10 minute read
LA KEY(S) DEL SUCCESSO
from PINK BASKET N.35
by Pink Basket
COVER STORY di Simone Fulciniti
LUNGA ATIPICA, IN COSTANTE MIGLIORAMENTO. È DIVENTATA UNA PEDINA FONDAMENTALE PER IL FAMILA SCHIO E PER LA NAZIONALE. FIGLIA D’ARTE, CON UNO SPICCATO SPIRITO NAÏF, SOGNA DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DEL MOVIMENTO BASKET FEMMINILE IN ITALIA
Advertisement
Nelle ultime settimane il suo nome rimbalza su tutte le pagine social specializzate. C’è un’immagine che la ritrae evidenziando la sua incontenibile simpatia, e le sue cifre illegali collezionate negli ultimi mesi. Jasmine Keys, classe 1997, interna dinamica, indossa la prestigiosa casacca orange del Famila Schio. Casacca che alterna con quella azzurra della nazionale italiana. Dopo un periodo di assestamento, i suoi numeri hanno raggiunto vette considerevoli anche in Eurolega. Laurea breve in psicologia, anima d’artista un po’ naïf, è cosciente di attraversare un momento speciale. Ma lo vive tenendo ben saldi i piedi per terra. E il profilo decisamente basso. Concentrata verso un solo obiettivo. Migliorare.
Jasmine, negli ultimi mesi i tuoi numeri sono cresciuti in maniera esponenziale. C’è un segreto? «Nessun segreto. Ho la fortuna di allenarmi e giocare col Famila Schio, circondata da persone super e grandi professioniste. In realtà sono solo al posto giusto nel momento giusto. Niente di più».
Sei figlia di un giocatore importante, Randolph Keys. Un ex NBA. Quanto ha influito questa parentela nella tua decisione di abbracciare il basket? «In realtà nessuna. Lui ha sempre vissuto in America. È partito quando avevo un anno e mezzo, dopo aver giocato qualche stagione in Italia. Io ho iniziato a giocare per caso. Praticando i primi sport verso i sei anni, ma nessuno mi entusiasmava più di tanto. La scelta ricadde sulla pallacanestro semplicemente perché già ci giocava un mio amico. Feci una prova e da lì è cominciato tutto. Ad Altavilla Vicentina».
Ricordi il tuo primo allenamento? «Era il secolo scorso. Tuttavia ricordo tanti palloni e un gran divertimento. Il minibasket è fatto di giochi. Perfetto per una bambina come me».
E la tua prima partita? «Da piccolina ero una panchinara incallita. Rammento invece la prima da senior a Montecchio, quando ancora esisteva la serie A3. Ero emozionata. Facevo tre campionati contemporaneamente. Ero in squadra con gente più grande di me, ma stavo bene, mi avevano accolto nel migliore dei modi».
Il momento in cui hai pensato che il basket sarebbe stato il tuo futuro? «Mai pensato. Neppure adesso mi rendo conto di dove sono. Da piccola guardavo il Famila giocare alla televisione. Che potesse essere una cosa seria forse l’ho intuito alla prima convocazione della nazionale giovanile. Avevo 15 anni».
E lo studio? «Non l’ho mai trascurato. Dopo la laurea triennale, adesso, sto facendo la magistrale di Psicologia e devo fare tesi e tirocinio. Ho finito gli esami, vediamo se riesco».
San Martino di Lupari, tappa fondamentale del tuo percorso. Che ricordi hai? «Sono stata svezzata. Ho trovato una famiglia, e con le ragazze si è creata una splendida amicizia. Ho avuto un sacco di spazio di fiducia, da parte della società e della squadra, e quello mi ha aiutato molto. Lavorano benissimo con le giovani, permettono di fare esperienza sul campo».
Da dove arrivavi? «Avevo giocato un anno a Vicenza in A2, ma non era andato granché bene. Sono stata infortunata e non mi sono trovata con la Società. In precedenza c’erano stati sei anni a Montecchio Maggiore».
