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settembre 2013
quadrimestrale marxista della Svizzera italiana
Impressum
Editoriale #politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 2 settembre 2013 anno I
Editore Partito Comunista
Direttore Davide Rossi
Indirizzo c/o Max Ay, Via Birreria 19, 6503 Bellinzona
Progettazione grafica Roby Gianocca
CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6900 Lugano
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Editoriale
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In Turchia il problema è economico e la lotta è di classe
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Due tesi sulla rivoluzione in Turchia: confronto fra il Partito dei Lavoratori (IP) e il Partito Comunista (TKP)
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Il razzismo: un’arma usata per dividere il movimento anti-Erdogan
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Il servizio militare obbligatorio: uno strumento per addomesticare la società. Aboliamolo!
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«Le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti sociali»
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La pericolosa trasformazione dei servizi pubblici in “unità amministrative autonome”
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Non è la maleducazione del Mattino a preoccuparci, ma la “austerity”!
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Tragedia greca alla lusitana: cronaca dell’austerità imposta al Portogallo
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Giù le mani dalla Siria! No alla guerra!
Dossier
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Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30€ Esteri
Indice 3
Internazionale
A distanza ravvicinata dalla prima uscita di #politicanuova (luglio 2013), abbiamo deciso di subito proporvi questo secondo numero del giornale. L’anticipo sul calendario è dovuto a due temi che secondo noi andavano presentati subito. Questo numero del giornale, fra le altre tematiche che affronta, si concentra infatti soprattutto sulla Turchia, paese protagonista negli ultimi mesi di una lotta di valenza storica e con potenzialità progressive non indifferenti. Riteniamo importante, infatti, che la sinistra riscopra lo spirito migliore dell’internazionalismo, non solo per solidarizzare, ma anche per imparare dai movimenti di lotta più sviluppati al di fuori dei nostri confini nazionali. Per quanto invece concerne l’attualità di politica interna, la questione del servizio militare obbligatorio, in votazione popolare prossimamente, rappresenta una campagna su cui i giovani comunisti hanno molto investito in questi ultimi anni. Una visione a rischio di dogmatismo e poco connessa con la realtà del nostro Paese, in voga purtroppo anche a sinistra, vorrebbe esaltare il sistema di milizia interclassista che ogni anno indottrina in Svizzera migliaia di giovani al nazionalismo, al militarismo e al conformismo borghese. Noi marxisti del 21° secolo, invece, vogliamo indebolire la macchina militare imperialista elvetica alleata alla NATO e al sionismo e riteniamo che, abolendo la scuola reclute obbligatoria, si possa creare una rottura fra le masse e l’esercito, pilastro del dominio borghese della Confederazione. Per chi non l’avesse ancora fatto rinnoviamo l’invito a volersi abbonare alla nostra rivista, l’unica che esplicitamente nella Svizzera Italiana, si richiama al marxismo e al movimento comunista internazionale. Il prossimo numero, per rispettare le scadenze quadrimestrali che ci siamo prefissati, è previsto all’inizio del 2014. La redazione
BUONGIORNO, VORREI IL PIÙ GRANDE CARTELLO CHE POSSO PERMETTERMI.
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In Turchia il problema è economico e la lotta è di classe Massimiliano Ay I mass-media occidentali hanno inizialmente spiegato le tensioni degli ultimi mesi in Turchia come una protesta ambientalista sorta intorno alla decisione di cementificare il Gezi Park, l’ormai noto parco urbano a Istanbul. Dal momento che la situazione oltrepassava in modo evidente i limiti del mero – seppur importante – discorso ecologista, la disinformazione di molte agenzie stampa (riprese ciecamente pure alle nostre latitudini) si è concentrata su altri dettagli: il più utilizzato è sicuramente la contraddizione laicismo/islamismo. Questo aspetto è assolutamente vero, ma non va neppure enfatizzato, anche perché in piazza vi era la minoranza islamico-alawita (solitamente rispettosa dei precetti laici del kemalismo), così come il collettivo dei musulmani anti-capitalisti. Il problema di fondo è infatti un altro: il capitalismo, e lo diciamo a ragion veduta, non per ideologismo. Ma andiamo con ordine senza trascurare neanche il problema religioso. La sintesi turco-islamica La Turchia, paese musulmano, dal consolidarsi della Repubblica nel 1923, è dichiaratamente laicista (non solo laico): la totale secolarizzazione delle istituzioni voluta da Mustafa Kemal Atatürk ha subìto però un gravissimo arretramento, in particolare, con il golpe del 1980 guidato dal generale Kenan Evren. Evren ebbe il compito storico, affidatogli da Washington, di snaturare del tutto quello che restava del pensiero di Atatürk (già fortemente indebolito dai governi di destra precedenti) attraverso la cosiddetta “sintesi turco-islamica”. Quest’ultima abolì di fatto cinque dei sei principi su cui si fonda il kemalismo, “salvandone” solo uno: il “patriottismo”, reinterpretandolo in modo tendenzialmente fascista e facendolo convivere con l’islamismo. Si tratta di un’aberrazione, se ci riferiamo al pensiero originario di Mustafa Kemal, il quale chiariva che: “noi siamo patrioti che rispettano e onorano ogni nazione e che collaborano con ognuna. Il nostro patriottismo non è in nessun modo egoista e supponente”. Egli, peraltro, affermava pure che: “è una guida debole, colui che ha bisogno della religione per mantenersi al governo, è come se volesse intrappolare il proprio popolo. Il mio popolo imparerà i principi della democrazia, i dettati della verità e gli insegnamenti della scienza”. La “sintesi turco-islamica” è insomma un’ideologia borghese imposta dall’imperialismo per soggiogare il Paese, in una svolta reazionaria, sfruttando l’integralismo islamico. L’opera di Evren continuò – tornata una parvenza di democrazia – dal presidente Turgut Özal e dal●●
1 Lo storico dell’economia Sevket Pamuk della London School of Economics (non propriamente un istituto bolscevico) ammette: “a un aumento seppure ridotto degli stipendi, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città e un’inflazione all’8,9% che rende impercettibile questo cambio”.
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la premier Tansu Ciller. Quest’ultima, ad inizio degli anni ’90, ebbe modo di esclamare, noncurante del ridicolo: “finalmente il socialismo è caduto anche in Turchia!”. Nel 2002 – dopo una fase politica altalenante – tutto precipita con l’elezione di Erdogan: egli compie anzitutto una scissione nell’SP, il partito islamista (che in passato si era avvicinato a Gheddafi), il quale crolla nei consensi. Costituisce in seguito – con ampi finanziamenti esteri – il suo AKP, fornendogli un’immagine subito mediatizzata in Occidente di “islam moderato” sullo stile dei partiti democristiani europei. Egli ha così iniziato a lottizzare l’apparato pubblico con esponenti della setta del magnate Fetullah Gülen (una sorta di “Comunione e Liberazione” in versione islamica) fino alle purghe ai piani alti dell’esercito. La sollevazione popolare che abbiamo visto negli ultimi mesi ha quindi radici profonde. ●● Crescita dell’economia o della disuguaglianza? Il dato reale che molti media hanno semplicemente nascosto è un elemento che ogni marxista sa essere sempre di primaria importanza: non è la sovrastruttura ideologica (in questo caso religiosa) a muovere la storia, ma la lotta di classe! E’ la struttura della società, l’elemento squisitamente economico insomma, che conta. Ridurre il tutto alla contraddizione laicismo/islamismo o autoritarismo/ libertà è invece una lettura semplicistica e funzionale alla borghesia, ai suoi media e ai suoi professori: in caso contrario bisognerebbe infatti iniziare a dire cose realmente di sinistra. Non sia mai! L’economia turca sarebbe così, secondo questo pensiero unico, in crescita: è questa la litania che anche ci raccontano rifiutando di prendere in considerazione un fatto molto semplice: non esiste crescita, se il popolo sta peggio di prima!1 Certamente dal 2001 in poi si producono effettivamente notevoli cambiamenti in Turchia, ma come vedremo le apparenze ingannano. Da una crescita del PIL disastrosa pari a –9,4% a un’inflazione galoppante che viaggia intorno al 68% annuo (con una media europea del 2,4%), la Turchia, a fianco di un’ampia fetta di agricoltura, si ritrova con un apparato produttivo industriale obsoleto e incentrato su alcune aziende statali di epoca kemalista nei settori strategici, lasciate però deperire. Nel 2002 il governo di Bülent Ecevit annaspa nel mezzo della crisi finanziaria: l’anziano premier socialdemocratico si trova costretto ad inserire nella compagine governativa l’ex-vice-presidente della Banca Mondiale, il neo-liberista Kemal Dervis, che opera scientemente per far crollare il premier e permettere ad AKP di vincere le elezioni così come richiesto da Washington. Ed ecco che “miracolosamente” tutti gli indicatori macroeconomici iniziano a subire scarti accentuati rispetto al passato. Il “merito” della cosiddetta crescita economica va
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ricercato nel Fondo Monetario Internazionale (FMI). Già nel febbraio 2002 parte infatti l’operazione che spinge Ankara ad una esposizione complessiva verso il FMI per l’astronomica cifra di 31 miliardi di dollari. Il motivo è anche geopolitico: la Turchia non può crollare, poiché serve agli USA come retroterra per le operazioni belliche neocoloniali che si stanno preparando contro l’Irak di Saddam Hussein. Le condizioni poste dal FMI per “salvare” la Turchia sono però draconiane: la riduzione del debito pubblico con vincoli di bilancio, il rafforzamento del settore privato e un adeguamento dell’investiment climate. In pratica il paese deve aumentare l’efficienza economica, mediante un piano di liberalizzzaioni ponendo un accento particolare sulla competitività del settore industriale orientato all’esportazione. Dal 2003 al 2005 fra le varie riforme dall’accentuato carattere classista, ne troviamo una in particolare che merita attenzione. Si tratta di una legge a favore degli investimenti esteri, in cui si fissa anzitutto il divieto per l’ente pubblico di procedere a qualsiasi esproprio. La volontà è chiaramente quella di incoraggiare il capitale estero ad investire nel paese, garantendo ora persino la possibilità per i capitalisti stranieri di controllare fino al 100% delle aziende turche. Sono pure eliminati numerosi vari vincoli burocratici: saltano così le tutele sia sindacali sia ambientali. Oltre a ciò si aprono delle zone economiche speciali in cui non solo viene abolita l’IVA per le imprese, ma vengono alleviati i contributi pensionistici per gli operai e le terre sono cedute gratuitamente alle aziende straniere. Persino le imposte doganali per l’importazione di macchinari decadono e le aliquote sui redditi d’impresa scendono al 20% (fra le più basse d’Europa). Il lavoro interinale viene istituzionalizzato e il caporalato sui cantieri diviene uno standard. La Turchia arriva poi ad avere, con le sue 53 ore, la settimana lavorativa media più alta d’Europa. Drammatica anche la situazione della sicurezza sul posto di lavoro: il governo Erdogan conquista la macabra medaglia d’oro di ben 3 morti bianche al giorno! Grazie a quella che a tutti gli effetti possiamo chiamare una “estorsione” di pluslavoro operaio, il paese cambia faccia: se nel 2003 gli IDE 2 ammontavano a 1,3 miliardi di dollari, nel 2007 essi erano cresciuti addirittura a 22 miliardi di dollari. Una dinamica simile ha coinvolto le società economiche con capitale internazionale, cresciute di cinque volte nel medesimo lasso di tempo e l’inflazione (che creava problemi soprattutto alle banche) viene abbattuta a poco sotto il 9%3. A questo punto resta una fragilità di fondo: la bilancia dei pagamenti denota infatti un saldo negativo4 e, nonostante tutto, l’economia turca appare ancora estremamente vulnerabile stando anche all’Economist e al Financial Times. In effetti “quando l’economia a livello globale attraversa una fase positiva c’è un forte af-
