2015
R. A. M.
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R.A.M. Pedagogia dello sguardo ° Nicola Baldazzi ° Miriam Dessì ° DissensoCognitivo ° Victor Fotso Nyie ° Caterina Morigi ° UkiYo-E ° Sara Vasini
2015
INDICE 05 Per una pedagogia dello sguardo di Elettra Stamboulis 09 NICOLA BALDAZZI Da marzo a settembre. Éloge de la friche. di Maria Rita Bentini 15 MIRIAM DESSÌ Miriam Dessì o della fenomenologia facciale delle emozioni di Daniele Torcellini 21 DISSENSO COGNITIVO Il futuro non è più quello di una volta di Claudio Musso 27 VICTOR FOTSO NYIE Estetica prammatica. Talismani per attraversare l’arte e lo spazio. di Elettra Stamboulis 33 CATERINA MORIGI I bambini di Caterina di Sabina Ghinassi 39 UKIYO-E (SILVIA BIGI, LUCA MARIA BALDINI) Nebula di Antonella Perazza 45 SARA VASINI Tu, Sara Vasini di Luca Maggio 51 ARTISTI SEGNALATI 53 BIOGRAFIE DEGLI ARTISTI
R.A.M. 2015
PER UNA PEDAGOGIA DELLO SGUARDO di Elettra Stamboulis
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Ormai pedagogia è una parola desueta: per dare un segno della sua assoluta inadeguatezza a un certo lessico (e quindi pensiero) imperante, basti citare il caso della cosiddetta Buona scuola, il testo della nuova riforma della scuola. In esso semplicemente non compare mai. Che cosa è successo? Siamo ancora la terra di Maria Montessori, Don Milani, Capitini e i tanti che hanno provato a sperimentare lo stare con i bambini come luogo in cui costruire la possibilità di democrazia e pace? Non è certo una mostra e il lavoro di un gruppo di artisti a rispondere a queste domande. Eppure. Nel nostro territorio, intendo la Romagna e l’Emilia, le Marche in parte, nel dopoguerra si è creato un particolare humus naturale che ha creato una miriade di pratiche educative, ma soprattutto di riflessione educativa ovvero pedagogia, di qualità straordinaria. Uso la parola straordinario nel senso di qualcosa che, stando nell’ordine delle cose, ne muta la direzione, le fa tracimare e rende il futuro vivibile. Prendiamo l’esempio del CEIS di Rimini. Fu fondato a partire dal 1945 da un’insegnante socialista svizzera, Margherita Zoebeli che fu incaricata dal suo sindacato di seguire la costruzione di una scuola nella città di Fellini, portando la legna dalla Svizzera e le pietre dal posto. Che di pietre ce n’erano, visto che era una delle città più bombardate d’Italia. La linea del Rubicone invisibile aveva ancora definito le sorti di questo lembo di terra. Fu così che nacque il CEIS che fu uno di centri propulsivi della nuova pedagogia italiana, a cui collaborarono e si formarono anche architetti come Quaroni e De Carlo, mutuando linguaggio, pratiche, quesiti. Fabrizia Ramondino, come ricorda Goffredo Fofi in un suo bel articolo apparso su La Repubblica del 2011, fu un’anche essa figlia di questa esperienza e grazie ad essa poi fondò l’asilo antiautoritario a Napoli. In un certo senso, se unissimo i puntini degli incontri e dei percorsi di vita, scopriremmo come esperienze come la Non scuola e Corpogiochi, Giallo dei Fanny & Alexander, tutte ravennati, sono le nipoti di quelle riflessioni e di quelle pratiche.
Ecco dunque che la domanda posta agli artisti vincitori del premio RAM 2015, una piccola e resiliente biennale dei giovani artisti legati al territorio di Ravenna, è partita da qui. Che cosa resta nel vostro sguardo della pedagogia. Non dell’arte come strumento pedagogico, sia chiaro: della pedagogia come relazione e dialogo, come esperienza anche privata, educazione in generale come ultimo rito collettivo di passaggio ancora presente in una società desacralizzata come la nostra. Da questa constatazione è partito ad esempio Victor Fotso, artista camerunese formatosi all’Accademia di Ravenna e specializzato in ceramica a Faenza. L’esperienza del rito di passaggio collettivo del suo villaggio diventa un’occasione di ridefinizione della memoria biografica personale che diventa anch’essa collettiva, della partenza dal proprio paese d’origine, ultimo rito per l’ingresso nell’età adulta. Diversa l’elaborazione di Caterina Morigi che, forse per contesto familiare, ha incrociato la propria curiosità per le intelligenze teorizzare da Gardner. Come rappresentare in figura un tema così apparentemente impalpabile? Ovviamente attraverso il corpo che lo esplicita e quindi il segno del disegno. Sulla strada dell’indagine in qualche modo antropologica anche il lavoro di Nicola Baldazzi, allievo come molti dei fotografi ravennati di Guido Guidi, che si concentra su chi attiva diverse, piccole pedagogie resistenti. Pratiche di resilienza che agiscono in piccoli orti, in angoli di periferie urbane. Silvia Bigi e Luca Maria Baldini, coppia artistica che per i progetti di arte sonora si firma UkiYo-E nel progetto Empathy lavorano proprio sul cuore della relazione pedagogica ovvero l’ascolto. Quel tassello che tanto viene evocato e poco attivato nelle pratiche scolastiche italiane, tutte concentrate sull’emissione di un sapere codificato, poco attente alla creazione e alla ricezione del sapere dell’allievo/a. La scoperta del mondo attraverso lo sguardo sull’altro è anche il filo conduttore del lavoro video di Miriam Dessì, FACS Facial Action Coding System. E il lavoro di Sara Vasini, una litania di ditali in cui emergono piccolissimi mosaici dal titolo Tu, rientra anche esso nell’interpretazione fortemente relazionale del tema. Il ditale, oggetto quasi dismesso del fare contemporaneo che però è piccolo scudo per creazioni immaginifiche di bellezza. La riflessione pedagogica come sfida ad immaginare il futuro è invece la matrice da cui emerge il lavoro quasi da installazione di Dissenso Cognitivo, di cui siamo abituati a vedere i lavori che emergono dalla ruggine dei pannelli per strada. Vedere forme che acquisiscono un senso, ridare senso e significato allo sguardo perduto per strada sono solitamente i dati emergenti del lavoro di questo originalissimo artista dello spazio pubblico, che questa volta vediamo in museo e che ha operato ricreando uno spazio anche oggettuale, ampliando la cornice.
