#politicanuova - 03

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febbraio 2014

quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

Inter esclu vista siva! Indice 2

Editoriale

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La Siria sotto attacco. Le riforme di Assad e l’alleanza coi comunisti

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America Latina, dall’ALBA alla costruzione della “Patria Grande”

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Alfonso Tuor: “di fronte alla crisi i potentati economico-finanziari non possiedono più una strategia”ategia”

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Diritti sociali e di proprietà nel “socialismo di mercato” cinese: alcuni spunti di riflessione

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Il ruolo della Svizzera nell’internazionalizzazione del renminbi

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L’aviazione militare svizzera di fronte al dilemma dei Gripen

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Gli insegnamenti della Casa del Cinema

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I problemi del keynesismo nel riuscire a incidere nella struttura della società capitalista


Impressum

#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 3 febbraio 2014 anno II

#Politicanuova, un sapere spendibile 1

Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società, Editori Riuniti (University Press), Roma 2012, p. 77

2

Ricardo Antunes, Il lavoro in trappola, Editoriale Jaka Book, Milano 2006, p. 66

3

M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze. La realtà della globalizzazione, Editoriale Jaka Book, Milano 2003, p. 247

4

David Harvey, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007 p. 51-52

5

Edoardo Sanguineti, Novecento. Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005, p. 12

6

Oliviero Diliberto/ Vladimiro Giacché/ Fausto Sorini, Ricostruire il partito comunista, Edizioni Simple, Cremona 2011

7

I cosiddetti “serbatoi del pensiero”, in grado – con il peso delle proprie analisi e delle reti di contatti in cui sono inseriti – di influenzare corposi settori dei policy makers e dell’opinione pubblica

8

Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società, cit., p. 81

9

Ibidem

10

James Petras/Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata, cit., p. 67 11

Ivi, p. 77

12

Edoardo Sanguineti, Novecento. Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo, cit., p. 11

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Oggi viviamo il risultato di una transizione le cui radici vanno ricercate tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quando iniziò un’aspra lotta di classe dall’alto che stravolse totalmente i rapporti di forza tra capitale e lavoro: dal paradigma fordistakeynesiano – in cui la classe operaia, il mondo sindacale ed in generale i movimenti di alternativa sociale si caratterizzavano per una contrattualità di considerevole importanza – si passò ad uno stato di cose nel quale i potentati economici – confrontati con un’insidiosa crisi legata alla drastica caduta della profittabilità degli investimenti nei tradizionali settori manifatturieri – riacquistarono progressivamente preminenza. In tale transizione non mutò solo il livello politico ed economico (attacco al mondo del lavoro, finanziarizzazione, tecnologizzazione del processo produttivo, ecc). La dinamica della lotta di classe fu organica (cioè composta da più coordinate interrelate) e, in tal senso, si evidenziò una radicale offensiva anche sul versante ideologico-culturale. Al fine di accompagnare e argomentare i mutamenti della struttura economica, si pose la necessità, per coloro i quali stavano riconfigurando la società, della messa in campo di convincenti motivazioni di carattere ideologico. La “restaurazione” passò dalla riconquista di un’egemonia culturale che, nel periodo precedente, si dovette confrontare pericolosamente con le diverse correnti della sinistra d’alternativa, che furono in grado di sviluppare istanze avanzate sotto il profilo ideologico-culturale (si pensi all’affermazione di un solido pensiero marxista nel quadro accademico europeo). I teorici della transizione fabbricarono formule e ricette finalizzate a modellare funzionalmente l’opinione pubblica. Alle forme di solidarietà e di presenza attiva degli elementi sociali sullo scacchiere politico si sostituirono paradigmi radicalmente antitetici. I princìpi del libero mercato, della libera impresa, della proprietà privata, della competizione e del consumo smodato vennero veicolati con grandi performance. Era poi fondamentale «espellere dalle categorie del pensiero il conflitto capitalelavoro (...), annegare la figura del lavoratore in quella del cittadino, e soprattutto nella figura del consumatore e dell’azionista, in quanto beneficiati dal capitale».1 Per scardinare l’incisività dei movimenti operai si diffusero sentimenti che spinsero verso l’atomizzazione dell’aggregazione sociale e conseguentemente politica, attraverso il «culto del soggettivismo e di un sistema di idee desocializzanti che faceva l’apologia all’individualismo esasperato contro le forme di solidarietà e di attuazione collettiva e sociale».2 Un modello focalizzato su una «tipologia di società incentrata sull’individualismo darwinista, in-

Editore Partito Comunista

Direttore Aris Della Fontana

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terpretando le relazioni sociali come modalità di selezione naturale».3 I postulati neoliberisti giunsero a permeare il gramsciano senso comune, che «si costruisce attraverso pratiche di socializzazione culturale, spesso profondamente radicate in tradizione regionali e nazionali; esso può essere profondamente fuorviante, in quanto nasconde o maschera i veri problemi sotto pregiudizi culturali: (...) secondo Gramsci le questioni politiche diventano “irrisolvibili” quando si rivestono di forme culturali».4 Le specifiche forme culturali che emersero, ruotarono e ruotano tutt’oggi attorno alla retorica promozione delle libertà individuali (concetto affascinante quanto ambiguo) e del mercato, assieme all’asserzione della fine delle ideologie (una formula quantomai ideologica, con la quale «il mondo dei lavoratori veniva disarmato della coscienza di classe», di cui invece il mondo capitalistico-borghese «rimaneva perfettamente consapevole»5) e con queste della storia, postulando il capitalismo come ordine immutabile.6 Gli appoggi finanziari e politici a questo complesso di idee in graduale composizione – sostenuto da una schiera sempre maggiore di think-tanks7 (Heritage Foundation, American Enterprise Institute, ecc) – permisero la sua affermazione nei luoghi nevralgici da cui partivano le direttive ideologicoculturali. Il supporto politico e culturale al nuovo stato di cose passò attraverso la proliferazione di «serbatoi del pensiero, fondazioni, club, società, camere di commercio internazionali e così via, che forniscono un flusso continuo di informazioni e rapporti, ma soprattutto specifiche indicazioni di politiche economiche e sociali».8 Nella formazione del consenso e nell’edificazione di un apparato ideologico realmente egemone hanno giocato un ruolo non indifferente le nuove figure professionali che allora andavano emergendo: «addetti alla comunicazione, all’immagine stampata e in video, nonché alla pubblicità e alle relazioni pubbliche, al lobbismo professionale».9 Dopo aver marcato un’influenza crescente nella dimensione accademica (con una copiosa produzione di trattati e libri) e poi nella stampa («il Wall Street Journal in testa (...) sostenne apertamente il neoliberismo come soluzione necessaria a tutti i mali dell’economia»10) si progettò l’approdo ai partiti e poi al potere statale. Da quel momento si creò «un’eredità e una tradizione in grado di condizionare i politici successivi, imponendo loro una serie di costrizioni cui non potevano sottrarsi facilmente».11 Peraltro, a differenza del passato – quando il conflitto ideologico era prevalentemente un conflitto di propagande – oggi viviamo i risultati della «transizione dal momento della propaganda a quello della pubblicità, che ne è l’aspetto degradato»: non più un confronto tra posizioni diverse, bensì «un artificio di seduzione, di persuasione occulta in cui le idee vengono vendute come prodotti»12 e le informazioni prodotte funzional-


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mente alle finalità delle classi dominanti dalla «fabbrica del falso».13 Ieri come oggi, «mentre i capitalisti dominano i mass media, i lavoratori sono privi di qualsiasi alternativa nel campo dell’informazione».14 In virtù di una tale evoluzione del conflitto fra idee occorre riprendere in mano – con decisione, senza piagnistei e rassegnazione – le redini della lotta di classe dal basso anche dal punto di vista ideologico e culturale, segnare la diversità con le produzioni attualmente in voga applicando il marxismo al fine di meditare la prospettiva di un socialismo del XXI° Secolo. È necessario operare in questa direzione soprattuto per il fatto che attualmente le economie occidentali sono confrontate con una crisi economica di carattere sistemico che, evidenziando alcune contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo, permette di ritornare sul terreno della proposta politica rivolta all’alternativa sociale. Si tratta di avversare un modello di intendere il funzionamento delle società, di fronteggiare la terrificante pervasività del modello culturale della società di mercato, denunciandone i disvalori. Un foglio di approfondimento quale #Politicanuova s’inserisce in questo auspicato percorso di risorgimento del marxismo e della sua capacità di mettere a disposizione strumenti con cui pensare la trasformazione sociale. Questo progetto editoriale si configura come antidoto alla frettolosità e alle analisi superficiali: estremizzazioni dell’azione politica contro-producenti, legate alla bassa considerazione verso la riflessione politico-ideologica. Tuttavia – anche e soprattutto pensando al ruolo e agli scopi di questo giornale, che veicola, per sua natura, contenuti teorici – occorre evitare anche un’altrettanto sconveniente estremizzazione, quella che Alberto Burgio15 ha definito fuga nella teoresi16 (e ciò, detto da un filosofo, è quantomai significativo). Si tratta, sostanzialmente, dell’elusione delle responsabilità politiche e organizzative in seguito alla difficoltà di immergersi nei movimenti reali. Una prassi che si connette ad una considerazione pericolosa: ritenere che il problema del conflitto politico sia da ritrovare e risolvere in maniera preminente nella teoria. E, invece, attualmente, la lacuna è proprio la produzione di soggettività (Burgio), ossia la capacità di estendere il numero di fruitori di tale produzione teorica. Marx, in tal senso, chiarì che il dominio capitalistico è produzione di soggettività realizzata attraverso una narrazione che legittima i rapporti sociali di produzione. È necessario riconsiderare il valore strategico della trasmissione e della generalizzazione di coscienza critica: la ripresa della concezione pedagogica del Partito non è eludibile e, non a caso, il suo abbandono si sovrappone al decadimento politico della socialdemocrazia, oggi sussunta alle posizioni dominanti. Marx ci dice inoltre che la crisi sistemica si determina via via che si approfondisce la crisi di egemonia della classe dominante, via via che, parallelamente, nasce la soggetti-

