poter continuare ad usufruire del salvifico effetto dell’Incarnazione nel rito quotidiano e del ricordo nella preghiera dei viventi. La vita è solo una prova, un passaggio, in attesa di ritrovarci tutti in un luogo migliore. Il camposanto è ancora oggi gestito dalla Fraternita dei Laici. Con i testamenti si finanziano le opere pie in cambio di messe di suffragio. Anche l’Università, come dice il nome, è aperta a tutti in questo stato sociale ante litteram. Intere vie sono specializzate in un mestiere (come via Pellicceria), si lavorano la lana ed anche la seta, i metalli preziosi e vili, le corporazioni tramandano i segreti professionali appresi dagli ordini monastici inurbati, soprattutto dai Benedettini con la regola dell’Ora et labora (Prega e fatica), e perfezionati nei laboratori dove crescono i più talentuosi ragazzi di campagna, giunti in città perché la sua aria rende liberi.

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All’inizio si costruisce vicino ai monasteri disposti simmetricamente non solo perché dai frati si impara a lavorare e si ottiene un mestiere ed un sostentamento, ma anche perché sono dei buoni vicini con cui condividere affanni e speranze, pacificatori nelle con-troversie, una riserva d’energia con l’elargizione quotidiana dei sacramenti. Poi la gente si sposta verso il centro, dove affronta la vita in comune. I Domenicani a nord, i loro rivali nel bene, France-scani, a sud. I due ordini mendicanti, che rinnovano la chiesa dopo il Mille, sono anche costruttori di convivenza civile. Ma cercano di non incontrarsi, ponendosi agli antipodi della città nuova, fuori le vecchie mura. E poi gli Agostiniani ad est ed i Benedettini ad ovest, dove c’è la Pia Casa. Ma anche più a sud, all’anfiteatro, gli Olivetani. E poi compagnie cittadine di fratelli nella fede che creano nuovi santuari, come quello della Santissima Annunziata, in seguito alla lacrimazione della statua della Madonna. La cattedrale impiega generazioni di lavoranti che vivono nelle case dintorno e che costruiscono solidamente per l’eterno, anche se il frutto delle loro fatiche lo vedranno solo i posteri. Ma intanto il lavoro fatto bene fa crescere umanamente. I campanili che insegnano a scandire il tempo valorizzandolo. Il mercatale di prodotti agricoli a chilometro zero in piazza sant’Agostino, la fiera degli animali dove oggi c’è viale Piero della Francesca, fuori le mura. La zecca, di cui rimangono solo tracce, dove si batte il grosso d’argento, apprezzato fin sull’Adriatico. L’Arte del Cambio (e il danno dell’usura). Il palazzo vescovile di fronte a quello del Comune, con la piazza davanti, dove si fanno le leggi e si fanno rispettare col mestiere delle armi di una polizia non di parte. I palazzi eleganti già rinascimentali dei nuovi nobili che eccellono nel lavoro, anche se i vecchi feudatari continuano a costruire case-torri ed a non ac-cettare che ogni testa valga un voto. Sceso in città per carpirne il segreto della forza, perché attragga i migliori, il feudatario cerca di imporre il potere delle armi creando serragli, isolando settori di città che comunicano con ponti mobili di legno aerei. Ma le sue torri verranno abbattute per costruire le nuove

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mura cittadine. Crescono così il nuovo cardo, Corso Italia, in linea retta con la Cassia antica, Via Vittorio Veneto; ed il nuovo decumano, via Garibaldi, anche stavolta non ortogonali, come ai tempi dei Romani e degli Etruschi. La città scende di quota per inglobare più terreno, mantenendo l’esposizione a sud, ben riparata dal colle San Donato, dai freddi venti siberiani, quando battono, e di tramontana. Un’economia ancora chiusa, che trae il marmo dallo spoglio del-l’anfiteatro, una città-stato che cerca di riaprire le vecchie vie di comu-nicazione imperiali verso Roma, Firenze, Ancona, che cresce ad anelli concentrici verso sud, come un albero vigoroso. Come in altre città della Toscana, nel Medioevo si impiantarono vetrerie atte a fabbricare non solo utensili, bensì a maiolicare le terrecotte, a produrre le vetrate delle chiese (solo dopo delle case, perché l’uomo medievale accettava di vivere anche in tuguri ma non tollerava, per riconoscenza, che il Creatore non dimorasse tra ori e vetrate, in una dimora regale degna del Suo livello). Dal 1000 al 1400 nascono le figure professionali moderne dei maestri, dei lavoranti, degli apprendisti nei più svariati mestieri. È una società che ancora fabbrica con le mani tutto ciò di cui ha bisogno; e che in una stessa persona racchiude spesso la sapienza di più mestieri. Tra le carte del notaio Feo di Rodolfo, stilate negli anni ’20 del Trecento e studiate dal professor Cherubini, vengono menzio-nate ben 65 diverse qualifiche professionali estranee all’agricoltura. Il settore di punta è quello laniero negli anni in cui si inventano le gualchiere lungo i fiumi per la cardatura dei tessuti, e si usano il filatoio a ruota ed il telaio orizzontale largo. Il cotone arrivava dal Medio Oriente attraverso il porto di Ancona, trasportato dai bamba-cai cioè bambagiai, cotonai. Si lavorava anche la seta, da cui l’omo-nima via. C’erano già gli orafi ma anche i più modesti ramai per gli attrezzi da cucina. E poi i metalli, con in testa il ferro forgiato sin dai tempi dei cervellieri. Pelli e cuoio in Porta Crucifera, contrada di Pellicceria. E poi calzolai, bicchierai col vetro, vasai, fornaciai che per fare i mattoni quasi piatti e larghi usavano la pregiatissima terra bianca proveniente dalla Chiana. Dal Casentino arrivavano i semi-

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lavorati ferrosi. Dalla Valtiberina la follatura dei panni di lana. Nella zecca locale si batteva il Grosso d’argento, molto ricercato dal 1200 in Romagna, Umbria, Marche. Nello Studium, primo abbozzo di Universitas, si studiava legge e gli scritti di Cicerone. Alcune date significative: 1180: mentre all’esterno imperversa il mondo feudale, in città mercanti, artigiani, banchieri e dottori in legge iniziano a porsi il problema di un potere comune imparziale. Nasce il primo palazzo comunale. 1098: a settembre viene citato il primo console aretino Raigneri. Precede di 30 anni il consolato fiorentino. 1140. Attestata l’attività della Universitas aretina dipendente dal comune che pretende di fare testo più delle scuole vescovili. 1124-1125: guerra vittoriosa con Siena per via dei confini diocesani. 1130: viene distrutto il castello del Pionta per diminuire l’autorità extraterritoriale del vescovo, riconosciuta però dall’imperatore. 1135. Inizia la conquista del contado di Castelnuovo presso Subbiano. Nascono due fazioni opposte di proto-guelfi (Raigneri, Viviani, Taschi, Tasconi poi Tacconi) per il Papa che benedice i liberi comuni come società nuova più democratica e quindi più cristiana; e di proto-ghibellini (Nerbotti, Sterpoli, Guidoterni, Albergotti, Sassoli, Bostoli doppiogiochisti). 1153: preso il castello di Vitiano 15 chilometri a sud est. Si allarga la sfera di influenza del nuovo comune. 1152: Federico Barbarossa imperatore, quello sconfitto dalla lega lombarda, vuole ripristinare in Italia la scossa autorità dell’Impero. 1163-1182: tantissime notizie scritte sul Comune che diventa superpotenza. Arezzo è comunque ancora una città-stato dove i consoli in carica prestano ancora giuramento all’imperatore, cercando di sostituire il vescovo nel legame prioritario di fiducia. 1165: precetto del legato imperiale Cristiano da Buch che conferma la piramide sociale: prima viene il vescovo Girolamo, con il potere spirituale e comitale, poi gli abati dei monasteri, poi i consoli e poi i capitanei e poi i valvassores di città, contado e diocesi. 1170: presi i castelli di Montetino, Castelnuovo, Puglia. 1179: Anghiari presa ed incendiata. Arezzo entra nella lega toscana guelfa contro l’Impero. 1025: i monasteri entrano in città. È boom di mestieri e di edifici

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nuovi costruiti per stare vicino ai frati. Cresce la città a sud attorno alla vecchia porta di Sant’Andrea vicina ad una omonima chiesa dentro le mura. Cresce a nord-ovest attorno a San Pietro Maggiore tenuta dai monaci di Santa Fiora. Fuori della città murata crescono edifici attorno alla Pieve, a San Pier Piccolo ed intorno a Santa Maria in gradi tenuta dai benedettini camaldolesi dal 1000, anno a cui risale la cripta sotterranea. Steccati e fossati proteggono la città nuovissima, in attesa dell’arrivo delle petrose mura. 1110: l’imperatore Enrico Quinto manda una spedizione punitiva contro la città ribelle all’autorità del suo Vescovo sul Pionta, che viene però subito restaurata. 1194-1200: nuova cinta larga di mura con dentro spazi verdi. Cinta rinforzata da torri esterne sporgenti, mentre all’interno svettano quelle dei feudatari recentemente inurbatisi. La superficie murata è adesso di ben 42 ettari e la popolazione supera i 10mila abitanti. Inizia la costruzione del nuovo decumano, detto il Borgo, collocato lungo l’attuale Corso Italia che termina appunto con la Porta Burgi cioè porta del Borgo. 1124: il Borgo diventa Burgus Sancte Marie, cioè di Santa Maria, la chiesa-duomo con fonte battesimale e testa di san Donato. 1038: quella che sarà Piazza Grande diventa intanto Platea Civitatis, cioè piazza cittadina, da mercato delle bestie cioè platea porcorum, cioè piazza dei maiali. 1095: San Michele, già ariana, passa ai Camaldolesi. 1213-1215: nasce l’Ospedale di Santa Maria sopra i ponti, vicino alla omonima pieve, sopra il ponte che attraversava il fiume Castro. Fondato dal comune, rimarrà in funzione sino ai primi del Novecento. 1190: compare il podestà, finisce la repubblica assembleare, inizia quella presidenziale. 1200. Si afferma il comune podestarile. Invitati alla carica molti fiorentini imparziali e dotti nella legge. 1198: ecco il parlamentum. 1214: arriva il consiglio dei 200 come a Firenze. 1226: Consiglio degli 80. 1236: Consiglio generale dei 400. Esercita il potere consultivo e ratifica le decisioni dell’esecutivo, sempre più in mano ai magnati. 1258. Nasce anche un Consiglio generale del popolo minuto che compren-de i rettori delle arti minori, i militari, i populares cooptati dall’alto. Aumenta il potere del Capitano del popolo e degli Anziani. Ma è solo

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una parentesi prima della Signoria dei Tarlati, che faranno sopravvivere solo il Consiglio largo o dei 400, a parvenza di democrazia. Ed eserciteranno il potere esecutivo controllando gli Otto di balìa, come a Firenze. Nasce il Comune moderno con i suoi impiegati. 1200: inizia l’espansione verso Città di Castello. Il Comune controlla gli enti ecclesiastici entro la città. 1207. Alleanza guelfa con Firenze contro Siena ed il castello ghibellino di Montalto Berardenga che viene distrutto. Attacco a Cortona, Perugia e Caprese. San Francesco viene ritratto da Giotto ad Assisi mentre dal colle del Pionta caccia il demonio nero e gli spiriti maligni della discordia dalla città. 1215: il podestà Guelfo Bostoli toglie i castelli di Capolona e Rondine e li dona alla vicina abbazia. Guerra civile dei ghibellini. 1246: contro Perugia, il comune conquista Castiglion del Lago. 1258: Arezzo conquista Cortona con un “segreto accordo” stipulato dal vescovo Guglielmino Ubertini. 1260: Arezzo appoggia Firenze contro Siena nella sconfitta di Montaperti. I suoi ghibellini però militano a titolo personale con i senesi. Guerra civile. 1263: i ghibellini rientrano vittoriosi in città contando sulla forza dei mercenari tedeschi dell’imperatore Manfredi. Il comune guelfo ha realizzato la più grande espansione territoriale mai vista, occupando castelli in Casentino, Valdarno, Valtiberina e Massa Trabaria, la conquista più lontana che apre le porte del Mar Adriatico. 1269: ultima conquista nel comune ancora in parte guelfo. Presa Pieve Santo Stefano e controllata Borgo San Sepolcro. Così finisce l’elenco dei successi del glorioso libero comune. Basterà una scheggia impazzita di esercito regio, turpi mercenari francesi però bene armati e pronti a tutto, con nulla da perdere, a far cadere la respublica aretina.

Il supremo potere legislativo era esercitato da una assemblea generale di tutti i cittadini, una specie di Parlamento cui partecipavano le famiglie residenti da lungo tempo in città e che doveva discutere e decidere intorno ai bisogni e necessità di maggiore entità. Ciò non riuscì ad eliminare le discordie politiche: gli Aretini si

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schierarono in due fazioni: Ghibellini e Tarlati da una parte, Guelfi e Bostoli dall’altra. Alla rinnovata importanza politica si accompagnò una grande fioritura culturale: la città si dotò di una università, lo Studium, già attiva nel 1215 i cui ordinamenti risalgono al 1252, brillarono i primi ingegni della nuova poesia lirica italiana Guittone d’Arezzo e Cenne de la Chitarra; della scienza con quel Ristoro che nel 1282 scrisse la prima opera scientifica in volgare: Della composizione del mondo; e della pittura, con Margaritone d’Arezzo, poi affiancato da maestri fiorentini e senesi quali Cimabue e Pietro Lorenzetti. In questo periodo (1282) la città era governata dai Guelfi capeggiati dalla famiglia Bostoli il cui potere durò dall’anno 1282 al 1287, quando fu siglato un accordo tra la famiglia Bostoli e i Tarlati col vescovo Guglielmo che rese Arezzo ghibellina. Nella famosa battaglia di Campaldino (1289) immortalata da Dante, l’esercito ghibellino aretino fu sopraffatto dalle preponderanti forze guelfe fiorentine e senesi. Gli eserciti vincitori però non riuscirono ad espugnare la città che resisté eroicamente agli assalti, difesa anche dalle donne armate. All’interno la lotta per il potere proseguì tra la famiglia degli Ubertini e quella dei Tarlati, entrambe ghibelline e vescovili. Con Guido Tarlati vescovo e duce dal 1312, Arezzo si dota di nuove mura mentre la città cresce ad anelli concentrici verso sud. Le porte della cittadella medievale sono ben 10 (i Medici le ridurranno a 4, quelle odierne). Ogni porta ha sopra di sé una nicchia con dentro le sculture in pietra del Maestro di San Michele, raffiguranti la Madonna con il Bambino. Gli abitanti superano i 30mila ed hanno votato tutti Guido come Dominus civitatis cioè Signore della città, attraverso votazioni per acclamazione e voto palese nel governo ristretto e nei consigli comunali dei vari borghi in cui si divide la città (una divisione in borghi, detti anche castelletti, sussiste tutt’oggi per esempio a Badia Prataglia). Fra le opere pubbliche di Guido c’è la riapertura della strada verso le Romagne, la famosa antenata della due mari già dal tempo dei

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Bizantini. Inoltre, che siamo in regime di Signoria si capisce anche dal fatto che finisce l’esercito di popolo che tante conquiste aveva effettuato, sostituito dai soliti mercenari stranieri che forse attireranno anche il francese matto Enguerrand per pagarsi il pane, mettendo in scena uno dei soliti combattimenti finti. I Medievali lasciano agli Aretini la conoscenza di arti, mestieri, lavori.

Arezzo sotto la cosiddetta “dominazione fiorentina” Perché “cosiddetta”, la dominazione fiorentina? Perché nel perio-do che va dal 1384 al 1531 assistiamo piuttosto ad un co-governo guelfo, messo in opera dalla Repubblica Fiorentina, con la collabora-zione del partito guelfo aretino guidato dal Rettore della Fraternita dei laici e con la benedizione della chiesa locale non ghibellina; ritorni di fiamma del ghibellinismo esclusi, che conducono la città all’indi-pendenza dalla Repubblica fiorentina, ma anche alla scellerata al-leanza coi Medici esiliati che poi raderanno al suolo il castello ghi-bellino del vescovoconte, sul Pionta. Passata la batosta di Campaldino, i ghibellini ripresero la poli-tica espansionista comunale in altra direzione, conquistando Gub-bio nel 1300 guidati da Uguccione della Faggiola. Nel 1301 avvie-ne la scissione fra guelfi neri per il papa e guelfi bianchi per l’impera-tore, fra cui Dante che pagherà questa scelta di campo con l’esilio. Anche in Arezzo allora i ghibellini si dividono fra Verdi (Uguccione, i Faggiolani) imperiali moderati che accolgono gli esuli bianchi fio-rentini ed alla fine risulteranno perdenti; ed i Secchi, cioè gialli, fra cui spiccano i Tarlati, assolutamente contrari ad ogni tipo di guelfi,

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che vincono. Nel 1312 uno di loro, Guido Tarlati, salirà addirittura alla cattedra di San Donato, diventando vescovo. I Tarlati, per Arezzo, erano come i Medici per Firenze. I Tarlati appoggeranno la discesa dell’imperatore Arrigo Settimo volta a punire Firenze e gli altri guelfi. Ma i Fiorentini non sarebbero potuti rimanere neutrali, lasciando in pace Arezzo che oramai guardava sempre più ad est? La risposta ce la fornisce Leonardo Bruni, aretino divenuto cancelliere della Repubblica fiorentina, ricercando le cause di tanta inimicizia. Il guaio era che Corso Donati, il capo dei Guelfi neri, amici dei Magnati Grandi, uno che avrebbe dato la vita pur di diventare Signore di Firenze, aveva sposato la figlia di Uguccione della Faggiola capo dei ghibellini non solo aretini, ma addirittura italiani, forse per amore vero, forse per diplomazia. La moderna ragion di stato imponeva quindi di mutare lo stato delle terre vicine, per distruggere i nemici interni a Firenze. Se non ci occupiamo noi di loro prima che loro si occupino di noi, finisce male; così ragionavano a Firenze, dice il Bruni. Infatti Prato viene acquistata per 17mila fiorini d’oro prima di Arezzo. Nell’archivio comunale di Firenze si conserva ancora la “provvisione”, cioè il provvedimento del 10 giugno 1384 con il quale si incaricano i procuratori di procedere all’acquisto e nuova fortificazione tramite i soliti amici dell’opposizione guelfa: si tratta di nomi illustri quali quelli di Luigi di Piero Guicciardini, Filippo di Tommaso Corsini, Donato di Iacopo Acciaiuoli, Vieri di Cambio de’ Medici. E dopo si lancia un governo ristretto di magnati nobili a Siena. Ed infine si stanga l’imperiale Pisa con un tremendo assedio. Firenze trasse così sollievo dalla guerra fredda iniziata già subito dopo Campaldino. Corso Donati, persa la guerra civile, era stato ucciso in fuga verso Arezzo, all’imbocco della via aretina, davanti al monastero di San Salvi. Il suocero Uguccione continuava la guerra alla Repubblica schierandosi con l’imperatore Arrigo Settimo che impone a Firenze la pace vantaggiosa per Arezzo. Ma l’imperatore tedesco muore miste-