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Che cos’è quindi la pedagogia? Non chiedetelo a noi, che la parola che possa squadrare non la possediamo, come scriveva Montale sempre sull’orlo della guerra. Ma quello che possiamo fare è proporre quesiti, stimolare le retine e i sensi, chiederci che fine ha fatto quel prezioso tesoro immateriale fatto di relazioni di crescita. In un certo senso anche l’esperienza di RAM è stata in questi oltre quindici anni una forma di pedagogia relazionale tra curatori e artisti, incontro tra generazioni, condivisione di visioni e ascolto nutrito dal fare. Ce ne siamo accorti solo mentre chiudevamo il catalogo, perché in tutte le relazioni pedagogiche si cambia in due.
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FOTOGRAFIA
° Nicola Baldazzi
DA MARZO A SETTEMBRE. Éloge de la friche di Maria Rita Bentini
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Éloge de la friche è il titolo di uno scritto di Gilles Clément adatto per accompagnare il progetto di Nicola Baldazzi per distinte ragioni. Friche è un termine che può essere tradotto dal francese come incolto, oppure come area dismessa dopo essere stata lavorata o abitata dall’uomo. Per il paesaggista francese è “il più immediato dei giardini” e rappresenta un’opportunità. Come un terreno abbandonato può essere considerato un giardino? Con quale prospettiva? “Questione di osservare, conoscere, e solo poi agire”. Al posto di sofisticati attrezzi ci si metterà alla ricerca di forme di azione compatibili con i processi che si svolgono lì, all’interno, tra le piante. In questo “giardino in movimento” la figura del giardiniere ha un ruolo debole ma centrale, perché il giardiniere osserva, studia, parte da quel che c’è. Ha in sé nuovi punti cardinali. “Non considerare la pianta un oggetto finito”. “Non isolarla dal contesto che la fa esistere”. “Seguire il flusso naturale dei vegetali, inscriversi nella corrente biologica che anima il luogo e orientarla”. “ Per lui “crescita, sviluppo esprimono la dinamica di un sistema biologico in quanto trasformazione”, uno stato opposto all’accumulazione, che favorisce l’invenzione. Con qualche domanda cui forse dare risposta nel tempo: “Sarà possibile [...] stabilire un territorio condiviso?” L’Orto Sinergico Spartaco, la sua crescita vegetale, insieme a quella del gruppo di ragazzi che ha trasformato un margine verde tra il Parco Teodorico e il Villaggio Anic per farne un esperimento di vita comune, è il soggetto prescelto. Un luogo dedicato al fare sinergia, fra le piante e fra le persone, innescando un processo di auto-fertilità, in cui niente va sprecato, secondo i principi dell’agricoltura naturale del non-agire del giapponese Masanobu Fukuoka. Per lui “l’obiettivo finale dell’attività agricola non è la crescita dei raccolti, ma la coltivazione e il miglioramento degli esseri umani”. Un punto di vista successivamente trasformato in originale
tecnica agricola e in azione pedagogica da una donna straordinaria, la catalana Emilia Hazelip, che ha reinvento l’orto quale sistema vivente in continua evoluzione, trasmettendo la meraviglia per l’incredibile complessità di relazioni alla base della vita vegetale. Fiori e ortaggi, allo Spartaco, sono stati seminati da una comunità in divenire e sono cresciuti, le erbe spontanee e i parassiti lasciati vivere con loro, in una densa convivenza. Giungla intricata e insieme orto: così, sulla spirale-mandala di paglia sopraelevata - la pacciamatura - , un mondo nuovo di rapporti e di emozioni si è messo in moto. Vedere non è fotografare. Ma la fotografia può essere all’inizio un modo per catturare la realtà, un lasciarsi prendere dalle immagini, come potrebbe esserlo un’esploratore della folla (“Je voyage pour connaître ma géographie”, ricorda Benjamin in Passages). Col suo obbiettivo Nicola Baldazzi ha mappato questo mondo. Lo ha osservato da marzo a settembre: centinaia di scatti coi quali ha scavato nello spazio e, per via di dettagli, lo ha moltiplicato. Tracce, oppure presenze. Attimi di vita: si nasce, ci si perde, si rinasce. Per un po’ Pito e’ scomparso poi e’ tornato, i ragazzi si vedono sempre e qualcun altro e’arrivato. Il tempo è inarrestabile, ben oltre la fine dell’estate. L’immagine, con la gabbia analogica del 6x6, restituisce allo sguardo l’hortus conclusus dello Spartaco nel flusso temporale che non si annulla nell’istante di un clic. Un mondo magicamente ricreato in ogni fotografia, grazie a uno scarto, a uno spostamento, a un inaspettato equilibrio.