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vità rivoluzionaria: è alla luce di queste riflessioni doveroso interrogarci sulla posizione da assumere nel campo della lotta per l’egemonia. Lo sviluppo di una direzione culturale delle classi subalterne – verso una condizione in cui queste non siano più in balia del sopracitato senso comune (prodotto dell’influenza delle idee filosofiche organiche al blocco storico17 egemone e quindi trasposizione folkloristica18 della filosofia dominante) – è possibile, ancor più quando il blocco ideologico capitalista sta subendo un momento di profonda impasse. È perciò oggi centrale il tema dei rapporti di forza, cioè il meccanismo culturale, ideologico e politico che presiede alla costruzione dei soggetti. Va riaffermata la preminenza politica dell’organizzazione delle forze e della teoria del partito: tali settori, infatti, non possono essere sviliti tramite un loro inserimento nel campo amministrativo-burocratico. Guardare allo storia è istruttivo: lo sviluppo delle diverse fasi del marxismo si è sovrapposto infatti all’evolversi delle considerazioni teoriche relative alla forma e alle caratteristiche delle organizzazioni politiche rappresentanti le classi subalterne: si pensi a Marx e alla critica del modello politico anarchico, si pensi a Lenin e al partito d’avanguardia, si pensi a Gramsci e alla concezione di blocco storico, si pensi infine a Togliatti, teorico del partito nuovo e delle riforme di struttura. È in virtù di queste considerazioni che #Politicanuova non può proporsi in modo totalizzante e, men che meno, come emanazione a se stante dal resto delle attività messe in atto della struttura partito. Il lavoro organizzativo sul territorio a contatto con la popolazione non va dunque declassato a compito di seconda categoria, sussunto alla produzione teorica. Questi due livelli – invece di essere disgiunti – si devono sostenere a vicenda, creando una ciclica commistione fra teoria e prassi. #Politicanuova – che diffonde conoscenze spendibili – è uno strumento a disposizione di chi intende muoversi con metodo nella complessa realtà dei giorni nostri. #Politicanuova s’inserisce – modestamente, in un periodo in cui a modellare le configurazioni dell’umanità è ancora il capitale – nel solco della diffusione di un pensiero fresco, in grado di tratteggiare l’orizzonte strategico dell’alternativa Aris Della Fontana direttore di #politicanuova

Economia

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Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, DeriveApprodi, Roma 2001

14

James Petras/Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata, cit., p. 54

15 Alberto Burgio è professore di Storia della Filosofia all’Università di Bologna e dirigente del Partito della Rifondazione Comunista (PRC). 16

Attività puramente speculativa, senza altri scopi o interessi fuori del suo stesso indagare.

17 Tale concetto si riferisce al rapporto che, secondo la concezione materialistica della storia, intercorre tra struttura e sovrastruttura. Tra di esse, dice Gramsci, nel corso della storia, si realizza in certe condizioni una «unità sostanziale», formando così un blocco storico. E’ un concetto utile per l’analisi storica perché riconoscere l’esistenza di un rapporto complesso e di azione reciproca tra il «contenuto economicosociale» di una fase storica e la sua «forma etico-politica». Quando un gruppo sociale è egemone e cementa intorno a sé l’intera società, per mezzo dell’ideologia, dell’organizzazione del consenso, dell’apparato statale, realizza un «blocco storico»: il partito comunista secondo Gramsci deve sviluppare la funzione egemonica della classe operaia realizzando attorno al suo programma un nuovo blocco storico (Dizionario enciclopedico marxista).


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La Siria sotto attacco. Le riforme di Assad e l’alleanza coi comunisti

Simone Romeo e Massimiliano Ay

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Cfr. Seth Rutledge: “Syria: Democracy vs. Foreign Invasion. Who is Bashar Al Assad?”, Global Research, 31 marzo 2013.

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Il Partito della Rinascita Socialista Araba (Baath) è stato fondato nel 1947 unendo le idee socialiste a quelle del nazionalismo pan-arabo di impostazione laica. E’ al potere in Siria dal 1963 e dal 1972 opera all’interno del Fronte Nazionale Progressista unitamente ai comunisti e ad altri partiti socialisti, soprattutto di orientamento nasserista.

Da oltre una decina di anni a questa parte stiamo assistendo al tentativo dell’Occidente imperialista di sottomettere al proprio giogo l’intera area mediorientale, in modo tale da controllare una regione importantissima sia per quanto concerne le abbondanti risorse naturali, che per la posizione geostrategica. Controllando il Medioriente, le potenze in declino che stanno perdendo gradualmente egemonia nel sistema economico mondiale, tentano di frenare gli avversari – Cina e Russia – nelle possibilità di commerciare, come anche, più complessivamente, cercano di frenare l’avvicinamento di tali Stati nell’ambito di un raggruppamento euro-asiatico. Partendo dall’attacco all’Afghanistan del 2001, passando dalla guerra in Iraq del 2003, dal golpe reazionario in Libia del 2011, arrivando infine al tentativo di distruzione della Siria in atto da oltre due anni, il disegno è molto chiaro. Petrolio, materie prime, annientamento di chi aveva osato rompere circoli monetari vantaggiosi per gli USA – come nel caso irakeno e libico – e da ultimo la conquista di un polo mondiale tramite l’insediamento di multinazionali e governi fantoccio dalla chiara impostazione liberista e filooccidentale. Sono stati questi i veri motivi all’origine dei conflitti nell’area e non certamente presunti arsenali di armi chimiche, oppure una reale convinzione nell’ambito della libertà, della laicità o dei diritti umani come sbandierato dai media mainstream della propaganda occidentale. Il governo di Bashar Quando nel 2000 Bashar Al-Assad fu scelto dal Parlamento rimosse dai loro incarichi tutte le persone colluse con le potenze straniere fino ad allora tollerate e iniziò una campagna anti-corruzione, con tanto di espulsioni dal Paese. Inutile dire che questi esiliati sono oggi diventati tutti “democratici” e aperti sostenitori dei “ribelli”: primo fra tutti Rifaat al-Assad, zio paterno di Bashar, alto ufficiale delle forze armate e responsabile della repressione dei Fratelli Mussulmani nel 1982. Nel 2001 si smascherarono inoltre varie ONG statunitensi che avevano lottizzato la società siriana negli anni ’90. La tensione fra Damasco e Washington iniziò quindi evidentemente a crescere e nel 2003 gli USA – forti dei 200’000 marines presenti sul confine fra Irak e Siria – tentarono di imporre a Bashar alcune condizioni, tra cui quella di tagliare i legami con i movimenti palestinesi in Siria; di troncare le relazioni con l’Iran firmando un trattato di pace a favore di Israele; ma soprattutto di consentire alle banche e alle multina●●