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flusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista di valore, aumentano gli import e il disavanzo nella bilancia commerciale. Ma quando gli investitori hanno paura allora i capitali escono dal mercato turco più rapidamente rispetto ad altri paesi, provocando una riduzione della domanda interna”5. Nel 2007 i mercati sono in espansione ed Erdogan ha gioco facile e vince le elezioni con quasi il 47%. L’anno successivo rinnova – rimangiandosi la promessa elettorale – gli accordi con il FMI: altri aiuti in cambio di una nuova tranche di privatizzazioni (ponti, porti, aeroporti, dighe, ospedali), l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni per tutti (quando l’aspettativa di vita è di 72 anni per gli uomini). Nel 2009 la crisi provoca la caduta del PIL al 4,8%, Erdogan cerca di sfruttare la ripresa dell’anno successivo con l’avventurismo militare in Libia e in Siria. Intanto il governo turco ha sì saldato i debiti con l’FMI, ma ottenendo crediti da altre entità imperialiste e creando enormi buchi nel bilancio della Repubblica. Un circolo vizioso che i lavoratori turchi stanno pagando alla grande, senza che nessun esperto economista intervistato dai nostri media l’abbia individuato, evidentemente ciò non conviene alle agenzie stampa controllate dagli oligarchi da cui attingono le informazioni troppi giornalisti. ●● Privatizzare e distruggere la sovranità economica La marcia forzata imposta da Erdogan alla Turchia per conto dell’imperialismo statunitense ed europeo non è indifferente: nel 2003 si apre il cantiere della privatizzazione parziale della TurkTelekom. Nel 2004 si getta le basi per la svendita dell’azienda pubblica TEKEL, attiva nella produzione di alcolici e tabacco (e simbolicamente fondata proprio da Atatürk) che sarà ceduta totalmente nel 2007. Nel medesimo anno si comprime la partecipazione statale nella compagnia aerea di bandiera THY e si rinuncia totalmente al mandato pubblico sulle acciaierie. Sempre nel 2004 sono privatizzate le fabbriche della TUGSAS, l’industria statale dei fertilizzanti, nonché tutte le cartiere pubbliche SEKA. Nel 2008 è il turno della rete elettrica con la vendita delle due compagnie pubbliche di erogazione di Ankara e Sakarya-Kocaeli. La banca statale HalkBank viene privatizzata nel medesimo anno e ancora il governo rinuncia al 15% del pacchetto azionario rimastogli delle TurkTelekom. Nel 2009 Erdogan modifica la legge sulle risorse idriche del paese e concede l’utilizzo dell’acqua di fiumi e laghi a società private, spesso straniere. Le risorse idriche, che fino ad allora erano controllate dal servizio pubblico di distribuzione, venivano così di fatto trasferite alle multinazionali. Nulla poté l’importamente resistenza del sindacato contadino Çiftçi-Sen (sostenuto dall’organizzazone internazionale degli agricoltori progressi-
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Si tratta degli Investimenti Diretti all’Estero. Sono indicatori importanti per il processo di internazionalizzazione delle imprese.
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L’economista turco Emre Deliveli ha ammesso nel maggio 2013 che “il successo turco è stato costruito sul mettere a posto le banche”.
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Questo significa che la Turchia continua a importare più di quello che esporta e l’economia cresce solo perché arrivano capitali freschi dall’estero.
5 A. Tetta, “Economia turca: quando la tigre abbaia”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 13 agosto 2012.
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Aytekin Kaan Kurtul I tre partiti più grandi della sinistra radicale turca (Partito dei Lavoratori – IP; Partito Comunista di Turchia – TKP e Partito Libertà e Solidarietà – ÖDP) sono stati costretti a collaborare per non dividere il movimento nella lotta contro il regime neoliberale e fondamentalista. Nello svolgimento delle ultime manifestazioni, tuttavia, ÖDP (membro della “Sinistra Europea”) si era separato dalle masse, bollandole come “nazionaliste”.
Il Kemalismo Si tratta del pensiero di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica e comandante della Rivoluzione anti-imperialista turca del 1923. Il kemalismo si riconosce come ideologia del “socialismo di stato” (Devlet Sosyalizmi) e si basa su sei pilastri: statalismo, laicismo, repubblicanismo, populismo, patriottismo e rivoluzionarismo. Una citazione spesso censurata di Atatürk diceva: “Si deve innanzitutto percepire la materia, poi si arriva all’idea: cosi si costruisce il socialismo”. Ampia parte dei marxisti turchi considera strategico completare la rivoluzione kemalista in quanto fase nazional-democratica (di alleanza fra proletariato, contadini e piccola borghesia) necessaria per raggiungere la sovranità dall’imperialismo e rendere così matura la futura transizione al socialismo.
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Due tesi sulla rivoluzione in Turchia: confronto fra il Partito dei Lavoratori (IP) e il Partito Comunista (TKP)
sti “Via Campesina”) che assieme ad oltre cento forze di opposizione marciarono a Istanbul nel marzo di quell’anno, a margine del Forum Mondiale dell’Acqua. Nel 2011 il governo Erdogan avvia poi le trattative per la privatizzazione di 2’000 chilometri di autostrade e di ponti in tutto il Paese. L’esecutivo cede al capitale privato (in gran parte straniero) nove autostrade e due ponti sul Bosforo e prepara un piano strategico che prevede la dismissione definitiva di aziende tessili, petrolifere, minerarie, ecc. Insomma il ruolo di Erdogan, tanto osannato dall’Occidente, è stato quello di aver letteralmente distrutto i settori strategici (e non solo) dell’economia nazionale e di aver riportato la Repubblica ad uno stadio di colonia. Senza parlare poi della riforma del diritto del lavoro varata nel 2011 che colpisce soprattutto i giovani non solo consolidando il precariato ma anche riducendo il salario minimo e autorizzando l’assunzione di lavoratori senza alcuna sicurezza sociale e pensionistica.
Mustafa Kemal isn’t a marxist. However, it’s obvious that he’s a perceptive leader and a progressive statesman. He has been able to understand the importance of the October Revolution and thus treats the Soviets with utmost respect and amity. Right now, he is leading a war of independence against imperialist invaders. I have no doubt that he will break the pride of the imperialists. The Soviets will surely aid him and the Turkish people in achieving their most glorious goal.” (Vladimir I. Lenin, 1921)
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●● Classi sociali e alleanze Storicamente IP è un partito fondato dal Movimento “Aydınlık”, il quale seguiva una linea filo-cinese, mentre TKP è un partito fondato dal Movimento “Sosyalist İktidar”, il quale seguiva una linea filosovietica, pur opponendosi alle politiche di Perestojka e Glasnost. Già questo spiega alcune differenze negli approcci dei due partiti alla questione sociale. Secondo IP la Turchia non è un paese capitalista sviluppato (ma è sfruttata dal capitalismo internazionale) e le relazioni tra le classi sociali nelle provincie orientali sono ancora prevalentemente feudali. L’alleanza tra il proletariato e i contadini non è quindi solo fondamentale ma assolutamente necessaria per realizzare la rivoluzione. Sempre secondo IP, il fatto che il sistema neoliberale, guidato dall’oligarchia finanziaria, miri a distruggere le forze produttive nazionali nella periferia usando il libero mercato, rende la piccola borghesia nazionale una componente importante del movimento rivoluzionario, in quanto soggetto sociale ormai in decadenza a causa della perdita della quota di mercato e della sostituzione di essa con la borghesia “parassitaria” che dipende dal capitale straniero. TKP, per contro, ipotizza che “solo un nuovo movimento proletario costruito su basi marxiste-leniniste può salvare la Turchia dalla crisi del neoliberalismo” descrivendo il proletariato come l’unica componente prevalente della rivoluzione e rifiutando una collaborazione con la piccola borghesia (descritta come “quella borghesia che non è capace di collaborare con gli imperialisti, è una classe caratteristicamente antiproletaria”) rifacendosi così alla retorica del Comintern. Durante la Sollevazione di giugno abbiamo visto che la piccola borghesia (prevalentemente kemalista) è scesa in piazza insieme al proletariato per lottare per la propria esistenza.
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L’uso della bandiera nazionale
Un altro argomento di dibattito tra i due partiti è stato l’uso della bandiera nazionale. IP ne ha sempre difeso l’uso nelle manifestazioni in quanto “la bandiera turca è il simbolo unificante di tutta la nazione: essa simbolizza l’amore patriottico dei nostri cittadini curdi, il sangue sparso dai nostri contadini durante la Guerra d’Indipendenza e il sudore dei nostri operai sottomessi alla volontà delle società multinazionali per sopravvivere”. TKP, invece, non ha mai avuto un approccio favorevole all’uso della bandiera nazionale durante le manifestazioni poiché “la bandiera turca è stata usata dai golpisti e da vari reazionari (come i lupi grigi) per reprimere i rivoluzionari”. Tuttavia il TKP ha nel frattempo cambiato la sua posizione dopo la Sollevazione di giugno, affermando che: “la bandiera turca è diventata di nuovo la bandiera dei rivoluzionari”. Essa era infatti il simbolo del movimento, insieme alla figura di Mustafa Kemal Atatürk. Rapporto con il kemalismo Riguardo all’eredità della Rivoluzione kemalista IP la definisce come “la prima avanzata repubblicana ed antimperialista” e perciò “la base su cui costruiremo la società di domani”. TKP, pur opponendosi al carattere “nazionalista” della Rivoluzione kemalista, afferma che “non si deve diventare kemalisti per difendere il progresso sociale realizzato durante la Rivoluzione kemalista, noi siamo marxisti-leninisti e non dimentichiamo che la Rivoluzione kemalista era un passo avanti nella storia del nostro paese”. Bisogna notare a questo punto che uno degli slogan condivisi sia dai piccoli borghesi che dagli operai che sono scesi in piazza era “siamo i difensori di Mustafa Kemal”, ciò significa che il kemalismo è, come diceva il teorico marxista-leninsta Mahir Çayan, “la bandiera della resistenza di tutti i rivoluzionari patriottici nei paesi del mondo oppresso”. ●●
I punti di affinità I due partiti hanno anche delle similitudini: entrambi si oppongono alla NATO e all’UE; entrambi sostengono una soluzione unitaria e socialista in Siria; entrambi condannano la collaborazione tra il regime Erdogan e il PKK; ed entrambi hanno una posizione laicista e pubblica per la politica scolastica. Tali aspetti non basteranno per creare un’alleanza organica, ma saranno indubbiamente le fonti principali di una collaborazione fra IP e TKP. Peraltro i marxisti sono al servizio del popolo e il popolo costringe a collaborare poiché l’avversario è unico e il popolo ha bisogno di unità. ●●
Nota bene: le fonti in turco da cui sono tratte le citazioni e le informazioni dell’articolo non vegono qui riprodotte per mancanza di spazio, ma sono a disposizione in redazione per i lettori interessati.