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Da marzo a settembre C-print da negativo 6x6, 18x18cm, 2015
Da marzo a settembre C-print da negativo 6x6, 18x18cm, 2015
Da marzo a settembre C-print da negativo 6x6, 18x18cm, 2015
VIDEOARTE
° Miriam Dessì
MIRIAM DESSÌ O DELLA FENOMENOLOGIA FACCIALE DELLE EMOZIONI di Daniele Torcellini 16
Le emozioni che proviamo trovano un riscontro immediato nelle espressioni del nostro volto, modellato, in un continuo mutamento, dal contrarsi e rilassarsi di numerosi fasci di muscoli facciali. Il volto è la parte del nostro corpo che, per prima, ci rappresenta nelle relazioni interpersonali ed è il volto di chi abbiamo di fronte la parte del corpo su cui si concentra con insistenza il nostro sguardo, seguendo tortuosi percorsi che hanno il loro fulcro nelle aree degli occhi, del naso e della bocca. Non stupisce che sia stato oggetto di tante attenzioni nel corso dei secoli. La rappresentazione del volto occupa artisti e teorici dell’arte, dagli studi di carattere di Leonardo Da Vinci a The Passions di Bill Viola, passando indenne attraverso realismi, impressionismi, simbolismi, espressionismi, astrazioni e concettualismi di ogni tipo1. Tanto facile leggere l’espressione che un volto assume, in quella consonanza che è rispecchiamento di forme tra chi parla e chi ascolta, quanto arduo rappresentare efficacemente un volto rapito da un’emozione. Con mille contraddizioni. Riconosciamo volti in qualunque conformazione sia strutturata in modo simile a quelle aree - occhi, naso, bocca - di cui si è detto2. Superba prova gestaltica di come il nostro cervello sia strutturato innatamente per farlo. E nel momento in cui vediamo un volto - anche in una combinazione di due punti, trattino e parentesi - lo vediamo anche vivo, dotato di una qualche espressione che, con naturalezza, si porta con sé uno stato emotivo. Il progetto video di Miriam Dessì mette al centro della scena il volto. Frontalmente inquadrato e ben isolato dallo sfondo, esso è colto nel momento in cui esprime
un’emozione, ripresa con un’alta frequenza di fotogrammi, per poi essere visualizzata a rallentatore. Si dischiudono così le più sottili variazioni di tono, le più delicate e minimali contrazioni muscolari che permettono a quell’emozione di incarnarsi nel volto stesso, come la stessa emozione farebbe in ogni altro volto3. Con mille contraddizioni. Le emozioni sorgono nell’immediatezza di una condizione stimolante che attiva un circuito neurale involontario. Il volto non mente4. Non possiamo esprimere efficacemente un’emozione se non la stiamo provando. Ma il volto che Miriam Dessì filma è quello di un attore, Marco Cavalcoli. Certo, è proprio l’attore colui che meglio di altri può ambire a riprodurre uno stato emotivo, ma pur sempre recitando5. Si riconferma quell’intrinseca difficoltà a rappresentare le emozioni: la forma statica le congela in un aspetto che non è, tuttavia, semplicemente estrapolazione di un istante nel fluire ininterrotto del tempo; la presenza dell’obiettivo di una ripresa video è di per sé ostile ad ogni naturalezza. Un attore, un bravo attore, avvicina la simulazione all’ideale, ben avvezzo ad emozionarsi con videocamere e riflettori puntati addosso. E qui si annida quella sottile ambiguità su cui il progetto magnificamente insiste, il limite tra reale e fittizio. Scomporre analiticamente - attraverso un procedimento che richiama gli studi fisiologici condotti a cavallo tra Ottocento e Novecento per mezzo della cronofotografia - lo svolgersi di un’emozione, priva però della sua immediatezza involontaria, sul volto di un attore, al fine di comprendere, imparare a riconoscere, controllare, le proprie, reali, emozioni. Il lavoro di Miriam Dessì ha un carattere medico, ospedaliero, diagnostico, autoptico6. Appare come una coltura cellulare in vitro, una simulazione chirurgica cadaverica. Una lezione di anatomia delle emozioni. È una presa di distanza. Una misurazione a freddo di ciò che per eccellenza può travolgere emotivamente, a caldo, privandoci del controllo di noi stessi. Una misurazione che non può che essere effettuata sperimentalmente in laboratorio, fuori dalla vita reale. Così scienziati e fotografi come Étienne-Jules Maray e Eadweard Muybridge hanno svelato il modo in cui si muovono, reciprocamente, le parti del corpo nello svolgersi di un’azione, fotografando in rapida successione un soggetto intento a compierla, per poi dipanare le fotografie una accanto all’altra, o una sopra l’altra, o una dopo l’altra7. Similmente, Miriam Dessì, dipanando fotogrammi di espressioni e micro espressioni di un volto, vuole svelare alla sua coscienza il modo in cui si muove la mente nello svolgersi di un’emozione.
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Foto tratta da G. B. Duchenne, Mecanisme de la physionomie humaine ou Analyse electro-physiologique de l’expression des passions applicacable a la pratique des arts plastiques, Paris, J. Renouard, 1862.
FACS. Facial action coding system video B/N, 2015
Foto tratta da P. Ekman and W. Friesen, Facial Action Coding System: A Technique for the Measurement of Facial Movement, Palo Alto, Consulting Psychologists Press, 1978. Gli autori analizzano le espressioni facciali scomponendole nelle più piccole unità d’azione (Action Unit - AU).
FACS. Facial action coding system video B/N, 2015
Esempio di Action Unit - AU della parte superiore del volto. FACS. Facial action coding system video B/N, 2015
F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Milano, Einaudi, 1995. E. H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Torino, Einaudi, 1965. 3 C. Darwin, The expression of the emotions in man and animals, London, John Murray, 1872; trad. it. L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali, Torino, Unione tipografico-editrice, 1878. Darwin conduce un sistematico studio comparato di espressioni umane e animali, finalizzato a mettere in luce l’origine genetica delle modalità di espressione delle emozioni. 4 Paul Ekman psicologo americano alle cui teorie Miriam Dessì si ispira per questo suo lavoro, suddivide le espressioni del volto in quattro categorie. Macro sono le espressioni normali, durano tra 1/2 di secondo e 4 secondi, si ripetono e sono in accordo con ciò che viene detto e con il tono della voce. Micro, sono espressioni molto brevi, durano tra 1/15 e 1/25 di secondo, in molti casi mettono in evidenza emozioni nascoste, il risultato di soppressioni o repressioni. False, sono espressioni frutto della deliberata simulazione di una emozione non sentita. Mascherate, sono espressioni false fatte per coprire macro espressioni. P. Ekman, Emotion in the human face, Cambridge, Cambridge University press; Paris, Editions de la maison des sciences de l’homme, 1982. Nella serie tv Lie to me, andata per la prima volta in onda tra il 2009 e il 2011, l’investigatore Cal Lightman, impersonato da Tim Roth, smaschera malviventi individuando incongruenze tra comportamenti ed espressioni e micro espressioni facciali. 5 Originale e intenso recupero delle teorie di Paul Ekman è quello messo in scena da Marco Cavalcoli nello spettacolo Emerald City della compagnia teatrale Fanny & Alexander. Qui l’effige del dittatore, per come stigmatizzata da Maurizio Cattelan, e già in scena nello spettacolo Him della stessa compagnia (entrambi parte del più vasto progetto O/Z), subisce inerme le confessioni e le preghiere di tutto il mondo a lui rivolte, incarnandole in una ininterrotta sequenza di espressioni mimiche ai limiti dell’umano. 6 G. B. Duchenne, Mecanisme de la physionomie humaine ou Analyse electro-physiologique de l’expression des passions applicacable a la pratique des arts plastiques, Paris, J. Renouard, 1862. 7 É. J. Marey, Études pratiques sur la marche de l’homme. Expériences faites à la station physiologique du Parc des Princes, La Nature, 608, 24 janvier 1885; E. Muybridge, Animal locomotion. An electrophotographic investigation of consecutive phases of animal movements, Philadelphia, University of Pennsylvania, 1887. 1 2