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Ticino

Economia

zionali occidentali un accesso totale ed illimitato al mercato nazionale ancora tendenzialmente filo-sovietico, con tutto un pacchetto di altre riforme neoliberali. Bashar non solo rifiutò le ingerenze dell’imperialismo, ma cercò pure di ostacolare l’occupazione dell’Iraq.1 E’ questo il difficile contesto in cui Bashar si è mosso, fronteggiando sacche di borghesia compradora all’interno dello Stato e notevoli pressioni esterne che ne minavano la sovranità. Sarebbe però sbagliato pensare che il governo siriano abbia mantenuto la schiena dritta: come marxisti sappiamo che le rivoluzioni nazional-democratiche guidate dalla borghesia nazionale, per quanto tappa fondamentale nell’emancipazione, sono in sé potenzialmente instabili; esse possono evolvere verso il socialismo se l’alleanza fra proletariato e borghesia nazionale si consolida, così come possono fossilizzarsi e ritornare verso un modello di capitalismo subalterno non appena il fattore egemonico delle forze comuniste e popolari viene a mancare. Bashar ha commesso l’errore di procedere, nei suoi primi dieci anni di governo, a esperimenti di liberalizzazione economica, i quali hanno generato forme di corruzione e clientelismo che hanno arricchito una ristretta cerchia di persone e che in parte l’ha posta al servizio del capitale estero per poter ulteriormente emergere. Nel frattempo l’industria petrolifera ha registrato un calo negli utili che hanno spinto a tagli impopolari e gli investimenti sono stati concentrati quasi esclusivamente in pochi centri urbani tralasciando le campagne povere in infrastrutture. Peraltro nei mesi precedenti al degenerare delle proteste il parlamento di Damasco stava discutendo, in modo estremamente animato (altro che dittatura!), la dismissione di asset centrali dell’economia nazionale, come quelli idrici ed energetici: l’idea di privatizzare le centrali elettriche, ad esempio, aveva registrato un forte interesse della multinazionale francese EDF. Tutte conseguenze della svolta adottata dal Congresso del Partito di governo Baath2 nel 2005 quando si orientò verso una non meglio precisata “economia sociale di mercato”. Il ruolo dei comunisti Il dovere dei marxisti e di chi si dice avverso all’imperialismo è sostenere l’indipendenza e lo sviluppo autonomo e sovrano in senso socialista della Siria, come stanno dimostrando i comunisti siriani. Questi ultimi, infatti, pur nelle loro varie componenti e con un approccio più o meno critico, dopo i primi scontri, si sono compattati col governo e lo stesso hanno fatto i sindacati. A seguito delle riforme economiche di stampo liberale – che hanno intaccato il welfare – vi sono state infatti, in origine, delle manifestazioni spontanee, comprensibilissime e sostenute anche dai comunisti, composte sia di persone che dalla campagne impoverite si sono trasferite nei sobborghi delle città (come a Daraa, da cui tutto è parti●●


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L’anti-imperialismo di Hezbollah e l’alleanza coi comunisti in Libano Se si vuole conoscere sul serio la situazione siriana non ci si può scordare del ruolo giocato dal movimento sciita libanese Hezbollah, che sta combattendo al fianco del presidente Assad. Hezbollah, per quanto religioso, ha instaurato una collaborazione con il Partito Comunista Libanese sin dalla sua nascita nel 1982, che in pochi anni è divenuta una vera e propria alleanza tra i due partiti, tanto da operare in parlamento quasi organicamente dal 1992. Il movimento sciita guidato da Hassan Nasrallah (che in passato fu segretario della Gioventù Comunista Libanese!) si è sempre opposto in modo esemplare all’imperialismo israeliano nella regione schierandosi con il popolo palestinese. Ma non solo: Hezbollah ha fondato svariate associazioni di sostegno popolare in vari settori: ricostruzione gratuita di abitazioni distrutte dai bombardamenti; costruzione di ospedali, scuole, reti fognarie e reti elettriche; cure gratuite ai partigiani e sostegno alle famiglie dei caduti; formazione in campo agricolo per emanciparsi economicamente e borse di studio universitarie per i ragazzi meno abbienti. Hezbollah, per quanto partito islamico, schierandosi con Assad non solo contrasta il fondamentalismo islamico, ma rafforza l’unico Paese della regione che, unitamente all’Iran, frena le spinte guerrafondaie occidentali e israeliane. La deposizione del governo siriano sarebbe peraltro quasi certamente solo un prologo al ritorno alla guerra civile in Libano. Hezbollah si presenta dunque come un movimento – nonostante di ispirazione religiosa – dallo spiccato carattere sociale, antimperialista e favorevole dell’autodeterminazione delle nazioni, con molte affinità rispetto agli obiettivi immediati dei comunisti. Definirlo un movimento “imperialista”, come sostenuto di recente da certi gruppuscoli dell’estremismo di sinistra anche nel Canton Ticino, solo perché attivo anche oltre il confine libanese, non solo è inconcepibile da un punto di vista marxista e internazionalista, ma significa sostanzialmente non conoscere la storia mediorientale degli ultimi 40 anni ed estranearsi dalla realtà geopolitica odierna.

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to), sia di gruppi studenteschi urbani. Non solo la liberalizzazione di alcune tariffe aveva indebolito il potere d’acquisto dei salariati, ma a questo va aggiunto il fatto che, dopo una siccità triennale che aveva parzialmente desertificato la regione interna fra Latakia e Homs, era sopraggiunto un periodo di crisi che ha alimentato il malcontento e aumentato la disoccupazione. Occorre onestamente dire che la repressione di queste prime manifestazioni pacifiche è stata eccessiva, probabilmente sintomo di una divisione ai vertici dello Stato stesso, tanto è vero che Bashar farà subito marcia indietro, destituendo il responsabile della polizia locale. In seguito annuncerà pure la fine dello “stato di emergenza” in vigore dal 1963 a dimostrazione di una non indifferente volontà di dialogo e una sensibilità alle proteste sociali. I problemi veri sorgono però quando in queste manifestazioni si infiltrano fazioni esplicitamente eversive e mercenari violenti che le estendono in modo fin troppo sospetto, provocano poi disordini e assassini, scatenando la reazione delle forze armate. A questo punto si è creato “ufficialmente” il movimento dei ribelli, che per ribadire la propria natura pacifica ha fondato immediatamente l’Esercito Siriano Libero (ESL), il quale gode del sostegno tecnico e logistico delle potenze occidentali e dai loro alleati nell’area mediorientale – la Turchia di Erdogan e la monarchia saudita – entrambi regimi non proprio esemplari in termini di democrazia. Due contraddizioni Non si tratta però, per i comunisti, di un sostegno incondizionato a Damasco: si tratta di una questione di contraddizioni. Occorre riconoscere infatti che Paesi come Siria e Iran (e prima Libia e Irak), ognuno in modo diverso, presentando dei limiti espliciti – in alcuni casi strutturali – soprattutto in politica interna, tentano uno sviluppo alternativo al capitalismo globale e ostacolano così l’avanzata dell’imperialismo. La contraddizione secondaria rappresentata dai limiti interni, non ci deve far chiudere gli occhi sulla contraddizione primaria relativa alle aggressioni di USA, Israele e UE, che mirano unicamente a espandere la propria egemonia economicoculturale in altre aree del globo. Lenin affermava senza remore che “la lotta dell’emiro afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci […]” così come “la lotta dei mercanti e degli intellettuali borghesi egiziani per l’indipendenza dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta oggettivamente rivoluzionaria, quantunque i capi del movimento nazionale egiziano siano borghesi per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano contro il socialismo, mentre la lotta del governo operaio inglese per mantenere la situazione di dipendenza dell’Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta ●●

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V. I. Lenin: “Bilancio della discussione sull’autodecisione”, Vol. XlX, pp. 257-258 ed. russa

4

Amal Saad-Ghorayeb: “Syrian Crisis: Three’s a Crowd”, 12 giugno 2012

5

Cfr. Saleh Waziruddin: “Communist Parties Win 11 Seats in Syrian Parliamentary Elections”, Monthly Review, 18 giugno 2012.