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riosamente a Buonconvento (Siena) nel 1313 ed i ghibellini rimangono senza il loro più potente alleato. Uguccione ed i Conti Guidi ripiegano così su Arezzo; mentre i Pisani con il cadavere ancora caldo dell’imperatore tedesco, si ritirano a San Miniato al tedesco, appunto. Uguccione poteva ancora vincere: alleandosi con Castruccio Castracani, ottenne la vittoria di Montecatini che porta la guerra in casa ai Fiorentini, attaccati anche dai lati di Lucca e Pistoia. Potrebbe prendersi tutto, ma gli infìdi Pisani litigano con Neri della Faggiola e gli sottraggono Pisa e Lucca. Frattanto nella città che si avvia alla Signoria dei Tarlati ben prima dei Medici a Firenze, i nobili guelfi (che riconoscono il Comune) e ghibellini (che mirano alla Signoria) hanno il loro esercito personale e rimangono esterni al Comune; il popolo minuto (come i Ciompi, lavoratori della lana sottopagati) ha il suo Capitano e il Consiglio degli anziani come organi propri e del Comune; crescono ancora le arti, che adesso entrano nel governo comunale della città coi loro consoli; si tratta delle federazioni di mestieri, le antenate dei moderni sindacati. Alcune date: 1196: ogni Società di lavoratori ha il suo console. 1201: un solo console parla a nome della Universitas Mercatorum cioè è il portavoce dei mercanti tutti insieme. 1236. Compare il rettore delle arti, cioè come colui che dirige la nave nella tempesta. 1327: i Tarlati al potere pensano bene di eleggere 8 bonomini, cioè uomini buoni e onesti, affinché rivedano e correggano i Brevia cioè le cose essenziali dette in breve su come deve essere fatto bene un dato lavoro, arte per arte. Sì perché i Tarlati nascono come nobili del contado ma dalla città hanno saputo imparare la nobiltà del lavoro e si sono adeguati ai tempi divenendo mercanti dediti al commercio di ampio raggio, quindi banchieri con banchi aperti lungo tutte le Romagne e dovun-que il comune aveva conquistato, ma anche oltre. È stata ritrovata una tessera mercantile con impresso il marchio della casata: un tim-bro da ceralacca con uno scudo triangolare metà bianco e metà nero

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per casa; uno scudo con dentro sei dadi neri in campo bianco per l’estero. La Repubblica che acquista Arezzo è guelfa di nome (giglio rosso in campo bianco), ma vi comandano i Magnati, come nota il milanese Gian Galeazzo Visconti che verrà sconfitto intorno al 1400. Il popolo non vi conta più nulla, anche dopo il tumulto dei Ciompi del 1378. In cambio non viene più chiamato a tributi di sangue come quello di Campaldino, si assoldano i primi soldati di ventura unghe-resi. I nemici si comprano, non si abbattono più con le armi. Anche Arezzo stava evolvendo nella stessa direzione di Firenze. Tanto che i fiorentini vi metteranno al governo lo stesso i Magnati, deludendo il popolo guelfo. Lo stesso faranno a Siena. Ed a Pisa. Il Quattordicesimo secolo, quindi, vede imperatori e soldati di ventura scendere dai forti stati nazionali nell’Italia divisa in tanti microstati l’un contro l’altro armati, sia per rimettere i liberi comuni sotto il controllo imperiale; sia per guadagnare oro dalle fiorenti economie comunali che hanno inventato un nuovo modo di far soldi, molto più remunerativo delle tasse: hanno inventato banche, prestiti, cambiali (mentre i re viaggiano ancora con il forziere, cioè il baule chiodato, al seguito, per pagare le truppe), commercio su larga scala, l’industria manifatturiera di massa. 1311: discende l’imperatore Arrigo Settimo che in cambio dei soldi ottiene la pace armata nella penisola. 1384: una scheggia impazzita dell’esercito reale in cerca di soldi facili, guidata da Enguerrand de Coucy, inguaia Arezzo assediandola. 1312: Guido Tarlati ebbe la meglio sulla famiglia degli Ubertini e fu nominato signore a vita della città grazie anche all'appoggio dell’”alto Arrigo” imperatore che gli chiese anche truppe per occupare Roma senza Papa dal 1311 al 1313. Parte del clero gli tolse la sua protezione perché questo signore si era dato anima e corpo ai Ghibellini. Da Avignone il Pontefice gli dà tre mesi di tempo per discolparsi, col capo coperto di cenere, alla sua presenza, ma lui aggrava la sua situazione non presentandosi all’appello. Poi nel 1324 Guido fu scomunicato dal Papa Giovanni XXII, residente in

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Avignone, sotto l’accusa di essere eretico, di avere rubato il tesoro di Assisi e di altri fattacci di cronaca nera. La figura del vescovo Guido Tarlati, Signore di Arezzo dal 1321 al 1327, è nota in ambito nazionale per la sua politica ghibellina, per il sostegno dato all’imperatore scismatico Ludovico il Bavaro, per l’incoronazione dell’imperatore, a Milano, quale re d’Italia, cingendolo con la corona ferrea custodita a Monza. Ludovico progettava allora di indebolire la posizione del Papa in Italia. D’accordo con diversi esponenti ghibellini, nel 1327 marciò su Roma. Molte città ghibelline accolsero fra grandi acclamazioni l’Imperatore che, seguìto dalle sue truppe e dai suoi cortigiani, vescovi e cardinali, imponeva tributi ed esigeva omaggio dai principi, conti e vescovi feudatari dell’Impero. Durante una dieta di rappresentanti delle maggiori città italiane, fu dichiarato il Pontefice romano eretico ed indegno, e presa la corona di ferro a Milano dalle mani di Guido Tarlati, scomunicato vescovo di Arezzo, il Re avanzò in Toscana, scrivendo lettere ai Comuni per i quali doveva passare, lungo la via Aurelia, da Pisa verso Roma, invitandoli a porsi ai suoi ordini ed a comparirgli davanti, al suo passaggio, conducendo con sé i propri sindaci. Forte di questo appoggio, Guido Tarlati ne approfittò. Il suo aiuto ai rivoltosi delle Marche e dell’Umbria e la conquista di Città di Castello nello Stato pontificio provocarono però l’intervento di papa Giovanni XXII lontano, che nel 1324 lo scomunicò e nel 1325 fece intentare contro di lui un processo inquisitorio per eresia, privandolo infine del vescovado aretino e distaccando da questo la diocesi di Cortona, affidata alle cure vescovili della rivale famiglia ghibellina degli Ubertini che si era impossessata già 82 anni prima, comprandola, della ex capitale etrusca. La biografia del Tarlati è segnata in modo decisivo dallo scontro con il papato, che usò tutto il suo potenziale di persuasione e di coer-cizione per tentare di ridurlo all’obbedienza. Si pentirà in punto di morte, ma il suo cenotafio in duomo, manifesto politico della signo-ria tarlatesca su Arezzo, è effettivamente vuoto dato che gli eretici

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non potevano essere sepolti in terra consacrata. Quindi il corpo del vescovo Tarlati, fatto sparire per evitare il culto della personalità invitante alla rivolta, è tutt’oggi introvabile come quello di Bin Laden. 1321: il fratello di Guido, Pier Saccone, immortala il passaggio del comune alla signoria ghibellina e vescovile facendo scolpire in una formella del monumento funebre di Guido ancora oggi in duomo, una scena intitolata Custodia civitatis a Tarlatibus, cioè i Tarlati nominati guardiani della città. Nel 1327 Guido muore ed il potere passa al fratello. Pier Sac-cone fa carriera e l’anno seguente, 1328, diventa addirittura vicario imperiale in Italia dopo la morte del lucchese Castruccio Castracani. Arezzo in questa data era quindi un una botte di ferro. Nel 1330 edifica la tomba monumentale per il fratello Guido. Nel 1331 è dal Papa per confermargli la sua fedeltà. Nel 1333 firma la pace con Firenze. Nel 1337, opportunisticamente, stila un patto con la potente vicina che sancisce una blanda soggezione di Arezzo, per 10 anni, ai gigliati. I Bostoli, i Brandaglia, gli Albergotti cercano di riportare il pote-re dalla signoria di uno all’aristocrazia di pochi. E per fare questo non esitano a schierarsi contro gli artigiani ed il popolo minuto, alla base del potere della signoria ad Arezzo come a Firenze, tutelati fiscalmente ed omaggiati con sporadiche donazioni varie in dena-ro e spettacoli, anche se privati del potere politico. Nel 1379, in casa del rappresentante dell’impero, si forma addirittura un partito estremista di Arciguelfi dentro il partito della chiesa papalina, comprendente aristocratici (Bostoli), popolo grasso (Albergotti, Cama-iani) e plebe urbana che vedeva di buon occhio la santa alleanza con Firenze, che avrebbe potuto assumerli anche come lavoratori sala-riati. A complicare la situazione si aggiunga la calata in Italia di un principe poco ghibellino come Carlo di Durazzo, che va a Napoli per prendere la corona offerta dal Papa che voleva come vicino un monarca fedele alla chiesa. L’esercito di Carlo nel 1381 si abbando-na ad una settimana di folli saccheggi ad Arezzo.

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Nel 1384 l’Enguerrand, al servizio di Luigi D’Angiò, diretto sempre a Napoli, assedia Arezzo per saccheggiarla e minaccia di menarla per le lunghe. Firenze allora, nella versione aretina, due mesi dopo, con 20mila fiorini allontana i 9mila mercenari e compra il Casseretto su cui i Medici costruiranno la fortezza. Il tutto col consenso degli arciguelfi aretini che vengono messi al potere in quanto collaborazionisti dei liberatori interessati. In un colpo solo i Gigliati si liberano di due potenziali nemici: mercenari e ghibellini. Comunque sia andata davvero, all’indomani del colpo di mano dei Fiorentini, la società aretina è sempre la stessa. Ci sono i nobili cittadini, c’è il “popolo della media gente” composto da chi pratica la mercatura e da chi esercita le professioni liberali, c’è il popolo minuto. I Bostoli continuano a dirsi capi dei guelfi, ed altrettanto fanno i Tarlati in campo ghibellino, mostrando i muscoli. Appoggiati dagli Ubertini, organizzano la resistenza. Cercano forze nuove nei castelli del contado, a Pietramala. E si asserragliano nel “distretto vecchio” di Arezzo gettando ponti fra le case-torri vicine e bloccando i vicoli. Bostoli e Tarlati sono i due clan familiari più forti in città. Ci sono poi i nuovi Arciguelfi, detti anche “sessantini” perché alcuni di loro (Sassoli, Guasconi) propugnano il ritorno del parlamentino dei 60 anziani. Ma i vincenti appartengono ai Bostoli, ai Camaiani, agli Albergotti che appoggiano la signoria di Carlo Durazzo e che dopo il 1384 governano Arezzo, imponendo la pax procurata dalla repubblica fiorentina. A loro merito va ascritto il fatto che la città manifatturiera continua ad abbellirsi ed a crescere, nemmeno troppo danneggiata dalla perdita di potere sul contado oltre le cinque miglia dalla città, imposta da Firenze. I ricchi conservano i loro possedimenti nel contado ed aumentano il volume dei loro commerci in direzione opposta a Firenze, lungo le vallate che scendono verso il mare Adriatico; gli intellettuali, inviati dapprima come ambasciatori, passano al servizio del comune fiorentino. Leonardo Bruni è il capostipite di questa fuga di cervelli. Si potrebbero ricordare, al proposito, anche Carlo Marsuppini e Bene-

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detto Accolti. I ciompi sono quelli che più perdono dai mancati introiti della città nei confronti della sua campagna. Ancora per qualche anno sembrerà governo popolare, ma nel 1450 la signoria occulta di Cosimo il Vecchio, debellati definitivamente i castelli ghibellini, darà il potere ai maiores, ai maggiorenti, come già accaduto a Firenze. Mentre bruciano le pergamene comunali ed imperiali che danno il pote-re ai vescovi-conti, ci vengono invece tramandati i nomi dei primi “cavalieri del lavoro” aretini, arricchitisi in sinergia con Firenze, destinati come capostipiti a dare vita ai nuovi nobili per meriti commerciali: Simo di Ubertino (Pannilini), Angelo di Biagio da Pantane-to, Baccio di Magio (Bacci), Lazzaro di Feo (Bracci), Mariotto di Cri-stoforo Cofani, Giovanni di Matteo di Giuntarino, Tucciarello di Cecco “ritagliatore”, Nanni di Iacopo spadaio, Antonio di Nardo vinattiere, Chiaromanno di Gregorio di Manno “ritagliatore”, A-gnolo di Bartolomeo calzolaio. E poi Spadari, Nardi, Chiaromanni, Barbani… Tutti popolo grasso destinato a diventare magnati. L’im-portanza delle manifatture emerge anche da una legge del 1460 De vestis mulieribus (di come devono vestire le donne), in cui si elenca-no anche le attività economiche del ceto superiore: si occupano di lana, seta, mercatura, banco, spezie, preziosi, diritto, notariato. Il popolo minuto, che pensava di andare a lavorare a Firenze con uno stipendio maggiore, non perderà occasione per sobillare i suoi superiori in occasione dei momenti più duri di Firenze, una città guelfa che incorrerà addirittura nella scomunica papale e che quindi non è più abilitata a riscuotere nessuna tassa o gabella dai popoli sudditi. Il problema è che gli esattori di Firenze erano gli aretini più illustri. Bacci e Albergotti già pagano le tasse dirette più alte di tutti al Catasto del Comune. Esigono adesso la tassa sul sale per edificare le nuove mura. Nel 1527, in occasione del sacco di Roma, Arezzo si dichiara indipendente. Nel 1530, quando dovrebbe toccare a Firenze di essere saccheggiata durante il tremendo assedio, Arezzo si offre co-me base di retrovia per gli Spagnoli, i Napoletani di Maramaldo ed

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i papalini del pontefice mediceo. Per tutta ricompensa, i Medici affossatori dell’ultima repubblica fiorentina daranno alle stampe il nuovo Statuto aretino col quale si afferma il “sistema patrizio” vigente a Firenze e si elimina il popolo da ogni potere decisionale. Arezzo diventa possesso, patrimonio di Casa Medici, come la Chimera, che verrà lasciata alla città di Firenze assieme agli altri bronzi etruschi dalla Elettrice Palatina, l’ultima dei Medici. In campagna, solo dopo Anghiari, 1440, l’influsso fiorentinomediceo diventa cogente; anche se i legami di dominio nei confronti della vasta provincia sottomessa con le armi da parte della città murata, iniziano ad essere indeboliti già all’indomani dell’orribile anno 1384. Vediamo come i Fiorentini sfruttano Arezzo prima che i Medici ne facciano una proprietà privata. Il podestà non può comandare per più di cinque miglia attorno alla città. Il surplus di grano, olio, vino, viene acquistato direttamente da Firenze, senza intermedia-ri, con i prezzi stabiliti dalla loro borsa. I migliori ingegni vanno a lavorare a Firenze (non solo Vasari, che supplicherà il granduca di versare qualche soldo in più per le opere pubbliche in Arezzo). La città non può più battere moneta. Le imposte vengono riscosse direttamente dal Camarlingo generale, che ha studiato a Firenze. Largo al merito cioè agli arciguelfi. No ai quartieri, bastano due mezzi (Quello di San Piero e quello di Santa Maria), tanto l’ammini-strazione reale si svolge altrove. Aumenta il divario fra ricchi (po-chi) e poveri (molti), con la classe media abbassata perché non ha più niente di pubblico da amministrare. La città diventa più bella, ma solo perché i collaborazionisti cercano dimore rinascimentali più signorili, secondo quanto appreso a Firenze. Nel 1445 viene completato quello di Donato Bruni, figlio di Leonardo (divenuto palazzo Ciocchi Dal Monte nel corso del Cinquecento). La bella facciata, con tre stili diversi, della Fratèrnita dei Laici, in piazza grande, vede la luce grazie ad un lascito di Lazzaro Bracci, morto senza eredi nel 1410. Era stato assistito dai fratelli laici che dal 1400, gratuitamente, curano i malati nell’Ospe-

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dale di Santa Maria di Platea, in cima a Piazza Grande. Sì perché almeno questo i Medici lo hanno permesso. Finanziare le opere religiose. Esonerarle dalle tasse quando svolgono opere di pubblica utilità. 1530: chiude lo Studium. Chi vuole laurearsi, vada a studiare a Pisa, a sue spese. Restano aperte solo le scuole cattoliche gratuite di ordine inferiore. Però ecco che nel 1537 viene fuori il primo grosso indebitamento con Firenze, che permane sino al 1573, frutto di una guerra economica non dichiarata che vede Arezzo perdente e che completa l’opera di soggezione iniziata con gli eserciti. Nonostante tutto si avvia un’opera pubblica importante ma inutile, tanto sarà pagata da nuove tasse riscosse dagli amici esattori. Anzi mettiamo una tassa di scopo, una tassa sul sale che serve per conservare le carni. Chiamiamo l’”archistar” di turno, che ha studiato nella capitale, Antonio da Sangallo il Giovane raccomandato, perché i barbari potrebbero ancora tornare e gli Arabi (quelli del Saracino), sbarcati qualche anno fa in Puglia per conquistare addirittura Roma, a Otranto hanno fatto macelli, si parla di 1200 decapitati per non aver abiurato la propria fede. Nel 1561 viene demolito il Duomo Vecchio sul Pionta, perché da lì sarebbe potuta nascere una vera resistenza difficile da battere. Nel novembre del 1553, durante i lavori di scavo per gettare le fonda-menta delle mura, emerge la Chimera. Già Lorenzo si era fatto ritrarre ammansitore del centauro, mezzo uomo e mezzo bestia, grazie alla bellezza dell’arte. Cosimo non vuole essere da meno e fa costruire dal Vasari il mito di Bellerofonte “domatore di tutte le fiere”, compreso il mostro chimerico. Nato il 30 luglio 1511, Giorgio è uno che ama la sua città. Nel 1556 disegna le porte di San Lorentino e di Santo Spirito nello stile rinascimentale allora per la maggiore. Schizza anche il progetto delle Logge; sono gli stessi moduli che sorreggono il Corridoio Vasa-riano prima che entri sopra Ponte Vecchio. Per Arezzo sono stati pensati più alti e più ampi: verranno realizzati solo nel 1600 per mancanza di fondi. Dal 1542 al 1550 rientra alla base ed affresca la

