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SUA MAESTÀ CIRONE
from PINK BASKET N.35
by Pink Basket
“Avevo 15 anni, alla Comense ogni tanto mi allenavo con la prima squadra. Lei, Mariangela Cirone, era play come me. Ogni tanto pensavo fosse di marmo. Mi diceva di ‘picchiarla’ in allenamento, perché doveva abituarsi alla partita. Figuriamoci, ma avete presente come giocava? Nonostante i miei sforzi le prendevo e basta. Atleticamente era un mostro. Nel famoso e temuto yo-yo test mi sembrava potesse andare avanti per sempre, dopo che tutte le altre erano già a bordo campo stremate. E che lezioni di basket!” Le parole di Mary Arnaboldi anticipano alcuni dei motivi per cui nell’Olimpo dei playmaker c’è un posto riservato a Mariangela Cirone, classe 1976.
Un metro e 70, scattante, mai frenetica, in campo esprimeva una grinta quasi feroce, un agonismo insopprimibile e la capacità di capire i momenti topici delle partite e di entrarci alla grande, magari segnando in prima persona. Per fare tutto questo ci vuole una credibilità tecnica assoluta. La sua presenza magnetica l’ha resa una giocatrice emozionale: le scariche di energia che dava in ogni partita accendevano pubblico e compagne. L’arresto e tiro era da manuale. Il tiro da 3 più che preciso. Massimo Riga, suo allenatore a Venezia, la racconta così in un’intervista rilasciata a OA Sport: “Mi ha dato la possibilità di capire che questo è un gioco straordinario, che se hai delle belle persone davanti sicuramente riuscirai a far bene. Lei era un cervello in quel ruolo: l’ho avuta alla Reyer Venezia, non dovevi che creare l’esercizio e lei faceva l’allenamento, dettava i ritmi. Era un libro stampato”.
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Mariangela, partiamo dai due scudetti vinti a Como, dove arrivi nel 2001, a 25 anni. Non è la Comense imbattibile dei 9 titoli di fila, ma la storia non è ancora finita.
“Già, non era più quella corazzata che aveva fatto man bassa di trofei per tutti gli anni ‘90, ma comunque quando sono arrivata abbiamo vinto lo scudetto nel 2002, con Fabio Fossati in panchina, al rientro dal mio secondo grave infortunio”.
E non è stato l’unico. Anche la stagione 2003/04 si conclude con un tricolore. Ancora più inaspettato viste le premesse.Addirittura, era incerta la partecipazione al campionato.
“Esattamente. Sembrava quasi si dovesse chiudere in estate, poi invece in realtà sono rimaste tutte le italiane, e dopo qualche tribolarecon le straniere abbiamo trovato la quadra con UJvari e Scott. Anche sequell’anno fu segnato dal grande nucleo di italiane (Macchi, Paparazzo,Masciadri, Donvito ndr). Mi ricordo la grande incertezza prima di iniziare lapreparazione, un’incertezza che è durata sino a quando non abbiamo avuto lestraniere definitive. Sembrava un anno senza aspettative, ma nel corso dei mesiè cresciuta in noi una consapevolezza incredibile, grazie soprattutto allaforza del gruppo. E c’era grande disponibilità nell’ascoltarsi, tra tutti. Miricordo nella finale scudetto contro Parma in un time out c’era una scelta dafare in fase offensiva e diedi un suggerimento che Lambruschi accettò. Sipotevano condividere le idee, Gianni era aperto ad ascoltare i consigli, poinaturalmente prendeva lui la decisione finale, però se c’era qualcosa dipositivo da mettere in atto, lui era pronto a farlo”.
Come si tiene il timone tra queste incertezze?
“Per me era un ambito naturale, come playmaker mi spettava il compito di gestire la squadra in campo in ogni situazione. E, come ti dicevo, soprattutto in quell’annata del 2003/04 la vera forza è stata il gruppo: nelle difficoltà ognuna si faceva carico di incoraggiare la compagna, di supportarla, insomma sapevamo con certezza di poter contare sull’aiuto di tutte. Una sensazione di sicurezza: se io oggi non ci sono, ci penserà qualcun’altra a dare un maggior contributo. Un’atmosfera quasi magica, uno scudetto davvero emozionante”.
E da dove sei partita per arrivare al tuo primo tricolore?
