Plano STORIE | IFFI 25 - Viaggio a Innsbruck

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IFFI 25 Viaggio a Innsbruck roberto figazzolo


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IFFI 25 - Viaggio a Innsbruck



Una nobile causa: Innsbruck 2016 Chissà perchè. Non lo so davvero, ma quando penso a questo festival, a questa edizione di IFFI 2016, mi vengono in mente due foto scattate pochi giorni fa a quasi duemila chilometri di distanza da Innsbruck. La prima è quella di una spiaggia del mediterraneo in Calabria, a pochi km dalle coste Siciliane. Il cielo è contrastato. Le nuvole incombenti. Le tre zone di esposizione variano solo leggermente il loro pattern, riverberando le une i toni delle altre, vedi la schiuma bianca e sottile che producono le onde versus la spumosità eterea delle nubi su tutto l'orizzonte. Sulla terra poi domina il grigio. Riposante. Se non fosse per quei dettagli bianchi e inquietanti abbandonati sulla riva dalla risacca. Sono natura e cultura. C’è il ramo secco e sbiancato da cento soli e la sdraio di plastica rotta e abbandonata perché non serve più. Come non pensare allora ad “altro” che il mare, questo stesso mare, in questi giorni ci restituisce?



L’altra foto è completamente differente. Profondamente ctonia (“appartenente alla terra”, sotterranea certo, ma anche palesemente rivolta all’elevazione mistica, basti pensare al legame delle antiche religioni con la dea madre) e rappresenta una particolarità botanica piuttosto negletta: il Castagno dei Cento Cavalli, uno dei più antichi esseri del pianeta, oggi protetto anche dall’UNESCO e che conta circa 2000 anni di vita. Con i suoi 22 metri sia di altezza che di diametro di un tronco ormai quasi invisibile, questo albero emana un fascino, direi più precisamente “produce attorno a sé un’atmosfera”, difficilmente eludibile per chiunque vi passi accanto. Storia, passioni, guerre, terremoti ed eruzioni (il castagno si trova nei pressi del paese di Sant’Alfio sulle pendici dell’Etna) non lo hanno semplicemente “risparmiato” per due millenni. Gli sono passate accanto e si son lasciate giudicare da lui. Questo albero è un testimone. Un testimone muto, anche se tremendamente eloquente, della cosa più importante che concerne la vita, e cioè la memoria. Ma che cos’è il cinema, o almeno il cinema che condividiamo durante questa settimana di maggio a Innsbruck, se non un omaggio alla memoria? Il cinema come denuncia certo, come emozione, come catalizzatore di sentimenti, ma dai tempi di Auguste e Louis Lumière, soprattutto come documento, come fonte imprescindibile di informazione e quindi anche di trasmissione della conoscenza e della memoria.



La memoria che ci parla dalle “emergenze” architettoniche del passato, come questa ex-prigione militare fotografata a Peschiera del Garda, all'alba, dalla Vespa, durante il viaggio di avvicinamento di quest'anno ad Innsbruck. Una memoria che chiude. O sul lago di Garda dalla parte trentina. Un panorama che si apre e ci introduce a qualcosa di nuovo. Una memoria che produce, collabora a costruire – con noi e per noi – una “nuova visione”.



E qui all'Internationales Filmfestival Innsbruck gli essai, le prove, gli esperimenti, i tentativi sono tanti. Tutti lodevoli. Alcuni, certo, più riusciti di altri. Come nel caso di Girls Don't Fly di Monika Grassl (Germania, Austria 2016), uno strano documentario indeciso tra il rapimento estetico (spesso insidioso freno di questo giovane cinema d'oltralpe), l'empito buonista e una giusta tensione verso l'autentico al di là del positivo e glamour a tutti i costi. In Ghana la donna è considerata esclusivamente come “angelo del focolare”. Deve sposarsi molto presto e occuparsi della famiglia. Che senso può avere per lei andare a scuola, guidare una macchina o, ancora peggio, magari pilotare addirittura un aereo? Contro questo pregiudizio si scagliano coraggiosamente l’inglese e bianco Jonathan Porter e sua moglie, la ghanese (e bellissima) Patricia Mawuli, fondando una scuola esclusivamente per giovani piloti donna. Non importa il censo, ne’ la provenienza sociale. Per Porter conta solo il merito e la voglia di riuscire. Commovente poi il fatto che alla scuola trovi posto anche Lydia, una giovanissima allieva estremamente motivata, ancorché disabile, e che vuol diventare la prima pilota donna di grandi aerei nel paese. Ecco, qui il critico deve usare la sua “scatola degli attrezzi”, per decidere che pesci pigliare. Detto così infatti il film potrebbe passare per l’ennesimo spot di belle speranze girato su commissione per qualche meritoria ONG al lavoro in Africa, ma che succede se Porter in realtà si rivela durante lo svolgimento del film un fanatico della disciplina più simile al sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, che al padre affettuoso che potevamo immaginare?