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sua casa aretina che diventerà museo statale nel 1911 e dove i nobili Festari conservano ancora oggi come una reliquia il suo codice, esemplato su quello di Leonardo. Le sue Vite, prima storia dell’arte italiana, vedono il culmine dell’arte contemporanea nella pittura di Leonardo e nell’opera intera dell’aretino Michelangelo. Crescono i palazzi delle famiglie che continuano ad aumentare in potenza nonostante vivano in una colonia. Lungo il Corso si affacciano gli Azzi, i Funghini, i Carbonati, i Fossombroni (quelli delle più tarde bonifiche lorenesi). Le mense per poveri accolgono adesso anche alcuni della vecchia classe media caduti in disgrazia. Nel 1583 vengono censite ben 55 corporazioni tra societates, fraternità, ospedali, tutte lungo la via sacra, l’attuale via Garibaldi. Solo la carità è ancora libera. Ferdinando Primo paga la scalinata nuova del duomo, che sarà rifatta dai Lorena, mettendoci sopra la statua del Giambologna che lo rappresenta, fiero, al comando. Il contado aretino diventa intanto il granaio dello stato mediceo. Nel 1640 il vescovo Tommaso Salviati fonda il primo seminario della città, in piaggia di Murello 5, nel palazzo Gamurrini, in ritardo sui dettami del Concilio di Trento, ma i soldi servivano ad altro. Nel 1643 la pianta della città disegnata da Marcantonio Bettacci mostra una città piccolina e bellina, raccolta dentro le mura “protettive” volute da Cosimo I (quelle che vediamo ancora oggi, seppur lacunose e rimaneggiate dal revival medievalista novecentesco). I politici vanno a Firenze e gli scienziati vanno a Pisa perché i Medici non vogliono quelle teste calde degli studenti fra i piedi, a Firenze, dove girano i soldi e dove le banche hanno sede nei maestosi palaz-zi familiari, troppo preziosi per essere dati alle fiamme da scalma-nati utopisti. Andrea Cesalpino scopre la circolazione del sangue a Pisa e Francesco Redi lo seguirà nel viaggio, anche se avrà sepoltura nel duomo, fra le glorie patrie. Pietro e Leonardo Accolti, Ludovico Guillichini, invece, a Firenze, scrittori di corte. La chiesa continua la sua lenta ma inesorabile crescita. Nel 1687 sorge il Collegio dei Gesuiti annesso alla chiesa di Sant’Ignazio, dove

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oggi c’è il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II. E poi le prime Accademie, cresciute all’ombra degli ordini religiosi dei Cappuccini, dei Benedettini, dei Gesuiti. L’Accademia dei Discordi (1623-1683), che litiga su cose non pericolose per il potere. Quella dei Forzati (1683-1691), che farebbero anche a meno dell’otium libresco. Quella dei Forzati Arcadi (1691-1784) che ci raccontano come è bella la vita campestre e brutta la vita di città. Poi c’è l’Accademia Teatrale del Casino, che sollazza solo i nobili; ed infine quella degli Oscuri (quegli intellettuali che si reputano più bravi quando parlano difficile. Però il loro regolamento della Giostra è assai chiaro e viene usato ancora oggi). Francesco Redi impara il metodo scientifico galileiano frequentando il monastero, diventato femminile, di Santa Maria in Gradi. È vero che la Fortezza medicea dal punto più alto teneva in scac-co la città con la nuova, micidiale, arma di quei tempi: il cannone. Ma è pur vero che anche a Firenze le libertà comunali stavano arenando-si nella nuova forma di governo della Signoria, quasi una tirannide mascherata da monarchia. La Fortezza da basso e quella da alto cioè il Forte di Belvedere, anche se mai utilizzate, potevano cannoneggiare il popolo in rivolta col tiro incrociato. È vero che distrussero la cittadella medievale per costruire la Fortezza; ma altrettanto era stato fatto nel capoluogo in nome della ragion di stato. È vero che con 20mila fiorini d’oro acquistarono la cittadella dai loro amici arciguelfi in città; ma è altrettanto vero che la stessa cifra finì anche nelle tasche dell’esercito mercenario che assediava e occupava Arezzo, col rischio di malattie, esecuzioni sommarie, assedi estenuanti, affinché se ne andasse alla svelta. È vero che imposero i loro podestà, ma da Firenze erano già arri-vate persone molto ben preparate che avevano svolto quel ruolo nel comune guelfo. Poi un bel giorno, all’improvviso, accade l’imprevisto. La stirpe signorile si estingue. Che ne sarà, adesso, di Arezzo? I Medici lasciano agli Aretini i palazzi rinascimentali e le mura.

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Arezzo sotto i Lorena I Lorena lasceranno pochissimo ai Fiorentini, solo qualche tazzi-na da tè ed uno strano edificio a forma di minareto chiamato Palazzo del Caffè, nel Giardin di Boboli, dietro la residenza granducale nel palazzo già della famiglia Pitti. I Lorena furono imparziali. Come sottrassero a Firenze il controllo diretto del suo granaio aretino, aumentandone poi la produttività con le bonifiche di Fossombroni soprattutto in Val di Chiana; così staccarono la Maremma Senese dalla gestione asfissiante delle Magistrature di Siena Città, bonifi-candola e creandola provincia con capoluogo Grosseto. Il loro obiettivo era aumentare la ricchezza generale per riscuotere più tas-se; oltre le vecchie logiche comunali di dominio, a favore della nascita di un mini-stato moderno gravitante verso Vienna. Agli Aretini piacevano, appartenevano ad una stirpe regale cattolica romana. La loro fama di sovrani illuminati, come andava di moda dire ai tempi dell’Illuminismo, si esplicò soprattutto nella nuova dignità concessa alle province del Granducato adesso dipendenti da Vienna e solo in parte da Firenze. Meno male che l’Elettrice Palatina, ultima Medici prima dell’estinzione, aveva vincolato le collezioni d’arte, Chimera compresa, alla città di Firenze ed ai suoi visitatori forestieri. Invece le grandi bonifiche della Maremma e della Val di Chiana resero benvoluti dappertutto questi regnanti sicuramente non di stirpe etrusca e nemmeno romana. La Chiana non era impaludata al tempo degli Etruschi e dei Romani dagli ottimi ingegneri idrau-lici. La campagna inoltre era tutta coltivata intensivamente ed erano controllati e ripuliti anche i più piccoli canali di scolo mantenuti da contadini che per questo servizio non percepivano però alcuna tassa. La Chiana, prima degli interventi di Fossombroni, scorreva ancora in direzione del Tevere. Così dopo la bonifica fu possibile riaprire una strada da Arezzo alla Val di Chiana, che fosse diretta verso sud, verso Roma, per linee interne.

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I Lorena poi trasformarono Arezzo nel capoluogo di una vasta provincia, concedendogli la facoltà non solo di controllare il contado espropriato dai Medici; ma dandogli anche facoltà di sottoammini-strare antiche e grandi città un tempo rivali come Cortona, Sansepolcro, Bibbiena, San Giovanni Valdarno e Montevarchi (non senza le proteste di queste ultime che, a ragione, si dichiaravano “figlie di Firenze”). Sotto i Lorena avvengono anche due fatti storici importanti quali il moto popolare del “Viva Maria”, una reazione alla politica anticlericale e liberista dei governanti in una città con tradizioni quasi teocratiche, che sarà premiata con la restaurazione della grande Provincia amministrata da Arezzo; e l’epopea risorgimentale che vedrà un eroe del calibro di Giuseppe Garibaldi scendere in città per incitarla alla rivolta contro i dominatori Austriaci reazionari e cattolici. Forse l’insistere troppo su quel “cattolici” non gli ha pro-curato gli ampi consensi ottenuti altrove. Anche se, vedremo, il pre-sunto clericalismo dei nuovi granduchi parrà tingersi addirittura di filomassonismo in occasione della cacciata dei Gesuiti dalla città, come già avvenuto nel resto di Toscana. Intanto la città murata cresce e si trasforma. Nel 1772 nasce la Regia Strada di fondovalle Arezzo-Firenze che quando esce da Arezzo si chiama via Fiorentina e quando entra a Firenze si chiama via Aretina, perché la destinazione era più importante dei luoghi per i quali passava. Nel 1730 l’aristocrazia inventa un suo ritrovo esclusivo in città chiamandolo Casino dei Nobili. Comunque per la prima volta vi vengono ammesse anche le dame. A pochi anni dalla Rivoluzione Francese l’egualitarismo nobiliare permette anche alle donne di parlare di politica, arte, cultura. Nel 1740 iniziano le rappresentazioni tea-trali goldoniane e dialettali nel Nuovissimo Teatro Grande dentro le Logge del Vasari. Il clou si raggiunge durante le feste in maschera di Carnevale, quando ancora le ceneri della Quaresima non ci ricor-dano che la vita è anche triste milizia contro il peccato. Nel 1750 il vescovo Filippo Incontri fonda il nuovo seminario, quello odierno. In questa sede il mio avo Giovan Battista Tognaccini,

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destinato a diventare “emigrante di lusso” cioè priore di San Lorenzo a Firenze e Cappellano dei Lorena, tiene una serie di lezioni di scrit-tura creativa ai giovani seminaristi in qualità di maestro di retorica; trascritte, verranno stampate nel 1771, nella tipografia di Domenico Marzi, col titolo: Orationes latinae. Un compito difficile per il mio sfortunato avo. Perché abolite pena di morte e tortura, dimostrato di essere più buono del Papa, il Granduca cacciò gli ordini monastici. Nel 1785 vengono soppressi gli ordini e le compagnie religiose che pure tanto bene avevano operato in città. Espulsi i Domenicani fuori le mura coi loro ospedali e con le loro scuole, inizia il deterioramento della bella loro chiesa per mancata manutenzione ordinaria. I loro immobili vengono messi all’asta e comprati dal solito giro di benestanti, nonostante l’avvertimento che chi si impossessa dei beni della chiesa con furto o frode, poi perde tutto con gli interessi. Nascono così le prime scuole pubbliche statali e le prime scuole statali per l’educazione del popolo. Saranno pagate con nuove tasse, mentre le strutture ecclesiali erano gratis, vivevano coi lasciti dei testamenti in cambio di preghiere di suffragio. Ora che i beni ecclesiastici passano ai magnati, si compie anche l’ingiustizia di violare i testamenti di quelle persone che invece che soldi avevano lasciato edifici per scuole e ospedali esclusivamente per le opere pie. Comunque il solito vescovo mecenate apre il cantie-re più importante del secolo, quello della Madonna del Conforto, subi-to a sinistra dell’entrata, in Duomo. Il miracolo commuove la città. Il 15 di febbraio del 1796, in una bettola gestita dai frati camaldolesi, il fumo unto di pentolacce abbruna le pareti ed una immagine in cera-mica della Madonna, uomini abbrutiti da una dura giornata di lavo-ro mangiano e giocano a carte. Fra di loro anche due ubriaconi. Ad un certo punto una forte scossa di terremoto li fa sobbalzare. Ma la preghiera impaurita e resa immediata dal vinaccio acido che scioglie i freni inibitori, arriva al cuore della Vergine. Così, mentre il terre-moto si blocca all’improvviso, l’immagine sporca diventa lucida e splendente e sorride ai due accattoni. Il vescovo Marcacci accorre di persona, rimane colpito dalle testimonianze, porta la potente immagi-

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ne splendente in duomo, casa di tutti i credenti, affinché da lì protegga tutta la città, dalla maestosa cappella che si appresta a costruirgli. Il cantiere è concomitante all’invasione dei liberatori francesi che vogliono emancipare la gente dalle bugie che la chiesa insegna per tenere sottomessi i popoli. Freschi di miracolo, gli Aretini non ci stanno. L’insorgenza prende inizio il 6 di maggio, nel mese dedica-to alla Madonna, e vede il popolo minuto imbracciare le armi per scacciare i miscredenti francesi illuministi. È una rivolta di popolo perché i borghesi, quelli che avevano acquistato a poco prezzo i beni espropriati alla chiesa, sono nel frattempo divenuti Giacobini rivoluzionari; costringendo così i proprietari residenti in città ma coi bei loro campi e poderi e fattorie al sole del contado, a farsi addi-rittura repubblicani. Assistiamo quindi ad una doppia fuga: scap-pano i francesi, che vengono inseguiti dal popolo armato alla bell’e meglio al grido di “Viva Maria”; scappano i lorenesi amministrato-ri, cacciati da quelli a cui avevano regalato i beni della chiesa. I popolani arriveranno sino a Figline Valdarno a cacciare i Francesi, dove dopo una intera giornata di scontri il bilancio sarà di un solo morto da parte francese; e poi sino a Firenze. Ma nel liberare Siena riscoprono l’amicizia con quei cattolici con cui avevano avuto problemi di confine e di proprietà di pievi sin dal tempo dei Longobardi. Grande fratellanza, aretini accolti come liberatori, se ne tornano a casa con un bell’oggetto di oreficeria per quella che tutti chiamano oramai la Madonna del Conforto. Con la morte dell’ultimo granduca mediceo Gian Gastone, nel 1737, terminò la dinastia dei Medici. A lui, indolente e trasandato, gli Aretini attribuirono tutta la causa dei loro mali: la situazione generale lasciata da lui ad Arezzo era gravissima: un tracollo finanziario, il disordine dei tribunali, il mancato impulso alle manifatture locali. Ebbe così inizio la dinastia Lorenese nella persona di Francesco I, che governò il Granducato tramite un consiglio di reggenza. I Lo-rena si rivelarono subito migliori dei Medici. Questo lo si vide specialmente col Granduca Pietro Leopoldo (1765-1790) che provvide alla realizzazione ad Arezzo di opere di bonifica, alla costruzione

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di vie di comunicazione e altro ancora. Nel 1790 a Leopoldo I successe il figlio Ferdinando III che come il padre contribuì alla rinascita di Arezzo che ancora oggi gli conserva un monumento. Posto di recente all’inizio della discesa di Piaggia del Murello, togato come un antico romano ma anche come un francese rivoluzionario, col bastone nero del comando sormontato da un minuscolo giglio in mano, forse per questo subisce continui atti vandalici. Nel 1799 ad Arezzo arrivò al governo il nobile Gonfaloniere Camillo Albergotti. In quello stesso periodo la Toscana veniva occupata dalle truppe napoleoniche che raggiunsero Arezzo il 6 aprile 1799. Arezzo fu occupata da pochi soldati francesi e cisalpini, sotto la guida del capitano Lauvergne; la città fu conquistata nonostante una forte resistenza dei suoi abitanti. Vennero allora istituite la Municipalità e la Guardia Nazionale. Il popolo si organizzò e insorse contro lo straniero: il 6 maggio gli aretini ripresero la città; Lauvergne fu costretto alla fuga. Ma l’anno dopo (19 ottobre 1800) le truppe napoleoniche riconquistarono Arezzo, abbandonandosi successivamente a violenze e saccheggi. Ci furono ben 40 morti in esecuzioni sommarie eseguite senza tribunale agli usci delle case. Gli abitanti scapparono quasi tutti in campagna, così rimasero solo un centinaio di persone che scelsero di asserragliarsi in casa a difendere le loro cose a prezzo della vita. Dal 1801 al 1807 Arezzo entra di forza nel napoleonico Regno di Etruria. Strano destino quello degli Etruschi, tirati per la giacchetta da tutte le parti. Per i Medici erano l’esempio dei monarchici che governano il popolo anche con la bellezza delle arti oltre che con la forza di uno solo, come Porsenna. Per i Francesi erano una lega di città-stato democratiche, libere ed uguali, riunite a livello regionale solo in occasione della difesa da un nemico esterno. In questo caso gli Austriaci ed il Romano Pontefice. Nel 1810 i Napoleonidi arrivano addirittura a privatizzare e vendere la Taverna Oscura, l’ospizio dei frati camaldolesi in via Vecchia dove 14 anni prima era avvenuto il miracolo della Madonna del Conforto. L’edificio sacro sarà riacquistato solo nel 1891 dalle suore domenicane di San-

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ta Maria Novella, sin dal 1300 residenti nel loro monastero che occupava i numeri civici da 251 a 259 di via Garibaldi, anche loro cacciate ed espropriate dai Francesi nel triste 1810, per far posto ad una caserma di soldataglia francese, che poi diventerà il Carcere di Arezzo. Nel bene e nel male lo spirito dei tempi aleggia anche su Arezzo. Le nazioni si accorgono di essere stati con una propria personalità e dirit-ti peculiari. Le città idem, lo stesso. Nasce quindi l’esigenza di rico-struire la memoria storica della città, di valorizzarne le tradizioni loca-li, il genio aretino per dirla con il titolo di un libro fresco di stampa. Con la Restaurazione, gli storici inizieranno ad isolare ciò che distingue il genio italiano da quello degli altri popoli europei. Ed anche le città rispolverano tradizioni e radici che l’illuminismo aveva preteso di tranciare in nome di un utopico affratellamento egualitaristico. Que-sta riscoperta dell’aretinità avviene però, come nel resto d’Italia e del mondo, occultando il contributo della cristianità considerata un corpo estraneo e reazionario al progressivo corso della storia. Ma ci fu anche del buono in questo studio del passato. Nel 1808 nasce la prima pinacoteca comunale. Il 6 maggio 1810 vede la luce la gloriosa Accademia Petrarca, oggi sita nella casa del Petrarca in via dell’Orto. Guidata dal professor Luigi Firpo e dal suo braccio destro Antonio Batinti, studioso di linguistica e toponomastica. Il 23 aprile 1810 si apre una nuova strada per le Romagne. La “due mari” è una vecchia vocazione aretina. Sconfitti i Francesi, Arezzo come tutte le altre città toscane, ricad-de sotto il potere dei Granduchi in seguito alle decisioni prese nel Congresso di Vienna del 1814. Così la Restaurazione ritornò al pote-re con Ferdinando III che regnò fino al 1824. A lui il merito di aver aperto la Porta Ferdinanda prolungando la via che la attraversava, in direzione della Val Tiberina, quindi diretta ad Ancona. Suo altro merito di non poco conto la sistemazione di Piazza Sant’Agostino abbellita del selciato in pietra a blocchi grandi, con la fontana, allar-gata, ed adibendola anche a mercatale agricolo. Al buon Ferdinando successe Leopoldo II, l’ultimo granduca, che regnò dal 1824 al 1859 secondo le direttive dello stesso Congresso e

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fu riconosciuto come sovrano illuminato, saggio e operoso. Questi fece di tutto affinché in Toscana fossero eseguite opere di grande importanza: furono portate a termine molte bonifiche, la sistemazione di ponti e strade, nonché la costruzione di una rete ferroviaria per adeguare la Toscana alle altre regioni europee più evolute. La città di Arezzo, in particolare, fu abbellita con la sistemazione di vecchi edifici, di strade, piazze, anche chiese (secondo i dettami della Santa Alleanza), nonché con la costruzione di nuovi quartieri. Da tutto ciò trasse un enorme impulso il commercio. I Granduchi Lorenesi provvidero a bonificare il territorio, con Vittorio Fossombroni, eliminando, o almeno riducendo, la piaga della malaria. Nel 1825 Leopoldo II, detto “Canapone” trasforma Arezzo in un vero e proprio capoluogo di provincia, col nome di Compartimento aretino. Nel 1830 inizia la costruzione del Teatro Petrarca, borghese e dispensatore di cultura a tutti, compresi i popolani relegati in piccionaia, nei posti economici. Nel fatidico 1848 c’è l’ingrandimento del mercato del bestiame, fuori le mura per motivi di igiene, vi si trattavano anche bovini di grosso taglio. Nel 1849 sarà in città addirittura l’Eroe dei due mondi. Del 1853 è il primo progetto per una ferrovia che unisse Firenze ed Arezzo. Dello stesso anno il bel progetto del nobile cat-tolico Vincenzo Funghini, ingegnere che aveva disegnato un bellissi-mo campanile per il Duomo che ne era ancora privo, esemplandolo sulle eleganti forme di quello coevo della Pieve di Santa Maria, già proto-duomo. Il disegno è ancora visibile alle spalle del ritratto romantico di Funghini. Nel 1855 viene ampliato il cimitero fuori le mura voluto dai Francesi sull’esempio di quelli etrusco-romani cioè pagani. Con grande disperazione e disappunto di Ugo Foscolo. La città cresce e cambia di nuovo cardo e decumano, nel senso che i nuovi padroni eleggono altre strade a tal fine senza per fortuna cancellare le soluzioni più antiche. Le vie più belle, ampie ed anche diritte vengono toccate poco. Via Madonna del Prato prosegue l’antica via Cesalpino e costituisce la nuova passeggiata serale alla moda. Via Garibaldi si abbellisce ancora come nuovo decumano.