“Ho iniziato a sei anni e mezzo, quando la mamma mi portò con mio fratello in palestra per iniziare a fare sport, nel mio paese, Sala Consilina. E così è nata la passione, rimasta immutata fino al 2010, quando ho smesso. La pallacanestro mi ha conquistata dal primo momento. All’epoca si giocava in squadre miste, non solo maschi-femmine ma anche di età diverse, per cui ho dimostrato da subito una certa attitudine, anche rispetto a quelli più grandi di me. Nel paese dove vivevo non c’era possibilità di fare diversamente: ci si allenava tutti insieme, era un modo per iniziare a fare sport”.
Per inseguire la passione ti sei dovuta spostare sin da giovanissima.
“Sì, a 14 anni mi sono trasferita a Bari, dove andai a vivere in una casa assieme a Rita La Rosa e Valeria Ferraretti, sotto l’occhio vigile della mia carissima nonna Maria. Eravamo tutte e tre piccoline, e quindi serviva la presenza di una persona che si prendesse cura di noi. È stato l’inizio di una bellissima esperienza”.
Nonna Maria era la tua prima tifosa?
“Ma certo, mia nonna era una grandissima tifosa. Una presenza fissa sugli spalti in casa, ma non era raro venisse anche in trasferta. Tutta la mia famiglia mi ha sempre seguito molto, venivano anche a vedere tutte le partite”.
Ripercorriamo le tappe dopo Bari.
“Sono stata a Cesena quattro anni (dove ho compiuto i 18), poi un anno a Reggio Emilia, uno a Vittuone e due a Treviglio. Proprio a Cesena ho iniziato ad entrare in un’altra dimensione del mio percorso cestistico, all’epoca era una società al top: siamo arrivate due volte in finale scudetto, abbiamo vinto la Coppa Ronchetti e anche due campionati giovanili. Livello super. Per la verità il professionismo l’avevo incontrato a Bari, già allora la squadra era in serie A con giocatrici molto forti, e là ho vinto un campionato cadette. È stato come essere catapultata in un altro mondo, con molta più intensità e professionalità. Ma a me quel mondo piaceva, era quello che amavo fare, non mi è mai pesato. È stato tutto un imparare dalle giocatrici più brave e più grandi. Da là è iniziato per me il vero abc della pallacanestro: bisognava crescere ed allenarsi”.
In campo eri un metronomo nel gestire la squadra, ma non solo: hai chiuso un campionato come miglior realizzatrice tra le italiane. Segreti?
“La dote offensiva è maturata con il tempo. In realtà agli inizi della carriera non ero una grande realizzatrice. Insieme a me sono cresciute anche le mie capacità in attacco e quindi ho cercato di mixare i due aspetti. Naturalmente nelle giornate in cui ti accorgi che la mano è calda puoi spingere di più, al contrario se vedi che c’è qualcun altro che è più in giornata di te, fai un passo indietro. È semplice dirlo, un po’ più difficile metterlo in pratica, ma è quanto ho cercato di fare negli ultimi anni della mia carriera”.
Quali sono stati gli allenatori più influenti per la tua crescita?
“Quelli con i quali ho vinto gli scudetti mi hanno lasciato un’impronta più profonda. Nino Molino, Fabio Fossati, Gianni Lambruschi. Molino mi reclutò a Bari, da ragazzina, e poi l’ho ritrovato a Napoli, e con lui ho vinto lo scudetto. Sicuramente Fabio Fossati è stato quello che, venendo dalla pallacanestro maschile, ha portato una svolta nel modo di allenarsi, soprattutto in fase difensiva. L’ho incontrato a Treviglio, e il ricordo di quegli allenamenti è ancora vivido: un livello di agonismo e aggressività mai sperimentati prima. Cambiò completamente l’approccio da quel punto di vista. E poi Gianni Lambruschi per me è stato un grandissimo allenatore, che oltre alle innegabili competenze tecniche sapeva toccare il lato emotivo, con un quotidiano importante lavoro dal punto di vista psicologico”.
Nel 2007, a Napoli arriva il tuo terzo scudetto.
“La squadra era forte, e le straniere erano al top, Antibe, Holland-Corn. L’obiettivo si è un po’ modificato nel tempo, nel senso che si partiva per entrare nei play off però poi le cose sono andate in crescendo. Un ottimo gruppo, un grande amalgama sia dentro che fuori dal campo e grazie a un grande lavoro in palestra siamo arrivate a vincere lo scudetto. Nino Molino nell’occasione è stato molto bravo a gestire le situazioni e le singole giocatrici”.
Come è stato vincere il titolo vicino alla tua terra?