Davanti ai nostri occhi si apre una ferita, come quella che trovo scavata in un prato già in Austria sulla mia strada dopo il Brennero nei pochi km che mi separano dalla “capitale delle Alpi”. Le speranze delle nostre protagoniste si scontrano con la realtà di un buffone dall'io ipertrofico ossessionato dall'ansia di successo ancor più che dai suoi fantasmi. E il documentario, come si suol dire, “prende il volo”. Almeno lui. Visto che improvvisamente Porter e sua moglie in seguito ad alcune difficoltà, tornano improvvisamente nel Regno Unito abbandonando e se stesse le povere, illuse e maltrattate studentesse. Decisamente non l'happy-ending che ci aspettavamo. Ma non è forse l'onesta del racconto il premio che uno spettatore, oggi, sempre più preso in giro dagli altri media, in fondo, si merita?



Terra promessa?

Come una finestra sul mondo: onestà nel raccontare. Ecco cosa ci aspettiamo dal cinema. E soprattutto da questo cinema. Povero di mezzi, ma tante volte più ricco di idee e di stimoli rispetto a quello che vediamo di solito. Ed è il caso di Life Saaraba Illegal di Peter Heller, Saliou Sarr & Bernardo Ruebe (Germania 2016), un progetto (limpido, trasparente eppure che mostra colori differenti, come l’acqua del Garda in questa immagine, sempre tratta dai luoghi che ho attraversato quest’anno per raggiungere IFFI) che si sviluppa nell’arco di una decina di anni e prende le mosse dalla storia di due fratelli, Aladji e Souley, nati in una piccola isola di pescatori, persa nell’oceano Atlantico di fronte alle coste dell’Africa occidentale. Mentre Aladji, il maggiore, raggiunge l’Europa e lavora sui pescherecci spagnoli come nelle piantagioni di pomodori, Souley, il più piccolo, non crede ai racconti di vita dura - e da clandestino anche dopo tanti anni - del fratello e desidera soltanto poterlo raggiungere al di là del mare. È una speranza quella che lo guida. E forse sarà proprio questa a perderlo. Lui come il fratello d’altronde, ormai completamente vittima. sempre in Spagna, dei suoi deliri pseudo-religiosi.





La macchina da presa è curiosa e instancabile, varca spesso i confini. Confini che è necessario superare costantemente. Quelli quelli tra natura e cultura, realtà e rappresentazione, giorno e notte (come nell’ora in cui ho scattato le foto qui sopra e qui sotto, con un cielo ancora luminoso sopra una città in cui si accendono i primi lampioni), quelli tra terra e acqua, tra gli stati e i continenti, e ancora quelli di genere, tra fiction e documentario ad esempio.



Come nell’intenso Als di Sonne vom Himmel Fiel (The Day The Sun Fell) di Aya Domenig (Svizzera 2015). Un essai in cui la regista, un’affascinante bellissima svizzero-giapponese, narra la vita di Shigeru Doi, suo nonno, medico della Croce Rossa ad Hiroshima l’indomani del 6 agosto 1945, giorno del fatidico scoppio della bomba atomica, che pose fine alla seconda guerra mondiale. Accanto al nonno (già scomparso quando Aya sei anni fa comincia il suo film) lavoravano però i più straordinari testimoni di questo documentario: la nonna di Aya e moglie di Shigeru, il dottor Shuntaro Hida, nato nel 1920, l’unico medico sopravvissuto fino ad oggi e testimone di quell’immane tragedia e soprattutto Chizuko Uchida, un’infermiera che nel 45 aveva solo 22 anni e da allora un’hibakusha, una “sopravvissuta” all’ecatombe nucleare, scartata da tutti in quanto sicuramente non indenne dal contagio contratto, stando accanto alle tante vittime della strage. Poi, mentre Aya sta completando le sue ricerche per il film l’11 marzo 2011 avviene l’incidente di Daiichi Fukushima, ed ecco che il suo progetto prende una piega differente Sebbene chi ha vissuto Hiroshima si fosse, per giuramento quanto per comprensibile reticenza, rifiutato di parlare da allora in poi della propria esperienza, dopo Fukushima cambia atteggiamento e diventa testimone prezioso quanto necessario di che cosa significhi “contaminazione nucleare”. Ed è commovente vedere nel film la vecchia infermiera Chizuko, ormai quasi incapace di camminare, coltivare nel suo giardino piante che contrastano la cosiddetta “radiazione interna” e, dopo averle fatte seccare, inviarle gratuitamente alle vittime di Fukushima. Così come il dottor Hida, nonostante i suoi quasi 100 anni di età, correre da un’università all’altra per raccontare a tutti quanto possano essere pericolosi, anche a distanza di decadi, gli esiti di una fuga di materiale radioattivo. Angosciante, appassionato, commovente e sentito Als di Sonne... è il cinema che ci piacerebbe vedere più spesso. Un cinema che, pur prendendo le mosse dalla realtà, attraverso una rappresentazione non priva di empito estetico, riesce a trascenderla, e a comunicare davvero un’emozione.