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Anche stavolta non ortogonale al cardo. Solo con lo stato unitario italiano ed i suoi sventramenti proseguiti in pieno Novecento si avrà finalmente per Arezzo un cardo a novanta gradi all’intersezio-ne col decumano. Si tratta della linea nord-sud di via Guido Monaco, fortunatamente interrotta in Piazza San Francesco dove ha distrut-to buona parte del convento per fare spazio ad alberghi moderni che celano sotto le pareti bianche antichi affreschi nelle mura riuti-lizzate. E dell’asse est-ovest passante per via Francesco Petrarca, piazza Guido Monaco, via Francesco Crispi, proseguente in viale Giotto. Arezzo fu governata assai bene dai Lorena. Ma questo non li risparmiò dal fatto che l’epopea risorgimentale trovasse anche in questa terra non solo fervidi sostenitori della repubblica, ma anche altri pronti a menar le mani per i Savoia. Gli Aretini si resero conto di quello che stava accadendo nel resto d’Italia durante il Risorgimento e vollero dare il proprio contributo per esser solidali con tutti coloro che combattevano gli Austriaci: inviarono 66 militari (Aprile 1848) che si unirono ad altri due battaglioni provenienti dal napoletano e convogliati verso il nord. Dal Gennaio al Dicembre 1849 governava in Arezzo il Gonfaloniere Antonio Guadagnoli uomo saggio, onesto e attivo che di nascosto rifornirà Garibaldi e le sue truppe accampate fuori città, sopra il colle di Santa Maria delle Grazie, reduci dalla sfortunata Repubblica Romana. Dopo la fuga del granduca Leopoldo II, Firenze fu retta da un governo provvisorio presieduto da Francesco Guerrazzi. Il capovolgimento politico colse di sorpresa gli Aretini, che si affrettarono a riunire, su invito del Guadagnoli, in una adunata straordinaria del 12 Febbraio 1849, i componenti del Seggio Magistrale della Comunità. Questi decretarono all’unanimità un’adesione formale al Governo Provvisorio. Tutto questo animò il patriottismo degli Aretini che contribuirono a sostenere la causa nazionale offrendo volontariamente un’ingente somma di denaro per aiutare Venezia a liberarsi dagli Austriaci. Il Guerrazzi volle che a Firenze si ponesse mano ai lavori per il restauro di opere pubbliche e la sistemazione di quanto occorreva

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per i bisogni della cittadinanza, specialmente delle classi più povere. Arezzo non fu certo ultima nel recepire le necessità locali e si adoperò nella costruzione di un asilo infantile (27 Febbraio 1849). Nelle campagne aretine serpeggiava da tempo un malcontento dovuto a un complesso di cause, soprattutto economiche, e il dittatore Guerrazzi dovette intervenire ma inutilmente, perché il suo governo durò solo 15 giorni. Il Municipio di Firenze, dopo essersi associato a una Commissione provvisoria di governo e approfittando della malsicura situazione, il 12 Aprile 1849 assunse il potere. Frattanto il Municipio e la Commissione inviarono tre proclami agli altri comuni, in uno dei quali (il terzo), si affermava la sospensione dei poteri del Prefetto, dei Governatori e dei delegati di Provincia che venivano conferiti ai Municipi delle città. Arezzo non si associò subito alle decisioni di Firenze, ma si limitò in ordine alla terza disposizione ad assumere la direzione della cosa pubblica. Nella seduta che si tenne in Prefettura (ad Arezzo) il 14 aprile 1849 si valutò la questione dell’adesione al Municipio fiorentino e si stabilì di inviare a Firenze una rappresentanza per far conoscere quali erano le condizioni che poneva per una completa adesione. Intanto il Municipio di Arezzo sciolse la Guardia Nazionale ritenuta incapace di adempiere alle proprie funzioni e al suo posto creò la Guardia Civica (11 Maggio 1849), gli antenati dei vigili urbani. A questo punto il Municipio di Firenze dovette richiamare il Granduca Leopoldo II. Questi, che si era rifugiato a Napoli, trovò opportuno, su consiglio di Vienna, di non ritornare subito in Tosca-na, per paura che le truppe Piemontesi invitate dalla Commissione Provvisoria di governo la occupassero. Sciolse pertanto come primo provvedimento la suddetta Commissione e nominò al suo posto il conte Luigi Serristori, nell’attesa che tutta la Toscana venisse occu-pata dalle truppe austriache, cosa che avvenne in breve tempo. Il generale Winphen (29 maggio 1849) a capo delle truppe austriache transitò per Arezzo e la Municipalità aretina dovette sborsare la somma di 4000 Lire per il mantenimento delle truppe.

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I Garibaldini riuscirono comunque ad occupare i colli vicino ad Arezzo (colle di Santa Maria delle Grazie, 22 Luglio 1849) sperando che la città insorgesse, cosa che avvenne in minima parte, con una rivolta contro gli Austriaci che arrestarono 250 insorti. Gli Aretini, timorosi di eventuali saccheggi e violenze, erano terrorizzati dal-l’arrivo dei Garibaldini e si associarono agli Austriaci per difende-re la città. Garibaldi, deluso dal fallito tentativo e timoroso dell’ar-rivo di un grande contingente di truppe austriache, abbandonò l’assedio e raggiunse la pineta di Ravenna, dove muore Anita. A questo punto gli Aretini inviarono a Firenze una delegazione per ricevere Leopoldo II (24 luglio 1849). Tornato il Granduca e con lui gli Austriaci, fu abolito lo Statuto Albertino (6 Maggio 1852). Fu reintrodotta la pena di morte. Coloro che avevano proclamato la Repubblica e assistito il Guerrazzi furo-no arrestati. Gli Austriaci stazioneranno ad Arezzo sino al 1855. Dopo il ’49 si tornò a un clima di mitezza che però non convinse i Liberali. Le forze innovatrici sarebbero riapparse all’orizzonte, anche se in forma diversa e in un clima di attesa calma e indifferente specie da parte degli Aretini. In questo periodo non si verificarono avvenimenti notevoli ma solo fatti di ordinaria amministrazione, salvo la questione riguardante la ricerca del finanziamento per la creazione di una linea ferroviaria che potesse congiungere Arezzo con Firenze. Nel 1859 con la partenza del Granduca Leopoldo II si ha la nomi-na di un governo provvisorio. Detto governo venne offerto a Vittorio Emanuele II che però l’accettò solo come protettorato e a rappresentarlo fu chiamato il Conte Carlo Boncompagni. Durante la seconda Guerra d’Indipendenza gli Aretini parteciparono con la raccolta di fondi e con l’invio di volontari. I Deputati dell’Assemblea Toscana offrirono a Garibaldi, dopo il voltafaccia di Villafranca, una somma notevole per l’acquisto di un milione di fucili. Fu costituito un corpo armato di 45000 uomini sotto la guida del generale Fanti da cui dipendeva Garibaldi comandante delle milizie toscane. Nel 1859 il Gonfaloniere Carlo Dini invitò gli Aretini a partecipare all’acquisto di armi da donare per la difesa dell’indipenden-

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za. Nel 1860 si giunse alla dichiarazione di annessione al Regno d’Italia mediante il plebiscito. Anche la spedizione dei Mille suscitò l’entusiasmo della popolazione aretina che contribuì in modo rilevante all’impresa (furono inviati volontari e fu organizzata una raccolta di fondi). Garibaldi (25 Gennaio 1861) fu nominato cittadino onorario di Arezzo. (Nella deliberazione presa in Arezzo in data 9 giugno 1860 dal Comitato istituito per la raccolta dei fondi, si dà mandato all’Avvocato Angiolo Falciai di versare le somme raccolte all’incaricato Giuseppe Dolfi «in soccorso della guerra siciliana e dell’eroico Garibaldi»). La stessa Municipalità volle donare, unendosi in quest’occasione al Comune di Genova, la bella somma di 500 Lire all’eroe isolatosi a Caprera. Arezzo, come gli altri comuni, scelse i Savoia con il metodo rivoluzionario del Plebiscito, cioè decide il popolo facoltoso ed istruito. Cioè vota sì o no all’annessione al nuovo Regno solo il 2% della popolazione totale. Ecco come lo storico e sacerdote, Angelo Tafi, descrive il passaggio delle consegne dai Lorena ai Savoia: «Il 27 aprile 1859 Leopoldo II lasciò per sempre Firenze, il giorno dopo i messi del Governo Provvisorio deposero l’ultimo rappresentante del governo granducale in Arezzo, il prefetto Fineschi. Da allora Arezzo e tutta la Toscana entrarono virtualmente a far parte del regno del Piemonte. Il plebiscito dei giorni 11 e 12 marzo 1860 operò l’effettiva unione al regno di Vittorio Emanuele II che il suc-cessivo 16 aprile venne, come sovrano, a Firenze. E il 17 marzo 1861 fu proclamato a Torino il Regno d’Italia di cui per 6 anni (1864-1870) Firenze divenne capitale. L’euforia e l’entusiasmo degli aretini, almeno di quelli che ne furono informati, ricevette subito, però, una doccia fredda: tra il 1863-64 si tentò di sopprimere la provincia di Arezzo. Per fortuna l’insano progetto non venne attuato e quasi a mostrare la fatuità di coloro che quel progetto avevano ideato cominciò negli ultimi decenni dell’Ottocento un processo di crescita e di progresso della nostra città che è tuttora in corso. Esso ci è rivelato prima di tutto dall’aumento della popolazione.

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Ecco i dati che si riferiscono alla popolazione urbana (tra parentesi la popolazione complessiva del Comune): 1871: 11.154 (38.907); 1881: 11.816 (38.950); 1901: 13.308 (44.316); 1911: 15.186; 1921: 17.398 (51.862); 1931: 23.925 (56.976); 1936: 30.065 (60.284). I Lorena inventano il Comune moderno, anzi contemporaneo, coi suoi assessori borghesi periti in contabilità, in geomensura, in altre utili discipline nonché proprietari e quindi pagatori di tasse. 1772: con la “Riforma comunitativa” di Pietro Leopoldo, la filo imperiale Arezzo viene scelta come città-pilota del cambiamento (Siena verrà riformata solo nel 1786). Nasce così il Comune moderno, ente locale di base sottoposto allo Stato plurinazionale asburgico, poi uno degli 8mila dello Stato Italiano. Compaiono Gonfaloniere (sindaco), Magi-strato (giunta) e Consiglio. I cittadini sono adesso tutti uguali, tutti parimenti sottoposti alle leggi regie, tutti tassabili progressivamen-te. Solo con Crispi Presidente del Consiglio, nel 1888, arriverà il diritto di eleggere il Sindaco. Finisce così il “sistema patrizio” mediceo. Diminuisce il ruolo dei nobili nella gestione della comunità e questo viene visto come un positivo processo di democratizzazione ed un colpo al vecchio regime aristocratico. I Lorena lasciano agli Aretini l’ente pubblico Comune e la grande Provincia.

Arezzo sotto i Savoia Il Regno d’Italia si presenta così agli Aretini, sotto il segno del progresso e della modernità. Arriva la ferrovia, che impiega tantis-simi manovali. Sventrate le strette vie medievali per motivi igieni-ci. C’è la grande Esposizione Industriale, dove vengono presentate le

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prime macchine cingolate con motori a vapore ed a scoppio, che alleviano la fatica secolare dei braccianti, facendo il lavoro di trenta di loro. Arriva anche la corrente elettrica che in città abolisce il chiar di luna. L’uomo non ha più ragione di essere cattivo, abbrutito dal duro lavoro. Quindi nel nuovo manicomio lombrosiano si cerca di misurare i crani, conservati ancora oggi in archivio, per capire la causa scientifica della delinquenza. Sorgono le grandi banche di via Roma, che finanziano la nuovissima civiltà industriale. Grandi strutture pubbliche (caserme, scuole, musei, ospedali) nascono negli edifici sequestrati agli ordini religiosi, portando a termine quanto iniziato dai Lorena in odor di Rivoluzione Francese, proseguito da Napoleone che però porta le opere d’arte al Louvre. Gli ordini religiosi che hanno dato vita alla città sono adesso considerati un corpo estraneo da eliminare. È la scienza positivista il nuovo dio dell’epoca. Al 1789 risale una pianta della città conservata nell’Archivio di Mons. Raffaello Funghini: è su scala e ci dà l’ubicazione precisa dei moltissimi monasteri, conventi, ospedali e compagnie che esistevano in Arezzo e che furono in grandissima parte soppressi da Leopoldo I nel 1785, da Napoleone nel 1810, dal governo di Vittorio Emanuele Il nel 1866. I Savoia, da secoli abilissimi nel cambiar casacca per ottener vantaggi, prima si appoggiano ai liberali, prima di destra, poi di sinistra con Giolitti, fino alla prima guerra mondiale. Ottengono così il completamento dell’unità nazionale (Trento, Trieste, Istria). Poi puntano tutto sul Fascismo, da cui ottengono l’impero africano (Abissinia, Eritrea, Etiopia, Somalia, conferma della Libia). Ma anche l’inimicizia della regina d’Inghilterra che li farà cadere dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Arezzo sotto la monarchia costituzionale sabauda conobbe momenti esaltanti e drammatici. La scienza e la tecnica portarono ad un baby-boom soprattutto nei primi anni del ’900, durante l’età giolittiana. Nuovi compiti, come l’istruzione elementare obbligatoria ed a spese del Comune dal 1876; nuove scuole, nuove tasse. Ma ci fu anche

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un sindaco assassinato, il triste fenomeno dell’emigrazione fin nel lontano Canada, il dramma del primo bombardamento aereo subito dalla città. I Savoia seppero conquistarsi il favore popolare permettendo al Comune di espandersi nella più vasta compagine dello stato nazionale italiano, alla pari con gli altri 8mila. Se soggezione a Firenze ci fu, essa avvenne soltanto durante il periodo di capitale d’Italia, dal 1865 al 1871. E portò anche vantaggi. La ferrovia per Roma, per esempio. Il cantiere della ferrovia dette lavoro non soltanto ai manovali locali per la messa in posa, ma anche ai lavoratori del legno per le traversine ed ai metallurgici per i binari. Fu il più grande cantiere mai visto sin dai tempi della costruzione del duomo. I Savoia poi si arruffianarono gli aretini finanziando il cantiere per dare una facciata al duomo, come avevano già fatto nel 1887 con quello non finito del capoluogo. Ma non furono tutte rose e fiori. Gli anni dell’800 dopo l’unità videro la nuova classe dirigente liberale impoverire il popolo con una esosa tassazione diretta ed indiretta. Sono gli anni dei grandi sventramenti alla Haussmann in Parigi, via i vicoli medievali angusti e difficili da espugnare in caso di rivolta, con le strade strette facilmente asserragliabili con un po’ di mobilio e qualche materasso, tutte curve ed in discesa per cui ad un assalto di corsa dall’alto, col “nemico” sempre dietro l’angolo che ti appare all’ultimo momento, superiore di numero e per rabbia nel corpo a corpo, c’era anche da avere la peggio, essendo impossibile schierare i cannoni. Grossi cantieri, da città moderna; ma anche grossi danni alla città medievale, come a Firenze. In nome di un medioevo da cartolina, come quello romantico di Viollet-le-Duc tutto gotico ad archi acuti, si distruggeva quello vero. Nasce via Guido Monaco che avrebbe dovuto tagliare a metà l’intera città dalla stazione al Duomo, per farci manovrare la cavalleria contro le rivolte per troppe tasse; e che, per fortuna, si fermò in Piazza San Francesco. Progetto che stavolta anticipa Firenze, che avrà il collegamento diretto Stazione centrale-Duomo solo negli anni ’30, con Michelucci, che ad Arezzo negli stessi anni costruirà

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il Palazzo del Governo. E poi il decumano ottocentesco di via Crispi, che valorizza anche il Corso, sede delle principali banche ed istituzioni borghesi di allora, strada abbastanza larga e piana per attuare una eventuale repressione alla Bava Beccaris in Milano. Ancora oggi queste due strade mostrano i migliori negozi della città ed allora furono le prime strade moderne con illuminazione pubblica ed appartamenti ed alberghi con acqua corrente fredda e calda, luce e gas. Anche a Firenze era successo lo stesso qualche anno prima, mentre ad Arezzo lo sventramento della città medievale e la riproposta di un medioevo idealizzato e “ripulito” nel suo ventre molle proseguirà per tutti gli anni Trenta del Novecento. A Firenze la distruzione della città medievale era iniziata durante il periodo 1865-1871, per poi assestare il colpo di grazia col piano regolatore del 1890. Tanto che un mio amico storico dell’arte, il Corsi, parla addirittura di distruzione di Firenze voluta dai massoni per creare il centro direzionale ottocentesco facendo fuori il mercato vecchio delle erbe, il ghetto ebraico, chiese, case e vicoli alle spalle dell’arco di piazza della repubblica. Ad Arezzo succede, vedremo, lo stesso, con qualche anno di ritardo. Gli antichi cittadini poveri vengono cacciati dalla città murata, espropriati alla bell’e meglio e costretti a ritirarsi in anonime periferie funzionaliste dove la bellezza architettonica sembra bandita in nome di un utile e democratico uso degli spazi. Strade magari anche ortogonali, ma soprattutto dormitori all’inizio senza nemmeno una piazza. Con Giolitti la società si democraticizza ed in occasione della guerra di Libia nascono i primi partiti politici moderni; Arezzo dà il suo contributo lanciando un esponente di importanza nazionale degli azzurri, il colore di casa Savoia, un fondatore del neonato partito nazionalista: Pier Lodovico Occhini. Nasce così la destra moderna, popolare, che non ha niente a che vedere con la destra storica liberale che ha governato nei primi anni dell’unità in modo elitario e censitario, provocando anche in Arezzo alcuni casi di emigrazione a fine secolo.