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Il razzismo: un’arma usata per dividere il movimento anti-Erdogan Aytekin Kaan Kurtul Il metodo classico per sciogliere un movimento di lotta come quello turco dell’ultimo mese è quello di dividerlo. Il gruppo “Sinistra Turca” (Türk Solu) guidato da Gökçe Firat, il quale non ha nessun legame con alcun partito progressista turco, usa ad esempio una retorica razzista contro i curdi per alienarli dal movimento e dalla lotta anti-imperialista. Secondo il quotidiano comunista “Aydınlık” tale gruppo è finanziato dai servizi segreti. Anche il principale partito di opposizione, il CHP, Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi, sezione turca dell’Internazionale Socilalista) condivide questa posizione e lo ha infatti allontanato dai cortei. I membri di Türk Solu hanno provato a distribuire le loro bandiere in piazza, senza alcun esito. I kemalisti di sinistra, i socialisti e i comunisti in Turchia, evidentemente, non vogliono in piazza gruppi razzisti che si oppongono alla fratellanza delle etnie e all’unità nazionale! Quanto messo in atto da Türk Solu fra i turchi è una realtà anche da parte curda, tramite il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) guidato da Abdullah ‘Apo’ Öcalan. Specialmente negli anni in cui il PKK veniva ancora considerato un’organizzazione “di sinistra” (e addirittura “maoista”) Öcalan ha diviso i comunisti del Paese su base etnico-razziale, tra chi voleva la separazione dei curdi e chi voleva un paese unitario e inter-etnico. Non a caso le prime vittime della “guerriglia” del PKK non furono borghesi o fascisti, ma alcuni dirigenti del Partito Operaio e Contadino di Turchia (Türkiye Isçi Köylü Partisi), la formazione maoista (poi repressa dal golpe militare del 1980) che ha preceduto l’attuale Partito dei Lavoratori (Isçi Partisi). Negli anni ‘90 il PKK (specialmente dopo che Öcalan ha lasciato la Siria) ha sempre avuto una funzione filo-statunitense e filo-sionista, provando a dividere la lotta di classe unitaria in Turchia contro l’imperialismo e formando organizzazioni affiliate in Iran e in Siria per combattere (al soldo delle potenze occidentali) i governi anti-imperialisti di questi paesi. Dopo la salita al potere in Turchia del partito AKP del premier Recep Tayyip Erdoğan, il PKK ha avuto la possibilità di diffondersi e negli ultimi anni è diventato l’alleato principale del governo (attraverso la sua “branca legale”, il BDP, partito osservatore dell’Internazionale Socialista) sostenendo la proposta del governo Erdogan di un ordinamento federale di tipo statunitense e appoggiando i disegni di legge portati avanti dai delegati dell’AKP nella commisio8-9
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ne per il rinnovo in senso liberista della Costituzione. Tale sostegno al governo è stato testimoniato anche durante le manifestazioni di Taksim: all’inizio Öcalan ha “salutato” i manifestanti chiedendo però loro di “non permettere ai kemalisti e ai patrioti di dominare le piazze”. Come si può vedere in ogni foto su qualunque giornale, i kemalisti sono la maggioranza tra i manifestanti (con le bandiere turche e le immagini di Mustafa Kemal Atatürk), appare quindi chiaro che Öcalan si è reso utile al regime in due modi: da un lato tentando di alienare la maggioranza della popolazione dalle piazze (perché in pochissimi accetterebbero di manifestare al fianco dei separatisti), dall’altro dividendo i manifestanti curdi dai manifestanti di origini etniche diverse. Invano! Nella seconda settimana delle manifestazioni, il co-segretario del BDP (Barısş ve Demokrasi Partisi, la branca “legale” del PKK), Selahattin Demirtaş, ha attaccato nel suo discorso due organizzazioni che avevano appoggiato il movimento con tutte le loro forze, il Partito dei Lavoratori (Isçi Partisi) e l’organizzazione studentesca antimperialista TGB, Unione Giovanile di Turchia (Türkiye Gençlik Birligi). Questo atteggiamento ha sottolineato di nuovo la posizione attuale del movimento sciovinista e separatista curdo, il quale continua a negoziare col governo per una balcanizzazione del Paese, così come previsto dal Pentagono.
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Il servizio militare obbligatorio: uno strumento per addomesticare la società. Aboliamolo!
Massimiliano Ay E’ pensiero diffuso, a sinistra, che il servizio militare obbligatorio permetta – proprio per il suo strutturale legame con le masse popolari (costrette ad arruolarsi) – un controllo democratico sulle forze armate borghesi. Un esercito di leva rappresenterebbe, insomma, non solo una garanzia contro svolte autoritarie e colpi di stato, ma anche un impedimento all’utilizzo delle truppe per soddisfare le spinte espansioniste della borghesia (imperialista) del proprio Paese. Sarebbe, insomma, il legame diretto con il popolo ad ostacolare tali degenerazioni militariste e belliciste dell’esercito (e di chi lo manovra). La storia ha però ampiamente dimostrato come ciò non sia stato quasi mai il caso: non solo la presenza di elementi reazionari negli eserciti di leva è da considerarsi strutturale tanto quanto in quelli professionisti, ma le stesse mire espansioniste ed antidemocratiche non sono certo mancate: è stato l’esercito di leva turco ad aver instaurato la dittatura fascista di Kenan Evren, è stato l’esercito di leva cileno ad aver rovesciato il presidente socialista Salvador Allende, è stato l’esercito di leva svizzero a sparare contro gli operai in sciopero, sono stati i paracadutisti di leva inglesi a sparare contro i 17enni irlandesi che sfilavano pacificamente in quel “bloody sunday”1 e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il fattore “popolare” non ha quindi sostanzialmente impedito i peggiori crimini che sono stati perpetrati nella storia recente contro l’umanità. Vi sarebbero anzi interi capitoli di storia contemporanea che meriterebbero un approfondimento non solo storico, ma anche psicologico, per comprendere al meglio il tema di cui trattano queste pagine, come, per esempio, i cosiddetti “mischling” dell’esercito di leva tedesco: indegni di ricevere incarichi di comando ma utili alla macchina da guerra tedesca, decine di migliaia di giovani poco più che ragazzi, ebrei, combatterono per una patria e un regime che intanto mandava nei lager le loro famiglie e progettava la pulizia etnica del loro stesso popolo. Se poi mettiamo sotto la lente la situazione svizzera, ecco che notiamo come l’esercito, vera e propria “vacca sacra” della Confederazione, non è di fatto più obbligatorio per i giovani provenienti da famiglie benestanti e con un livello scolastico superiore: in modo particolare gli inabili al servizio militare si trovano fra i liceali (cioè i futuri accademici). Ciò testimonia la crisi dell’esercito elvetico e il fatto che esso non sia ormai più realmente “di popolo”: per
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questo normalmente si tace sui cambiamenti socioculturali in atto nella truppa: sono perlopiù i figli dei naturalizzati, spesso relegati a professioni subalterne e a tirocini professionali, a prestare servizio2. In sintesi: più che l’organizzazione delle forze armate è semmai il carattere di classe dell’esercito a dover essere preso in considerazione e conseguentemente la sostanziale differenza fra un esercito in regime capitalista (in particolare allo stadio imperialista) e di un esercito in regime socialista.
●● Engels e Liebkencht sull’arruolamento forzato Friedrich Engels nel 1891 analizza il crescente consenso elettorale della sinistra tedesca come un fattore che determinerà una maggioranza socialista anche all’interno delle forze armate, essendo queste ultime organizzate sul principio della leva obbligatoria: “Si diventa elettori a 25 anni, soldati a 20; ma proprio perché noi reclutiamo i nostri adepti soprattutto fra i giovani, se ora abbiamo già un soldato su cinque, ben presto avremo un soldato su tre; e intorno al 1900, l’esercito diventerà in maggioranza socialista. Anche il governo se ne accorge, ma non può fare nulla”3. Questo passaggio di Engels porta a un vicolo cieco strategico, secondo il quale il movimento operaio conquisterà il potere quasi per un fattore spontaneo. Engels sembra qui scordarsi di prendere in considerazione il fatto che la società si sviluppa in modo dialettico, così come fa lo stesso dominio di classe. Per riprendere Antonio Gramsci4 potremmo parlare del consolidamento di un potere “massiccio” della borghesia, la quale – da quel dato momento – può contare su nuovi strumenti che le garantiscono una “salda presa sulla società”, un potere fondato “sulla centralità della casta militare”. Non è certo per ingenuità o per costrizione, insomma, che la classe dirigente permette, anzi obbliga (!) la classe subalterna ad “armarsi”: a differenza di qualche utopista che sogna l’insurrezione rivoluzionaria del proletariato con il fucile d’ordinanza, la borghesia è ben consapevole del fatto, che i rischi che potrebbe comportare il fornire un addestramento militare alla classe operaia possono essere facilmente controllati e, anzi, rivoltati a proprio favore. Engels, per dirla con lo storico Luciano Canfora, “apparteneva a un’altra generazione (…) ed ora non intendeva pienamente il mondo che velocemente gli cambiava intorno, a precipizio, verso l’era agghiacciante e senza scrupoli della lotta tra imperialismi, nella quale la democrazia politica sarebbe rapidamente divenuta un gingillo superfluo”. Karl Liebknecht5, giovane deputato e futuro fondatore del Partito Comunista di Germania, a differenza di Engels, riconobbe che un’epoca nuova si stava per aprire: quella che avrebbe unito un nuovo militarismo di massa con l’evolversi delle contraddizioni inter-imperialiste. La nuova fase storica riconosciuta da Liebknecht è quella caratterizzata – per
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In Irlanda del Nord, il 30 gennaio 1972, tredici persone, perlopiù giovanissimi, muoiono e quattordici sono ferite dai colpi sparati dalle reclute inglesi su cittadini inermi che manifestavano pacificamente contro il decreto del governo che limitava i diritti civili degli irlandesi. Quel giorno segna l’inizio della guerra civile in Irlanda del Nord.
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Vedi: «Armee zweiter Klasse», in: NZZ-Online, 10 luglio 2010.
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Vedi: “Marx-EngelsWerke”, Vol. XXII, Dietz Verlag: Berlino (DDR) 1963, p. 251.