Wichtig Ist... (L'importante è...) Un viaggio. In fondo questo è un festival. Un trascorrere di immagini, il più possibili significative, davanti i nostri occhi. Realtà vera e realtà aumentata. Vita autentica e riprodotta. Il tuo sguardo libero (?) e quello condiviso - necessariamente - con il regista.



Come in un viaggio ti scegli i compagni. Oppure te li ritrovi imposti dal caso. E le sorprese sono di solito piĂš interessanti dei piani predisposti.





Innsbruck da questo “punto di vista” è particolarmente interessante. Una città in cui l'estetica delle costruzioni appare rigidamente studiata. Le facciate dei palazzi si rimandano la loro immagine. Gli stili si assomigliano. Oppure staccano decisamente, giustapponendo antico e classico ad avanguardia e iper-modernismo. Le montagne stesse, visibili ad ogni svolta e con qualsiasi condizione atmosferica, giocano alternativamente un ruolo di bordo/confine, inteso come limite, o di cornice, che esalta il contenuto del quadro. E il nostro passo si blocca. Luci ed ombre si confondono. Le fronde degli alberi si agitano specchiandosi sulla lucida superficie di questa parete dell’ospedale della città. Il destino sembra segnato. Tutto già deciso. Ma allora perché c’è chi si arrovella. Chi studia. Chi fa ricerca anche di notte nei laboratori sotterranei di questo stesso edificio?



Chi abita qui è spesso consapevole di questo iato. Vive sulla sua pelle lo scarto tra una condizione apparentemente estremamente felice e privilegiata e l'inevitabile “spleen”, il dispetto triste che, senza arrivare alla depressione, tutti ci coinvolge. E il “piacere di questo dolore” guida evidentemente l'autore di questo stencil, spruzzato con generosità sui muri altrimenti straordinariamente puliti della città vecchia.



Il lusso nella vita tuttavia esiste. Girare in bici con qualcuno cui si vuole bene. Poter scegliere chi ci governerĂ e non vergognarsi persino di esplicitarlo, magari con un adesivo su di un cestino dei rifiuti dal tratto “designâ€?. Semplice e bello quasi come il monolito kubrickiano.



O ancora ricordarsi di ciò che veramente conta, mentre raggiungi la tua stanza in hotel. Ogni sera. Ad ogni salita tra il secondo e il terzo piano. Con questa poesia graffiata sul metallo e rimandataci da una luce indiretta.

Ciò che conta è soltanto, che non ci si innamori prima che la luna abbia spinto attraverso la finestra il suo volto di bacio.



Ma il tempo da trascorrere fuori, per strada, è poco. In sala c'è uno schermo ad aspettarci. Presto le luci si spegneranno, e immagini fuggevoli prenderanno il posto di quel bianco cangiante. Aspettando quest’ennesima illusione smettiamo di essere tristi. A chi toccherà? Ad un padre, in Senegal, che con le rimesse dei figli, raccoglitori illegali di pomodori in Europa, pensa a costruirsi al villaggio una casa di otto stanze con i doppi servizi, che mai nessuno andrà ad abitare (come nel finale di Life Saaraba Illegal) o ai protagonisti di Lampedusa di Peter Schreiner, film che vince il premio come miglior documentario qui ad IFFI 2016, ognuno perso dietro ai propri sogni, incubi o frustrazioni. Toccherà a Giulia, anziana e nobile mitteleuropea, che torna a Lampedusa alla ricerca di qualcosa, alcolista, ricca e disperata, oggi malata e, dopo una vita senza scopo, con una tremenda paura di morire? O forse a Zakaria, giornalista, che fugge, sempre a Lampedusa, la guerra civile del suo paese, la Somalia, e incontrerà in un altro paese, l’Italia, fantasmi differenti. Forse non così tremendi come quelli che ha lasciato, ma piuttosto inquietanti anch’essi?



Si tratterà dell'ennesimo conflitto tra Natura e Cultura come in questa foto che scatto con un moto d'orgoglio puntando la MIA macchina verso l'alto, o mi piegherò piuttosto impaurito sotto questa grigia incombente e frastagliata versione di condominio di lusso-ma-non-troppo che incontro sul mio percorso?



Subirò ancora il fascino di questa neoclassica (ma anche espressionista) versione austriaca dell'architettura alla Blade Runner di una distopia incombente, o mi tranquillizzerà finalmente, con il suo aspetto morbido, un mucchio di cuscini decorati in stile ethnic dentro questa vetrina?





In ogni caso finirò sempre per tornare, anche dopo che il sole è calato, al Leo Kino, vera anima, cuore pulsante di questo Festival. Qui inquadrato/illuminato come se fossimo in un noir degli anni '40. Alla fine sono costretto ad ammetterlo. La mia wonderland è nowhere. Da nessuna parte. Forse per questo faccio meno fatica a crederci quando si ritaglia sullo schermo di una sala cinematografica.




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