PITTURA
° DissensoCognitivo
IL FUTURO NON È PIÙ QUELLO DI UNA VOLTA di Claudio Musso
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Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. La sentinella, Friedrick Brown La retorica più in voga al giorno d’oggi è senza dubbio quella sul futuro. L’oggetto di tutte le nostre paure è l’avvenire, la più grande preoccupazione del presente risiede in ciò che succederà, anzi in ciò che potrebbe succedere. I mass media straripano di emergenze, allerti e pericoli, ma niente è capace di instillare la terribile angoscia che pervade chi osa pensare al domani. Viviamo uno stato di panico freddo1 di cui il terrorismo non è la causa, bensì la conseguenza, il terrore infatti non è il risultato di una strategia, ma la componente risultante di una serie di allarmismi diffusi. Quali antidoti a queste minacce? Nella seconda metà del XX secolo si è vissuta l’età dell’oro della fantascienza che, da genere letterario di nicchia, è divenuta fonte di ispirazione per una vasta gamma di prodotti culturali mainstream (dalla cinematografia al videogame, dalla fiction al fumetto). Basti pensare che in Italia la Rai nel 1979 produsse una miniserie di tre puntate intitolata Racconti di fantascienza in cui alla lettura di testi classici si alternavano brevi telefilm ispirati a celebri titoli di settore. La ricerca di DissensoCognitivo ha attinto a piene mani a questo immaginario, da un lato (quello lampante) identificandolo come base fondante per l’evoluzione del tratto pittorico e figurativo, dall’altro (quello sfuggente) elevandolo a teoria pedagogica. Si potrebbe affermare che il racconto fantascientifico è di per sé un rimedio al timore del futuro, spesso infatti la narrazione di questo particolare genere si fonda sulla costruzione di un monito, una morale che, nascosta nei codici della prosa,
fa bella mostra di sé in conclusione, proprio come accade nelle favole2. NOW FUTURE è la collana editoriale ideata dall’artista come contenitore delle riflessioni su futuro e pedagogia. Gli oggetti presentati hanno, già al primo sguardo, un’aria ambigua: sono libri, sembrano volumi qualunque, in realtà non sono altro che falsi. I libri di DissensoCognitivo vivono di sola apparenza, il loro contenuto infatti non è accessibile, l’unico veicolo di comunicazione del messaggio è la copertina. L’autore comme d’habitude innesta il suo intervento in un sistema esistente innescando un cortocircuito semantico e un rapporto dialogico con la superficie in questione. L’obiettivo dei suoi interventi pubblici, spesso non autorizzati, sono le tabelle affissive, il cui aspetto ostenta il deterioramento a cui sono sottoposti i materiali metallici, e proprio quest’ultimo (la ruggine, per l’esattezza) sembra strutturarsi come supporto precipuo alla figurazione. Nel caso di NOW FUTURE il fattore interstiziale è il libro stesso, oggetto recuperato assunto a readymade, su cui l’azione pittorica, che mima l’illustrazione principale, produce uno slittamento di senso. La doppiezza del titolo della collana vale come migliore spiegazione: cancellando la W infatti il significato passa da un rassicurante “futuro adesso” all’inquietante “senza futuro”. Il margine tra le due accezioni è lo spazio d’azione dell’artista, e forse anche il nostro. 23
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P. Virilio, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 9. Cfr. V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000.
NOW FUTURE Tecnica mista su carta e ruggine, Dimensioni ambientali (dettaglio dell’opera) 2015
NOW FUTURE Tecnica mista su carta e ruggine, Dimensioni ambientali (dettaglio dell’opera) 2015
Racconti di fantascienza Screenshot da video miniserie trasmessa su Rai2 nel gennaio del 1972
SCULTURA
° Victor Fotso Nyie
ESTETICA PRAMMATICA. TALISMANI PER ATTRAVERSARE L’ARTE E LO SPAZIO. di Elettra Stamboulis
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L’ultimo rito di passaggio condiviso nella nostra società è la scuola. Sparite le pratiche rurali, moltiplicate quelle religiose e trasformate nei monoteismi in pratiche consumistiche, svuotate di valore simbolico, l’ingresso nell’età adulta viene ormai scandito esclusivamente dai passaggi scolastici, che sono difatti divenuti intensi emotivamente, partecipati a livello famigliare e sociale. Da questa osservazione è partito Victor Fotso, un giovane artista di origine camerunese formatosi all’Accademia di Ravenna e a Faenza, per ricostruire attraverso un’estetica prammatica, fatta di cose e sperimentale, un progetto artistico che mette al centro la scultura, ma attraversa delicatamente la ricerca antropologica e l’autobiografia. La parola antropologia, nel senso in cui la intendiamo ora, è stata usata alla fine del Settecento. In particolare quel lume di Kant intitolò Antropologia prammatica la sua ultima opera, il suo lasciapassare per quell’aldilà a cui in realtà non credeva. «La conoscenza fisiologica dell’uomo – scriveva Kant – si propone di indagare ciò che la natura fa dell’uomo, la pragmatica ciò che l’uomo, in quanto essere libero, fa o può fare di se stesso»1: su questo testo Michel Foucault ci fece una tesi, innestando una serie di riflessioni che diverranno i perni della sua riflessione, dal sonno antropologico e la limitatezza umana all’archeologia delle scienze umane e alla questione della prossima scomparsa dell’uomo nella configurazione dei saperi e dei poteri che prenderà il nome di biopolitica, per arrivare alla questione dell’Illuminismo e il problema del governo e della governamentalità. La ricerca antropologica, e in particolare etnografica, ha da sempre però avuto connotazioni colonialiste e strumentali: quando dico da sempre intendo perlomeno dall’oracolo di Delfi e dagli storici di Alessandro Magno. Il sapere sull’altro è stato utilizzato culturalmente come forma di potere, tuttavia esso è stato, in particolare quando è diventato strumento dell’osservato come nel caso di Franz Fanon, uno
straordinario grimaldello per un’interpretazione sovversiva ed emancipatoria. Attirato in modo naturale da questo fantasma del pensiero, Fotso ha intrapreso un percorso che è partito dalla propria esperienza autobiografica, il rito di passaggio praticato nel suo villaggio d’origine, Bandjoun, la cittadina più importante dei Bamiléké. A questo si intreccia il segno del distacco vero, quello dell’uscita dal contesto familiare, una sorta di allontanamento che più tanto rituale non è, quello della partenza per l’Italia: una fotografia che scopre essere l’unica in cui compaiono tutti i fratelli. “Ognuno guarda in un’altra direzione, come se fossimo tutti in procinto di partire. Come se questa vicinanza fotografica, unica e forse irripetibile, ci mettesse tutti a disagio”, dice di questa epifania biografica. Ma il centro pragmatico è lei, la scultura in terracotta: tubolare e contemporanea, ma allo stesso tempo dalle movenze dionisiache che riprendono la torsione della menade di Skopas. La forma della testa che si piega nella ricerca di un’espressività, non solo fisica, sottolinea uno degli arcani della glittica, il movimento nella permanenza della materia. In questa impasse interviene un dettaglio arcaico, il sorriso impercettibile della maschera antropomorfa, che sornione ci riporta non solo alle origini della nostra identità storico artistica (che è ahimè anche quella del Camerun che come altri paesi ex coloniali ha assorbito appieno il canone), ma anche della cifra di questo artista. “Il danzatore” ci riporta dunque al quesito kantiano: che cosa l’uomo, in quanto libero, fa o può fare di se stesso? L’allontanamento e il passaggio, se rituali e condivisi, sono sicuramente fasi sostanziali del processo di crescita, e un artista che ha fatto di entrambi uno strumento di indagine creativa non poteva che concentrarsi su questi.