Il passaggio più emozionante del periodo in “giallonero”? «A San Martino facevo doppio campionato A1 e A2. Tante vittorie importanti nella massima serie, ma nel cuore ho gara due dei play off in serie A2, contro Bologna: noi eravamo giovanissime inesperte, neopromosse, con tanta voglia e tanta alchimia, nonostante diverse giocatrici non si allenassero insieme. Vincemmo quella partita in casa, contro la prima della classifica, una gioia incredibile e inaspettata».
E cosa cancelleresti di quegli anni? «Prendo i momenti negativi con positività. Anche perché se non avessi avuto quelli, non sarei qui. Pertanto non cancellerei nulla. Ci sono alti e bassi, ma le sconfitte aiutano a crescere più delle vittorie».
Poi la chiamata di Schio... «In realtà era arrivata già dopo il secondo anno. Ma avevo rifiutato. E col senno di poi ho fatto bene, perché la terza stagione a San Martino mi è servita molto: dopo aver lavorato in A1 e A2, mi sono conquistata il posto da titolare in prima squadra, giocando più minuti, accumulando esperienza, e sono cresciuta come giocatrice e come atteggiamento in campo. Non mi sentivo pronta per fare il passo a Schio, una realtà completamente differente».
Ma quando ti hanno cercato la seconda volta... «Ho detto “o la, va o la spacca”, proviamoci».
Cosa significa entrare in un club glorioso come quello scledense? «Io sono molto dura con me stessa e insicura. Spesso mi viene da pensare: “Cosa ci faccio qui con tutte queste atlete che hanno vinto scudetti, europei, medaglie olimpiche?”. Una cosa che mi ha messo in difficoltà, specie il secondo anno, ma che ho preso come stimolo per crescere e migliorare. Non è perché una arriva a Schio che il lavoro finisce. Anzi è il contrario».
Due stagioni con Pierre Vincent, quella attuale con Dikaioulakos. Quali le differenze? «Due allenatori opposti, li apprezzo entrambi. Pierre, a mio giudizio, è un allenatore perfetto per giocatrici professioniste e grandi, in due anni ho imparato come stare al mondo. Lui è calmo, molta tecnica, movimenti sotto canestro, un lavoro che sentivo sulle mani, la percezione del pallone, un lavoro di tattica, spaziature, tanti step in su. Il secondo anno un po’ più difficile perché avevo tante straniere davanti e come detto non sono sicura di me stessa. Quest’anno è un gioco totalmente diverso. Molto aggressivo, di velocità. Ci sono poche lunghe, e c’è molto spazio per me e Olbis Futo Andrè. Il lavoro degli anni precedenti adesso è molto utile. Ci siamo fatte trovare pronte. Mi adatto alle situazioni, al gioco che serve».
La differenza più grande tra San Martino e Schio? «Il numero delle partite. Qui ce ne sono di più, e nonostante le conseguenze siano meno allenamenti, devi essere sempre sul pezzo, tra giocatrici, scouting, tattica e schemi. A San Martino c’è più tempo e meno pressione, ci sono stimoli per battere le squadre importanti».
Punti di forza? «La versatilità, posso provare a giocare interna e esterna».
Da migliorare? «Tutto il resto»
I pregi come persona? «Sono positiva e mi faccio scivolare addosso i problemi. Non ci penso troppo»
I difetti? «Parecchi, sono pigrissima. E non mi basta mai quello che faccio»
A Schio sono arrivati i primi trofei… «Due Supercoppe e una Coppa Italia, vinta lo scorso anno in un’annata molto difficile, tra covid, e cambi continui di straniere, ce la meritavamo. Soddisfazioni che non mi hanno cambiata».
La partita più bella giocata? Impossibile rispondere. Quella che mi ricordo con maggiore trasporto, il giorno del mio compleanno, la prima partita di Eurolega contro Basket Landes, vinta di 40, col mio “career high”. C’era mia madre sugli spalti e i miei amici delle superiori. Ero felice più per loro che per me».
Come è stato l’esordio in Eurolega? «Non me ne sono resa conto subito. Ho giocato parecchio ma non ci pensavo. È una competizione molto diversa dal campionato, la palla pesa di più. Ero tesa con una tensione positiva. Il fatto che si giocasse in casa ha aiutato. Schio mi ha accolta bene, anche se qualcuno si è chiesto più volte se fossi straniera».