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Poi la prima guerra mondiale voluta dal colpo di stato della massoneria che firma a Londra un patto segreto per far entrare l’Italia in guerra nonostante l’opposizione di socialisti e cattolici. Nel primo dopoguerra, una ottima classe dirigente locale sarà fatta fuori con le maniere forti dai fascisti. Tra i socialisti: Donato Badii, Ferruccio Bernardini, Luigi Bosi, Costante Citernesi, Giovanni Gatteschi, Luigi Mascagni, Arnaldo Pieraccini (medico che compirà una importante riesumazione dei Medici, alla ricerca di vecchi avvelenamenti). Tra i popolari: Luigi Brizzi, Giovanni Guillichini, Alberto Ferrini Baldini, Giacomo Matteini, Federico Nomi, Vincenzo Schillirò, Quinzio Sisi. Tra i liberali: Mario Carabini, Carlo Nenci, Giuseppe Serafini. Tra i demo sociali: Guido Cappelletti e Donato Peruzzi. Nel dopoguerra anche ad Arezzo il partito nazionale fascista prende il potere con l’uso della forza bruta appresa in trincea, non-ostante i socialisti si fossero distinti come soldati scelti in prima e seconda linea. Ma certe volte è l’aiuto economico dei magnati che fa la differenza. I cattolici popolari di don Sturzo provano a fare da pacieri ma il clima è troppo incandescente. I vecchi liberali pensano di aizzare gli opposti estremismi fra di loro, per poterli dominare, indeboliti, con i carabinieri regi. Inconsapevoli di avere aperto un vaso di Pandora che li annienterà come forza politica autonoma. Vediamo insieme, come al solito, alcune eloquenti date e dati. 1864: nasce la linea ferroviaria Arezzo-Firenze e perciò il mercato vaccino si sposta a Porta Trento e Trieste. 1867: primo, tremendo sventramento, coevo a Firenze. La nuova e diritta e larga via Guido Monaco abbatte di tutto, compresa la chiesa di San Rocco e parte del convento di San Francesco. Come per il Carducci dell’Inno a Satana, il treno appare segno di progresso irrefrenabile e si cerca di creare un viale che lo congiunga al Duomo, come a Firenze con via de’ Cerretani, quasi a mo’ di sfida. I negozi moderni più belli ma anche bagni pubblici, esercizi commerciali, residenze borghesi affollano il nuovo viale ieri come oggi. 1868: copertura del fiume Castro. 1883: cade in un attentato Pietro Gori, ultimo gonfaloniere e primo sindaco della città. Era stato presidente della Società Democratica

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Progressista, nonché presidente della Società Operaia del Mutuo Soccorso. 1893. Con tre anni di ritardo su Firenze, il nuovo piano regolatore porta con l’illuminazione pubblica anche il primo manicomio della città. Indetto anche il concorso per dare una facciata al Duomo. Dal 1900 al 1914 si lavora ed il 2 agosto Ferdinando Umberto di Savoia inaugura la nuova facciata in rappresentanza del re. In pieno Novecento si compie una rilettura medievalista che “abbellisce” i palazzi in migliori condizioni, evitandone così l’abbattimento. Ne sono autori gli ingegneri Umberto Tavanti e Giuseppe Castellucci. Sempre loro dal 1914 al 1924 compiono il discusso restauro di San Domenico che porta al martellamento di tutte le superfetazioni secentesche barocche per riscoprire l’originaria forza della fede medievale. Nel 1925 nasce il nuovo quartiere di Saione iniziando dalla chiesa delle Stimmate di San Francesco dal dimesso neogotico che non riesce a nascondere la sua giovinezza. Il quartiere ci cresce intorno come nel medioevo, con palazzine dalla facciata in pietra. 1906: con la Sacfem, ribattezzata “il fabbricone”, nasce l’industria aretina che diffonde a livello di massa i prodotti artigianali locali. 1910. la città inizia ad allargarsi fuori le mura. La grande quantità di argilla, un tempo usata per i famosi vasi, adesso genera la fortuna della fornace dei fratelli Bisaccioni, in viale Mecenate, che fornisce mattoni da costruzione. 1910: l’aretino Pier Lodovico Occhini, futuro podestà e senatore, è tra i fondatori, al congresso di Firenze, del Partito Nazionalista. Nel 1906 aveva inventato la Brigata aretina degli amici dei Musei. Farà costruire molto in città. 1911. Nel primo boom economico della sua storia, lo stato italiano acquista la Casa del Vasari per farne un museo di prestigio. 1914: Quella dei Savoia è una schiatta guerriera. Ma durante i tafferugli in città fra neutralisti ed interventisti il Prefetto Ferrari sa già che la stragrande maggioranza della popolazione è contraria alla guerra e lo fa sapere a Roma. 1915-1918. Finisce la Belle Epoque, inizia la Prima Guerra Mondiale. Nel 1915 le donne aretine rimaste sole a casa organizzano il primo sciopero pacifista davanti alla prefettura,

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raccolgono 300 firme contro la guerra, chiedono il ritorno dei mariti a casa, vogliono pane e carbone che iniziano a mancare. Si tratta di guerra di trincea, più sanguinosa della Seconda (1940-1945) di movimento, produce più di 800 caduti, uno ogni diciotto abitanti della città. Ogni chiesa parrocchiale ricorda in una lapide i caduti del rione. Il Fabbricone si converte all’industria bellica producendo aeroplani, compreso quello personalizzato di D’Annunzio in volo su Vienna. Tornano le prime bare dei caduti al fronte, via treno. Dei 600mila caduti d’Italia, quasi 8mila provengono dalla provincia di Arezzo: eroi di 18-28 anni (classi 1887-1896) gettati in un conflitto che si sarebbe potuto evitare se solo Garibaldi non fosse stato fermato più di 40 anni prima nella sua marcia verso Vienna, Trento e Trieste, se i neoguelfi fossero arrivati dal Presidente Wilson a capo degli stati regionali italiani nella pace di Versailles… Dalle guerre emergono anche momenti di solidarietà. Arezzo ospita generosamente i profughi delle zone devastate dal conflitto, prima quelli di Gradisca d’Isonzo e di Monfalcone; poi, dopo Capo-retto, quelli di Sappada (Belluno) si portano dietro anche i libroni dell’anagrafe, ospiti soprattutto nelle tenute dei nobili Subiano in San Fabiano. Carlo Beni allestisce numerosi posti-letto in zona Fonte Veneziana. Vengono requisiti alla bisogna tutti gli edifici pub-blici ed ecclesiastici possibili, compresi il Convitto Nazionale con la sua villa di Agazzi; ed il Seminario. Diventano di volta in volta caserma, ospedale, abitazioni. Il sindaco-matematico Lelli difende il vescovo Volpi dall’accusa di disfattismo, crea un Comitato civico di protezione civile che invia pacchi al fronte, sostiene militari e fami-glie, organizza lotterie e serate di beneficenza per la raccolta fondi, mobilita i parroci nella ricerca di dispersi, feriti, prigionieri. Suor Maria Cartolari, vincenziana degli istituti Thevenin ed Aliotti, alle-stisce un nido d’infanzia che raccoglie le piccole orfane di guerra che poi verranno chiamate “nidine”. 1919: la Spagnola, una flogosi respiratoria, fa più morti della guer-ra. Il contagio devasta soprattutto Rigutino e Staggiano dove anche 40 decessi al giorno impediscono di seppellire subito tutti i morti.

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1922: la prima “squadraccia del fascio di Arezzo” viene guidata da Alessandro Del Vita. 1923: Fiumicello Fiumicelli è il primo sindaco fascista. 1925. La provincia creata dai Lorena ha adesso un nuovo palazzo in stile retorico neoclassico e prefettizio, con la sala dei grandi aretini affrescata da Adolfo De Carolis che disegna anche Allegorie del lavoro, una delle principali virtù aretine. 1926: nasce la Unoaerre (che significa prima industria, industria numero uno del distretto industriale aretino). La fondano Gori & Zucchi, un aretino ed un senese. 1925: in stile neoclassico ottocente-sco sorge il Palazzo delle Poste e Telegrafi in via Guido Monaco all’uo-po allargata. Anche questo simbolo di progresso occupa un posto centrale negli sventramenti, come a Firenze in via Pellicceria. 1928: al Prato, sopra l’antico Foro, si inaugura il monumento a Francesco Petrarca figlio di un fuoruscito fiorentino, Ser Petracco leguleio. 1931: viene ripristinata la Giostra del Saracino. La città viene divisa in quattro quartieri, cioè in quattro parti, in quattro quarti; che fanno capo alle quattro porte di accesso della cinta di mura medicea: Porta del Foro, porta Sant’Andrea, Porta Crucifera, Porta Santo Spirito. Il Saracino indica che degli Arabi musulmani è bene diffidare sin dai tempi dei martiri di Otranto, dell’assedio di Vienna e della battaglia di Lepanto. Viene disegnato anche l’attuale logo del Comune cioè il Gonfalone comunale, col cavallo nero rampante a destra, aureolato dalla città turrita, dentro lo scudo triangolare. 1931: l’Accademia Petrarca ottiene una nuova, prestigiosa sede rinascimentale in casa Petrarca, via dell’Orto, che occupa ancora oggi. Probabilmente della casa vera del Petrarca rimane solo un muro nell’edificio di fronte più verso il comune; ma anche a Firenze la casa di Dante non era proprio quella. La sede convegnistica dell’Accademia Petrarca è comunque spaziosa, ospita anche la biblioteca del Redi, adibibile a mostre, con una sala convegni in una location da favola, l’antica città murata, davanti al pozzo di Tofano, quello della novella del Boccaccio. 1933: arriva anche il manicomio moderno, come San Salvi a Firenze, che sostituisce l’angusta sede medievale. 1934: la donazio-

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ne del nobile Vincenzo Funghini arricchisce di pezzi pregiati sia il museo archeologico statale che il museo di arte medievale e moder-na, già museo comunale. 1935: nasce il suggestivo viale del re, oggi viale Buozzi, da percorrersi in carrozza aperta, ombreggiato, sotto le antiche mura della fortezza, ricorda il viale dei colli di Firenze che conduce al Piazzale. 1935. Aperta piazza Umberto I, oggi piazza del Popolo. 1937: fondato il brefotrofio. 1937: nasce il Palazzo del Governo, disegnato da Giovanni Michelucci, il volto più rinascimentale della retorica del tempo. Riprende i moduli delle arcate del convento degli olivetani sopra l’anfiteatro ed è una dimostrazione di forza elegante del nuovo stato totalitario. 12 novembre 1943: bombardamento alleato su Arezzo. Distrutta completamente la zona intorno alla stazione, danneggiate le chiese di Santa Croce, San Bernardo e San Pier Piccolo, colpiti edifici anche di pregio come il Palazzo del Capitano, Palazzo Pretorio, palazzo Altucci, palazzo della Badia. Distrutte sei stanze del museo comu-nale. 1944. Il fronte di guerra si avvicina, lo stato si squaglia, come a Firenze il vescovo ed i suoi parroci sono l’unica autorità presente in città. 16 luglio 1944: gli Inglesi entrano in Arezzo con sindaco e giunta già eletti il 15 luglio dal Comitato di Liberazione Nazionale. Il sindaco Antonio Curina è del Partito d’Azione. I dieci della giunta sono due per ciascuno dei cinque partiti: liberale, d’azione, socialista, democratico cristiano e comunista. Architettonicamente, il fascismo lascia una serie di palazzi in marmo e travertino non spregevoli, anche funzionali, ad esaltazione dello stato nazionale centrale, che la Repubblica manterrà di pro-prietà statale, riutilizzandoli secondo le proprie finalità: Inail in piazza Guido Monaco, Inpdap ed Asl in via Guadagnoli, Inps in angolo viale Giotto, il Catasto in via Porta buia. La stazione centrale in mattoncini rossi e balza in travertino, come la sede provinciale del Ministero del Tesoro all’inizio di via Petrarca: permettono gros-si risparmi sulla manutenzione delle facciate. Il sottopasso ferrovia-rio che porta al parcheggio Baldaccio e davanti la scuola Iti e la Polizia di Stato accanto, proseguono il decumano ad est, fuori le

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mura, costituendo un moderno asse attrezzato. Ma anche palazzi eleganti coi primi balconi aggettanti e gli angoli tondi, in via Crispi. Tra le opere pubbliche memorabili, il ponte di Pratantico che scavalca la Chiana potenziando via Fiorentina; e la risistemazione del letto della Chiana. Del periodo fascista nessuno parla perché non è “politically correct”; perché viene fuori che Arezzo fu città “fascistissima” come Firenze, come buona parte del resto d’Italia. L’origine del fascismo ad Arezzo ebbe luogo, come si legge in una relazione curata dal-l’autorità di pubblica sicurezza, nel dicembre 1920. Da quel mo-mento in poi nella città e nei comuni limitrofi fu tutto un susseguirsi di fatti anche molto gravi tra fascisti, socialisti, anarchici, radicali, la destra conservatrice e i reduci di guerra (1918-19). Era dal tempo di guelfi e ghibellini che non ci si scontrava così sanguinosamente. La guerra civile ebbe un ritorno di fiamma nel biennio ’43-’45. I cattoli-ci cercheranno di far da pacieri, con modesti risultati. L’ala estremista del partito fascista era rappresentata dal Frilli, mentre l’ala moderata da Dario Lupi. Il dissidio tra i due capifazione scoppiò in occasione della mancata inclusione nelle liste elettorali del 1922 di un candidato schierato con l’onorevole Lupi. E culminò nel febbraio 1923 con le dimissioni dal partito di Alfredo Frilli che fu esautorato da tutte le cariche. Le sue dimissioni, apparendo però strumentali, furono ritirate, e venne aperta un’inchiesta affidata a Farinacci. I risultati furono sfavorevoli al Frilli. Il segretario del Pnf (Partito nazionale fascista), Sassanelli, allora formalmente lo esautorò, e nominò alto commissario, direttore della federazione aretina, Pietro Bolzon. Gli anni che vanno dal 1929 (Concordato con la chiesa) al 1937 (vittoria nella guerra d’Etiopia) segnarono il definitivo trionfo del fascismo ad Arezzo, in sintonia con quelli che il professor Renzo De Felice avrebbe definito «gli anni del consenso», interrotti solo dalle leggi razziali contro gli Ebrei del 1938. All’epoca della guerra in Etiopia il consenso degli Aretini arrivò anche da parte di quei gruppi che avevano un certo risentimento

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contro il fascismo. La 96esima legione Francesco Petrarca composta da “camicie nere” fu accompagnata e salutata dal Podestà Luigi Occhi-ni con numerosi auguri per il favorevole esito dell’impresa in Africa orientale. La costituzione dell’Impero incontrò il favore dei combat-tenti, dei reduci e registrò anche un aumento dei consensi al partito. La seconda guerra mondiale arrivò per l’Italia con un anno di ritardo. Fin dall’inizio della guerra (1940) il malcontento si era diffuso in tutti gli strati sociali e ciò era dovuto al razionamento dei viveri, alla partenza di numerosi battaglioni per il fronte e al ritorno dei primi feriti e morti. Nel 1942 la direzione del partito in città passò dal federale Romualdi a Bruno Rao Torres senza che ci fosse alcun cambiamento nella gestione del potere. All’opposto la popolazione, di fronte alle sconfitte subite dall’esercito su ogni fronte, cominciò a non creder più ai millantati successi, rimpinguando invece le fila degli antifascisti. Nel 1943 ci furono i primi scioperi da parte degli operai, ai quali si associarono anche molti studenti e numerosi cittadini di ogni classe sociale. Il 25 luglio 1943 crollò il movimento Fascista con grande gioia della popolazione aretina, che vedeva in quest’evento la fine della guerra e delle sofferenze. Invece il peggio doveva ancora venire. Dopo l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) i Tedeschi, sentendosi traditi, invasero Arezzo e cominciarono a rastrellare i lavoratori e a internarli nei campi di lavoro in Germania. Nel frattempo ad Arezzo il passaggio dal vecchio fascismo al nuovo (la Rsi cioè Repubblica Sociale italiana) avvenne senza traumi. Al posto del federale Bruno Rao Torres, diventato prefetto e capo della provincia si sostituì Bruno Leoni. Intanto si andavano sempre più organizzando le brigate partigiane specie nell’alta Val Tiberina e sul Pratomagno, guidate dal comunista Aligi Barducci, il mitico “Potente”, fiorentino; e dall’aretino Pio Borri che occuperà il palaz-zo comunale per conto del CLN (Comitato di liberazione nazionale di Roma, a guida Bonomi), prima dell’ingresso in città dei carrar-mati inglesi e delle truppe del Commonwealth guidate da Indiani