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reazionaria, quantunque i membri di questo governo siano proletari per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano per il socialismo”.3 Insomma cosa è più utile nella lotta contro il grande capitale che affama i popoli? La resistenza dei compagni siriani o certa sinistra occidentale che funge da cassa di risonanza della propaganda NATO su presunti diritti umani a senso unico? Insomma: “nonostante i suoi difetti, il governo siriano resiste attivamente all’aggressione imperialista e qualunque atteggiamento che non sia il fornirgli pieno sostegno – almeno per tutta la durata di questa crisi – equivale a contrastarne la resistenza”.4 ●● La questione democratica Una delle rivendicazioni dell’opposizione era la soppressione dell’art. 8 della Costituzione siriana che riconosceva il Baath quale partito d’avanguardia della nazione e quindi di fatto l’unico legittimato a governare. Invece di limitarsi a togliere tale articolo, il presidente Bashar ha fatto riscrivere la carta fondamentale da uno speciale comitato di esperti. Mediante un referendum popolare la nuova Costituzione è stata approvata con il 90% dei voti e l’affluenza alle urne del 60% degli aventi diritto di voto. Il presidente ha poi emanato una legge sui media per favorire la creazione di nuove testate indipendenti e ha facilitato i requisiti per la registrazione di nuovi partiti politici. Nel dicembre 2011 si sono svolte le elezioni comunali: molti di quelli che furono eletti ai seggi sono ora stati assassinati o minacciati in tutto il paese dagli stessi “ribelli” che dichiaravano di volere la democrazia. Le elezioni parlamentari si sono poi tenute nel maggio 2012, senza alcuna restrizione di idoneità per i candidati: tra i nuovi deputati alcuni sono già caduti sotto i colpi dell’ESL. Il sistema politico siriano, peraltro, prevede, dopo le elezioni, la designazione da parte della rappresentanza politica vittoriosa di un candidato premier, la cui elezione viene sottoposta a referendum popolare obbligatorio nel quale il candidato deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti validi (in caso contrario il Parlamento indica un altro candidato): vicino a noi, invece, vi sono Paesi dove i premier governano col 30% dello scarso 50% che si reca alle urne. Riconoscendo il pluripartitismo, la nuova Costituzione del 2012 non prevede però il diritto di voto universale in senso europeo liberal-democratico, ma riconosce al contrario una società divisa in classi e prevede espliciti privilegi per il proletariato siriano. La maggioranza dei seggi in parlamento è infatti riservata alla categoria A a cui appartengono gli operai e i contadini in base alla definizione data dalla Legge del lavoro. Il resto dei seggi, una minoranza, sono destinati ai candidati della categoria B composta da tutte le altre classi sociali non proletarie del Paese. Si tratta di una forma innovativa di democrazia di classe palesemente orientata in senso socialista.5

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I tre partiti comunisti siriani al fianco di Bashar Il Partito Comunista di Siria Unificato guidato storicamente da Yusuf Faisal e oggi dal deputato Huseyn Nemer negli anni ’80 appoggiò le riforme volute da Gorbaciov in Unione Sovietica e oggi viene ritenuto più aperto a una prassi riformista. Dispone di tre deputati al parlamento ed è tuttora alleato in modo organico al Baath del presidente Assad. Unitamente ad esso è molto attivo il Partito Comunista Siriano guidato dal deputato Ammar Bagdache che assume una linea più rigorosamente leninista rifiutando le riforme gorbacioviane in URSS prima e assumendo oggi una posizione cauta sulla Cina; dispone di un proprio ministro nel governo e di otto deputati al parlamento. Entrambi questi due partiti comunisti aderiscono al Fronte Nazionale Progressista con il Baath. Diversa la scelta del Partito della Volontà Popolare (nuova denominazione del Comitato Nazionale per l’Unificazione Comunista) guidato da Qadri Jamil; si tratta di un partito marxista-leninista con influenze maoiste che ha promosso il Fronte Popolare per il Cambio e la Liberazione, una coalizione critica verso Assad, ma nel contempo leale verso la Costituzione e la sovranità del Paese (tanto che il suo leader è stato vicepremier) e attivo contro le ingerenze stranieri e contro i “ribelli” mercenari.

Cosa rimane del socialismo siriano? Con la caduta dell’URSS la Siria ha perso un partner importante ed è stata costretta a realizzare alcune riforme sugli investimenti di capitale. Si tratta, però, di misure modeste, tanto che dal 2000 al 2008 la parte privata nella produzione del PIL industriale cresce di poco più dell’8%, toccando quota 60%. Ben più pesante la scelta di liberalizzare il settore bancario, prima di assoluto dominio statale. Tuttavia il settore pubblico contribuisce ancora per il 30% del PIL e impiega il 42,5% della forza lavoro totale. Se nel dettato costituzionale del 1973 leggiamo esplicitamente che in Siria “l’economia dello Stato è una economia socialista pianificata che cerca la fine dello sfruttamento”, nel 2012 questa frase viene cancellata a favore di una più vaga ricerca della “giustizia sociale” e tuttavia ciò che nella sostanza resta di socialista non è poco: i sindacati hanno potere decisionale sulle scelte economiche delle imprese e l’associazione dei contadini controlla tutte le cooperative agricole, la ●●


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scuola e la sanità sono gratuite e i prezzi sono calmierati dallo Stato. La pianificazione macroeconomica è rimasta in vigore e lo Stato controlla non solo il commercio estero, ma anche un centinaio di industrie strategiche come il settore della chimica. ●● Cosa potrebbe e dovrebbe fare la Svizzera in concerto? Aiutare davvero il popolo siriano significa difenderne la sovranità nel contesto di una Repubblica Araba di Siria unita, escludendo cioè le forze separatiste etniche, curde in primis, che mirano a balcanizzare il paese favorendone una ricolonizzazione. Questo permette di costruire delle relazioni internazionali di pace e cooperazione, rispettando l’integrità e l’indipendenza delle nazioni nell’ottica di realizzare un mondo multipolare. Concretamente, adesso, in piena crisi umanitaria, le Autorità svizzere dovrebbero accogliere la risoluzione del 22° Congresso del Partito Comunista della Svizzera Italiana, favorendo un supporto umanitario efficace che permetta di accogliere nei Paesi limitrofi – come il Libano – i rifugiati. E’ questo il primo passo da affrontare, a differenza di quanto proposto dal Partito Socialista Svizzero e cioè di accogliere immediatamente 20’000 profughi siriani nella Confederazione. In questo senso il Consiglio federale, se si attenesse con rigore a una vera neutralità, dovrebbe riaprire con effetto immediato l’Ambasciata della Repubblica Araba di Siria a Berna e ristabilire tutte le relazioni diplomatiche, economiche e di cooperazione fra i due paesi, vietare il passaggio sul nostro territorio nazionale di risorse militari dirette verso la Siria con scopi bellici e da ultimo mettere fine alla sponsorizzazione (anche solo indiretta, come l’organizzazione logistica di riunioni unilaterali) degli organismi che rappresentano i mercenari, come il cosiddetto Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) siriano.

America Latina, dall’ALBA alla costruzione della “Patria Grande” Nicolas Fransioli Il progressivo consolidamento in Sud America degli organismi sovranazionali dell’ALBA (Alleanza bolivariana dei popoli di Nuestra America) e del Mercosur (Mercato comune del Sud America), che permette di rafforzare il progetto di ispirazione bolivariana di sviluppo solidale e integrazione del continente, è anche in grado di porre più efficacemente le basi per proiettare il continente sudamericano sullo scacchiere internazionale come un attore economico e

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geopolitico di rilevanza globale, caratterizzato da coesione ed indipendenza. La tendenza che si delinea sempre più chiaramente è la volontà da parte di molti paesi latinoamericani di slegarsi dai nefasti diktat neoliberisti di Washington, e muoversi verso una società di ispirazione socialista che si pone in un ottica di continuità con il sogno indipendentista e anticolonialista della “Patria Grande”, formulato da Simon Bolivar. La lotta per l’emancipazione politica ed economica dall’imperialismo USA, che accomuna il sud America ad altre realtà, si declina, sul piano dei rapporti internazionali, nella volontà da parte delle realtà economicamente emergenti di lavorare per lo sviluppo di un mondo multipolare. Antefatti storici Il precursore dell’ideale di unità e indipendenza del continente sudamericano è considerato Francisco de Miranda (1750-1816), generale e politico venezuelano, che fu uno dei protagonisti della lotta contro il colonialismo spagnolo. Il suo pensiero è fortemente caratterizzato dal pensiero illuminista con cui venne a contatto nei suoi viaggi in Europa, specialmente in Francia, dove ebbe anche un ruolo di rilievo come Maresciallo di Francia nell’esercito rivoluzionario. Nei suoi scritti si delinea un progetto costituzionale di unificazione dell’America Latina che tenta di conciliare la questione della sovranità e dell’unità con la tutela della cultura locale e la partecipazione democratica, ipotizzando la costituzione di un quadro giuridico unificato, un esecutivo composto da un numero ristretto di persone in modo da garantirne l’efficienza delle Assemblee provinciali elette dai cittadini che garantiscano le caratteristiche democratiche dello stato. Particolarmente lungimirante risulta essere la sua concezione di una sovranità che si realizza necessariamente attraverso il pieno sviluppo delle potenzialità economiche. Simon Bolivar (1783-1830), detto il Libertador, generale e rivoluzionario venezuelano, è considerato il padre dell’indipendenza sudamericana. Riprende da de Miranda l’idea dell’unificazione sudamericana e la declina in una concezione di governo profondamente democratica: nella sua visione solo attraverso la democrazia si poteva realizzare l’unità e l’indipendenza. La giustizia economica, l’uguaglianza sociale e politica, vanno ricercate attivamente dallo stato, che ha il compito di eliminare le disparità fra gli individui attraverso l’istruzione, il lavoro e i servizi. Bolivar formula il concetto di Suprema Felicità Sociale, spesso ripreso dal compianto presidente venezuelano Hugo Chavez, che si deve realizzare attraverso una struttura sociale includente e un nuovo modello di produzione umanista. La felicità, in tal senso, deriva dalla distribuzione equa dei beni e dei servizi, dalla consapevolezza dei lavoratori di contribuire alla ricchezza collettiva e dallo sviluppo della creatività. >> ●●

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●● La costruzione dell’ALBA e l’integrazione continentale

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Paesi in via di sviluppo

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2006: Bolivia, 2007: Nicaragua, 2008: Repubblica Domenicana, Honduras (si ritira dall’Alba un anno dopo, in seguito al golpe che dimise il presidente Zelaya), 2009: Ecuador, Saint Vincent e Granadine, Antigua e Barbuda

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Membri: Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù. Membri associati: Argentina, Cile, Brasile, Paraguay e Uruguay.