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Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia nel 1921, elaborò il concetto di egemonia, grazie al quale la borghesia impone i propri valori culturali, morali e politici a tutte le classi sociali creando consenso verso il proprio potere.
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Karl Liebknecht (1871-1919) fu deputato marxista tedesco. Dal 1907 al 1910 fu presidente dell’ Internazionale socialista giovanile e fu particolarmente attivo contro la guerra. Venne assassinato dai soldati agli ordini del governo del socialdemocratico Ebert.
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Vedi: Karl Liebknecht, “Scritti politici”, Feltrinelli: Milano 1971, p. 101
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Rosa Luxemburg (1870-1919) fu una rivoluzionaria tedesca che si dedicò all’analisi economica dell’imperialismo e alla lotta per la pace. Venne assassinata assieme a Karl Liebknecht
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Tobia Schnebli, “Le citoyen-soldat: aux origines d’un mythe”, GSsA: Ginevra 1997
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Cfr. al riguardo il documento “Per un partito marxista flessibile e al passo coi tempi”, tesi del 21° Congresso del Partito Comunista del Canton Ticino
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Esercito di leva “migliore” dell’esercito volontario? Rosa Luxemburg 7 riconosce il peso sempre più grande che l’apparato militare raggiunge nell’economia liberale “in ragione dell’incremento considerevole delle spese militari e del formidabile sviluppo tecnico degli armamenti, che generano una parte sempre più importante del plusvalore capitalista”. In questo senso “il servizio militare universale non servirebbe ad altro che a rendere ancora più evidenti le contraddizioni dello stato di classe, dove una minoranza dominante impiega una parte del popolo contro gli interessi di quello stesso popolo” 8. Addirittura l’esercito di leva prussiano aveva introdotto ore di istruzione contro il partito socialdemocratico quale parte integrante dell’addestramento delle reclute di estrazione operaia. Situazioni simili, peraltro, sono tutt’oggi visibili, anche se espresse in modo più subdolo e apparentemente meno fazioso: in Svizzera, ad esempio, presso la scuola quadri dello Stato Maggiore Generale di Kriens (Lucerna), esiste una “Doktrinstelle”, un ufficio politico preposto alla trasmissione della “dottrina” agli ufficiali che ogni anno si ritrovano con migliaia di nuovi giovani coscritti da omologare. E la dottrina è, naturalmente, quella delle missioni imperialiste cosiddette di “peace keeping”. La tendenza attuale, in molti paesi imperialisti, è la trasformazione dell’esercito di leva in esercito di soli ●●
professionisti. Secondo alcuni esponenti della sinistra “è fondamentale vedere l’esercito di leva come luogo della lotta di classe”. Certamente: anche nell’esercito di una società capitalista esiste una contrapposizione fra classi. Concepire però quel terreno come un luogo prioritario del conflitto politico e sociale appare altamente discutibile, soprattutto in una società avanzata come quella occidentale, in cui assistiamo non solo a una imponente parcellizzazione della classe operaia (e quindi alla polverizzazione del soggetto rivoluzionario) ma anche, di conseguenza, a una difficoltà enorme, per i partiti comunisti di radicarsi nei luoghi della produzione9.
●● Democratizzare le forze armate dall’interno? La fase odierna è caratterizzata da organizzazioni di massa neo-corporative, totalmente integrate nel sistema sociale, disinteressate a costruire la benché minima egemonia culturale in senso anti-borghese e incapaci di organizzare le classi popolari in un’ottica conflittuale. I partiti di tradizione operaia sono ridotti al lumicino (quelli rivoluzionari) oppure sono ridotti a mere macchine elettoraliste inserite in una dimensione meramente istituzionale (quelli riformisti). I conflitti inter-imperialisti sono in aumento a causa anche della crisi sistemica del capitalismo e della naturale caduta tendenziale del saggio di profitto, che impone regolarmente ai paesi avanzati di promuovere guerre per il solo rilancio economico. Oltre a ciò il mondo multipolare (nonostante l’avanzata della Cina e dell’America latina) non esiste ancora, perlomeno non in maniera tale da poter garantire l’equilibrio che regnava fino al 1989. La possibilità quindi di una terza guerra mondiale (simile nel suo sviluppo proprio alla carneficina del ‘14-‘18) appare nella sua tragicità un fattore da non sottovalutare. La crescita in Europa e negli USA del nazionalismo, delle politiche securitarie, della xenofobia e delle proposte neofasciste non sono affatto una mera casualità, ma un lavoro sottile sulle coscienze degli esseri umani per prepararli psicologicamente a un futuro tutt’altro che roseo. La risposta deve quindi essere adattata alla fase, con la propaganda a favore dell’obiezione di coscienza dei coscritti, con l’indebolimento della macchina repressiva della borghesia, e con un possente lavoro di penetrazione culturale fra le masse giovanili (le uniche che possono cambiare e far cambiare qualcosa!) affinché sia chiaro a tutti che la “guerra fra poveri” in ogni ambito (dal possibile conflitto militare al più immediato conflitto sindacale e sociale in cui lavoratori immigrati o frontalieri sono messi contro lavoratori indigeni) altro non è che un inganno della classe dirigente per indebolire la resistenza delle fasce popolari subalterne che aspirano a una società più equa, il socialismo. La leva obbligatoria è stata ed è strumento anche psicologico di contenimento sociale, inquadramento reazionario delle masse, repressione dei movimenti sociali, strumento di ogni
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forma di prevaricazione e imperialismo. L’esercito di leva, dunque, è servito e serve per formare cittadini ubbidienti, lavoratori che rispondono “signorsì” al loro superiore. La coscrizione obbligatoria ha voluto da sempre formare gli uomini, lavoratori e capifamiglia, educandoli in senso autoritario, instillando l’assenza di pensiero critico, promuovendo il valore della gerarchia contro quello della cooperazione. Il servizio militare serve per intimorire e reprimere la creatività dei giovani, soffocarne ogni istinto di ribellione, far comprendere, con brutale chiarezza, che il potere e il sistema non accettano devianze e che tutte le proposte e i pensieri non asserviti alla logica del pensiero dominante capitalista, saranno ritenuti – appunto – devianze. Interessante in merito il recente studio dell’Università di Tübingen, il quale ha stabilito che la ferma militare di nove mesi (prevista fino a pochi anni fa in Germania) era fonte di danni nello sviluppo psichico dei giovani soldati. In modo particolare è stato scoperto che coloro i quali dopo il liceo erano finiti in una scuola reclute, risultavano meno interessati alla letteratura e all’arte e ritenevano noiose le discussioni filosofiche. Chi aveva indossato la divisa risultava diffidente e poco socievole nei confronti delle persone estranee, inoltre non si poneva questioni riguardanti le conseguenze delle proprie azioni e il proprio ruolo nella società. La ricerca ha pure dimostrato che rispetto ai loro coetanei astretti al servizio civile, gli ex-soldati risultavano maggiormente aggressivi e meno attenti ai sentimenti umani10. Osserviamo ora il caso della Germania. Berlino ha infatti deciso di recente di abolire la coscrizione obbligatoria: è la prima volta dal 1956 11 che i giovani tedeschi non si dovranno sottoporre al reclutamento militare. Si è aperta così una nuova fase storica in cui anche i marxisti sono chiamati a ripensare la prospettiva del proprio lavoro anti-militarista. I giovani comunisti tedeschi della SDAJ ritengono che “in questo modo viene bloccata un’importante possibilità del militarismo germanico di influenza sulla gioventù”. Attraverso il servizio militare si formavano infatti le nuove generazioni nell’ottica della sottomissione al sistema nazionalista borghese: “la Scuola della Nazione doveva rendere i giovani dei soldati e dei soldati fare dei cittadini in uniforme” e ciò significa nient’altro che intruppare i ragazzi legandoli indissolubilmente “a questo Stato, all’ordinamento sociale capitalista e alla necessità della sua difesa armata”. Qualcosa di ben chiaro nella mente degli imprenditori tedeschi, che, non a caso, potevano ben affermare: “Questi giovani lavoratori, che ritornano dal loro servizio militare sono in ordine. Sono ragazzi magnifici e molti, in questo periodo di tempo, sono completamente cambiati”12. Il sistema svizzero della “milizia” – ammette il sociologo Jean Ziegler, con
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buona pace dei fautori di sinistra della leva obbligatoria – “impedisce praticamente alla classe operaia l’accesso ai gradi superiori”13. L’esercito (che per Ziegler “è sempre la violenza sociale istituzionalizzata”) serve: “…a combattere il nemico interno. In Svizzera il nemico interno è rappresentante da qualsiasi gruppo, partito, movimento, sindacato o organizzazione che metta veramente in pericolo l’egemonia politica dell’oligarchia imperialista. Mantenere l’ordine pubblico significa anche mantenere l’ordine del capitalismo monopolistico. In questo senso la presenza di una maggioranza di dirigenti del capitale finanziario e dei membri del Parlamento infeudato in seno al comando dell’esercito obbedisce alla logica profonda del sistema”14. “La Svizzera è un esercito”? La retorica patriottarda secondo cui la Svizzera “non ha un esercito, ma è un esercito” è una delle tante mezze verità che la classe dirigente afferma nel tentativo di mantenere in vita l’esercito. La realtà è diversa: la Costituzione federale del 1848 statuiva sì il servizio militare come un obbligo generale maschile, imponeva però ai cantoni un contingente di uomini limitato al 4,5% della rispettiva popolazione: per la maggior parte dei cantoni ciò significava riuscire a coprire tale fabbisogno con una leva volontaria, rinunciando dunque al reclutamento forzato. In sostanza quindi, dal XVII fino alla metà del XIX secolo, la Svizzera conobbe una milizia composta principalmente di volontari. E’ nel 1868 che l’idea di un’esercito nazionale che “intruppasse” tutti gli uomini abili si concretizzò attraverso la riforma Welti. È solo con la Costituzione federale del 1874 l’obbligo generale di leva maschile fu sancito15. L’iniziativa popolare che voteremo il 22 settembre 2013 per abolire l’obbligo di leva (art. 59 cpv. 1 Cost.) pur mantenendo il principio dell’esercito di milizia (art. 58 cpv. 1 Cost.), quindi, non è nulla di rivoluzionario: al contrario si tratta della situazione che caratterizzava le forze armate nello spirito originario dello stato federale elvetico. ●●
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10 Cfr. “Die Zeit”, Nr. 23, 31 maggio 2012. 11
Ci si riferisce qui all’introduzione della leva militare obbligatoria nella sola Repubblica Federale Tedesca (BRD): nella ex-Repubblica Democratica Tedesca (la DDR socialista, annessa nel 1989 alla BRD) il servizio militare divenne infatti obbligatorio solo nel 1962. Cfr. Giulio Micheli (2010): “Il Muro di Berlino: una frontiera archiviata troppo rapidamente. Bilancio critico della Germania socialista”. Infogiovani, Bellinzona. Pag. 39.