I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET, 1970, p. 541) 1
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Mia famiglia Aereoporto internazionale di Douala Camerun 2012
Il danzatore terracotta, 80x40x35 cm, 2015
Il danzatore terracotta, 80x40x35 cm, 2015
INSTALLAZIONE
° Caterina Morigi
I BAMBINI DI CATERINA di Sabina Ghinassi
Il fiume modella le sponde e le sponde guidano il fiume Gregory Bateson 34
Caterina Morigi è una giovane artista che ama interrogarsi. Lo fa in modo gentile e meditato attraverso opere processuali che avanzano lente, ritornano su loro stesse e accolgono ogni riflessione, ogni dettaglio con grazia e profondità. Per Morigi, allieva del fotografo Guido Guidi, il tempo e la sedimentazione sono aspetti fondamentali all’interno della sua ricerca espressiva. Ma in quest’installazione progettata per Ram, forse per il tema - la pedagogia - così disturbante e sovversivo durante questi giorni così bui per la collettività, Caterina ha trovato una strada che, pur inserendosi con assoluta coerenza nel suo percorso di artista, le ha permesso innesti differenti: il ritrovamento di corpo, di segni, l’invenzione di nuove relazioni. È un lavoro in qualche modo simile a un metalogo di Gregory Bateson, una conversazione su un argomento problematico che rende rilevanti non solo gli interventi dei partecipanti, ma la struttura stessa dell’intero dibattito. Partendo dalle intuizioni pedagogiche dello psicologo americano Howard Gardner, teorico delle intelligenze multiple, Caterina ha analizzato l’Intelligenza Disciplinare, la Sintetica, la Creativa, la Rispettosa, l’Etica, le cinque chiavi necessarie per affrontare in modo adeguato il futuro secondo lo studioso. La prima disciplina gli input che provengono al bambino dall’esterno e dall’interno, il rigore e la spontaneità; gli permette di distinguere il vero dal falso, l’astratto dal concreto, gli fornisce metodi e contenuti per guardare il mondo. La seconda è la capacità di assemblare informazioni provenienti da più fonti in modo da arrivare a una sintesi unitaria, operando connessioni, usando analogie, simboli e metafore. La terza è quella che pone nuove domande e offre nuove soluzioni, esplorando direzioni inesplorate, inusuali. La quarta è quella che accetta e si confronta
con la differenza e l’alterità. La quinta è quella che si fa carico delle esigenze della società, superando i propri interessi personali. Caterina, in questo progetto, ha creato una sorta di messa in atto delle teorie di Gardner. Nel farlo ha usato il disegno. “Linguaggio incoattivo, dialogo rudimentale, approccio di riconoscimento dell’altro, il disegno appartiene sempre all’inizio di un mondo, tocca sempre terre vergini.”, dice, lucidamente, Jean Clair nella sua Critica della modernità (pp. 102, Allemandi, 1984). E il disegno per Caterina diventa allora il mezzo per segnare, con una tenerezza quasi incandescente, i momenti di un viaggio dentro una visione altra del mondo; lo accompagna con un taccuino di appunti, essenziali e insieme delicati, sicuramente poetici. Sono bambini, disegnati con una calligrafia fluida, che, nel loro dare corpo alle affermazioni di Gardner, gradualmente acquistano dettagli colorati, fragili e preziosi: l’arancio della banana-telefono, il rosso della ciliegia-orecchino. Diventano in qualche modo affettivi, prepotentemente analogici, tutt’altro che virtuali. Il disegno dà contorni al mondo, lo definisce, lo costruisce; il disegno è scegliere consapevolmente una strada nella visione, segnare un confine, disciplinare, per dirla con Gardner, il pensiero, per lasciarlo sedimentare, determinandolo con cura. Nel far questo la scrittura progettuale di Caterina Morigi è sempre riflessiva e, insieme, rigorosa, non tanto in funzione di un obiettivo specifico, quanto nella profondità dello sguardo e dell’intenzione artistica e poetica, nella responsabilità di senso che si assume.