4 Proprio in questo senso va interpretata la recente concessione di poteri speciali al presidente Maduro in materia di lotta alla corruzione e alla guerra economica.

8-9

I primi promotori della costituzione dell’Alba sono Venezuela e Cuba, che durante il III summit dell’Associazione degli Stati Caraibici, nel 2001, sancirono la loro formale opposizione al progetto FTAA (area di libero scambio delle Americhe) promosso dagli Stati Uniti. Il progetto FTAA è espressione diretta dell’approccio imperialista statunitense verso il sud del mondo. Si pone in continuità con le politiche neoliberiste imposte da parte occidentale ai PVS 1, principale causa del mancato sviluppo, specialmente a partire dagli anni ‘80, di quei paesi che non hanno saputo opporvisi, aprendo la strada alla colonizzazione del tessuto produttivo da parte del capitale occidentale e al saccheggio legalizzato delle risorse naturali. La volontà di instaurare un nuovo modello di rapporto fra paesi, che non implichi ne una dinamica di sfruttamento ne di assistenzialismo, si concretizza nel 2004 con l’accordo di fornitura di petrolio a prezzo agevolato da parte venezuelana a Cuba, che in cambio fornisce al Venezuela migliaia di medici e insegnanti (il Venezuela, due anni dopo questo storico accordo, verrà dichiarato paese libero dall’analfabetismo). Il consolidarsi dell’ALBA segna l’avvio di numerosi progetti di lotta alla povertà, alfabetizzazione e sviluppo sanitario, ma accanto ai progetti di cooperazione mirata, con il progressivo allargamento della alleanza ad altri paesi latino-americani2, l’ALBA assurge al ruolo di blocco economico e politico nel contesto continentale ed internazionale, caratterizzato da una chiara impostazione anti-imperialista, grazie anche alla promozione dell’interscambio economico fra i paesi del Sud America, basato su criteri di complementarietà e sviluppo comune, che va ad emarginare il ruolo del centro imperiale e l’annesso drenaggio di risorse (naturali, economiche ed umane). Emblematica in questo senso è la creazione della moneta Sucre, una moneta per ora solamente “virtuale”, con cui vengono gestite le transazioni finanziare fra paesi aderenti al progetto, permettendo così di emarginare il dollaro dalle transazioni internazionali. L’impostazione indipendentista e di integrazione continentale dell’ALBA viene interiorizzata anche da altre realtà sovranazionali presenti in sud America, come il Mercosur, il mercato comune del Sud America, di cui il Venezuela bolivariano entra a far parte nel 2012. Il Mercosur nasce nel 1991 con il trattato di Ascunction, esso è il progetto embrionale per un area di libero scambio che comprenda tutta l’America Latina. Sono Stati membri dalla fondazione Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay e Stati associati la Bolivia e il Cile (1996), il Perù (2003), la Colombia e L’Ecuador (2004). Il Mercosur nasce come progetto volto principalmente alla costituzione di un blocco economico con una legislazione com-

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merciale unificata e all’abolizione dei dazi doganali fra i paesi membri, ma riesce anche, specialmente a partire dalla creazione del fondo per la convergenza strutturale nel 2004, a dare importanza alla protezione e allo sviluppo delle economie meno sviluppate. Nel 2008 è stato costituito l’Unasur, l’unione delle nazioni sud-americane, che si propone di unire il Mercosur, la comunità andina3, la Guyana e il Suriname, estendendo così il progetto di zona di libero scambio a tutto il Sud America. Lo sviluppo forse più significativo a livello continentale, dal punto di vista geopolitico, è la creazione della CELAC, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi, avvenuta nel 2011. Essa comprende tutti gli stati del continente americano, con l’esclusione di Stati Uniti e Canada. La CELAC si propone di perseguire l’integrazione continentale arginando l’irruenza che gli USA esercitano attraverso l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), creata nel 1948 per perseguire gli interessi strategici di Washington e da cui è stata sempre esclusa Cuba (che detiene attualmente la presidenza della CELAC). Riuscendo ad aggregare paesi, con posizioni politiche anche divergenti, sul tema concreto dell’integrazione continentale con un approccio di lotta alla povertà e agli squilibri economici, la CELAC si configura come il laboratorio ideale per l’integrazione del Sud America in un’ottica di autodeterminazione. Significative a questo proposito le parole del presidente venezuelano, Nicolas Maduro, durante il primo Vertice dei ministri dell’area sociale della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Carabi: “Il nuovo destino dell’America è l’unione, la diversità, la democrazia e la fraternità”. Elías Jaua, ministro degli esteri del Venezuela, ha inoltre dichiarato che le politiche riguardanti i programmi di educazione, salute ed alimentazione si possono sviluppare nella CELAC con le stesse dinamiche applicate nell’ALBA. Il capitalismo non è una soluzione In rapporto allo storico rifiuto del capitalismo come modello di società, che in questi anni sempre più paesi sudamericani hanno operato, va senz’altro dato grande merito al comandante Hugo Chavez e al cammino per la costruzione del socialismo in Venezuela. Il processo di emancipazione economica e politica dal capitale, nazionale e transnazionale, si è concretizzato in Venezuela tramite la lotta alla disuguaglianza e alla povertà, la partecipazione popolare nel processo politico e nell’economia, la pianificazione economica, così come tramite la lotta alle persistenti quanto insidiose sacche di potere della borghesia (principalmente economiche e mediatiche, ma anche istituzionali)4. Il Venezuela di Chavez ha in larga parte svolto un ruolo esemplare per quanto riguarda le politiche d’ispirazione socialista in seguito applicate dagli altri leader sudamericani, come Rafael Correa in Ecuador e Evo Morales in Bolivia. La valenza della rivoluzione bolivariana, sul ●●


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piano internazionale, non si limita tuttavia unicamente al ruolo di paese guida per la costruzione del socialismo in America Latina: essa è anche intrinsecamente portatrice di un nuovo modello di rapporti fra paesi. L’affermazione dell’impostazione bolivariana al di fuori del Venezuela ha infatti portato alla consapevolezza che non si può concretizzare il progetto di unità e indipendenza della “Patria Grande” all’interno del sistema capitalista, di cui l’imperialismo è espressione (e fase suprema). Va da se che anche l’interscambio, economico e culturale, fra paesi, nell’ottica di costruire appunto una sempre migliore integrazione, non può avere le modalità e le caratteristiche del attuale modello di asservimento alle necessità del capitale di matrice occidentale. D’altra parte, un sistema di assistenzialismo o di foraggiamento unilaterale, per quanto possa essere ammirevole, non è attualmente sostenibile da nessun paese, in America Latina o altrove.5 La soluzione messa in campo, è quella del cosiddetto “win-win”, ovvero la mutua vantaggiosità dell’interscambio, di cui il sopracitato accordo Cuba-Venezuela (petrolio in cambio di medici) è un perfetto esempio. L’approccio di mutua collaborazione fra paesi, pur concretizzandosi spesso attraverso dinamiche di mercato, rifiuta l’accumulazione del capitale come fine principale (pur riconoscendone l’importanza strategica per garantire la sovranità economica), ma bensì si pone come obbiettivo l’estensione delle conquiste sociali attraverso lo sviluppo economico equilibrato, solidale e sostenibile, un approccio che è chiaramente presente nell’architettura dell’ALBA. ●● Sviluppo e prospettive economiche del continente Il continente sudamericano rimane tuttora una realtà molto differenziata dal punto di vista economico. Il gigante industriale brasiliano rappresenta da solo quasi il 50% del PIL6 dell’intero continente, a fronte di altri paesi, concentrati principalmente nella zona andina, che ancora faticano ad avviare un processo di industrializzazione. Il Mercosur, passato da un PIL di 0,6 trilioni di dollari nel 1991 a 3,3 nel 2012, si configura attualmente come il quinto blocco economico a livello mondiale. La decisioni di integrare il mercato comune del sud con la comunità andina, tramite la costituzione dell’Unasur va certamente nella giusta direzione per riequilibrare lo sviluppo economico continentale. Tuttavia i limiti di un’impostazione di sviluppo basata su un’integrazione economica diretta dal mercato risaltano se paragonati ai progressi sociali compiuti da altre realtà. Prendendo in considerazione l’indice di sviluppo umano7 (ISU) i progressi più significativi sono stati fatti dai paesi aderenti all’Alba. La crescita dell’ISU si è assestata intorno a una media del 6% per i paesi aderenti all’Alba dalla sua costituzione nel 2004 al 2012.8 Se confrontato con una media continentale, che si assesta