12 Becker H.; O. Leist (a cura di): “Militarismus in der Bundesrepublik”, Colonia 1981, pag. 96
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dirla sempre con Canfora – dagli “effetti capillari di asservimento nei confronti di ciascun cittadino, attraverso la poderosa macchina del servizio militare, da parte dei ceti dirigenti”. Uno dei miti della sinistra (ieri e in parte ancora oggi) era la trasformazione dell’esercito (borghese) in una milizia (proletaria). A cogliere i limiti di tale impostazione fu Liebknecht: nel capitalismo, infatti, le forze armate hanno un ben definito compito repressivo e di classe! Nel suo saggio “Militarismo e antimilitarismo con particolare riguardo al movimento giovanile internazionale”, (1907) scriverà: “Si cerca di domare gli uomini come si domano le bestie. Le reclute narcotizzate, confuse, lusingate, comprate, oppresse; così si mescola e si impasta il cemento per la poderosa costruzione dell’esercito; così si lega pietra a pietra per la costruzione del baluardo contro la sovversione” 6. Liebknecht riconosce lucidamente il servizio militare obbligatorio come una fucina interclassista del consenso nei confronti della destra. Egli aggiunge, quasi rispondendo indirettamente a Engels, che se a livello puramente numerico e di composizione di classe l’esercito tedesco è effettivamente “rosso”, in realtà per l’impreparazione politica delle giovani reclute, l’influenzabilità di ragazzi di 18 anni e la poderosa macchina propagandista dell’esercito, questo rafforza unicamente il controllo che la borghesia dispone delle larghe masse subalterne.
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Questo dossier è composto di estratti del libro di prossima pubblicazione del segretario del Partito Comunista sull’esercito visto in ottica marxista. È possibile ordinarlo a: info@partitocomunista.ch
13
Jean Ziegler (1976): “Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto”. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, p. 190.
14
Jean Ziegler (1976): op.cit., p. 149.
15 Vedi: «Die Schweiz ist eine Armee», NZZOnline, 31. Oktober 2010. In merito vedi anche al capitolo 4.2.1.
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«Le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti sociali» Intervista di Aris Della Fontana a Tobia Schnebli, rappresentante del Gruppo per una Svizzera senza esercito (Gsse) e uno dei promotori dell’iniziativa popolare per abolire la leva obbligatoria. A.D.F. Tobia, parlaci del Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSse): quando è nato, con quali obiettivi, quanti membri ha, che linea politica persegue, ecc.? T.S. Il GSse è stato fondato nel 1982 da giovani socialisti, pacifisti e antimilitaristi con l’obiettivo di lanciare un’iniziativa popolare per l’abolizione dell’esercito svizzero. Era l’anno della sconfitta della grande mobilitazione in tutta l’Europa, Svizzera compresa, contro la folle corsa al riarmo, all’apice della guerra fredda con l’istallazione degli euromissili nucleari della Nato e del Patto di Varsavia. Definita una proposta utopica e controproducente anche da una parte della sinistra, la prima iniziativa del GSse ottenne un risultato molto sorprendente nella votazione popolare del 26 novembre 1989 : 36% di Sì con una partecipazione del 65%. I cantoni del Giura e di Ginevra votarono a favore dell’iniziativa. L’esercito Svizzero contava allora 625’000 soldati e il muro di Berlino era appena caduto due settimane prima. L’attività del GSse è continuata con numerose iniziative popolari e referendum su obiettivi parziali (contro l’acquisto di nuovi aerei da combattimento, contro l’armamento dei soldati svizzeri all’estero, contro le esportazioni di armamenti, per un servizio civile volontario,…) e, nel 2001 con
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una nuova iniziativa per l’abolizione dell’esercito che però raccolse molto meno voti della precedente. L’esercito stava riducendo gli effettivi da 400’000 a 200’000 e il mondo era appena entrato nella «guerra globale e permanente» lanciata da George W. Bush dopo gli attentati dell’11 settembre. Il GSse è stato al centro delle mobilitazioni contro le guerre in Afghanistan e in Irak. L’obiettivo di fondo è sempre quello del disarmo, in Svizzera e nel mondo. I membri attivi del GSse in Svizzera sono forse un centinaio, quelli «passivi», alcune migliaia, gli abbonati ai giornali (tedesco e francese) circa 25’000. A.D.F. Perché il GSse, che auspica l’abolizione tout court dell’esercito svizzero, ora si “limita” a chiedere di abolire la sola leva obbligatoria? Non c’è il rischio che senza l’esperienza (spesso negativa) della scuola reclute possa calare la disaffezione nei confronti del militare e quindi diminuire il numero di “abolizionisti”? T.S. Riguardo al rischio di veder calare l’opposizione al militare, non siamo d’accordo con la logica del «tanto peggio, tanto meglio». Seguendo questa logica il GSse avrebbe dovuto opporsi all’introduzione del servizio civile sostitutivo. Qualsiasi riforma che riduce la presenza o i costi del militare avrà un effetto di riduzione della critica e dell’opposizione al militare. Per arrivare al disarmo bisogna «smilitarizzare le teste». Per questo sono utili anche le iniziative e le campagne che si limitano a sopprimere o impedire una parte del sistema militare. Già oggi comunque chi veramente non vuole prestare servizio militare riesce a evitarlo. Un terzo dei giovani maschi svizzeri sono dichiarati «inabili» prima del servizio militare, un altro 10% sceglie il servizio civile e solo un terzo di tutti quelli che prestano servizio militare effettuano la totalità dei giorni di servizio obbligatorio. A.D.F. Senza l’obbligo di leva vi è il rischio di trasformare l’esercito svizzero in un esercito professionista? T.S. Per la trasformazione in un esercito professionista sarebbe necessaria un’altra votazione per modificare l’articolo 58 della Costituzione che dice: «La Svizzera ha un esercito. L’esercito svizzero è organizzato fondamentalmente secondo il principio di milizia.» L’iniziativa lascia intatto questo articolo della Costituzione. A.D.F. Una parte della sinistra teme che senza la leva obbligatoria l’esercito diventerebbe un covo di mercenari esaltati e sarebbe più facilmente utilizzabile per missioni imperialiste all’estero. Cosa rispondi? T.S. L’esperienza di molti paesi (Svezia, Belgio, Francia, Irlanda, Olanda, Germania, …) che non applicano più la leva obbligatoria dimostra che il pericolo dell’esercito di «mercenari esaltati» o di «Ram-
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bo» non è realistico. Quanto al rischio di invio di soldati svizzeri in guerre imperialiste, oggi lo si può escludere. Nella seconda metà degli anni novanta, sotto l’allora capo del dipartimento militare Adolf Ogi, la Svizzera aderì al “Partenariato Per la Pace” della NATO e nel 2000 decise di inviare un contingente in Kossovo, tuttora presente. In seguito però i progetti di cooperazioni internazionali per l’esercito svizzero si sono fermati. Nel 2001 c’è stato un voto molto risicato (appena il 51% di favorevoli, grazie all’opposizione congiunta di sinistra pacifista e destra nazional-conservatruice) sull’armamento dei militari svizzeri all’estero. Poi, l’inversione di tendenza si è accentuata con il rigetto molto forte tra la popolazione delle guerre “neo-imperiali” in Afghanistan e soprattutto in Irak. Nel 2007-9 Samuel Schmid ha finito per ritirare anche i due o tre ufficiali osservatori presenti in Afghanistan e in parlamento l’alleanza “contro natura” di UDC, Verdi e sinistra socialista ha bocciato l’acquisto di aerei da trasporto militari come pure la possibilità di effettuare dei corsi di ripetizione all’estero. Il naufragio definitivo di queste velleità è avvenuto nel 2010 col rifiuto del progetto (voluto dall’allora ministra socialista Micheline Calmy-Rey) di partecipazione all’operazione «Atalanta» contro la pirateria al largo delle coste somale. E questo malgrado il fatto che i militari svizzeri partecipanti dovessero essere volontari. Oggi il problema molto più verosimile è costituito dal progetto “Ulteriore sviluppo dell’esercito (USEs)” lanciato ufficialmente da Ueli Maurer in giugno di quest’anno che focalizza le missioni dell’esercito sulla sicurezza all’interno. Questo progetto concretizza il concetto di “Rete integrata Svizzera per la sicurezza (RSS)” adottato dal Consiglio federale nel 2010, che è tutto rivolto alla “sicurezza interna” contro le “nuove minacce” come il terrorismo, le ondate di rifugiati, i disordini sociali europei che si ripercuotono sulla Svizzera,... Nel passato le classi dominanti svizzere hanno potuto disporre in modo efficace dell’esercito di leva contro scioperi e movimenti sociali. Lo sciopero generale del 1918 è stato represso e sconfitto con l’invio massiccio nei centri urbani di truppe provenienti dai cantoni rurali. Più recentemente le mobilitazioni dell’esercito per «proteggere» il vertice del G8 a Evian o il WEF di Davos si sono svolte senza problemi con l’esercito di leva. E non vi saranno problemi anche con l’impiego dei nuovi battaglioni di polizia militare per missioni di sicurezza interna contro dei manifestanti, e con l’utilizzo di unità di fanteria per fermare un arrivo massiccio di rifugiati alle frontiere. Tanto più che oggi la stragrande maggioranza di giovani con uno spirito critico nei confronti del militare non è più incorporata nell’esercito. Andrebbe poi fatta anche tutta una riflessione sulla presunta «garanzia democratica» che costituirebbe l’esercito di leva. Mi limi-
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to a ricordare che in Germania la leva fu reintrodotta da Hitler nel 1935 dopo che era stata abolita sotto la repubblica di Weimar e che i colpi di stato in Spagna, Grecia, Turchia, Cile, Argentina,… sono stati effettuati da eserciti basati sulla coscrizione obbligatoria. A.D.F. Finita la guerra fredda ci si illudeva di entrare in un’epoca di pace, mentre a vent’anni dalla caduta del blocco sovietico i conflitti sembrano aumentati. In questo contesto c’è un’ampia fetta della popolazione che crede che l’esercito svizzero sia utile a difendere la pace. Cosa propone concretamente il GSse nell’agenda politica? T.S. Le disuguaglianze economiche abissali, le ingiustizie sociali e il saccheggio delle risorse naturali del pianeta sono le cause principali dei conflitti. Per ridurre i conflitti bisogna ridurre la portata di queste cause. L’esercito svizzero non serve in nessun modo a ridurre i conflitti nel mondo, e ancora meno a dissuadere i nostri vicini dalla tentazione di invadere la Svizzera, ma unicamente a dare una specie di garanzia di sicurezza completamente illusoria a una popolazione fragilizzata dall’insicurezza economica in Svizzera e nel mondo. Concretamente e nell’immediato, il GSse propone di ridurre drasticamente gli effettivi dell’esercito e di rinunciare all’acquisto di nuovi areri da combattimento. Con i risparmi realizzati si potrebbe aumentare la sicurezza sociale in Svizzera e contribuire, seppure in minima misura, a ridurre le cause dei conflitti nel mondo. A.D.F. Per quale motivo secondo te il parlamento non ha presentato alcun controprogetto all’iniziativa? Sono così sicuri di stravincere? T.S. Da una parte i partiti borghesi sono abbastanza sicuri di vincere, ma dall’altra ci sono anche dei motivi concreti. I due controprogetti presentati chiedevano di istituire un obbligo di servizio generalizzato, esteso anche ad altre attività oltre al servizio militare. Queste proposte sono problematiche per due ragioni principali. Da una parte c’è il problema dell’uguaglianza con le donne e il fatto che l’estensione di un nuovo obbligo di servizio alle donne comporterebbe un funzionamento e una struttura ancora tutti da inventare. Dall’altra c’è il problema che nell’ordinamento democratico-liberale, al di fuori del sistema penale, lo Stato non ha il diritto di obbligare i cittadini a prestare servizi alla società, eccetto che per la difesa da una minaccia esistenziale per la società stessa, come potrebbe essere la minaccia d’invasione militare. Senza parlare poi della pressione sull’impiego e sui salari che eserciterebbero le attività di un servizio obbligato generalizzato, per esempio nei settori della salute e delle cure alle persone anziane. >>