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L’intelligenza disciplinare Tecnica mista su carta 21 x 29,7 cm, 2015
L’intelligenza sintetica Tecnica mista su carta 21 x 29,7 cm, 2015
Quaderni di appunti Tecnica mista su carta 10 x 14,5 cm, 2015
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ISTALLAZIONE
° UkiYo-E (Silvia Bigi, Luca Maria Baldini)
NEBULA di Antonella Perazza
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a-cu-smà-ti-co: sign. Di suono che si sente senza che la sua origine sia visibile, dal francese: acousmatique, aggettivo coniato dal compositore e musicologo francese Pierre Schaeffer intorno alla metà del secolo scorso, mutuato dal greco: akousmatikoi, nome degli allievi di Pitagora che udivano in silenzio le sue lezioni senza vederlo, da akousma voce, suono. I sensi ci aiutano a percepire lo spazio nelle sue diverse forme e ci consentono di vederne i confini, assaporarne i contorni e sfiorarne gli angoli. Nonostante la netta predominanza del senso “vista”, anche nello spazio definito e riconosciuto attraverso l’udito, si inseriscono alcuni episodi cognitivi, riconducibili all’immaginazione visuale, che seguono regole fisiche e psico-acustiche ben precise. Ne risulta che l’orecchio non agisce solo come input passivo, ma può essere addestrato a ricercare e discriminare significati fonemici in una sequenza di armoniche variabili. La relazione che si instaura tra suono e cervello porta la mente ad attivare l’area adibita ai ricordi, perciò l’ambiente uditivo diventa un meta-luogo nel quale è possibile intervenire attraverso l’azione artistica. Ukiyo-e, con la propria installazione, cerca di trasformare lo smarrimento percettivo, tipico dell’evento sonoro, in pura pratica immersiva. L’imprinting semantico che ne scaturisce è ridefinito dalla direzionalità, dalla distanza, dall’intensità e dal timbro, a seconda del sito in cui è ospitato. Il progetto Empathy, che il collettivo, formato da Silvia Bigi e Luca Maria Baldini, porta avanti da qualche anno, è il contenitore esteso di questo concetto organizzato secondo una temporalità acentrica, illimitata e costellativa, che rintraccia nei tre attanti (fruitore, narratore e spazio circostante) le cuspidi del proprio percorso. E proprio in Nebula la percezione diventa una questione essenzialmente esperienziale che sollecita la memoria. La
voce acusmatica, solitamente delegata alla trasmissione di un messaggio verbale, è, in questo caso, incorporea, apolide, e l’andamento che ne consegue è irrazionale e onirico, tipico del procedere ondivago del pensiero. Sotto la spinta di questo flusso di coscienza nel campo sonoro si verifica un momento irripetibile. Attraverso il principio della partecipazione attiva l’artista “incontra” il fruitore, senza tuttavia farsi corpo. Lo interroga, lo stimola, condivide con lui i suoi segreti, al fine ultimo di fargli vivere un coinvolgimento esteso a tutto il corpo. Attingendo a una simbologia specifica e attraverso una lingua vergine, estranea ai fatti, l’installazione trasforma l’ascolto in una diaspora del pensiero che divaga avventurandosi in sfere esterne, eliminando i confini che solitamente si stabiliscono tra l’esperienza vissuta e la trasmissione. Una comunicazione intima, unica e universale allo stesso tempo, che abbatte le distanze grazie a un canale fortemente empatico. Partendo dal principio montessoriano secondo il quale la mente umana, nei primi anni di vita, è “capace di assorbire cognizioni1” attraverso una misteriosa potenzialità strettamente legata a periodi sensitivi, Ukiyo-e configura un percorso guidato dalla nuda voce. Così la narrazione, in particolare il linguaggio usato, diventa una nebula inesistente e germinativa che innesca lo sviluppo delle abilità nascoste in ogni essere umano. Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore; anche chi la legge partecipa a questa società. (Walter Benjamin - Il Narratore)
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M. Montessori, La mente del bambino - Mente assorbente, Garzanti, 1999.
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Nebula installazione sonora, 2015
Nebula installazione sonora, 2015
Nebula installazione sonora, 2015
MOSAICO
° Sara Vasini
TU, SARA VASINI di Luca Maggio
No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main.” John Donne “e leviga la sua notte, anello dopo anello” Mahmud Darwish
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Tu: una serie di ditali da cucito disposti in fila ordinata su una parete. Il metallo luccica con la luce giusta. Dentro ognuno, misteri minuti e sospesi, delicati come “ombre di api sull’erba”1. Tu e lui: l’abbraccio finale, il ritrovarsi di Jean e Juliette sull’Atalante di Jean Vigo, poveri e splendenti sul pavimento dell’imbarcazione a sua volta sopra un letto di onde argentate: anime di una stessa anima, direbbe John Donne, e come le aste di un compasso, per quanto lontane, sono sempre unite in una promessa d’eterno ritorno.2 Tu e gli altri: dita d’infanzia in gioco che sfiorano forme su vetri appannati in un inverno bergmaniano, mani intrecciate a mani nella sera estiva al frinire di cicale impazzite, vite che s’incrociano, corpi che si mescolano, battute nate e perse, ben spese, con gli amici, l’urlo dell’amico a squarciare la collina fiorita, il muso del cane, andato come Arianna col suo filo, il baccanale sonoro del mercato, l’incanto di nuvole bianche e graffi sugli scogli della costa, successi, delusioni, giorni di sabbia, scarabocchi di cose che non si dimenticano. L’isola che non c’è. Ed è Wendy a regalare a Peter Pan un ditale da cucito chiamandolo bacio. Ecco cosa contengono i tanti Tu di Sara Vasini, un centinaio, affinché se ne veda da lontano la processione (come in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna), senza però attribuire al numero valori particolari. Uno zero zero. Ma tutto ben ritmato, a ricordare nella ripetizione certe avventure fondanti il minimalismo musicale coi loro suoni elegantemente ossessivi, reiterati con variazioni e aggiunte e accumulazioni quasi nascoste dal fluire delle note, come gli undici accordi che sostengono la struttura di Music for 18 musicians di Steve Reich (1976) e ancor più i cinquantatré moduli di In C di Terry Riley (1964). Questi piccoli nidi metallici, nati per difendere le dita dal dolore dell’ago, come le basiliche bizantine in semplici e spogli mattoni esterni celano e proteggono i bagliori musivi interni, celano anch’essi e proteggono un mosaico di scaglie di materia povera come conchiglie e sassolini, oltre a cenni di turchese, ambra, corallo, tutti