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attorno al 3%, questo dato mette in luce l’efficacia dei programmi di educazione e sanità promossi dall’ALBA, nonché l’efficace redistribuzione della ricchezza attuata dai governi bolivariani. Progressi significativi a livello continentale sono stati fatti anche nel riassesto della bilancia commerciale, della situazione debitoria (in particolar modo verso gli USA) e dell’interscambio commerciale internazionale fra i paesi latinoamericani. La problematica del debito ha un peso non trascurabile per quanto riguarda la sovranità economica. Basti pensare alle spietate politiche neo-liberiste imposte ai PVS a partire dagli anni ‘80. Gli squilibri delle bilance commerciali che ne derivarono causarono la proliferazione del debito estero, usato poi come strumento di ricatto per promuovere gli interessi neo-coloniali dell’occidente.9 Nell’arginare questa problematica è pionieristico il progetto Sucre: una moneta di scambio comune ai paesi ALBA, con cui viene conteggiato il saldo dell’interscambio commerciale. Pur pagando questo saldo semestralmente in dollari, il meccanismo permette di arginare in maniera considerevole la problematica debitoria. Oltre a ciò viene favorito lo scambio commerciale fra paesi aderenti al progetto. Dalle sei transazioni effettuate in Sucre nel suo primo anno di vita, il 2010, la moneta si è rapidamente consolidata fino a raggiungere un volume di scambio complessivo di 1.066 milioni di dollari nel 2012. La reazione dell’imperialismo La politica di interventismo statunitense contro i governi popolari del Sud America, varata con raccapricciante brutalità dal golpe contro Salvador Allende e il Cile socialista, non è stata di certo a guardare durante l’affermazione di un nuovo blocco anti-imperialista sudamericano. Caratterizzata dall’appoggio e dalla promozione di regimi fascisti in tutto il continente e dall’imposizione di politiche economiche volte all’asservimento agli interessi economici USA, come nel caso del criminale blocco economico che da cinquant’anni Cuba subisce, essa ha trovato la sua continuazione sino ai giorni nostri. La pianificazione di colpi di stato che ha segnato gli anni più bui dell’America Latina, non ha risparmiato la rivoluzione bolivariana, colpendo anche lo stesso Venezuela con il golpe contro Chavez del 2002, fortunatamente sventato dall’esplosiva sollevazione popolare. Diversamente è andata in Honduras, dove il golpe che depose il presidente Zelaya nel 2009 comportò l’abbandono dell’ALBA da parte honduregna. I continui tentativi di destabilizzazione ai danni dell’Avana perpetrati durante i decenni passati si sono estesi anche agli eredi dell’esperienza socialista cubana. Le recenti dichiarazioni dell’ex impiegato del NSA10 Edward Snowden rivelano (o forse sarebbe meglio dire confermano) l’esistenza di una complessa e strutturata rete di associazioni e ONG attraverso le quali gli USA finanziano e istruiscono movimenti ●●

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Persino il gigante cinese rifiuta esplicitamente un simile modello.

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Prodotto interno lordo.

7

L’indice di sviluppo umano è un indicatore, elaborato dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo, che oltre agli indicatori economici tiene in considerazione fattori non deducibili dal PIL, ma di grande rilevanza dal punto di vista della qualità di vita: accesso all’istruzione, accesso alle cure sanitarie, sviluppo sostenibile, reddito pro capite.

8

Va inoltre considerato che non tutti i paesi presi in considerazione hanno aderito all’alleanza nell’anno della costituzione.

9

Situazione simile a quella dell’odierna Grecia, “commissariata” dalla BCE.

10 National Security Agency


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e partiti d’opposizione in tutti paesi latinoamericani dimostratisi eccessivamente insofferenti verso il giogo di Washington. La condotta statunitense sembra quindi ancora intravvedere nel Sudamerica il tradizionale “giardino di casa”: tuttavia nelle regioni latino-americane sono sempre maggiori e più forti le voci di critica e, in tal senso, stando alla stretta attualità, il caso Snowden ha suscitato unanime sdegno. Sia per l’illegittimo divieto all’aero di Evo Morales di sorvolare lo spazio aereo di alcuni paesi europei, su pressione statunitense, per il timore che il fuggiasco Snowden potesse essere a bordo, e sia per le rivelazioni sopra citate. Ben più significativo è però l’unanime e definitivo affossamento della FTAA, progetto mai abbandonato dagli Stati Uniti, ribadito durante il primo meeting della CELAC.

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Partito Socialista Unito del Venezuela

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●● Sinergie con altre realtà emergenti e scenari futuri La volontà di emanciparsi dalla dipendenza economica, così come la crisi economica che dal 2008 colpisce l’occidente, ha avuto la naturale conseguenza nella ricerca di nuovi legami con altre realtà emergenti. Dal punto di vista economico, il rapporto che maggiormente va consolidandosi, è quello intrattenuto con i BRICS, in particolar modo con la Cina. Se, nel 2006, “solo” il 5% del commercio estero sudamericano faceva riferimento alle relazione con la Cina, nel 2012 la percentuale in questione ha raggiunto il 15% e, entro il 2015, l’obiettivo dichiarato delinea la Cina – a fronte di una progressiva perdita di terreno da parte occidentale - come primo partner commerciale. Questa evoluzione va letta sia in rapporto alla crescente necessità di materie prime del gigante asiatico, ma anche come chiara volontà di Pechino di favorire lo sviluppo multipolare dell’assetto globale, come dimostra la crescente presenza di investimenti cinesi. In questo senso si muovono anche le sinergie in materia di politica estera che si vanno consolidando fra BRICS e paesi anti-imperialisti, come recentemente dimostrato dal largo consenso riscontrato in questi schieramenti circa l’opposizione alla guerra in Siria. Alla base di questa evoluzione vi è la comune consapevolezza che solo lo sviluppo multipolare dei rapporti di forza fra nazioni e blocchi regionali è in grado di arginare la sempre maggiore aggressività dell’impero americano, messo alle corde dalla crisi e dall’affermazione di nuove realtà economiche. Sinergie politiche e ideologiche ancora più profonde si riscontrano fra i paesi dell’Alba e la Cina, nell’ottica della costruzione del socialismo, come la recente decisione del PSUV 11 di far istruire i propri quadri in Cina. Lo sviluppo futuro del continente Sud Americano e la sua rilevanza geopolitica sul piano globale sembra dipendere in larga misura dalla capacità di costruire un’integrazione complementare in grado di assicurare un sviluppo equilibrato che limiti le disuguaglianze, fra paesi e fra classi sociali. In que-

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sto senso molto dipenderà da se e come il socialismo bolivariano saprà consolidarsi e allargarsi ad altre realtà nazionali, nonché dalla sua capacità di resistere all’intensificarsi della guerra mediatica ed economica scatenata dall’imperialismo USA, già vista all’opera nei giorni successivi alla tragica scomparsa del comandante Chàvez. D’altra parte una reale emancipazione dall’influenza del capitale occidentale può realizzarsi unicamente tramite un solido sviluppo delle forze produttive in grado di garantire la sovranità economica del continente. In questo ambito la strada sembra essere ancora lunga, ma il consolidarsi dei legami economici e politici con la Cina va sicuramente nella giusta direzione e fa ben sperare nell’ottica dell’adozione – opportunamente declinata - del vincente modello di crescita economica cinese anche in America Latina.