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col turbante, a cavallo. Altri comandanti partigiani aretini: Siro Rossetti, Aldo Verdelli, Alberto Droandi. Nel 1944 aumentarono a dismisura le ritorsioni dei Tedeschi verso i partigiani aretini e la popolazione, con grave disagio e spargimento di sangue dall’una e dall’altra parte. Oramai eravamo stati derubricati da alleati a popolazione ostile come gli slavi dell’est europa, quindi massacrabili nella misura di 10 contro ogni soldato tedesco ucciso. Gli Alleati in avanzata trovarono i corpi insepolti di civili barbaramente uccisi. Mulinaccio, San Polo, Civitella… Troppi morti innocenti, troppi tedeschi dati in pasto ai maiali o gettati nei pozzi, provocando così la rappresaglia. L’esercito in ritirata oramai si stava imbarbarendo in stupri, furti, violenze di ogni tipo. Nemmeno rifugiarsi in chiesa dava garanzia di aver salva la vita. D’altra parte i bombardamenti alleati si facevano sempre più pesanti: cominciati la sera del 12 novembre 1943 (particolarmente gravi furono quelli del 2 dicembre 1943 e del 15 gennaio 1944) avevano distrutto o danneggiato chiese (S. Croce, S. Bernardo, S. Pier Piccolo), edifici d’interesse artistico notevole (Palazzo del Capitano, Palazzo Pretorio, Palazzo Altucci, l’ex monastero degli Olivetani a S. Bernardo, il Palazzo di Badia...) due dei quali ospitavano il Museo Archeologico e quello Medioevale con la Pinacoteca; edifici pubblici (Palazzo del Governo, del Comune, del Genio Civile, della Questura...), scuole (Istituto Magistrale...), l’Ospedale Neuropsichiatrico, la Cantina sperimentale, il Laboratorio d’Igiene, e, quasi al completo, tutti gli stabilimenti industriali. Nemmeno il Cimitero venne risparmiato. Ma era la gente a far pena, come si legge nei diari del tempo. Dopo il bombardamento, alcuni, inebetiti, stavano fermi, sguardi fissi nel vuoto, con le braccia cadute sui fianchi; altri correvano come invasati scappando verso la campagna. Altri ancora scavava-no con le mani e le unghie strappate, alla ricerca dei loro parenti sotto le macerie. 1943: i partigiani attaccano l’aeroporto tra Pescaiola e Agazzi col capo brigata Aldo Verdelli, che riesce a rubare anche armi pesanti. Gli

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Alleati lo bombardarono a volo radente, prendendo di sorpresa gli adirati Tedeschi. La leggenda vuole che nei bunker sotterranei, oggi sotto gli hangar della Scuola di Paracadutismo tenuta da Ilario De Marchi, si aggirino le anime inquiete dei militi ivi rimasti sepolti assieme ad un discreto arsenale che, dissepolto, potrebbe allestire un interessante museo della seconda guerra mondiale. L’aeroporto oggi appartiene al Demanio di Stato. I tedeschi ritirandosi avevano distrutto tutti i ponti, il materiale rotabile ferroviario, le centrali elettriche e del gas. L’esercito alleato trovò la campagna aretina deserta di contadini (in agosto il grano non era ancora mietuto!) e la città priva di gran numero degli abitan-ti. L’unica autorità rimasta al suo posto era l’energico vescovo quasi ottantenne Monsignor Emanuele Mignone. Nei sotterranei del suo palazzo avevano trovato rifugio lo scrittore fiorentino convertito adulto Giovanni Papini ed il matematico aretino Francesco Severi, il più grande algebrista del Novecento. Il vescovo era di nuovo ritornato ad essere il “defensor civitatis” (l’ultimo difensore della città, l’unico che non abbandona la nave), come era già avvenuto durante le invasioni barbariche: la più funesta devastazione subìta assieme alla guerra greco-gotica ed alla liberazione angloamericana. Bombe non solo sulla stazione (dove fu distrutta la copertura a tunnel come a Milano), ma anche sul Corso, sulla casa-museo Ivan Bruschi, su Colcitrone, dove non c’erano obiettivi militari. La città non era difesa dalla contraerea. Gli attacchi notturni erano illuminati dai bengala. La paura aumentava sempre di più e costrinse gli abitanti a fug-gire dalla città (alla fine di aprile 1944 in città si contavano appena 100 abitanti, come durante l’occupazione francese dei primi dell’800). Il Bando di Mussolini che prometteva un ultimo appello di amnistia verso i Partigiani che si fossero consegnati spontaneamente alle autorità, non ebbe effetto. I Partigiani invece accesero dei fuochi su tutto l’Appennino toscano a significare che la resistenza continuava. Il 15 luglio 1944 Arezzo fu liberata dalle truppe alleate ma le princi-pali autorità fasciste, il Commissario federale Leoni, il capo della

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Provincia Melchiorri, l’ex deputato ed ex federale Bonaccini, si erano allontanati dalla città per seguire i Tedeschi. Questi, insieme ad alcu-ni Aretini fuggiaschi, si erano rifugiati a Besozzo (Varese) e il primo gennaio 1944 costituivano la “Compagnia Arezzo” con 90 uomini. A questo piccolo gruppo di estremisti, da Besozzo, l’ultimo federale Bruno Leoni chiedeva un’ennesima mobilitazione collettiva per l’arruolamento dei 250 uomini necessari per la costituzione di una brigata nera, intitolata a Don Emilio Spinelli. Educati al culto della patria romana pagana, sognavano un ritorno trionfale da vincitori in Arezzo che non avverrà mai. Gli Inglesi, prima di entrare in città coi carrarmati, lasciano che le opposte fazioni regolino i conti fra di loro. Ciononostante, per la liberazione di Arezzo gli Alleati dovranno sacrificare ben 1262 soldati, molti del Commonwelth cioè delle loro colonie australiane e indiane, che riposano nel cimitero di guerra di Indicatore, tante croci bianche sul manto erboso verde. Furono visti per la prima volta gli indiani sikh, a cavallo e col turbante, abili scovatori di terra fresca smossa per nascondervi gli ori. Comandavano gruppi di bambini a cui ordinavano anche di aprire i pozzi neri, alla ricerca dei tesoretti familiari. Sarebbero tornati 60 anni dopo come pulimentatori che lavorano 18 ore al giorno, dormendo sul posto di lavoro. Quando le truppe alleate entrarono in città, le condizioni di Arezzo erano davvero tragiche. Mancava l’acqua, mancava la luce, dappertutto macerie. I bombardamenti anglo-americani avevano distrutto o gravemente lesionato la metà delle abitazioni; tenuto conto di questo e delle molte requisizioni operate, circa 10.000 aretini rimasero senza tetto. Si stava meglio nella piana, anche se il mercato nero non permetteva di fare grossi acquisti. Con gli Americani arriva la cioccolata, ma anche nuovi animali da cortile come i porcellini d’India. Finita la guerra si scopre che, solo nel biennio 1943-45, 855 persone mancano all’appello. Sono quasi lo stesso numero dei soldati morti durante la prima guerra mondiale. Ma le moderne guerre di movimento fanno più vittime fra i civili che fra i militari, come sarà evidente quando gli Americani svilupperanno la tecnica dei bom-

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bardamenti a tappeto in Corea e Vietnam, soprattutto sulla giungla. Le vittime aretine sono: 145 partigiani o volontari uccisi in combatti-mento coi tedeschi o da questi fucilati o impiccati; 20 militari o civi-li deportati in Germania e morti in campo di concentramento; 120 civili fucilati o impiccati dai tedeschi o dai fascisti repubblichini; 4 civili uccisi dalle truppe alleate; 205 uccisi dai bombardamenti aerei e 154 dalle artiglierie degli eserciti combattenti, 98 deceduti per scoppio di mine e 43 per esplosione di altri ordigni, 12 uccisi da automezzi tedeschi e 36 da automezzi degli alleati e infine 28 civili deceduti per cause varie.

I Savoia lasciano agli Aretini la grande ferrovia, l’aeroporto, i viali ortogonali in centro, segni di progresso e di modernità.

Arezzo nella prima Repubblica Dopo la Liberazione, i governi che si succedettero si adoperarono per la ricostruzione di quanto era stato distrutto o demolito. Le elezioni del 10 marzo 1946 dettero questi risultati: Psi: 14 seggi, Pci: 12 seggi, Dc: 8 seggi, Repubblicani e Partito d’Azione: 15 seggi, Demolaburisti, Liberali e Qualunquisti: 5 seggi. Seguì nel 1946 il Referendum per la scelta tra la Monarchia e la Repubblica. Vinse quest’ultima con un largo margine di consensi. Dopo il ‘50 grande fu la ripresa della città in ogni campo. La Ricostruzione è così imponente, che ricorda lo sviluppo della città nel basso medioevo, quando finiscono le invasioni barbariche, nasce il comune manifatturiero, la città esce dalle mura. Solo che adesso è più veloce, grazie ai progressi della scienza e soprattutto della tecnica. Quando il 2 giugno 1946 gli aretini vennero chiamati alle urne

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per il primo referendum, essi rifiutarono la monarchia votando per la Repubblica con il 65,4%. Caratteristica importantissima della vita del Comune di Arezzo nel dopoguerra è stata il notevole, incessante aumento della popolazione della città e del Comune; mentre quella della provincia è calata per lo spopolamento della campagna, specialmente della montagna. Nel 1936 la popolazione della città assommava a 30.065 abitanti e quella del Comune a 60.284. Da allora in poi i dati sono i seguenti (tra parentesi quelli del Comune): 1946: (62.935); 1951: 34.302 (66.511); 1961: 46.868 (74.992); 1971: 59.686 (87.330); 1978, aprile (91.760); cen-simento nazionale 2011: 100.132. Il boom edilizio è stato più grande ancora di quello dell’età giolittiana. Per farsene un’idea basta confrontare una pianta della città degli anni Sessanta con la pianta di Arezzo di Daniele Manzini eseguita nel 1830. Le statistiche ci dicono che nel 1951 le abitazioni del Comune di Arezzo erano 14.582 con 57.330 stanze, mentre nel 1971 erano salite a 25.801. Nel 1951 sorsero in città 112 appartamenti per un totale di 431 stanze; nel 1952 157 appartamenti e 630 stanze; nel 1953, 362 e 1.510; nel 1954, 534 e 2.176; nel 1955, 718 e 2.937; nel 1956, 755 e 3.143. La città crebbe spontaneamente per dare risposta all’”emergenza sfollati”. Lo stato ancora mancava; e con lui non c’era nemmeno un “piano regolatore”. Mandato nel dimenticatoio dalle preoccupazio-ni della guerra quello approntato nel 1936, posposto al piano di ricostruzione nel 1946; non approvato quello del 1953; finalmente divenne operante nel 1965 quello approntato nel 1962. Il principale autore del Piano, il professor Luigi Piccinato, nel presentarlo ebbe a dire che in fondo Arezzo fino allora non aveva mai avuto «un organismo moderno, ha avuto invece attraverso gli svi-luppi di questi ultimi due secoli, degli ampliamenti che hanno lasciato l’organismo pressappoco quello di una volta. Le emergenze che sorgono adesso sono dovute ai tempi nuovi: la grande circola-zione automobilistica, la necessità di riordinare le grandi comuni-

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cazioni, raccordarle, rapportarle a bisogni più vasti che non siano quelli di Arezzo stessa». Piccinato nota che da quando si è cominciata a sviluppare oltre la cinta muraria, specialmente dal 1946 in poi, «Arezzo si è sviluppa-ta ciecamente con dei settori impostati tutti sull’andamento delle grandi arterie stradali che uscivano dalla città» verso il Valdarno, il Casentino, la Valdichiana e la Valtiberina: tutti quartieri satellite e dormitorio, senza nemmeno una piazza, il cui valore consiste sol-tanto di essere sulla strada per Arezzo, vicini alla città. Poi Piccinato dà un consiglio al Comune: «amministrare è la parte più difficile. Un buonissimo piano ed una pessima amministrazione è molto peggio di un cattivo piano e un’ottima amministrazione». Ci si preoccupi di far crescere armoniosamente la città ma ci si preoccupi anche di conservare con ogni attenzione quanto rimane dell’antica, bellissima Arezzo. E si ricordi che i visitatori di Arezzo vengono attirati da quella antica. La città d’arte inizia ad essere un valore così come è, va perciò conservata nella sua originale bellezza. Mario Mercantini, allievo prediletto di Michelucci, sarà l’architetto della Ricostruzione. Anche per Arezzo, come per gran parte del resto d’Italia, gli anni della Prima Repubblica, con le loro classi dirigenti dedite al benes-sere di un popolo uscito stremato dalla guerra, sono entrati nella memoria collettiva quasi come una mitica “età dell’oro”. Ai cattoli-ci riuscirà quello che i liberali avevano promesso, il benessere ab-bastanza generalizzato. Quella sorta di moltiplicazione dei pesci e dei pani che va sotto il nome di “miracolo economico”, bisogna rico-noscere che fu generata anche da un politico cattolico aretino importante come Amintore Fanfani. Lo sviluppo economico, sep-pur gestito a livello comunale quasi sempre dalle sinistre (il mitico sindaco Ducci), vedrà comunque in Fanfani Senior l’aretino di punta in realizzazioni come la scuola media unica (la scuola per tutti sull’e-sempio di Don Milani), la nazionalizzazione dell’Enel con conseguen-ti tariffe “politiche” cioè popolari, insomma un corso più democra-tico e popolare dopo l’apertura al partito socialista.

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Nonostante Fanfani, il sorpasso del Pci sulla Dc, sfiorato in Italia nel 1978, ad Arezzo è già realtà: le elezioni amministrative comunali del 15 giugno 1975 danno questi risultati: Partito Comunista 41,3%, Democrazia Cristiana 33,4%, Partito Socialista Italiano 12,0%, Movimento Sociale Italiano 4,5%, Partito di Unità proletaria 3,1%, Partito Socialdemocratico 2,5%, Partito Repubblicano 1,4%, Partito Liberale 1,8%. Sarà Fanfani come Presidente del Consiglio a far passare l’autostrada del sole da Arezzo, con una gobba sospetta nel tracciato in uscita da Firenze per intercettare la città della chimera, riprenden-do così in parte il percorso della Cassia Vetus. Sarà lui che porrà la prima pietra della Lebole, un’industria che negli anni migliori oc-cuperà più di 5mila persone, 10mila con l’indotto; una fabbrica che il padronato vorrà pensata da un americano, Kurt Salomon, che cree-rà uno stabilimento fordista, con movimenti previsti e misurati, dove bisogna alzare la mano e far entrare al volo la sarta supplente per andare in bagno e non interrompere la catena di montaggio, una fabbrica come quelle prese in giro da Charlie Chaplin in Tempi moderni, ma che genererà anche benessere in città e dintorni, se-gnando il trapasso dalle lavorazioni casalinghe artigianali, all’indu-stria che lavora per tutta Italia e per l’estero, fornendo un prodotto di massa rifinito nei dettagli come fatto dal sarto di fiducia. Sull’esempio della Lebole anche l’industria orafa (esclusa l’unoaerre) vede affermarsi numerose piccole imprese situate in capan-noni Mabo accanto alla casa familiare, con un ampio indotto di pulimentatori, rappresentanti, disegnatori di gioielli, scuole per orafi anche statali soprattutto all’interno dell’Istituto d’Arte Piero della Francesca, oggi diretto dal dinamico Dirigente scolastico Luciano Tagliaferri (già catechista di Renzi a Rignano). Con 1650 studenti a mezza pensione ed a pensione full-time, il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di via Carducci 5, fondato come collegio gesuitico dall’aretino Dario Boccherini, è oggi la scuola più grande della Toscana ed il secondo Convitto d’Italia per iscritti. Riunisce infatti la scuola elementare con la media di primo grado che si apre su tre indirizzi

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di superiori: liceo artistico, coreutico e scientifico internazionale nelle lingue russa, cinese, inglese. Arte, diritto, economia, lingue, multimedialità sono le nuove discipline rivolte agli artigiani ed imprenditori del nuovo millennio. Arezzo diventa inoltre un importante snodo viario, come nell’antichità, favorita in questo dalla conca pianeggiante che la cir-conda, e che ha permesso la creazione di svincoli e raccordi autostra-dali moderni, all’americana, rivolti verso le quattro principali vallate che la circondano: Casentino, Val Tiberina, Val di Chiana, Valdarno. In questo supera Firenze, circondata da un terreno più accidentato soprattutto nei dintorni del suo colle di San Donato, a sud, verso il Valdarno, dove i tratti autostradali che fungono da svincolo sono a pagamento e sembrano piste di Formula uno, contorte e disposte solo longitudinalmente, non radiali come ad Arezzo. La Prima Repubblica sviluppa anche una visione faraonica del fascismo, la E45, che avrebbe dovuto collegare Roma e Berlino, quasi a voler rappresentare fisicamente il nuovo asse politico. Oggi la quarantacinquesima strada d’Europa gira a sinistra prima di Berlino, per esaurirsi in Danimarca, da cui si può prendere un traghetto per l’Inghilterra, anche prima del canale sotterraneo della Manica. La strada si piega così a rendere omaggio ai nuovi vincitori. Nasce in questi anni il turismo di massa che vede protagonista la città d’arte antica, bella ed abbastanza ben conservata dal Cinquecento in poi, anche se in parte da ricostruire dopo i bombardamenti. Con Siena e Firenze si viene così a creare un “triangolo del Rinascimento”, entrando in un circuito internazionale di visitatori ammirati e consumatori di souvenirs prodotti dall’artigianato locale. La vocazione internazionale di Arezzo verrà premiata con l’arrivo di una prestigiosa università americana in città, la University of Oklahoma. Intanto i gioielli d’oro aretini conquistano Ponte Vecchio a Firenze, vincendo la concorrenza di Vicenza soprattutto dopo l’alluvione del 1966 che consiglierà ai fiorentini di spostare a monte molti dei loro laboratori artigiani. L’onestà e la tenacia degli Aretini sono

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note nel capoluogo sin dai tempi dell’ultima migrazione nel Dopoguerra. I Fiorentini commissionano parte delle loro lavorazioni orafe ad Arezzo. Mio zio acquisito Giancarlo Cerofolini, maestro orafo, mi raccontava come negli anni Ottanta la linea di gioielli firmata Gio’ Pomodoro, quello della scultura davanti alla Farnesina a Roma, realizzata interamente ad Arezzo, fosse creata pezzo per pezzo tutta nel suo laboratorio, limitandosi l’artista italo-americano a fornire i disegni. Il boom economico di Arezzo si sovrappone quasi completamen-te con quello dell’Associazione Calcio Arezzo. Lo scudetto va dove ci sono più soldi, ma anche mantenere la serie B, in Italia, non è que-stione di poco conto. E gli Amaranto, che negli anni avranno presi-denti come Mario Lebole e Benito Butali, soggiornano tra i cadetti quasi ininterrottamente dal 1965 al 1988, sfiorando la serie A ed il derby campaldinese con la Fiorentina, nel 1984, quando l’Arezzo giunge quinto a soli 5 punti dalla zona promozione. La stagione degli anni ’70 e delle Telelibere vede Arezzo protago-nista nella provincia con tutta una serie di iniziative, di cui due particolarmente importanti: Telesandomenico, cattolica ma più di sinistra che democristiana. Teletruria, ottimamente gestita dal cavaliere del lavoro Benito Butali, televisione laica progressista ascrivibile al centrosinistra con un occhio di riguardo alla massoneria. Nel 1981 il caso Gelli-P2 rivela che Arezzo è la capitale italiana della Massoneria, ben più importante, in tal senso, della pur ricca di logge Firenze. Come le altre grandi città, anche Arezzo si dota di un quotidiano cittadino, il Corriere di Arezzo, anche lui ascrivibile al centrosinistra. Arezzo si espande anche fuori dei confini cittadini con la catena di vendita al dettaglio di elettrodomestici Euronics, sempre del cavalier Butali, che nelle filiali di Firenze dà lavoro ad aretini emigrati e popolani fiorentini soprattutto del quartiere di Coverciano, dove arriva la via fiorentina da Arezzo. Passiamo ora a ricordare alcune date. 10 marzo 1946: le prime elezioni comunali del dopoguerra eleggono sindaco Enrico Grazi, primo dei sindaci socialisti che guidano