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A.D.F. Se passasse l’iniziativa e la leva non fosse più obbligatoria anche il servizio civile diventerebbe solo volontario. Non ti dispiace? T.S. A prima vista sì. Ma bisogna considerare anche le distorsioni del sistema attuale di servizio civile. Esso è riservato unicamente a chi è dichiarato abile al servizio militare. In molti ambiti il servizio civile costituisce un trampolino per l’entrata nel mondo del lavoro per i giovani che lo svolgono. Ma le giovani donne e chi non ha il passaporto svizzero sono esclusi da questa possibilità. L’unico modo per sopprimere questa discriminazione e aprire il servizio civile alle donne e ai non-svizzeri è far passare l’iniziativa. A.D.F. La borghesia di tanti paesi europei ha ritenuto opportuno abolire la leva obbligatoria. La borghesia svizzera invece pare arroccata a difendere la milizia forzata a tutti i costi. Come mai? T.S. Ci sono dei rappresentanti borghesi «riformatori» come il consigliere di stato liberale-radicale ginevrino Pierre Maudet che ha già presentato un progetto di esercito con 20’000 uomini. Ma per la destra nazional-conservatrice e populista (UDC, Lega,…) il servizio militare obbligatorio è indissolubilmente legato all’idea della difesa nazionale del territorio. È un elemento basilare dell’ideologia politica di questa parte della destra, secondo la quale gli svizzeri (salvo alcuni fannulloni) stanno bene e non devono lasciarsi togliere questo benessere dal resto del mondo che va male. La borghesia svizzera ci tiene a mantenere una forza armata accanto alle polizie cantonali. Sta riducendo gli effettivi e una parte dell’armamento pesante (blindati, artiglieria) propria della difesa nazionale, ma ha capito che senza l’appoggio della destra nazional-conservatrice la riforma dell’esercito non è possibile e per questo non osa toccare il servizio militare obbligatorio. Penso che nelle prossime settimane sentiremo parlare sempre più spesso delle meravigliose virtù del nostro esercito «del popolo, per il popolo», dei valori profondamente elvetici insiti nel «cittadino-soldato», ecc,… A.D.F. Recentemente in Austria la popolazione ha votato per mantenere obbligatorio il servizio militare. Come leggi questo risultato in relazione al voto di settembre nel nostro Paese? Sono possibili paragoni? T.S. Tecnicamente, la votazione in Austria verteva sull’introduzione di un esercito professionista, mentre l’iniziativa in Svizzera mantiene il principio della milizia, che passerebbe da forzata a volontaria. Ma probabilmente la principale differenza con la Svizzera è che la leva è applicata in modo molto più parziale e leggero in Austria. Con 30’000 soldati, l’esercito austriaco ha degli effettivi quattro volte inferiori a quelli attuali dell’esercito svizzero (120’000). Solo una minoranza di giovani compie il servizio 14 - 15
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militare e per un periodo di tempo più corto che in Svizzera. Sembra che gli ambienti militari e conservatori austriaci abbiano saputo far valere con successo anche l’argomento del mantenimento del servizio civile. Il servizio militare obbligatorio in Svizzera è parziale e diseguale, selettivo e diseguale. Lo possiamo vedere da questa semplice statistica che dimostra, basandosi sulla proporzione di giovani dichiarati abili al reclutamente, come la distribuzione dell’obbligo di servizio sia altamente ineguale e quindi discriminatorio. Cantone
%di abili al Servizio militare
Argovia 75,0% Ginevra 55,9% Giura 55,7% Lucerna 78,2% Neuchâtel 56,0% Nidwaldo 79,0% Zurigo 53,8% Ticino 61,4% Il servizio militare obbligatorio non ha niente di universale. Ecco le fasce della popolazione escluse dall’obbligo di leva. Categorie sociali
% della popolazione
Donne 51% Cittadini stranieri 12% Inabili al servizio 15% Servizio civile Non compiono tutti i giorni di servizio militare
6% 12%
Compiono tutti i giorni di servizio militare 4% Totale 100% (Calcoli del GSsE. Fonti: DDPS, UFS, NZZ, Sonntagszeitung.)
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La pericolosa trasformazione dei servizi pubblici in “unità amministrative autonome” Graziano Pestoni ●●
Introduzione
Con il messaggio 6716 del 5.12.2012 il Consiglio di Stato ha proposto un progetto di “Legge sul finanziamento tramite il budget globale e il mandato di prestazione delle Unità amministrative autonome” (LUAA). Concretamente chiede la trasformazione in Unità amministrative autonome (UAA) di cinque servizi, tra cui l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, coinvolti nella fase pilota sin dal 2006 e la possibilità di estendere tale modo di gestione ad altri servizi. Nel presente documento cercheremo di dimostrare che questi strumenti impongono un lavoro burocratico complesso e oneroso, sono inutili e dannosi e, nell’ottica di un servizio pubblico, possono perfino essere pericolosi. Nel nostro lavoro ci riferiremo soprattutto all’esempio dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC), per la quale lo strumento dell’Unità amministrativa autonoma (UAA) appare particolarmente inadeguato. L’UAA, come ricorda anche il CdS, è uno strumento proposto nel 1998 dalla ditta Arthur Andersen (AA), autrice del rapporto “Amministrazione 2000”, la discussa riforma dell’Amministrazione cantonale ticinese. La AA non era una ditta qualsiasi. Essa aveva sposato i concetti del New public management (NPM), la cosiddetta “nuova gestione pubblica”, figlia dell’ideologia liberista, secondo la quale il mercato, la concorrenza e il profitto sarebbero i migliori strumenti per gestire la cosa pubblica. La AA aveva proposto la privatizzazione di una serie di servizi cantonali e le UAA avrebbero dovuto costituire una prima tappa verso la privatizzazione totale dei servizi. Esse costituiscono quindi un reale pericolo, poiché potrebbero essere il grimaldello verso la cessione successiva ai privati di importanti servizi pubblici. 1. Definizione, scopo e funzionamento Il CdS ha affidato alla SUPSI il mandato di seguire la fase sperimentale e di formulare una precisa proposta. Essa è contenuta in un rapporto del 15 novembre 2010, allegato al messaggio governativo. Nel messaggio e nel rapporto della SUPSI si ricordano le caratteristiche delle UAA, i vantaggi e gli svantaggi, nonché la filosofia. Questi aspetti si possono riassumere come segue.
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1.1 Due strumenti di lavoro. Le UAA introducono due nuovi strumenti di lavoro: il mandato di prestazione (contratto di prestazione): rappresenta lo strumento di gestione principale. Indica concretamente gli obiettivi che devono essere raggiunti da parte della UAA: le caratteristiche, i destinatari, gli standard qualitativi, i costi unitari e complessivi. La SUPSI ricorda (pag. 57) che l’elaborazione di un mandato di prestazione esige molta attenzione, sovente sottovalutata: in particolare si riscontra un insufficiente grado di dettaglio e difficoltà nel definire adeguati indicatori dei risultati conseguiti; il conto prestazioni : è il documento in cui sono riassunti i principali gruppi di prestazioni dell’UAA, corredati di qualità e costi pianificati. 1.2 Separazione politica strategica e operativa. Un’altra caratteristica fondamentale dell’UAA è la separazione tra la conduzione politico-strategica e quella operativa. 1.3 Vantaggi e svantaggi. La SUPSI riassume come segue i vantaggi delle UAA: aumento della flessibilità operativa maggiore motivazione del personale attenuazione del regime di monopolio statale utilizzo di strumento tipici dell’economia privata in grado di favorire la concorrenza maggior efficacia orientamento alla copertura dei costi esplicitazione dei conflitti di interesse tra parlamento, governo e amministrazione. Gli svantaggi sarebbero invece i seguenti: è necessario un ripensamento politico sono necessari importanti modifiche di legge il rispetto dei mandati deve essere assicurato con dei meccanismi di controllo che generano costi elevati il processo per creare un’UAA è lungo e complesso. 1.4 Uno staff dipartimentale. La SUPSI rileva ancora la necessita di disporre presso le Direzioni dei dipartimenti di uno staff di specialisti in grado di elaborare dei mandati di prestazione sufficientemente dettagliati, per almeno attenuare “l’asimmetria informativa” e la cosiddetta cattura del controllore da parte del controllato. 1.5 Filosofia. Per quanto riguarda l’aspetto politico la SUPSI osserva che la UAA costituisce una filosofia di gestione. Non si è mai discusso invece delle possibili modalità di coinvolgimento del livello politico. 1.6 Un’inchiesta. La SUPSI per sostenere la sua proposta ricorda che inchieste in quattro cantoni (Basilea-Campagna, Soletta, Turgovia e Zurigo) hanno rilevato un gra-
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do di soddisfazione pari al 62%. Sono stati tuttavia interpellati soltanto membri del parlamento, del governo e quadri dell’amministrazione e sono invece stati esclusi dall’inchiesta il personale, i sindacati, l’utenza. 2. Una (inaccettabile) scelta ideologica L’adozione delle UAA costituisce una scelta ideologica che considera i principi dell’economia privata migliori rispetto a quelli dell’economia pubblica. Nel rapporto della SUPSI si indica chiaramente che si vorrebbe introdurre la concorrenza e sopprimere monopoli pubblici, nonché privilegiare gli aspetti di mercato rispetto alla soddisfazione dei bisogni dell’utenza. Si tratta di principi liberisti. Non sorprende la posizione del Consiglio di Stato in quanto questa scelta, fatta negli anni Novanta, è stata sistematicamente confermata, come lo confermano ancora le recenti proposte di contenimento dei costi. Sorprende invece che le stessa filosofia sia stata adottata acriticamente anche dalla SUPSI. I vantaggi dell’UAA indicati dalla SUPSI sono affermazioni generiche non suffragate da fatti, addirittura a volta smentite dai fatti stessi. Perché il privato sarebbe più efficiente del pubblico? Perché il monopolio pubblico (in taluni settori particolarmente delicati quali la prevenzione nel campo sociale e psicosociale) dovrebbe essere connotata negativamente? Quali vantaggi apporterebbe la concorrenza? L’affermazione secondo la quale l’UAA migliorerebbe la motivazione del personale è smentita dai fatti. Nel periodo coperto dalla fase sperimentale la situazione presso l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale è peggiorata. L’inchiesta effettuata dalla commissione del personale sul personale della Clinica psichiatrica cantonale ( autunno 2011) ha dato, tra l’altro, i seguenti risultati: il 78% giudicava negative le sue condizioni di lavoro il 77% che i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni hanno avuto un’incidenza negativa sulla qualità di vita, sulla qualità del lavoro (67.5) e sull’utenza (89%). Il regime contrattuale previsto dalla UAA, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, non introduce più flessibilità, poiché definisce per un certo periodo la quantità e la qualità delle prestazioni (sulla base di principi finanziari) e solo con difficoltà il servizio potrebbe adeguarsi ai mutamenti dei bisogni dell’utenza. Questo sistema privilegia l’aspetto aziendale (e quindi anche la limitazione delle prestazioni), al diritto del cittadino di disporre per esempio di un servizio sociale o sanitario previsto dalla legge. Si introduce il principio della scarsità delle risorse e si rimette in discussione il principio dell’uguaglianza di trattamento. Va ancora rilevato che l’esigenza di una maggiore autonomia gestionale, soprattutto in campo finanziario, sarebbe possibile con un semplice adeguamento della legge in materia, per esempio conferendo la possibilità di ri16 - 17
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portare all’anno successivo l’avanzo d’esercizio oppure di superare il credito concesso. 3.