Raul Castro e Nicolas Maduro


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Alfonso Tuor: “di fronte alla crisi i potentati economicofinanziari non possiedono più una strategia” #Politicanuova intervista il noto economista ticinese Alfonso Tuor a proposito dei nuovi equilibri geopolitici conseguenti alla crisi economica occidentale e all’ascesa di alternative formazioni regionali. A cura di Aris Della Fontana 1. Gli Stati Uniti hanno evidenziato una seria difficoltà politica nel gestire i propri bilanci. Che ripercussioni avrà il pressante problema del superamento del tetto del debito – con un deficit federale che ha toccato livelli molto importanti – a livello internazionale? È in pericolo l’egemonia statunitense sullo scacchiere geo-politico mondiale? L’Occidente affronta una parabola decadente e, in questa dinamica, i problemi economici statunitensi si equivalgono a quelli europei, dato che entrambi sfociano dalle stesse contraddizioni. Gli Stati Uniti – che, oggi, nessuno più propone come modello da seguire - vivono una situazione molto grave: in questo paese, dove vengono stampati 1’000 miliardi ogni anno, abbiamo una crescita a livelli molto bassi (1-2 %): di fatto il moltiplicatore si attesta a livelli negativi. In Europa - unitamente ai problemi di indebitamento (pubblico e privato) e alla forte recessione - abbiamo inoltre la presenza dell’Euro, il quale rappresenta – come fosse una “camicia di forza” un problema importante che deprime ulteriormente la condizione economica e accentua la crisi. A questo proposito, lo storico britannico Niall Ferguson – non certo un marxista - paragonò il sistema dell’Euro a quello del Gold Standard, sottolineando come la crisi degli anni ‘30 è stata maggiormente incidente in quei paesi che non abbandonarono subito il citato sistema monetario. Si stanno peraltro evidenziando segni di frantumazione a livello geo-strategico: se da una parte gli Stati Uniti – con il potere finanziario - controllano ancora, seppur con evidenti segnali di arretramento, la loro tradizionale orbita di controllo, dall’altra non hanno più il potere di attrarre i nuovi paesi emergenti. Sul piano economico-commerciale la Cina si caratterizza per una maggiore attrattività, sotto diversi punti di vista: in primo luogo la necessità di materie prime la configura come un partner ideale; è inoltre in grado di erogare finanziamenti che gli Stati Uniti non danno più (e che se effettivamente fossero erogati non sarebbero concorrenziali a quelli cinesi poiché legati a filo doppio con la finanza e i suoi canoni di “rapina”). C’è insomma una parte di mondo che, a causa della crescita della Cina, si sta affrancando ad essa ed allontanando dall’Occidente a guida statunitense. Il Brasile può fare la voce grossa con gli Usa per-

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ché alle spalle è coperto dalla presenza della Cina: come diceva Giulio Andreotti “può giocare sui due fornelli”. Ma il caso brasiliano non è un’eccezione: lo Srilanka sta entrando in un’orbita filo-cinese (ha recentemente accolto una base navale cinese), in America Latina – tolti Messico e Colombia – è in atto un processo di autonomizzazione e sostanziosi sono i rapporti con la Cina. La confusione che caratterizza il medio-oriente è un altro esempio di disgregazione: in Libia, di fatto, non si controlla l’evoluzione del paese, la Tunisia è completamente instabile. Ciò dimostra che la strategia del gruppo di potere occidentale è in fase di sbandamento. Le dinamiche egiziane sono ancor più emblematiche: prima si permette che Mubarak venga eliminato, in seguito si tesse un accordo con i fratelli Musulmani, che così hanno potuto vincere le elezioni, poi abbiamo il colpo di stato e, adesso, con il comandante militare attualmente in carica, maggiormente legato all’Arabia Saudita, si evidenziano le premesse per lo sviluppo di future discordie. Il tutto è molto significativo: stiamo parlando di zone – quelle medio-orientali – un tempo ascrivibili sotto il totale controllo occidentale. L’impero, insomma, si disgrega e non riesce più ad essere totalizzante, sia sotto il profilo politico che militare (in quest’ultimo caso siamo all’interno di un circolo vizioso, poiché la ridotta capacità economica causa una riduzione degli investimenti militari, i quali a loro volta provocano un arretramento delle posizioni economico-commerciali). 2. Sul piano geo-politico come si muoverà il blocco occidentale rispetto alle nazioni emergenti ed in particolare rispetto alla Cina? Sono date le premesse affinché si ripresenti una nuova guerra fredda? Le gravi difficoltà economiche comporteranno tagli al budget statale, di cui fanno parte anche le spese militari? Una regressione delle performance militari sarà determinante nel mettere in discussione il primato statunitense? Siamo di fronte ad un circolo vizioso in cui la perdita di posizioni a livello geo-militare – causata anche dalla presenza di soggetti forti, come la Russia e la Cina, che hanno dimostrato più volte di volersi smarcare dall’egemonia statunitense - si connette esplosivamente e a filo doppio con il peggioramento delle condizioni economiche? Possiamo quindi parlare - con Lord Selborn, ammiraglio della flotta inglese - di “binomio nave-moneta”? Proprio nel momento in cui, sul fronte occidentale, la perdita di autorità a livello internazionale si connette esplosivamente ad una grave crisi economica, assistiamo ad un parallelo cambio di peso globale da parte di altre entità statuali, segnatamente la Cina e la Russia, le quali, attualmente, sono legate da un’alleanza tattica (non sappiamo ancora se di carattere strategico). Siamo di fatto confrontati con una sostanziale mutazione del contesto geo-strategico che potrebbe anche sfuggire di mano e quindi essere foriero di conflitti. I poteri che gestiscono il mondo occidentale, il Giappone e parecchi paesi emergen-

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ti, non hanno influenza su questo nuovo blocco. Il reticolato lobbistico occidentale, che è al tempo stesso economico-finanziario e politico, non riesce (o quantomeno non riesce ancora) a condizionare e a controllare – in funzione dei loro interessi - la politica economica e la politica internazionale di queste due realtà nazionali. Prendiamo la Russia. Ai tempi di Yeltsin – quando le ruberie e le privatizzazioni selvagge imperavano – era considerata, da giornali come il The Economist e il Financial Times, come un “paese amico”, che era necessario aiutare. In seguito, tuttavia, i poteri “nazionali” hanno ripreso le redini del potere e si sono staccate dall’orbita atlantista: oggi la Russia viene pertanto presentata come un nemico, degno erede dell’Urss nelle sue politiche liberticide (interessante notare come non capiti la stessa cosa per l’Arabia Saudita, molto più illiberale della Russia, ma innocua a queste forme di “accuse”). La Cina attuale – peraltro – non si basa più su una produzione a basso valore aggiunto (quelle che un tempo erano le famose t-shirt made in china): infatti i salari sono saliti (oggigiorno i paesi a bassi salari sono, per esempio, Bangladesh e Indonesia) anche in virtù della strategia del governo circa il sostegno ai consumi interni; inoltre anche il tasso di cambio del renminbi – seppur di poco - è salito. E quindi, oggi, se da un lato, paradossalmente, si è esaurito uno degli shock più forti degli ultimi anni per le economie occidentali, ovvero la concorrenza della Cina sul piano del costo del lavoro, assistiamo dall’altro a un percorso che giunge alla competizione riguardante i beni ad alto valore aggiunto (reti telefonia, biotecnologia, componentistica elettronica). Si sono dunque affermate le basi per un’evoluzione verso una potenziale situazione d’instabilità, soprattutto se gli interessi geo-strategici in campo confliggeranno in modo inconciliabile. In tal senso gli Stati Uniti – oltre ad avere deciso di costruire al nord dell’Australia una grande base militare, di carattere missilistico, navale e terrestre – sono intenzionati a spostare truppe e unità navali nel pacifico. Per controllare gli equilibri geo-strategici globali è fondamentale dominare i mari, i quali, ancora attualmente, ricadono sotto la sovranità statunitense. Al fine di prolungare l’egemonia marittima gli Stati Uniti sono nella condizione di dover “spaccare” il continente euro-asiatico attraverso l’utilizzo strumentale delle regioni medio-orientali. In un tale contesto, per quanto riguarda il blocco Cina-Russia, assistiamo a una condotta profilata che va nella direzione dell’affermazione di una legittima sovranità: emblematico, in tal senso, il fatto che i due paesi stiano dialogando al fine di costruire una ferrovia veloce che colleghi le regioni (ciò di fatto permetterebbe di bypassare la via marittima e sarebbe un abbozzo all’interno di un ampio percorso di ricompattamento del continente euro-asiatico).