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Arezzo fino al 1995. 2 giugno 1946: al referendum che sceglieva tra monarchia e repubblica Arezzo vota con 21.459 voti a favore della Repubblica e con 11.867 a favore della monarchia, con uno scarto a favore della prima in linea con tutto il centro-nord d’Italia, mentre il sud confermava la sua vocazione monarchica. Effettivamente i Savoia, montanari piemontesi, non avevano fatto governare Arezzo così bene come i Lorena, montanari austriaci. Avevano però meno potere dei loro predecessori e molti errori sono da imputare alla classe dirigente liberale prima e fascista dopo. 1946: tris d’assi aretino alla Assemblea Costituente che deve rifondare lo stato e promulgare la nuova costituzione 100 anni esatti dopo lo Statuto albertino. Sono Amintore Fanfani, che aiuterà Giorgio La Pira a buttare giù la nuova costituzione repubblicana, democristiano; Enrico Grazi socialista; Galliano Gervasi, comunista. Con una simile compagnia testata già dal tempo del lavoro comune in Costituente, Fanfani potrà intraprendere 15 anni dopo il nuovo corso di apertura al PSI e di democratizzazione del paese, ponendo fine agli anni dei governi di monocolore democristiano. 1955: nasce la Lebole, industria che trascende il laboratorio artigiano per servire la massa. Si inizia con solo 300 operaie. La fabbrica diventa maestra di vita per generazioni di operai, prima mezzadri. Le donne alla Lebole, gli uomini al Fabbricone. 1956: Arezzo mondiale nello sport con Mario D’Agata che conquista il titolo nei pesi gallo. 1963-1990: sono gli anni del boom economico che vedono in sella il sindaco del miracolo, il rimpianto Aldo Ducci. Settembre 1961: la città si dota del nuovo Stadio Comunale da 20mila posti. Si tratta dello stesso impianto dove oggi gioca l’Arezzo (colori sociali: amaranto; simboli: il cavallo nero rampante; inno: Canzone amaranto di Pupo), che il 18 novembre 2006 è stato ribattezzato “Città di Arezzo”. Ricordo di sfuggita che l’Associazione Calcio Arezzo è nata nel 1923, 3 anni prima della Fiorentina. 1962-1965: parte il piano regolatore di Piccinato: guida l’espansione urbana secondo un disegno rivolto al potenziamento delle infra-

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strutture, alla creazione di una città policentrica, alla salvaguardia del patrimonio architettonico del centro storico, alla tutela delle zone agricole e collinari. 1962: prima pietra dello stabilimento Lebo-le di Arezzo messa da Fanfani in occasione dell’entrata dell’azienda nell’Eni e poi nelle Partecipazioni statali. La fabbrica di stato arri-verà ad occupare direttamente fino a 5.362 persone nel 1969. 1963: l’autostrada Firenze-Roma, che diventerà tra breve la MilanoNapoli, ferma ad Arezzo. Intanto è stata asfaltata ed ampliata la circonvallazione intorno alle romantiche mura. 1968: l’antiquario Ivan Bruschi, che ha studiato a Firenze, fonda la Fiera dell’Antiquariato, per le vie antiche della città, la prima domenica di ogni mese. Lo fa per rilanciare il centro storico. Entro la città murata, si può trovare dal mobile sontuoso al piccolo oggetto artigianale antico, dal dipin-to all’oggetto d’uso comune. Simbolo della Rinascita del centro in un momento che vede invece un grande sviluppo delle periferie è proprio la ristrutturazione del bombardato palazzo del capitano del popolo, sul corso quasi all’altezza delle Pieve, destinato a diventare la sua casamuseo-mausoleo. Anche oggi vi si tengono mostre di-dattiche per le scuole ed i turisti, di ottimo livello culturale. 1969: apre l’Università, sede distaccata di Siena, che si riallaccia idealmente a quella medievale. 1965. Amintore Fanfani diviene Presidente dell’Assemblea Onu per meriti sul campo della pace. Si saprà solo decenni dopo della sua mediazione, appoggiata dal Vaticano, fra Usa ed Urss per bloccare la terza guerra mondiale atomica in seguito alla crisi dei missili di Cuba nell’ottobre 1962. Laureatosi su Keynes mentre era in corso la Grande depressione economica mondiale degli anni ’30, lancia anche in Italia una dottrina economica che sarà alla base del capitalismo nuovo, democratico, inclusivo voluto negli Usa dal presidente Franklin Delano Roosevelt. E che apre le porte al benessere diffuso a strati sempre più ampi del popolo ed al boom infrastrutturale ed economico degli anni CinquantaSessanta. 1974: nasce Teletruria, senza canone. Il nobile aretino Gianni Boncompagni, alla Rai, lancia Raffaella Carrà e programmi di grande

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successo ed “alto gradimento”, anche radiofonici, con Renzo Arbo-re. Inizia la macchietta dell’aretino grezzo che parla in dialetto stret-to, ripresa poi dal conduttore radiofonico e televisivo Leonardo Franceschi. Segno che Arezzo è cresciuta e guarda con ironia e simpatia alle proprie tradizioni rurali. Pupo canta Firenze ma anche Arezzo, le antiche rivalità sono state superate dallo sviluppo comu-ne nell’ambito più vasto dello stato nazionale. 1977: la città d’arte ha finalmente una sua Soprintendenza alle Belle Arti, sovrana, nata da una costola di quella fiorentina. 1980: Arezzo ha un Centro Affari e Convegni moderno ed ampio, che integra la Borsa Merci del dopo-guerra, strategicamente posto sul raccordo autostradale, facilmente raggiungibile. La periferia inizia la sua crescita, principiata con la fabbrica Lebole anch’essa vicina all’autostrada. 1984: Per il contributo dato alla Resistenza con l’attività partigiana (3.500 effettivi) ed il sacrificio della propria popolazione (3.110 caduti), la Provincia di Arezzo, teatro di stragi e rappresaglie da parte dell’esercito tedesco in ritirata, viene insignita della medaglia d’oro al valor militare, conferita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. 1985-2000: viene restaurata la Leggenda della vera Croce, che racconta la storia del simbolo del martirio cristiano partendo dall’albero da cui fu ricavata per arrivare al sogno di Costantino dove diventa foriera di vittoria militare. Una storia adattissima alle radici cattolico-ghibelline della città. La ha voluta una famiglia fiorentina, i Bacci, nella chiesa di San Francesco, nella cappella di famiglia, chiamati in città per amministrare in modo imparziale il popolo sin dal Quattrocento. 1987. Valenti lancia Arezzo Wave. La musica rock ha il suo Festival alternativo a Sanremo, simbolo di modernità oramai raggiunta. 1987: logiche da vetero-capitalismo portano alla cessione della Lebole al marchio Marzotto. È l’inizio della fine. 1987: Nuovo piano regolatore: seguendo i consigli di Piccinato, gli architetti Vittorio Gregotti ed Augusto Cagnardi individuano nel riequilibrio delle periferie urbane cresciute nel dopoguerra, nel recupero del centro antico, nella riqualificazione guidata attraverso una serie di grandi

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progetti pubblici, le tappe da percorrere. 1990: la zona industriale di Pratacci si ingrandisce per l’ultima volta, nuovi capannoni, altri marchi. 1992-1993: l’Unione Sportiva Arezzo disputa la sua ultima stagione sportiva che culmina con il fallimento e l’esclusione dal campionato in corso. 1992: ultima opera buona del governo popolare; viene iniziato il nuovo, funzionale ospedale di San Donato, che si allarga nel nuovo quartiere di Pescaiola. 1993: la visita di Papa Giovanni Paolo II Santo, che dorme in Vescovado, sancisce la fine del grande sviluppo post-bellico ed incoraggia gli aretini ad affrontare i difficili tempi nuovi continuando ad avere fiducia nell’aiuto divino, vincendo così la paura del trapasso al nuovo millennio. La Prima Repubblica lascia agli Aretini l’Autostrada, la periferia, un tesoretto che servirà ad affrontare le vacche magre della Terza.

Arezzo postmoderna È il tempo dei cosiddetti “non-luoghi” per eccellenza, Ipercoop ed Esselunga, attorno a cui sorge addirittura un nuovo quartiere residenziale di lusso, come un tempo attorno alle chiese. Comodi ma brutti, ricchi ma nazional-popolari, periferici ma facilmente accessi-bili, sono il nuovo distintivo della società dei consumi. I cinema par-rocchiali, le terze visioni, sono spariti da decenni. A rilanciare il rito collettivo del cinema ci pensa un altro scatolone, la Multisala, stile Usa. All’interno il supermercato di libri fiorentino, i ristoranti etnici, poco Arezzo anche se c’è il logo della Chimera che assieme al nome, Il Magnifico, rilancia un’inedita alleanza Arezzo-Firenze. Un posto utile per le famiglie, coi gonfiabili sorvegliati da una maestrina tutto l’anno. Anche la nuova sede dei vigili urbani sorge in un altro scato-

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lone periferico, ma prossimo a due non-luoghi importanti. Come Domenicani e Francescani un tempo, oggi i due non-luoghi principali si ergono nella periferia est ma agli antipodi: uno a nord e l’altro a sud. Si recuperano anche luoghi importanti come l’Anfiteatro, caduto nel dimenticatoio dopo la retorica romana del Ventennio, che adesso ospita spettacoli estivi nella sua arena erbosa. Intanto i privilegiati che godono della bellezza della città murata, senza però la comodità prossima dei non-luoghi, sono solo 8mila. 92mila sono quindi gli abitanti delle mega-periferie, secondo un trend comune alle grandi città moderne. Nel momento in cui viene abbandonato, il centro storico conquista visibilità internazionale grazie ai 3 Oscar de La vita è bella, nel 1998. Arriva così anche l’Università statunitense, mentre i suoi famosi gioielli rilanciano ulteriormente la vocazione internazionale della città, facendo la felicità dei nuovi ric-chi russi che si sono impossessati delle industrie pubbliche, appro-fittando del default dello stato. Niente fa prevedere che la sezione orafa dell’Istituto d’Arte dovrà chiudere nel 2013 per carenza di iscrizioni, mentre è boom ai corsi di arte e immagine al computer. Dopo Vittorio Cecchi Gori e Roberto Benigni, è adesso la volta di Leonardo Pieraccioni che ha scelto scenografie antiche per la sua ulti-ma commedia brillante: la civiltà dell’immagine vede così la grande alleanza tra Arezzo e Firenze, due città di bell’aspetto, dai centri storici eleganti, dal grande passato adesso in crisi. Nelle periferie verso la campagna, nascono i Centri di aggregazione sociale (Cas), moder-ne Case del Popolo. I giovani del Cas di Indicatore, supportati dal-l’ufficio tecnico del Comune, organizzano ogni estate allo stadio loca-le un “Concerto per un amico”. Si esibiscono personaggi del calibro di Edoardo Bennato, Baustelle, gruppi rock emergenti: costituisce una vetrina supplente negli anni di interruzione di Arezzo Wave. «Lo leggi e lo scrivi su tutti i muri: tempi duri». Questo verso trat-to da una canzone di Cristiano de André sintetizza bene le tristi notizie offerteci dalla cronaca dei nostri giorni. Dai suicidi di picco-li imprenditori nei loro laboratori artigianali, al tentativo supersti-zioso della ricerca della fortuna in lotterie, slot machines, gioco

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d’azzardo, piaga cittadina già stigmatizzata dal vescovo Bassetti. Anche la tradizionale migrazione verso Firenze, iniziata con Leonardo Bruni, non costituisce adesso però la solita valvola di sfogo, dato che anche il capoluogo versa nelle stesse condizioni. Una delle poche certezze della città attuale è sicuramente l’attività del vescovo-mecenate Riccardo, che è riuscito a portare in città l’ultima visita benaugurante e benedicente di Papa Benedetto, riuscendo anche a prenotarsi per la prossima venuta di Papa Francesco, che porta un nome a lui carissimo, essendo appunto un frate francescano. Il vescovo Riccardo sta già pensando ad una mensa condotta da giovani, per poveri ed a prezzo politico per i paganti, nei locali in salita di Santa Maria in Gradi, dove ha sede la seconda mensa aretina per i poveri. Nella conferenza-stampa precedente la visita di Papa Benedetto, tenuta in seguito alla Messa per noi giornalisti nella Taverna Oscura, il Vescovo Fontana è stato chiarissimo: «20 minuti di mon-dovisione per Arezzo sono sicuramente importanti per l’immagine e l’economia della Città. Ma non dimentichiamo che la crisi è innan-zitutto spirituale. Siamo in un periodo storico che ricorda quello della caduta dell’Impero Romano. Anche il nostro welfare sta en-trando in crisi. Al Papa dirò che 1 aretino su 4 ha problemi anche economici. Dalla mensa delle famiglie sparisce la frutta una setti-mana su due. Se ne può uscire solo con la cultura e con la fede. La Toscana non sarebbe di tale importanza senza Arezzo. Recupe-riamo quindi la nostra identità, la radice santa del corpo di Donato che va ritrovato. I giornalisti devono aiutare la gente a riscoprire sicurezza dentro di sé. Insegnare a pensare bene è la carità più grande che si possa fare a una persona smarrita. Il Vescovo deve tentare gli increduli con il dono della Fede. La cultura deve entrare dentro la complessità del reale per leggere il fatto di cronaca dentro il contesto generativo. La gente è insicura anche perché urge la pre-senza di una nuova generazione di buoni maestri, di testimoni della Speranza. L’obiettivo è riscoprire la propria dignità come fatto interiore. E praticare la Carità come Chiesa nata dal Concilio Vaticano

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Secondo. La mostra del Cinquecentenario vasariano nei locali dell’arcivescovado, a basso costo, ha attratto nel 2011 ben 15mila visitatori. La Bellezza salverà Arezzo. Ma non dimentichiamoci di tornare a pregare la Madonna del Conforto, una immaginuccia di coccio che diviene fulgida quando due avvinazzati impauriti Le si rivolsero dicendoLe: “Non se ne può più di tutto questo tribolare. Ora ci voleva anche il terremoto. Ma Tu non fai proprio nulla per noi poveretti? Aiutaci, Te ne preghiamo”. Ed il sisma cessò». Reggono e si riscoprono altri lavori del passato. In questo senso si colloca il recupero dei mestieri tradizionali locali, iniziato con il boom degli agriturismi (come “La Torre” insediatosi alla Chiassa su un agglomerato abitativo longobardo, in precedenza bizantino; o quel-lo dei nobili imprenditori aretini Funghini, verso Bucine, rivolto soprattutto agli stranieri; o l’azienda della famiglia Barbagli a San Zeno, “Komote”, specializzata in ippoterapia, una delle fattorie didattiche coordinate dalla Provincia di Arezzo e patrocinate dal-l’Ufficio scolastico provinciale di Arezzo). Ritorno alla grande anche della cucina di una volta: favorito dalla dotta divulgazione televisiva del professor Alex Revelli Sorini e del maestro Augusto Tocci. Non che la città non le abbia provate tutte per arrestare l’inci-piente declino. In tal senso il recentissimo ritorno del marchio Lebole in città assieme ad una cordata di imprenditori locali di buona volontà che cerca di rilanciare l’Arezzo calcio, sono gesti simbolici importanti ma che incidono poco sul tessuto sociale, ora che le leve del potere reale sembrano non solo fuori della città ma persino della nazione stessa. Anche il secondo mandato del sindaco Giuseppe Fanfani, nipote dello statista, che riunisce in sé sia il buon-governo dei cattolici che la grande tradizione dei sindaci socialisti che hanno accompagnato il boom economico, non riesce ad inverti-re una congiuntura che comunque vede ancora crescere la città ben amministrata. Nel censimento nazionale del 2011 Arezzo ha rag-giunto quota 100mila abitanti (gli stessi persi dal comune fiorentino negli ultimi 20 anni). Un comune amico di Firenze, con il giovane assessore, poi onorevole, Marco Donati (cognome nobile fiorenti-

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no), ma anche obbediente a Roma tramite la Bindi. Un comune al centro di una provincia non accorpabile, di ben 350mila abitanti. Sono gli anni del “ritorno del Saracino”, con l’arrivo sui barconi dai Balcani all’Africa dei profughi a prevalenza musulmana. Anche ad Arezzo si iniziano a vedere pakistani che giocano a cricket, al parco Pertini; donne velate che girano per strada contro la legge dello stato; classi multiculturali a scuola. Anche il superamento della famosa soglia dei Centomila abitanti, nel 2010, avverrà soprattutto grazie a questi nuovi arrivi, calando invece la fertilità delle italiane sino alla crescita zero. Tutte le formule politiche sono state tentate, compreso il ritorno al governo della destra, dopo 60 anni. Il periodo della doppia giun-ta Lucherini, dal 1999 al 2006, è stato improntato ad una cultura del fare, post-ideologica. Rimangono come opera meritoria le scale mobili che dal parcheggio Pietri (quello dell’inno del Saracino) con-ducono al Duomo ed al centro storico comodamente ed in tempo breve rispetto alla più faticosa salita dalla parte della stazione. Se si fosse privilegiato questo accesso alla città antica sin dal 1800, pro-babilmente si sarebbero evitati gli sventramenti di cui abbiamo par-lato. Migliorata via Talenti, tratto di circonvallazione che porta an-che al Parcheggio Pietri. Cresciuta anche l’elegante zona di servizi alle imprese ed all’industria sorta lungo via Calamandrei, su una via connessa direttamente al raccordo autostradale. Ultima arriva-ta, la nuova sede della Cna diretta da Tosi, in via Donat Cattin. Arezzo è cresciuta tanto in tutti i sensi. Mantiene la sua banca, mentre Siena l’ha perduta. Mantiene la banca guelfa di Firenze, che si è dimostrata così solida da mettere un suo funzionario nella lista dei ministri. Conserva la Banca di credito cooperativo fondata dal vescovo durante la crisi agraria degli anni ’80 dell’800. Tutte banche allineate sul decumano ottocentesco di via Roma-Crispi, subito all’uscita di piazza Guido Monaco. Arezzo è oggi anche un polo scolastico importante; si parla poi di costruire una nuova stazione ipermoderna sul tracciato della Direttissima Milano-Roma, che comunque ferma già in città. Adesso