Complesse, inutili, pericolose, dannose
3.1 Gli indicatori di prestazione: complessi e manipolabili L’UAA necessita di un contratto tra il Dipartimento e la Direzione dell’unità amministrativa. La SUPSI ammette che questa operazione è complessa, difficile e onerosa e necessiterebbe, tra l’altro di uno staff specialistico dipartimentale per la definizione delle prestazioni da erogare (quantità e qualità). Oltre all’onere supplementare richiesto, il sistema si scontra con altre difficoltà: - l’impossibilità di standardizzare ogni prestazione per misurarne la qualità e la quantità: come si potrebbe quantificare, per esempio in campo sociopsichiatrico, l’attività di prevenzione sul territorio? Individuale e di gruppo? Oppure la presa a carico dei pazienti psichiatrici? - la rigidità: il personale dovrebbe occuparsi del paziente secondo i suoi bisogni o limitare l’attività sulla base di parametri finanziari? E se la casistica dovesse peggiorare e necessitare complessivamente di più risorse? Si dovrebbe aspettare la fine del mandato per adeguare le risorse ai bisogni? - la manipolazione degli indicatori: tutta la letteratura in materia (vedi ad esempio Peter Knoepfel, Idheap) attira l’attenzione sulle difficoltà di mettere in atto un sistema efficace di controllo delle prestazioni. L’asimmetria dell’informazione e delle competenze, inevitabile, tra i responsabili dell’UAA e il Dipartimento, impedisce di fatto un reale controllo. Il controllore per svolgere il proprio compito dipenderebbe dal controllato. 3.2 L’UAA riduce il controllo democratico L’UAA limita i compiti del Gran Consiglio e del Consiglio di Stato che sarebbero chiamati soltanto a definire le scelte strategiche generali. Il dipartimento dovrebbe stipulare il contratto di prestazione. L’UAA è responsabile dell’operatività. Lo Stato (GC, CdS) dovrebbe quindi evitare di intervenire nella gestione quotidiana. È noto tuttavia che il modo con cui una decisione viene applicata è spesso determinante per il destinatario e quindi, la rinuncia volontaria dello Stato a svolgere direttamente taluni compiti riveste un’importanza capitale, poiché priva l’Ente pubblico e quindi la collettività delle possibilità di intervento. A lungo termine assisteremo a conflitti di interesse poiché le esperienze dimostrano che il Parlamento vorrà riprendere prerogative abbandonate all’esecutivo. 3.3 L’UAA sviluppa il corporativismo Il responsabile dell’UAA sarà interessato unicamente all’ottenimento dei risultati nel proprio settore, perché è su questo che verrà premiato o sanzionato.
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Avrà tendenza a trascurare la collaborazione con altre unità ammnistrative , salvo laddove i suoi compiti glielo prescrivono esplicitamente. 3.4 La realizzazione degli obiettivi non è garantita Il responsabile dell’UAA deve eseguire i compiti prescritti dal contratto di prestazione. Tuttavia la sua responsabilità è limitata poiché comporta unicamente l’obbligo di “diligenza” per realizzare lo scopo prefissato. Potremo pertanto assistere a manifeste inadempienze, senza che ci sia la possibilità di intervenire fino alla scadenza del mandato. 3.5 Peggioramenti per il personale Le norme contrattuali, almeno nella fase attuale, rimangono quelle prescritte per tutti i dipendenti dello Stato. Due sono comunque le modifiche di rilievo. Primo. La possibilità per il responsabile dell’UAA di assumere personale precario. In caso di bisogno di personale supplementare si potrebbe pertanto assistere nuovamente all’aumento di personale con meno diritti. Secondo. Vista l’accresciuta competenza del responsabile dell’UAA, in caso di necessità sarà più difficile per il personale chiedere l’intervento del Consiglio di Stato. ●● Conclusioni L’UAA è fondata su principi finanziari . Essa dimentica i valori, fondamentali, della collaborazione, scorda volutamente che il cittadino ha precisi diritti, sanciti dalla legge. Il cliente (perché l’UAA di fatto trasforma il cittadino in cliente) può beneficiare di prestazioni soltanto nella misura in cui è in grado di pagare. Non a caso la ditta Arthur Andersen ha proposta anche l’introduzione del cosiddetto principio della corresponsione, ossia la fatturazione sistematica di ogni prestazione. Si tratta di uno stravolgimento dei rapporti tra Stato e cittadino: un allontanamento del cittadino dall’amministrazione e dai servizi sociali e sanitari. Per risolvere il problema di una maggiore autonomia delle unità amministrative, sicuramente necessaria in una certa misura, non è necessario l’adozione di un sistema tanto complesso e oneroso, con così tante controindicazioni. Si può accordare la necessaria autonomia alle varie unità amministrativa senza aumentare la burocrazia. L’elaborazione del mandato di prestazione e la definizione degli indicatori quantitativi e qualitativi e di tante altre cose, necessitano di tempo e risorse. Tempo e risorse che vengono sottratte all’attività. Riteniamo pertanto inadeguato, inutile e dannoso lo strumento dell’UAA. Auspichiamo quindi che il Gran Consiglio metta fine a questa esperienza e sappia invece garantire la qualità del servizio pubblico attraverso la rivalutazione dei principi fondamentali del pubblico impiego, quali la socialità, la disponibilità, la giustizia, l’equità.
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Non è la maleducazione del Mattino a preoccuparci, ma la “austerity”! Comitato Cantonale del Partito Comunista Il 19 ottobre 2013 è stata convocata una manifestazione di piazza a Lugano per rivendicare lo sviluppo dei diritti sociali in Ticino sulla base di un appello che denuncia giustamente i tentativi di divisione dei lavoratori, la precarizzazione nel mondo del lavoro, lo smantellamento dello stato sociale, la discriminazione nei confronti dei migranti, la corruzione e l’infiltrazione della malavita nel tessuto economico del nostro Paese, ecc. Il Partito Comunista non condivide però la volontà di focalizzare l’attenzione su due “star” leghiste, come Lorenzo Quadri e Marco Borradori: non è tanto la pur deprecabile maleducazione del Mattino della Domenica a preoccuparci, quanto piuttosto la crisi economica, le misure di austerità imposte dai poteri forti di questo Cantone, i diktat dell’Unione Europea che la Svizzera recepisce passivamente, il razzismo che non è solo quello delle iniziative xenofobe ma soprattutto quello frutto delle politiche volte a favorire una guerra fra poveri che sono comuni anche a quella parte di padronato che con la Lega non c’entra. L’opposizione va dunque fatta nei confronti di tutti i partiti di governo e di un padronato sempre più arrogante. E’ la politica di destra in quanto tale che va contrastata per costruire un progetto di società alternativa in cui si ridefiniscano i rapporti sociali in favore dei lavoratori, delle lavoratrici e dei ceti popolari. La Svizzera non sarà un’isola felice per sempre: la crisi che si rafforza anche nel nostro Paese rischia di portarci a situazioni simili alle “macellerie sociali” di altri paesi d’Europa, dove le forze dell’estrema destra fascista stanno oltretutto proliferando. Occorre quindi scendere in piazza e occupare le pubbliche vie in maniera compatta; tuttavia non basta manifestare una volta ogni tanto quasi a mo’ di scampagnata: bisogna ricominciare a costruire delle stagioni di lotta sul territorio per promuovere gli interessi dei ceti popolari in tutti gli ambiti della società, sui posti di lavoro e nelle scuole. In primis attraverso lo sciopero in autunno contro il preventivo 2014 già definito come “lacrime e sangue”. Bisogna che le organizzazioni operaie, studentesche e progressiste si uniscano in un progetto strategico di azione per preparare le dure battaglie in difesa dei diritti e per promuovere un alternativa politica al neo-liberismo e al consociativismo borghese e partitocratico, che rende la Svizzera un paese immobilista in grado di parare i contraccolpi che si prospettano nei prossimi mesi e nei prossimi anni al seguito del rafforzarsi della crisi solo imponendo sacrifici a chi già oggi tira la cinghia.
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Tragedia greca alla lusitana: cronaca dell’austerità imposta al Portogallo Stefano Araujo
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L’attuale governo ha finora ricevuto cinque mozioni di sfiducia, record per un governo dai tempi della Rivoluzione dei Garofani.
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Prova né è la pubblicazione nei media di una lettera. firmata da figure di spicco del padronato e dell’economia, in cui si sprona il Presidente della Repubblica a far trovare un accordo tra i partiti.