danzanti in moto circolare, dunque organico e vivificante, attorno al nucleo prezioso in tessera d’oro che è l’altro, il Tu cui si rivolge l’artista e che coinvolge chiunque guardi queste sedi simboliche dell’incontro, avendo saturato il proprio vuoto con frammenti densi ed essendo ormai divenuti altro dal proprio uso quotidiano, senza possibilità di ritorno, in un processo che parte dai ready-made duchampiani e passa per gli innesti di oggetti e neon di Merz3 sino ai giorni nostri. La tecnica con cui Sara ha costruito le sue microarchitetture non le è nuova, avendola già sperimentata nei lavori di You just sit there wishing you still make love (2012-13), ma lì, al centro, era la stilizzazione di una sedia, idea dell’attesa, qui è l’oro, con la sua luce, il tesoro che è il desiderio dell’altro da sé da accogliere al proprio centro. Se si è privi dell’altro, non può accadere mutazione, né sfida, né crescita, né vita. L’incontro è il cuore che cambia e genera. L’uno monolitico respinge. Non è esperibile. È invece vitale interpretare la realtà dell’altro, dandole senso attraverso la propria per uscirne noi stessi rinnovati, imparando a conoscere il valore delle differenze, in quanto portatrici dell’“ineludibile enigma”4 dell’altro che rende a sua volta altro il nostro sé. Per questo è necessario mettersi in gioco senza risposte predefinite, facendo interagire anche le emozioni e i sentimenti di ciascuno (affrontando il labirinto stesso della memoria da punti di vista differenti), quali parti integranti nella costruzione dei processi bio-socio-educativi.5 Dunque è un percorso lato, valente per gli umani nella coppia, come nei gruppi amicali o didattici, altre forme d’apertura, di condivisione, d’amore6. Ma, come s’è visto, anche nell’incontro fra artista e materia. Il vero incontro, infatti, non è mai la semplice somma degli elementi coinvolti e solo nello spazio della relazione si realizza “la vera trascendenza” che dunque “è nell’intra.” 7 All’arte il compito, già secondo l’idealismo schellinghiano, “di realizzare questa identità superiore in cui io e mondo coincidono”8. C. A. Duffy, Sung, in Le api, Firenze 2014, pp.136-137. J. Donne, A Valediction: forbidding mourning, in John Donne, Poesie sacre e profane, Milano 1995, pp. 130-133. 3 B. Pietromarchi, Mario Merz. Città irreale, Ginevra-Milano 2015, pp.16-29. 4 M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Trento 2005, pp. 39-46. 5 J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano 2002. In particolare Bruner parla del principio della prospettiva, principio delle limitazioni, principio del costruttivismo, principio dell’interazione, principio dell’esternalizzazione, principio dello strumentalismo, principio istituzionale, principio dell’identità e dell’autostima, principio narrativo, fra loro interagenti per la costruzione dei processi educativi e di significato della realtà e del sé nella realtà. 6 D. Pennac, Diario di scuola, Milano 2008, pp.205-241. 7 F. Cheng, Cinque meditazioni sulla bellezza, Torino 2007, p.18. 8 F. Cheng, op. cit., p. 95. 1 2
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Tu tecnica mista, dimensioni variabili 2015
Tu tecnica mista, dimensioni variabili 2015
Tu tecnica mista, dimensioni variabili 2015
PITTURA (Segnalata)
° Federica Giulianini
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Il tempo dopo al veleno tecnica mista su carte, 80x65 2014
FOTOGRAFIA (Segnalata)
° Chiara Talacci
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Urban Nature Nikon D 3100, 13x18 2014
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° Gli artisti ° Nicola Baldazzi
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Nato nel 1985 a Ravenna, dove vive e lavora. Si diploma al Liceo Artistico di Ravenna e successivamente si iscrive all’Accademia di Belle Arti della stessa città iniziando a frequentare le lezioni di Guido Guidi. Qui entra in contatto con giovani fotografi tra i quali Cesare Fabbri, Marcello Galvani, Luca Gambi, Francesco Neri, Francesca Gardini, Luca Nostri e Michele Buda. Nel 2012 segue un corso di reportage presso Spazio Labò di Bologna con il fotografo dell’agenzia Contrasto Alessandro Tosatto. Nel 2013 partecipa al progetto Dove Viviamo curata da Silvia Loddo e Cesare Fabbri pubblicando il suo primo libro Piccolo prontuario di fotografia segnaletica. Nello stesso anno segue il workshop Southern Photographs con il fotografo americano Andrew Phelps e il workshop Un chilometro con Guido Guidi. Nel 2014 segue un workshop con il regista spagnolo Marcos Morau organizzato dall’associazione Mirada e partecipa ad Adriatic coast to coast con il fotografo svedese Gerry Johansson. Dal 2014 collabora alle attività dell’associazione Osservatorio Fotografico di Ravenna. La sua ricerca fotografica si concentra su una sorta di paesaggio autobiografico e indaga i rapporti tra uomo, ambiente e società . Nel 2013 vince il concorso Prima Luce di Genova ed è tra i finalisti del Premio Francesco Fabbri per le arti contemporanee. Nel 2014 vince Giovane Fotografia Italiana all’interno del festival Fotografia Europea di Reggio Emilia e il terzo premio del concorso Viaggio in Emilia Romagna promosso dalla Regione Emilia Romagna.
° Miriam Dessì Nata a Carbonia nel 1985. Vive e lavora a Ravenna. Nel 2005 durante il programma di scambio Erasmus presso la Facultad de Bellas Artes di Bilbao, approfondisce attraverso vari corsi lo studio del video che la porteranno a prediligere questo mezzo come espressione artistica. Nel 2008 si laurea all’ Accademia di Ravenna con una tesi sull’ Inquietudine nei videomusicali ponendo l’attenzione sul video musicale come forma d’arte, in specifico approfondendo il lavoro di Chris Cunningham e Floria Sigismondi. Fra il 2009 e il 2014 vince diversi premi fra cui la prima edizione di Starting Point, premio riservato ai migliori studenti dell’ Accademia di Belle Arti di Ravenna e nel 2012, per la sezione video, viene selezionata a Valencia per il Festival Internacional de Arte Independiente, Incubarte V esponendo in varie sedi della città. Attualmente lavora a Ravenna come freelance per progetti su commissione, collaborazioni e nuovi progetti artistici personali.
CV
° DissensoCognitivo Dissenso Cognitivo nasce per la seconda volta a Ravenna nel 2012. Vive e lavora tra Ravenna e Dinosauria. La sua ricerca indaga le alterazioni degli esseri viventi e dell’ambiente, in un futuro remoto e disumanizzato, attraverso il linguaggio dell’arte urbana. L’immaginario a cui attinge è approfondito da accurate ricerche anatomiche, speculazioni tecnologiche e riferimenti alla letteratura Science Fiction. Il suo percorso alterna lavori in spazi pubblici, eventi e festival, a interventi non autorizzati. Dal 2012 suoi murales sono presenti in diverse città italiane e all’estero, non soltanto su muro, ma anche sulle superfici ruvide di billboards e pannelli metallici. Un originale dialogo con segni di usura, macchie, corrosione e ruggine che creano il pattern ideale per i suoi character decadenti e insidiosi.