“È stato davvero speciale, anche perché il seguito della città è stato pazzesco. Ricordo il Palabarbuto sempre strapieno di tifosi che ci hanno sospinto a una grandissima vittoria. La finale fu contro Faenza, anche se la semifinale contro Venezia fu lo scoglio più difficile. Nel finale di gara3 eravamo sotto di 9 punti a 59 secondi dalla fine. Iniziammo a fare fallo sistematico, grazie ai loro errori dalla lunetta e ai nostri canestri rapidi riuscimmo a rimontare tutto lo svantaggio. Poi la chiuse Antibe con due liberi e con la sua grande esperienza. Una partita incredibile. Arrivare con una vittoria di questo tipo alla finale ti dà una carica speciale”.
Adrenalina, tensione, spogliatoio, compagne, vittorie. Cosa ti manca di più?
“L’adrenalina di quei momenti e la vita di spogliatoio sono due cose che rimangono dentro per sempre: continuano a mancarmi ed è difficile, se non impossibile, ritrovarle nella vita di tutti i giorni. Mi mancano poi le sensazioni del campo: la fatica, il sudore, l’attesa delle partite, la vita di spogliatoio, il sentimento di aggregazione. Quelle caratteristiche di condivisione e comunità che solo lo sport può darti: sono sensazioni che ti porti per sempre. E che ti fanno capire in altri contesti cosa significa aver fatto parte di un gruppo che lottava per raggiungere un obiettivo, con tutte le dinamiche che si instaurano: solo chi le ha sperimentate ne conosce l’importanza”.
Nel tuo ruolo hai mai avuto un modello?
“Non proprio nel mio ruolo. Per esempio, Mary Andrade era sicuramente un esempio di agonismo, poi la tecnica e l’eleganza di Francesca Zara e la determinazione di Betta Moro. Comunque erano anni di grande competitività, che davano origine a dei bellissimi scontri”.
Hai dovuto far fronte a diversi gravi infortuni in carriera. Oltre a quelle sulle ginocchia, ti hanno lasciato qualche cicatrice?
“Diciamo che mi hanno scalfito in positivo, perché ogni volta era un po’ una sfida con me stessa. In realtà dopo ogni infortunio rinascevo con qualcosa di più. Dopo che Franco Carnelli mi ha operata ho giocato altri nove anni e penso che siano stati i migliori, di grande consapevolezza, dove anche in fase offensiva sono cresciuta parecchio”.
Quando hai smesso di giocare ti sei subito staccata dall’ambiente o hai ricoperto altri ruoli?
“Appena chiuso con il basket giocato ho collaborato con la Comense facendo l’aiuto allenatore. Poi ho fatto anche la team manager con la Nazionale Under 20 allenata da Molino: un’esperienza molto bella, con ragazze giovani che conoscevo quasi tutte. Purtroppo è durata solo un anno, ma mi ha arricchito molto”.
Hai chiuso la carriera a Venezia dove hai giocato dal 2008 al 2010, ancora da protagonista.
“Sono stati due anni veramente intensi. Rimane il rammarico di non aver vinto lo scudetto, pur avendo raggiunto la finale, con una squadra costruita per vincere. Ma Taranto è stata più brava di noi. Ho chiuso che ancora ero in forma, ma il dispiacere di non aver vinto quello scudetto con Venezia è stato ancora più grande. Però nella mia vita c’erano cose che non volevo più fare aspettare, come il desiderio di maternità. Dovevo darmi una deadline: se avessi ascoltato la mia passione avrei giocato chissà per quanto tempo”.
Quando hai giocato l’ultima partita eri consapevole che sarebbe stata proprio l’ultima?
“E sì lo sapevo, lo sapevo…”.
Sei stata protagonista in Nazionale per tanti anni, anche se durante la gestione Corno sei stata messa da parte, perché non avresti avuto il fisico per misurarti a livello internazionale.
“Sì, Corno aveva in mente altri tipi di giocatrici nel mio ruolo. Anche se proprio in quella stagione ero stata la miglior realizzatrice del campionato tra le italiane. Comunque ho dei ricordi bellissimi delle mie presenze con la maglia azzurra. La mia è stata una vita da privilegiata, da persona fortunata, e in vent’anni passati tra vittorie, sconfitte, infortuni, il bilancio finale è assolutamente positivo per i successi cestistici, per le amicizie che mi sono portata dietro, per le belle persone che ho incontrato. Una vita che apprezzavo già mentre giocavo e che apprezzo ancora di più oggi. Sì, ho fatto anche tanta fatica, ma niente di paragonabile alle energie psico-fisiche che servono per fare la mamma del mio Enrico: neanche i più ‘terribili’ allenamenti di Fossati possono reggere il confronto! (risata)”.