Primi sguardi dalla Best Places Ever. Berlinale .67 Best Photo(s) Ever
by mtp
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BERLINALE .67 Best Places Ever. Best Photo(s) Ever.
di roberto figazzolo
progetto grafico e impaginazione planoÂŽ design
roberto.figazzolo@miapavia.it
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Quest’anno nessuna tempesta di neve, niente gelo polare sulle Alpi Sveve, niente brividi all’ennesimo sorpasso di un TIR quando ti rendi conto di viaggiare su due inquietanti ed ininterrotte strisce di ghiaccio. Quest’anno un cielo quasi uniformemente grigio mi accompagna nei 1200 km tra l’Italia e Berlino, trascorrendo dagli angusti, claustrofobici paesaggi montani della Via Mala in Svizzera alle valli sempre più larghe, distese, accoglienti, della Baviera, della Turingia, del Sachsen- Anhalt e fino al Brandeburgo intorno alla capitale, dove foreste senza fine di abeti si alternano a vere e proprie pareti di giovani betulle.
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Viaggiando solo, alla guida, per tante ore (la mia invidiabile media è stata di ben 62 chilometri all’ora su tutto il percorso) hai tempo per pensare, per concentrarti, per prenderti una salutare pausa di riflessione che spezzi quel ritmo convulso lezioni/ presentazioni/progetti di cui sei prigioniero nella vita di tutti i giorni. Chiuso nella tua cellula in moto, in tutti i posti e in nessuno alla stesso tempo, in questa specie di astronave low-fi, i confini mutano di continuo. Ti preservano dalla noia proiettandoti in un perenne divenire. Panta rei. Tutto scorre come, si sostiene, sostenesse Eraclito, un messaggio di fatto mai scritto esplicitamente nella sua opera, ma dai posteri cosÏ efficacemente sintetizzato. E come non esserne convinti quando si è totalmente immersi dentro questo stesso flusso?
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Ecco perché la sera stessa del mio arrivo l’inaugurazione all’Akademie der Kunste della mostra The Stars Down To Earth, di Forum Expanded, un’ulteriore sezione di questo monster-festival, mi pare il modo più consono di suggellare questa fine, o meglio questa pausa nel trascorrere precedente.
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Per qualche giorno IO mi fermerò e saranno LE IMMAGINI a sommergermi, come ben sostiene, il fotografo, scultore e land-artista Robert Irving Smithson: “Going to the cinema results in an immobilization of the body. Not much gets in the way of one’s perception. All one can do is look and listen. One forgets where one is sitting. The luminous screen spreads a murky light throughout the darkness. Making a film is one thing, viewing a film another. Impassive, mute, still the viewer sits. The outside world fades as the eyes probe the screen. Does it matter what film one is watching? Perhaps. One thing all films have in common is the power to take perception elsewhere” “Andare al cinema è ridurre all’immobilità il corpo. Non molto ostacola la percezione. Tutto ciò che si può fare è guardare e ascoltare. Ci si dimentica dove si è seduti. Lo schermo luminoso diffonde un torbido chiarore attraverso l’oscurità. Fare un film è una cosa, guardarlo un’altra. Impassibile, muto, fermo siede lo spettatore. Il mondo esterno svanisce quando lo sguardo sonda lo schermo. Importa che film si sta guardando? Forse. Una cosa che tutti i film hanno in comune è il potere di portare la percezione da un’altra parte”.
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L’akademie è un edificio già di per sé molto interessante. Immaginate un parallelepipedo immerso in un prato, con un semplice lastricato che lo collega alla strada, molto più largo che alto e con un frontespizio bianco e lineare su cui spicca una scritta modesta e dai caratteri retro illuminati. Sotto, solo vetro. Compartito in finestre, vetrine e porte d’ingresso. Un misto tra realismo socialista e funzionalismo da Bauhaus insomma. Fuori frotte di ragazzi e ragazze perpetuano il rito dell’aperitivo, tutti con almeno un bicchiere di vino (rigorosamente non ammessa la birra) in mano. Si sale al primo piano, mentre intorno la festa continua, e si entra senza problemi di accredito, l’accesso è libero e per tutti, nella parte più esplicitamente espositiva.
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Il panorama è straniante. Fuori la calca esaltata dall’alcol parla a volume sempre piÚ alto, dentro, in una stanza 10 metri per dieci alta almeno 4 metri e tutta foderata di moquette nera uno schermo grande quanto il muro campeggia isolato. Pochi, non piÚ di 10 o 15 spettatori, prendono posto soprattutto in piedi lungo le pareti o seduti/sdraiati per terra.
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Il film che si intitola Wutharr, Saltwater Dreams e dura 29 minuti è un’opera di cinema partecipato del Karrabing Film Collective, un’organizzazione nata nel 2008 per contrastare l’assalto dello Stato australiano contro l’organizzazione sociale e le stesse terre degli aborigeni. Il cinema qui è inteso come pratica estetica finalizzata all’autorganizzazione e all’analisi sociale. Poco contano allora salti di campo e dissolvenze incrociate che ricordano i peggiori film dei matrimoni nostrani. Ciò che vale sono i volti di questi attori presi dalla strada, le loro espressioni, il loro modo di muoversi, di camminare, di parlare una lingua che ricorda molto da vicino un canto sciamanico. Perché gli antenati hanno deciso di punire questa famiglia smettendo di far funzionare il motore del loro fuoribordo e abbandonandoli da soli nel bush? Surreale, intenso, ibridato dalle regole dei missionari come dalle leggi dei conquistatori inglesi il mondo di questi indigeni bascula pericolosamente sul confine della non esistenza. Con buona pace della gran parte del pubblico che, dopo poche immagini, lascia la sala per dedicarsi ad altre visioni.