° Victor Fotso Nyie Nato a Douala – Camerun nel 1990, vive e studia a Ravenna. Nel 2010 si diploma all’Istituto di Formazione Artistica di Mbalmayo (Camerun). Dal 2012 frequenta il corso di Mosaico dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Parallelamente frequenta anche un corso superiore di ceramica ITS della Tonito Emiliani e nel 2015 ottiene il diploma di Tecnico superiore per la progettazione e la prototipazione dei manufatti ceramici a Faenza. Ha svolto il tirocinio presso Bertozzi & Casoni con i quali continua la collaborazione. Ha vinto con due progetti il premio Shell per l’allestimento della piattaforma Clippers nel 2013. Ha esposto in occasione della festa del FAI alla Torre di Traversara di Bagnacavallo, partecipato ad azioni collettive come Nuove rotte della cultura di V!RA nel 2014 La sua ricerca artistica mette al centro la figura femminile e nei suoi dipinti e nelle sue sculture riproduce quella che per lui è la varietà umana e la sua idea di bellezza unendole alle proprie suggestioni intimistiche.
° Caterina Morigi Nata a Ravenna nel 1991, vive e lavora a Venezia. Presso l’Università IUAV di Venezia, si laurea in Arti Visive e dello Spettacolo nel 2013, con il progetto di tesi Cosa devo guardare, collaborando con il fotografo e relatore Guido Guidi. Nella stessa sede, prosegue gli studi magistrali in Arti Visive. Per l’anno 2015 le viene assegnato un atelier dalla Fondazione Bevilacqua la Masa, e nel 2014 ottiene un atelier al 59 Rivoli di Parigi. Dal 2011 ad oggi ha partecipato a numerose mostre personali e collettive nelle città di Bologna, Venezia, Ravenna, Rimini e Parigi. Inoltre, ha collaborato a progetti di arte e fotografia in Italia, Turchia e Francia. Il suo lavoro esplora i passaggi delle soglie in una continua ricerca di tracce: degli eventi, degli oggetti e dell’esperienza, cogliendo la rilevanza di ciò che lascia un segno manifesto o trasparente e ciò che lascia un vuoto. Si concentra sia sulla produzione che sulla registrazione delle tracce, evidenziandole per svelare le diverse sfumature tra il trattenere e il lasciar andare. I suoi lavori di fotografia e installazione sono dunque analisi di segni fisici o emotivi, ma comunque sensibili.
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° UkiYo-E (Silvia Bigi, Luca Maria Baldini) Silvia Bigi nasce a Ravenna nel 1985. Si laurea presso il Dipartimento di Arti Visive di Bologna e prosegue la ricerca sull’immagine con un Master presso Il Centro Sperimentale di Fotografia Adams di Roma. Partecipa a mostre collettive e lavora come assistente per il land artist Luigi Berardi. Collabora con Ravenna Teatro, con il magazine europeo Cineuropa e con la rivista di moda BMM. In autunno 2014 esce la sua prima pubblicazione, Attraverso i miei occhi. Proprietaria di Lilith, spazio per la fotografia contemporanea a Ravenna, è docente di workshop, corsi e laboratori. Con il cortometraggio E’ Diveri vince il primo premio al festival internazionale Sedicicorto. Con il musicista Luca Maria Baldini ha creato il progetto Ukyio-e, duo che unisce panorami sonori a mondi visionari attraverso soundscape performativi. Luca Maria Baldini nasce a Ravenna nel 1985. Dal 2005 entra a far parte del gruppo Kisses From Mars di cui è tuttora membro. Il gruppo ha all’attivo due EP e due dischi. Bassista per Simona Gretchen nel tour Post-Krieg, è presente in performance sperimentali del progetto itinerante di Aidoru Soli contro tutti. Luca ha sonorizzato installazioni e performance, e ha creato con Silvia Bigi il progetto Ukyio-e di cui cura l’aspetto sonoro. 56
° Sara Vasini Nata a Cesena nel 1986, dopo aver frequentato l’Istituto Statale d’arte per il mosaico Gino Severini, si diploma presso l’Accademia di Ravenna nel 2013, sezione Mosaico. Vive e lavora fra Bellaria e Ravenna. Nel 2010 a Bilbao per l’Erasmus segue corsi di scultura basca. Nel 2011 vince il concorso nell’ambito del progetto europeo Les Languages de Blue, ed espone a Saint Germaine en Lay, nei pressi di Parigi. Ha inoltre esposto nell’ambito di Ravennamosaico nel 2011 e nel 2013. Vince il Premio Tesi dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna nel 2013. Utilizza il mosaico come strumento di ricognizione del reale e come strumento interpretativo.
R.A.M. 2015 Coordinamento organizzativo e progetto a cura di Elettra Stamboulis Assessora alle Politiche Giovanili Valentina Morigi Funzionaria Gabriella Mazzotti Testi in catalogo Maria Rita Bentini Sabina Ghinassi Luca Maggio Claudio Musso Antonella Perazza Elettra Stamboulis Daniele Torcellini Commissione concorso R.A.M. Maria Rita Bentini Sabina Ghinassi Claudio Musso Elettra Stamboulis Gianluca Costantini Ufficio Stampa Associazione Mirada
GIUDA Edizioni www.giudaedizioni.it info@giudaedizioni.it Associazione Culturale Mirada Via Mazzini, 83 48121 Ravenna Tel. 0544 217359 www.mirada.it info@mirada.it www.giovaniartistiravenna.org Diritti: le immagini e i testi sono copyright degli autori. È vietata ogni riproduzione senza il loro consenso, salvo che per uso giornalistico-informativo. L’edizione è copyright GIUDA Edizioni La mostra ha avuto luogo a Ravenna dal 12 al 27 settembre 2015 presso MAR Museo l’Arte della città di Ravenna.
° Nicola Baldazzi ° Miriam Dessì ° DissensoCognitivo ° Victor Fotso Nyie ° Caterina Morigi ° UkiYo-E ° Sara Vasini
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