Ti capita spesso? «Una volta alla presentazione della squadra, ero in A2, tutti pensavano che fossi la nuova americana. Ero giovanissima. Uno sponsor si presenta, mi stringe la mano e mi fa “Piacere”. Io rispondo “Piacere, buongiorno”. Lui si gira verso un dirigente e gli dice “Però, parla bene l’italiano”. Questo è il quadro».
Il bello del basket? «Non lo trovo statico come gli altri sport. Dinamico, e fino al 40esimo minuto può succedere di tutto. Ed è completo. Come diceva Bill Russell: “L’unico sport che tende al cielo”».
Cosa fai nel tempo libero? «Non sto mai senza la musica e i videogiochi»
Veniamo al capitolo Nazionale, che ha sempre l’atavico problema delle lunghe… «Vero, e ringrazio tutti coloro che stanno riponendo fiducia in me da questo punto di vista. Io sono una lunga atipica, preferisco giocare fronte a canestro. Sono grande e grossa ma non ho il fisico tipico del 5. Specie in Europa faccio fatica, quando affronto un’avversaria di due metri e cento chili. Ma se si volesse giocare in modo più dinamico io, e soprattutto Olbis, potremmo essere molto efficaci».
Come sta la squadra azzurra? «È stata rivoluzionata. Abbiamo spesso la sfortuna di affrontare nei gironi di qualificazione squadre al di sotto del nostro ranking. Vinciamo di 50, tutti “Italia fortissima”, poi andiamo all’Europeo e classica delusione. Non abbiamo, come altre Nazioni, un progetto di continuità con l’allenatore, per esempio. Basti pensare a quanto ha vinto l’annata ’99, e poi in Nazionale di loro non c’è praticamente nessuna. Serve un ponte tra giovanile e senior. Forse è questo il motivo per il quale non abbiamo ottenuto risultati negli ultimi anni».
I tuoi obbiettivi da giocatrice? «Non lo so. Penso sempre in ottica di squadra. E in questo caso direi vincere».
La giocatrice più forte che hai incontrato? «Gabby Williams di Sopron. L’ho marcata a Montpellier, un 3 con un fisico pazzesco, che fa di tutto. Non so quanti punti mi ha messo in testa».
E la più forte con la quale hai giocato? «Gruda. Ha una forza pazzesca. Non la fermi. Non la ferma nessuno».
L’emozione più forte su un campo di basket? «Lo scudetto Under 19 con la Magika Castel S. Pietro. Non riuscivo a smettere di piangere. Sono rimasta scioccata. E a settembre la vittoria della Supercoppa».
I tuoi hobby? «Prima disegnavo, adesso suono l’ukulele. Avessi tempo riprenderei in mano la chitarra».
E i viaggi? «Quando posso prendo un aereo. E mi piacciono anche le trasferte in Eurolega, che sono molto stancanti».
L’ultimo libro letto? «Un libro sulla sessualità femminile, “Vengo prima io” di Roberta Rossi».
Vogliamo spendere due parole sui tuoi look, tipo l’acconciatura blu? «Cambio i capelli spessissimo. Prima che scoppiasse la pandemia mi tagliai i capelli a zero. Nel lockdown approfittai per fare esperimenti, e ho passato in rassegna praticamente tutti i colori. Alla fine per coprire andai dal parrucchiere e optai per il blu. Adesso li ho normali».
La tua parola preferita? «Domanda difficile, ma dico autoironia, che è un po’ il mio stile di vita».
Qual è il primo intervento da fare per la crescita del movimento basket femminile? «Renderlo uno sport professionistico, perché non è possibile che l’A1 maschile lo sia, e la femminile no. Non concepisco, mi sembra di essere nel Medioevo. Provare a raggiungere il livello mediatico, economico dei maschi, anche se so che non ce la faremo mai».
Il canestro che sogni di realizzare? «Contribuire a far crescere il nostro movimento in Italia. Non so come. Ma spero di farcela in qualche modo».