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L’altro progetto che mi ha colpito profondamente tra i ben 13 presentati, alligna più probabilmente nell’ambito dell’arte concettuale piuttosto che in quello più banalmente cinematografico. È un’opera di 75’ si intitola Untitled Fragments e l’ha composta James Benning, un settantacinquenne filmmaker e artista americano nato a Milwaukee, ma residente in Val Verde (come noto in realtà un paese fittizio molto usato come location a Hollywood per evitare controversie legali possibili nell’utilizzo di un toponimo davvero esistente, e anche questo è significativo considerando la sua opera). 18
Normalmente non amo raccontare i film ma in questo caso come capirete è basilare. In una stanza molto più grande di quella precedente sono presenti tre schermi colpiti da tre proiettori ancorati al soffitto. Da notare la struttura estremamente aerea degli schermi, poco più che semplici teli montati su leggere strutture tubolari in alluminio (sono gli artisti stessi ad organizzare sala e proiezioni). Gli schermi sono così leggeri che nonostante la loro superficie, almeno una ventina di metri quadri, soltanto una piccola staffa, una sola contro le 4 che ti immagineresti, basta a sorreggerli unendoli alla parete.
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L’istallazione inizia senza titoli o altro exabrupto con la proiezione di una scena ripresa in un bosco sullo schermo di sinistra. Tutto il pubblico in sala si volta improvvisamente sulla sinistra attendendosi l’azione. La delusione è cocente quando ci si accorge che soltanto un’alba illumina molto lentamente il tratto di bosco ripreso in camera fissa per circa 25 minuti. Non c’è colonna sonora ma soltanto il rumore del bosco, soprattutto canti di uccelli. Quando hai perso ogni speranza che accada qualcosa si illumina anche lo schermo di destra. Il pubblico, in gran parte diverso da quello precedente, si volta all’improvviso verso destra. Qui la ripresa sempre in camera fissa è in interni e riprende uno schizzo a quanto pare opera del colonnello Kit Carson e che ebbe una funzione nello scalzare gli indiani Navajos dalla loro terra d’origine dall’Arizona a Bosque Redondo. La storia di un tradimento di fatto reso possibile o aiutato da un’immagine. Anche qui la scena, che coincide con un’unica inquadratura, segue per una mezz’ora circa (in contemporanea con l’altra immagine) l’affermarsi di un’alba. La luce arriva ad essere così forte sul quadro che l’immagine ne viene quasi completamente bruciata. A metà circa del film (o dovremmo più precisamente chiamarla esperienza?) sul terzo schermo, quello centrale, senza l’accendersi di alcuna immagine, parte la trasmissione di una conversazione radio che registra i dialoghi tra piloti di una squadriglia di ben 116 aerei caccia bombardieri B-52 Stratofortress che in soli 15 minuti scaricarono il 26 dicembre 1972 contemporaneamente su Hanoi tutte le loro
bombe. Questa conversazione ricca di simboli, e di strane pressoché incomprensibili sigle, colpisce per la freddezza e al tempo stesso la concitazione che la contraddistingue. Più che una neolingua alla Orwell o alla Burgess è una non-lingua o meglio un linguaggio impossibile che sarebbe piaciuto al neuroscienziato Andrea Moro. (v. Impossible Languages, MIT Press, 2016). Le connessioni naturalmente possono essere molteplici, ma qui ci accontenteremo di sottolinearne almeno una. Mentre la natura del primo schermo al di là della falsa pista: “...sono al cinema quindi accadrà qualcosa” finisce per rilassare lo spettatore più sensibile e attrezzato, il quadro colpito dalla luce fa riflettere sulla natura ibrida, e perfino potenzialmente malvagia dell’immagine artificiale (disegno di un volto versus un bosco naturale, quello della Sierras in California). Termina la disamina una nota sul dialogo radio, tra l’altro declassificato solo l’anno scorso e quindi che può solo essere stato solo recentemente ascoltato dall’autore. Le voci degli uomini, i piloti degli aerei e i loro collaboratori, sono estremamente calme e rilassate. Parlano di target e di seconde esplosioni, quando cioè una bomba colpisce materiale a sua volta esplosivo, con la naturalezza che li contraddistinguerebbe durante un barbecue in famiglia. Persino i SAM, micidiali missili terra-aria che potrebbero colpirli facendoli precipitare sono descritti quasi con humor. Viene in mente la lezione della Arendt sulla banalità del male. L’uomo ha un’insopprimibile desiderio di autodistruzione. E l’immagine ha probabilmente in questo desiderio un ruolo ancora tutto da investigare.
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PS Nel PS devo però proprio giustificare il titolo di questo pezzo: “The best photo ever...”: che è infatti il commento che il “simpatico” ragazzotto all’ufficio accrediti ha masticato tra i denti mentre mi consegnava l’agognato tesserino, vergognandosi subito dopo all’occhiataccia del superiore alle sue spalle. Per smorzare la situazione mi sono messo a ridere facendogli i complimenti per la sua essenzialità ed il suo rigore estetico nel giudicare il mio ritratto sul pass, che consegnavano alla storia il suo epigramma, degno di un Marco Valerio Marziale. A questo punto però il suo sguardo si è fatto ancora più interrogativo...
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