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●● L’austerità prende il sopravvento Nella primavera 2011 cade in Portogallo il governo socialista guidato da José Socrates a seguito della bocciatura in parlamento del PEC 4, un pacchetto di tagli alla spesa pubblica – dettato quasi interamente dall’Unione Europea – che doveva far fronte alla crisi del debito pubblico portoghese. Vengono perciò indette elezioni legislative anticipate. A causa della crisi della zona Euro, il debito pubblico enorme, la carenza di investimenti esteri, il Portogallo si trova a dover richiedere aiuti sotto forma di crediti alla comunità internazionale, come già in precedenza fatto da Irlanda e Grecia. In cambio degli aiuti, per garantire fedeltà alla troika (composta dal Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e l’Unione Europea), questa obbliga i tre maggiori partiti: il PS (Partito Socialista), il PSD (Partito liberale/neoliberista, nonostante il nome fuorviante di Partito Socialdemocratico) e il CDS-PP (Centro Democratico SocialePartito Popolare, formazione democristiana conservatrice), a firmare un “Memorandum” d’intesa. Esso non è altro che un patto di impegno ad applicare misure di austerità estreme per risanare il debito, con tagli enormi al sociale, ai servizi statali, ai salari dei dipendenti pubblici e liberalizzazioni. Il tutto in cambio di un “aiuto” di circa 70 miliardi di Euro e un’intera economia e mercato sotto “tutela” del FMI. Niente di nuovo se si pensa al caso Greco. Nell’estate dello stesso anno, vince le elezioni il PSD guidato da Pedro Passos Coelho, e per garantire una maggioranza di governo, si unisce a questo il CDS-PP guidato da Paulo Portas. Questo governo ha rappresentato la peggiore faccia dell’austerità e della troika. L’aumento della disoccupazione (oggi al 18% totale; 40% quella giovanile), la recessione, nuovi casi sociali e l’aumento dei suicidi sono alcuni degli esempi della devastazione sociale perpetrata dalla destra e dai partner internazionali. L’insoddisfazione non tarda ad arrivare, soprattutto da parte delle classi medie e dei lavoratori che si vedono da una parte tagliare le prestazioni sociali e dall’altra imporre un aumento massiccio delle imposte – per esempio negli ultimi due anni i Portoghesi hanno dovuto devolvere metà della propria tredicesima allo Stato; un magazziniere si vede detrarre dal salario sotto forma di imposta sul lavoro circa 250 euro, che sono quasi metà del salario mini-
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mo nazionale! Insomma, a pagare, come sempre, non sono i facoltosi, bensì i lavoratori. A questa politica di austerità si oppongono duramente i sindacati, che hanno indetto vari scioperi generali, e la sinistra parlamentare rappresentata dai comunisti del PCP, dai Verdi e dal BE (Bloco de Esquerda, partito di sinistra nato dall’unione di vari movimenti di ispirazione trotzkista, maoista e socialista), che fin dal primo giorno si sono opposti al Memorandum, proponendo di stracciarlo e di rinegoziare totalmente il debito, alludendo al fatto che molti dei debiti contratti sono impropri o imposti dalla troika. ●● Il “salvataggio” che in realtà distrugge il Paese Il governo di destra va avanti, nonostante i continui dissapori interni tra il PSD e il CDS-PP e nonostante le mozioni di sfiducia presentate dall’opposizione di sinistra, che non vengono mai accolte1. Accade, però, che a inizio di luglio si dimette il Ministro delle Finanze José Relvas (PSD), il quale, tramite una lettera pubblica, motiva le sue dimissioni con l’ammissione di aver fallito con le proprie politiche economiche. Al suo posto viene nominata un’economista con precedenti incarichi nel Tesoro statale, Maria Luis Albuquerque, sgradita però al numero due della coalizione, il Ministro degli Esteri Paulo Portas, leader dei democristiani. Si apre una disputa nel governo, che culminerà con le dimissioni di Portas, senza che il Presidente della Repubblica, Anibal Cavaco Silva (PSD), fosse avvisato. Ci sarebbero così tutti gli ingredienti per una crisi politica: il CDS-PP si trova in una situazione di impasse: continuerà o meno a far parte del governo? Garantirà la maggioranza in Parlamento? Il PS, all’opposizione, chiede elezioni anticipate, come pure la sinistra e i comunisti, alludendo al fatto che il governo non gode più di legittimità e di fiducia dinanzi al popolo. Nei giorni seguenti avviene un primo colpo di scena: dopo vari incontri, apparentemente i due leader tornano a intendersi: Portas annulla le proprie dimissioni, e il Premier lo propone suo vice – carica finora mai esistita – e Ministro delle Strategie Economiche, dandogli così la possibilità di controllare direttamente la neo-ministra delle finanze. Sembra tutto risolto, e invece il Presidente della Repubblica decide di incontrarsi con tutti i partiti parlamentari e i partner sociali (sindacati e padronati), per trovare una soluzione alla crisi politica. L’opposizione ribatte la necessità di elezioni anticipate, mentre la destra governativa e il padronato spingono per mantenere attivo questo governo fino a giugno 2014, mese in cui il FMI abbandonerà il Portogallo e il paese tornerà nei mercati senza la tutela internazionale. Dopo tali incontri, il Presidente della Repubblica boccia la proposta del governo di rimescolamento dei ministri, ma acconsente alla richieste padronali2, imponendo che il PS, il PSD e il CDS-PP si incontrino per formare insieme un go-
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verno di “salvataggio nazionale”, che continui con i dettami della troika e l’austerità fino all’estate, momento proposto per le elezioni legislative anticipate. Una situazione simile a quanto accaduto in Grecia e in Italia (con l’accordo fra centro-sinistra e centro-destra). Non si tratta di rispettare la volontà popolare, bensì di una misura antidemocratica tesa a mantenere fino alla fine l’austerity che sta distruggendo il Portogallo; un colpo di stato istituzionale in piena regola. I partiti di destra pressano il PS affinché entri nel governo. I socialisti accettano il dialogo e invitano pure la sinistra a unirsi agli incontri, rimarcando fin da subito che non accetterà più tagli al sociale e al numero di funzionari pubblici. Il PCP e il BE rifiutano di dialogare con la destra, affermando che è un ossimoro il termine “salvataggio”: è l’austerità a provocare la distruzione del tessuto economico e sociale del paese. Ipotesi di governo per la sinistra unita? Nel frattempo, mentre gli incontri tra i tre partiti maggiori hanno già preso avvio, il BE invita sia il PS che il PCP a negoziare le basi di un possibile futuro governo di sinistra unita. I comunisti si dicono interessati al dialogo, mentre il PS, dopo un solo incontro con i “blocchisti”, decide di sospendere il dialogo, dando priorità agli incontri col governo. La risposta comunista non si fa attendere: il PS è più interessato a discutere con la destra e, preferisce parlare con chi vuole l’austerità che con chi propone l’alternativa. Il PS accusa a quel punto il PCP di settarismo, mentre i comunisti rinfacciano ai socialisti di aver paura di un confronto e di essere più aperti alla destra liberale che alla sinistra. Nel mezzo il BE rimarca l’intenzione di voler creare un’intesa, pregando il PS di lasciar perdere l’accordo con la destra. Peraltro anche ex-leader storici della sinistra, come i socialisti Mario Soares e Manuel Alegre, concordano: un governo PS con la destra sarebbe un disastro! Anzi: i socialisti dovrebbero unirsi alla sinistra sulla base della rinegoziazione del debito e la fine dell’austerità dettata dalla troika. Successivamente all’incontro PS-BE, quest’ultimo si incontra col PCP, il quale, al termine si rallegra della comunione di visione e di intenti sui problemi da risolvere e sulle soluzioni da adottare, riaffermando la necessità che tutte le forze politiche e sociali che vogliono un’alternativa alla troika, alla destra e all’austerità debbano unirsi e progettare una via di uscita insieme, al di là delle diversità ideologiche. I comunisti precisano però che non di una coalizione elettorale si tratta, bensì di adottare proposte politiche comuni. Si attendono, perciò, prossimamente nuovi incontri che potranno chiarificare le intenzioni e le strategie della sinistra portoghese. ●●
●● Niente accordo, si continua a destra con l’austerità Dopo vari colloqui, cade la proposta presidenziale di governo di salvataggio: il PS comunica che non è sta-
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ta trovata alcuna intesa programmatica, affermando che le parti hanno due visioni inconciliabili sulle politiche da attuare; più attenta alla crescita economica e alle richieste sociali quella socialista, più attenta alla diminuzione della spesa e dei servizi pubblici quella della destra. In particolare, il PS rimarca la sua opposizione totale al taglio di 4 miliardi alla spesa pubblica, al taglio del numero di dipendenti pubblici e dei loro salari, alle privatizzazioni di imprese statali, proponendo invece un aumento dei salari minimi nazionali e delle pensioni, diminuzioni delle imposte sul lavoro e dell’IVA nella ristorazione, oltre ad altre misure per rilanciare l’economia. Fallito il tentativo, il Presidente della Repubblica decide di mantenere attivo l’attuale governo, senza annunciare alcun termine dello stesso, riaffermando che le elezioni anticipate sarebbero una tragedia e un disastro per i mercati. La destra applaude, i socialisti si rammaricano, mentre il PCP, in un comunicato diramato subito dopo il discorso di Silva, riafferma che il Paese si trova dinanzi all’ennesimo gioco presidenziale teso a salvare un governo completamente delegittimato – prima dai propri ministri e poi, in un primo momento, pure dallo stesso Presidente quando costui non accettò il rimpasto – e un’austerità che sta distruggendo il Paese. “Il Presidente - afferma il segretario comunista Jeronimo de Sousa – non sciogliendo il Parlamento, conferma la propria opzione strategica: un intervento al servizio degli interessi del grande capitale (i mercati) e delle potenze complici di un processo di espropriazione, estorsione delle ricchezze nazionali e dei redditi dei portoghesi. È chiaro che il denominato compromesso di ‘salvataggio nazionale’ non è stato altro che un esercizio per imprigionare il paese a favore della destra e del Patto di Aggressione (si tratta del Memorandum, ndr), che lo affonda, e della sottomissione esterna. [...]”3. In sintesi, la situazione non cambia a causa di un Presidente della Repubblica ostaggio del grande capitale, sordo davanti alle richieste dell’opposizione e del popolo, sempre più stanco e sfiancato dall’austerità, che ha vinto questa ennesima battaglia istituzionale, a scapito degli interessi della popolazione. In attesa di novità, seguiremo con interesse gli incontri della sinistra – in particolare del PCP che ha in programma ancora, dopo quelli coi partiti e con i sindacati, vari incontri con figure democratiche indipendenti nei prossimi giorni.
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Giù le mani dalla Siria! No alla guerra! Qualche informazione sulla Siria: il governo del presidente Bashar Al-Assad è una coalizione fra socialisti baathisti e comunisti; l'istruzione e l'assistenza sanitaria sono gratuite e di buona qualità; i prodotti di base (come gli alimentari) sono sovvenzionati dallo Stato, i prezzi sono controllati e calmierati dallo Stato garantendo così l’accesso al consumo alle fasce meno abbienti; i sindacati degli operai e dei contadini (che aderiscono alla Federazione Sindacale Mondiale assieme ai sindacati comunisti di tutto il mondo, dal PAME greco alla CTC cubana) intervengono con potere decisionale nelle scelte economiche delle imprese; a dirigere il commercio estero è lo Stato e non le multinazionali occidentali; il settore pubblico impiega quasi la metà della forza lavoro siriana; il ruolo della donna è riconosciuto nella società; ecc. La vittoria di una attacco imperialista o dei "ribelli" (in gran parte salafiti) - oltre a mettere a repentaglio la laicità della società e la pace fra etnie e confessioni - causerebbe un’ondata di privatizzazioni in svariati settori economici, lasciando il paese in balia delle multinazionali e del neo-liberismo e distruggerebbe gran parte dei diritti sociali della popolazione, degli studenti e dei lavoratori: Iraq, Libia, ecc. insegnano.