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tocca a Vincenzo Ceccarelli, neoassessore regionale ai trasporti, difendere il completamento della due mari, antica vocazione aretina; e realizzare l’interporto di Indicatore per il carico-scarico trenogomma e viceversa e lo smistamento dei containers provenienti dai cargo attraccati ad Ancona, come a Livorno ed a Gioia Tauro. Non dimentichiamo che la nostra città può vantare eccellenze nei campi della musica classica e moderna, dell’oreficeria, dell’antiquariato, dell’arte e della pittura. Arezzo è oggi la città: degli 8 grandi musei, quattro statali (Archeologico Caio Cilnio Mecenate, Casa Vasari, d’Arte medievale e moderna, Cappella Bacci-Affreschi di Piero della Francesca) e quattro privati (Casa-Museo Ivan Bru-schi, diocesano d’arte sacra, aziendale Gori & Zucchi-Oromuseo, dei Mezzi di comunicazione), che contano 150mila ingressi all’anno; di Guidoneum Festival, dal 2007 il Festival Polifonico Internazionale affiancato al Concorso Polifonico Internazionale dal 1953, che vede in gara corali e ensemble vocal-strumentali e dal 2002 scuola supe-riore per direttori di coro; di OroArezzo, mostra internazionale del-l’oreficeria, argenteria e gioielleria che si svolge dal 1979 in Aprile al Centro Affari; di Arezzo Equestrian Centre, uno dei più grandi terre-ni di salto ad ostacoli del mondo; del turismo sportivo familiare, col Sentiero di Bonifica, pista ciclabile di 62 chilometri dalla Chiusa dei Monaci a Chiusi in parallelo al canale della bonifica leopoldina della Chiana; per non parlare dei 350 figuranti del Corteo storico della Giostra e dei 200mila visitatori all’anno della Fiera Antiquaria. Per quanto riguarda le comunicazioni viarie, abbiamo visto come la città viva di una buonissima rendita. Situata sulla dorsale autostradale più importante del Paese, quella tirrenica che porta a Roma; è anche all’ingresso della unica dorsale adriatica a tutt’oggi più lunga, quella E45 che da Roma va a Cesena e poi sale verso il Nord Europa; e poi passa da lei anche una delle poche strade tra-sversali che tagliano l’infìdo suolo collinare appenninico, unendo Tirreno ed Adriatico, Grosseto e Fano. Sì che una stazione sulla Direttissima (già ferma in città) ed un connesso aeroporto che ingran-disse quello di Pescaiola, potrebbero risolvere i problemi di Firenze

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con Pisa, dell’Alto Lazio e delle Marche, creando un nodo comunicativo ai primi posti in Italia, capace di competere con Bologna. Un piccolo raccordo anulare, sul modello di quello grande di Roma, che unisse i tratti rettilinei uscenti dal centro quasi secondo i quattro punti cardinali principali e le quattro vallate (Nord-Casentino, OvestValdarno, Sud-Val di Chiana, Est-Valtiberina), fornirebbe allo stesso tempo paesaggi incomparabili da cartolina e una guida a maglie trapezoidali per lo sviluppo anche in largo (e non solo lungo le vie principali) degli agglomerati urbani distali. Questa matrice “a croce celtica” potrebbe così mettere rapidamente in contatto le peri-ferie fra di loro e con il centro divenendo “crocevia” delle strade sta-tali 69 (per Firenze), 71 (da Roma e Val di Chiana per Forlì e Bolo-gna tramite il passo dei Mandrioli) e 73 (intersezione alla E45 e al Brennero), nonché delle vie verso Siena, Perugia, Orvieto, Ancona e Pescara attraverso il passo di Bocca Serriola-Bocca Trabaria. Ma con le autostrade informatiche Arezzo come si colloca? Nessu-no mette abbastanza in evidenza il primato nazionale di Arezzo in que-sto campo, una cerniera fra Nord e Sud Italia di fondamentale im-portanza strategica per l’economia italiana, come ha evidenziato purtroppo anche il recente incendio delle intelligenze artificiali del server Aruba, situate in grandi contenitori alle spalle della Uno-aerre. La sicurezza nazionale avrebbe imposto un sito più nascosto per queste enormi banche dati gestite da intellettuali aretini che hanno studiato ingegneria a Firenze. Arezzo possiede anche il know-how, un indipendente centro di ricerca e sviluppo informati-co che ha sede in aziende all’avanguardia come CloudItalia (ex Eu-telia). Arezzo entra dunque nel nuovo millennio con un terziario avanzato di tutto rispetto. Tanto che la nuvola elettronica che cam-bierà il nostro modo di navigare in Internet è stata inventata ad Arezzo. Chissà cosa avrebbe potuto fare questa città, se avesse avuto una Università tutta sua propria, come nel medioevo.

La Seconda Repubblica lascia agli Aretini la sensazione che sia finito il tempo delle libertà e dello sviluppo economico illimitato.

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La Terza Repubblica. Segnali di ripresa ed allarme sociale. Questa è Arezzo oggi. Ci vorrebbe anche oggi Amintore, il quale tornasse magari ad illuminarci con la nuova edizione aggiornata di un suo libro del 1940 sulla miseria, che fece epoca: Colloqui sui poveri. Chi sarà il nuovo Fanfani del terzo millennio, che rifonderà Arezzo? Sarà Ghinelli? Ricordo di sfuggita che Fanfani c’era nel 1960 all’inaugurazione della Borsa Merci, nel 1961 alla posa della prima pietra dello Stadio e della Lebole, nel 1962 alla inaugurazione della sede Inps, nel 1963 salva la Ferriera di San Giovanni Valdarno dalla chiusura. Nel giro di pochi anni lo Statista riapre la nuova Cassia Vetus passante per Arezzo attraverso la cosiddetta Curva Fanfani sulla Autostrada del Sole, porta avanti la E45 che passa da Pieve Santo Stefano con Zac-cagnini ai Lavori Pubblici, abbozza la E78 Due Mari che rasenta la periferia sud della città, fa girare la avveniristica ferrovia Diret-tissima FirenzeRoma ad Indicatore, in vista di una prossima sta-zione dedicata all’Alta Velocità, fonda l’Ente Irriguo da cui nasce la Diga di Montedoglio da 150milioni di metri cubi, che salva Arezzo dalle secche estive non lenite dal fiume Arno, come invece adesso dal Tevere. È sempre Fanfani che lancia l'Istituto Sperimentale di Selvicoltura di Arezzo, che fa progettare la Superstrada del Casen-tino e quasi la realizza, che inventa la Festa della Montagna duran-te la quale, nel 1952, De Gasperi lo nomina suo erede politico. Il tutto, in mezzo all’ostilità delle amministrazioni locali, Camera di Commercio esclusa. Fanfani è l’uomo delle grandi visioni: nel 1952 ha l’eccezionale intuizione “ecologista” degli agriturismi; per salvare la montagna dallo spopolamento e fornire una fonte di reddito che risollevi i comuni montani dalla dannosa occupazione della Linea Gotica, avvia il rimboschimento dei crinali da Castiglion Fibocchi a Vallombrosa, assumendo giovani disoccupati come mio padre Lido che in Pratomagno usa l’esplosivo estratto dalle bombe aeree inesplose per scavare la buca in cui piantare gli alberi di alto fusto, sotto il controllo della Forestale. In Vallesanta, a Chiusi, il rim-boschimento fanfaniano ricrea il tradizionale paesaggio verde di sfondo

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alla Città, acquistando al Demanio terraccia da rinverdire, finan-ziando perciò la purtroppo vasta “colonia” delle vedove di guerra, che vendono vantaggiosamente i loro poveri poderi ad alta quota non più lavorati. Tutti lavori promossi con la Legge 264 del 1949 che fa sì che nel 1951 rinasca la provincia Verde aretina, ma anche che venga completata la Riforma agraria in Maremma, e molto altro… Ci vorrebbe un libro di storia solo per Amintore, ma come non ricordare appena il Piano Ina-casa (1949-1963), con cui lo Statista fa costruire 4mila abitazioni in provincia, più di 1000 appartamenti in Arezzo nelle vie coi nomi di pittori (Lorenzetti, Giotto… dove finanzia la chiesa di Mercantini), 500 soltanto nei villaggi satellite tipo Gattolino, Chimera, Dante… Ben fatti, non sono solo quartieri dormitorio lungo le strade in uscita dal Centro, ma prevedono anche strutture aggregative tipo asili, scuole, centri di aggregazione sociale… Col Piano Ina-Casa Fanfani sblocca l’Italia aprendo 20mila cantieri che assumono anche disoccupati come quelli raccontati nel film I soliti ignoti, distribuendo 350mila alloggi nel giro di poco tempo, risponde così all’emergenza abitativa postbellica. Pensa alle città d'Italia piene di macerie, ma lancia anche la famosissima Legge Speciale per il rilancio della Montagna. Il 24 aprile del 1957 porta Arezzo alla ribalta del mondo tenendo al Teatro Petrarca il XII Congresso dell’Internazionale Democristiana “Nouvelles Equipes Internacionales”. Nel 1962 fa costruire a Mercantini, nel Petrarca, il Palco Presidenziale che accoglie il Presidente Segni in città per l'anniversario del Polifonico. Nel 1984, col Presidente Pertini alla Giostra del Saracino, essendo lui Presidente del Senato, è l’immagine più forte del trionfo aretino negli anni di gloria della Terza Italia al secondo miracolo economico. Non solo bisogni primari risolti. È grazie al suo interessamento che apre ad Arezzo una succursale della prestigiosa Università degli Studi di Siena. Un superlavoro locale che non gli preclude l’impegno globale, la distensione fra Kennedy e Kruscev durante la crisi di Cuba del 1962, per cui nel 1965 diviene, primo italiano, pre-

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sidente della XX Assemblea Onu, a cui invita a parlare Papa Paolo VI, come pure Ernesto Che Guevara ministro di Fidel. Diplomato al Redi liceo scientifico aretino, laureatosi in Cattolica a Milano (uno degli allievi prediletti da Padre Gemelli), da buon economista Amintore promuove lo sviluppo senza aumentare il debito pubblico, senza far stampare carta-moneta da parte della Zecca di Stato. Sfrutta al meglio gli aiuti del piano Marshall; e poi mette una tassa di scopo sulle imprese per rilanciare i lavori pubblici. Gli affitti agevolati di Stato, poi, permettevano un ulteriore rientro di capitali per lo Stato. Ma la riconoscenza non è di questo mondo. Dalle opere compiute si desume che avrà conquistato il Paradiso; ma, lui vivente, Teletruria gli assegna una Chimera d’oro nel 1992; il Comune di Arezzo soltanto nel 1996 gli riconosce la Cittadinanza Onoraria; lui morto, nel 2001 gli dedica la Sala Consiliare, nel 2008 la Lancia d’oro. I tempi sono quindi maturi per pensare ad una statua di Fanfani da collocare in Città, magari assieme a quella del Vasari, altro grandissimo concittadino ingiustamente marginalizzato. Nonostante la tremenda congiuntura internazionale, oggi Arezzo è e resta una città ricca di storia e cultura, mai chiusa nel suo passato e feconda e attiva più che mai. Per rendersene conto, basti pensare alla gloriosa Giostra del Saracino a cui gli aretini sono tanto legati: è una delle manifestazioni più antiche d’Italia e lo spirito che la anima è ancora quello di molti secoli fa. La Giostra è una gara a cui partecipano i quattro quartieri in cui è divisa la città murata: a nord-est abbiamo Porta Crucifera che consegna i ceri alla chiesa di San Francesco ed ha nello stemma i 3 colli di Gerusalemme; a nord-ovest comanda Porta del Foro che fa riferi-mento alla Santissima Annunziata; a sud-est c’è Sant’Andrea che invoca la vittoria in Sant’Agostino; a sud-ovest regna Santo Spirito. Si gioca due volte all’anno, il penultimo sabato di giugno in notturna e la prima domenica di settembre in diurna. In palio ci sono una preliba-ta porchetta che tutti i contradaioli fanno fuori durante la festa che

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segue alla vittoria; ed una Lancia d’oro con l’impugnatura scolpita con un personaggio o un evento storico aretino che verrà custodita assieme alle altre nelle rinascimentali sedi delle contrade. Ogni contrada ha a disposizione due cavalieri che devono ottenere il punteggio più alto possibile colpendo un bersaglio mobile protetto dal feroce e pesante Saladino a molla armato di mazzafrusto che può colpirti dopo che sei andato a segno. La Giuria di qualità vede tutto da un palco rialzato alle spalle del Buratto (così si chiama il Re delle Indie). A lei vengono consegnati i bersagli di 41 centimetri per 39 che vengono cambiati dopo ogni colpo subìto e su cui la punta della lancia lascia un segno nero. Nel bersaglio ci sono 10 settori che forniscono un punteggio che va da 1 a 5. Il centro della croce vale 5, i quattro rettangoli al suo lato valgono meno, la cornice ad elle rovesciato in basso ed a destra porta solo un punto se viene colpita. E fin qui non ci piove. C’è però tutto il capitolo di premi e penalizzazioni che, pur essendo molto semplice, può dar luogo ad interpretazioni diverse da parte del pubblico, come avviene del resto anche nel giuoco del calcio. Il cavaliere raddoppia il punteggio se la lancia si spezza dopo il colpo e lo aumenta se porta via le palle della mazza frustata. Se il Saracino lo disarma va a zero punti, se il maz-zafrusto gli lascia il segno sul costume va a meno due, se il cavallo esce dalla lizza in terra battuta lunga 46 metri e disposta lungo la diagonale di Piazza Grande che va da via Borgunto a via Vasari, allora si va a 0 punti. Lo stesso se il cavallo si ferma o il cavaliere cade e non si rialza. Viene espulso dalla Giostra chi colpisce fuori dalla targa, bisogna pure che la giuria tuteli la propria incolumità fisica. Molte sono le iniziative legate alla cultura e alla valorizzazione del patrimonio in questa città. Ad esempio, alcune iniziative si propongono di far conoscere il famoso artigianato aretino: Piazza Grande ospita una volta al mese la Fiera Antiquaria, un evento di grande importanza che richiama appassionati e curiosi. Arezzo è infatti la capitale dell’antiquariato toscano ed è sede da molti secoli di numerose e importanti lavorazioni artigianali. Ciò che rende così

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solida questa tradizione cittadina è la trasmissione del sapere di generazione in generazione, all’interno delle imprese a conduzione familiare. A volte gli stessi aretini si definiscono schivi e un po’ rudi, ma forse è proprio grazie a questa caratteristica che tramandano da secoli la loro preziosa tradizione artigiana. La tradizione orafa risale ad esempio al XIV secolo e ha reso famose le botteghe cittadine nelle corti europee. Oggi questa antica tecnica è portata avanti da molte aziende artigiane e si affianca alla lavorazione del pellame, della pietra, del legno e del ferro battuto. Le aziende artigianali aretine riescono a valorizzare i canoni estetici tipici del territorio senza tralasciare il design contemporaneo e l’innovazione. In questa vivace zona d’Italia dobbiamo parlare di “industria” nel senso antico del termine, nel suo significato latino di “operosità”. Proprio l’operosità dei suoi cittadini ha reso Arezzo famosa in tutto il mondo per i suoi prodotti artigianali oltre che per le sue bellezze artistiche. Con questi valori si può guardare ben oltre qualsiasi tetro futuro. Proviamo a costruirlo insieme, cari ragazzi, il mondo di domani. Magari anche con questo piccolo corso divulgativo di storia aretina per le scuole, con questa Piccola Storia di Arezzo.

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BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Storia di Arezzo: stato degli studi e prospettive, a cura di Luca Berti e Pierluigi Licciardello, Società Storica Aretina, Atti del Convegno, Arezzo 21-23 febbraio 2006, Firenze, Edifir, 2010. AA.VV., Politica e istituzioni ad Arezzo, (dall’alto medioevo all’età contemporanea), a cura di Luca Berti , Società Storica Aretina, Atti del ciclo di conferenze, Arezzo febbraio-novembre 2010, San Giovanni Valdarno, Industria Grafica Valdarnese, 2013. ANGELO TAFI, Immagine di Arezzo, Arezzo, Litostampa S. Agnese di Badiali, 1978. MARCO DELLA RATTA, PIERANGELO MAZZESCHI, La storia e la croce, (La leggenda della vera croce di Piero della Francesca ad Arezzo), Firenze, SEF, 2011. GIOVANNI CHERUBINI, FRANCO FRANCESCHI, ANDREA BARLUCCHI, GIULIO FIRPO, Arezzo nel medioevo, Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze, Roma, Giorgio Bretschneider editore, 2012. PIERANGELO MAZZESCHI, Un mestiere per ciascuno, (il ciclo dei mesi nel Portale Maggiore della Pieve di S. Maria Assunta ad Arezzo), Firenze, SEF, 2010. GIOVANNANGELO CAMPOREALE, GIULIO FIRPO, Arezzo nell’antichità, Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze, Roma, Giorgio Bretschneider editore, 2009. LILETTA FORNASARI, Breve storia di Arezzo, Pisa, Pacini editore, 2006. LUIGI CITTADINI, Storia di Arezzo, Firenze, Tipografia di Mariano Cecchi, 1853. GIOVANNI RONDINELLI, Relazione sopra lo stato antico e moderno della città di Arezzo, Arezzo, per Michele Bellotti stampatore vescovile, 1755. Wikipedia.org, Storia di Arezzo.

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INDICE

Arezzo preistorica

9

Arezzo etrusca

11

Arezzo romana

19

Arezzo cristiana

27

Arezzo durante le invasioni barbariche

38

Arezzo libero Comune medievale

46

Arezzo sotto la cosiddetta “dominazione fiorentina�

59

Arezzo sotto i Lorena

71

Arezzo sotto i Savoia

82

Arezzo nella prima Repubblica

96

Arezzo postmoderna

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Bibliografia

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…la “Storia di Arezzo” di Luca Tognaccini in una estrema sintesi che cavalcando 30 secoli in 120 pagine va dalla Arezzo preetrusca, etrusca,romana e medievale fino ai giorni nostri.Un’opera certamente divulgativa dal linguaggio semplice e piano e quindi adatta anche ai non specialisti,ma dai contenuti storicamente esatti,frutto di una rigorosa ricerca.

AREZZO

MMXVI


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