Lo stress della crisi sta creando delle forze centrifughe in questa rete internazionale che collega i potentati economico-finanziari. Si pensi alla questione iraniana, che, per gli Stati Uniti, causa tensioni con Israele e Arabia Saudita, i quali hanno stigmatizzato una condotta diplomatica che si caratterizza dall’apertura di spiragli per il dialogo. I gruppi di potere che agiscono all’interno del congresso americano cercano in tal senso di rovesciare le attuali disposizioni alla trattativa nei confronti dell’Iran, con tutta una serie di proposte di legge tese a rafforzare le sanzioni contro questo stato al fine di causare il fallimento dei negoziati. La Germania, dal canto suo, sta cercando – da diversi anni a questa parte - di liberarsi dell’ipoteca americana: ha rifiutato di partecipare alla prima guerra del golfo, si è astenuta circa l’intervento militare in Libia, ha rifiutato l’opzione bellica in Siria e, infine, assieme al Brasile (mentre negli altri stati c’è stato un silenzio emblematico), è colei che ha reagito più seriamente alla questione Datagate. Peraltro chi attualmente comanda economicamente in Germania è poco integrato nella rete internazionale dei potentati economico-finanziari e, soprattutto, ha una visione circa il funzionamento dell’economia sostanzialmente diversa rispetto alla concezione anglosassone dominante (il modello economico su cui si basano i dirigenti politici tedeschi va ricercato nel cosiddetto Ordoliberalismus, una corrente socioeconomica che, oltre a postulare l’intervento dello Stato nell’economia, non crede all’automatismo del mercato e ritiene che la finanza debba avere un ruolo secondario). La Germania, inoltre, si caratterizza per importanti sentimenti revanscisti, dato che non ha affatto digerito la sconfitta della 2° guerra mondiale, come non ha digerito gli inutili bombardamenti alleati di Dresda (nella quale risultò perfettamente chiaro che sarebbero giunte anticipatamente le armate sovietiche). Il Giappone, dal canto suo, è impossibilitato a muoversi e a smarcarsi poiché ha un forte bisogno dell’”ombrello” americano per tutelarsi da Russia e Cina: in assenza della minaccia da parte di questo blocco, anche in questo paese – in cui sussiste una corposa dose di nazionalismo - avremmo una dinamica similare a quella germanica. Sotto l’orbita controllata dal sopracitato gruppo di potere internazionale ricade anche l’Arabia Saudita, che, nell’ambito dei patti stipulati tra Franklin Delano Roosevelt e Re Sa’ud, ricevette la protezione militare statunitense fornendo come contropartita il petrolio a prezzi concordati. Recentemente, tuttavia, l’Arabia Saudita ha ufficialmente rifiutato il seggio che gli sarebbe spettato nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le motivazioni sono chiare: viene criticato il funzionamento stesso di questa organizzazione e, inoltre, si stigmatizza la condotta internazionale degli Stati Uniti.

3. All’interno dei potentati che guidano il blocco occidentale vi è univocità d’azione oppure emergono sostanziali contraddizioni date da interessi che differiscono (o che, addirittura, sono antiteci)?

4. Gli Stati Uniti – nell’arco dell’ultimo quarto di Novecento - hanno guidato il processo di finanziarizzazione dell’economia, al cui interno si affermò un regime di cambi flessibili che pose fine


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al Gold exchange standard. In questa nuova realtà – detenendo la valuta internazionale di riferimento - gli Usa hanno potuto imporre il dollaro a paesi terzi con vantaggi considerevoli. Si è inoltre presentata una sovrapproduzione di capitale fittizio che ha comportato un sostegno artificiale dei consumi e, secondariamente, una rinnovata redditività – di carattere speculativo e quindi in controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto – per i capitali che emigravano dai settori industriali. Con la crisi del 2007 il modello in questione è saltato, svelando il ruolo della finanza quale elemento che ha permesso di rimandare il presentarsi della crisi con la conseguenza di acutizzarne la portata: la decadenza di cui sono vittima gli Stati Uniti può essere vista come l’emblema del fallimento della finanziarizzazione? È possibile individuare un parallelismo tra la parabola della finanziarizzazione odierna e quella che ha contraddistinto la decadenza di tutti le formazioni imperiali precedenti? Con la fine di Bretton Woods, con i sistemi di cambi flessibili, con globalizzazione e con la liberalizzazione dei movimenti dei capitali, abbiamo assistito ad un passaggio importante, i cui nodi fondamentali oggi stanno venendo al pettine. Il capitale, a partire dagli anni ‘80, si è liberato dai vincoli che in passato lo irregimentavano e, oggi, determina la vita politica ed economica dei paesi occidentali. La conseguenza concreta di questa evoluzione va ricercata nel fatto che oggi non è più possibile, a livello di nazione o di blocco economico, avere una politica di redistribuzione dei redditi, importante caratteristica del sistema precedente, il quale permise un compromesso socialdemocratico-keynesiano che rese “umano” il capitalismo e, paradossalmente, predispose condizioni di forte sviluppo dell’economia. Oggi questo tipo di politica è impossibile proprio a causa dell’apertura delle frontiere e della libertà di movimento dei capitali. Assistiamo ad un importante cambiamento della struttura sociale: la disoccupazione in costante aumento si unisce all’affermarsi di forme di precarietà sociale e lavorativa in passato non prevedibili. Il punto fondamentale di questa crisi economica sta nel fatto che da ormai diverso tempo a questa parte la distribuzione dei redditi tra lavoro e utili si è completamente alterata: la quota parte che va agli utili è in notevole e costante aumento. In questo modo, tuttavia, il sistema economico si morde la coda poiché l’interesse individuale del capitalista, che ricerca la riduzioni dei costi e la maggiorazione degli utili, provoca un risultato secondario molto grave: il potere d’acquisto è sempre meno in grado di sostenere la domanda finale. E, in tal senso, è emblematico che la crisi del 2007-2008 si sia scatenata attorno ad un sistema, quello finanziario, funzionalmente predisposto al fine di colmare le carenze di una domanda che, in termini percentuali, non riusciva a tenere il passo al forte aumento della produttività: si è in questo modo spinto in modo strutturale verso

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l’indebitamento, all’interno di un contesto in cui – palesemente - i soggetti beneficiari di un prestito non avrebbero avuto effettivamente la possibilità di onorare il debito contratto. In tal senso l’indebitamento pubblico (di cui si parla tanto) e l’indebitamento privato (di cui si parla poco, ma che in alcuni paesi – come in Svizzera - è molto più alto del debito pubblico) si sono configurate come forme finalizzate ad attutire l’insufficiente crescita della domanda. La deregolamentazione del sistema finanziario - funzionale a questa evoluzione – ha di fatto superato il rapporto – su cui il sistema finanziario teoricamente si regge - tra colui che possiede un risparmio e colui che riceve tale quota in vista della restituzione. La finanziarizzazione, peraltro, ha posto le premesse per una circolazione dei soldi a velocità supersoniche. In tal senso, l’ipotesi di Friedman, secondo cui esisterebbe una velocità di circolazione della moneta costante, è sbagliata e ce lo ha dimostrato la liberalizzazione dei mercati finanziari: con gli stessi soldi, fatti circolare a grande velocità, si è finanziata la crescita dell’indebitamento in modo esponenziale. La crisi si è scaraventata sul sistema economico solo nel 2007-2008 proprio perché l’indebitamento e la deregolamentazione dei mercati finanziari hanno avuto il ruolo di posporre l’esplosione delle contraddizioni. Attualmente, nonostante il fatto che si stia stampando con intensità moneta, non si dispongono le premesse per l’affermarsi dell’inflazione. Ciò è dato dal fatto che la velocità di circolazione della moneta si è rallentata in modo terribile e, di conseguenza, è necessario – in stretto collegamento con il processo di deleveraging - creare masse abnormi di moneta solo per tenere in piedi tutto il “castello di carta” dei crediti. E, nonostante questa corposa immissione di liquidità, il sistema economico non accenna a ingranare un percorso di crescita (non crea attività economica, cioè non transita dalle banche all’economia reale). Purtuttavia, in questo contesto, sussistono ancora politiche economiche che non vanno certo nella direzione della redistribuzione dei redditi. Peraltro, parallelamente ad un imponente concentrazione della ricchezza, assistiamo anche – nei diversi settori - ad un processo di concentrazione dei grandi gruppi, i quali non solo detengono un importante potere a livello economico, ma si segnalano anche come attori preminenti a livello politico e finanziario. Per quanto riguarda quest’ultima dinamica basterebbe osservare il bilancio della Roche, dove la dimensione finanziaria è maggiormente importante rispetto a quella industriale. Un caso similare si ha nella produzione di automobili, in cui la costola che si occupa di leasing e di prestiti all’acquisto ha assunto un peso preponderante. Stiamo parlando di realtà che si caratterizzano per la possibilità di muovere grandi liquidità: uno studio del Politecnico Federale di Zurigo evidenzia come il 60% delle società quotate in borsa nei paesi occidentali è nelle mani di 185 gruppi, i quali, all’interno di una struttura a cascata, sono legati a filo doppio con aggregati famigliari. Stiamo insomma tornando alla situazione che caratterizzò la fine dell’Ottocento. >>

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5. È pensabile una rapida svalutazione del dollaro con la quale – tra le altre cose - si metterebbe in grossa difficoltà la Cina (che detiene oltre 1200 miliardi di dollari di titoli di stato americani) e tutti i grandi detentori di dollari, che si troverebbero confrontati con un’enorme diminuzione delle proprie ricchezze? In tal senso è necessario e realistico ragionare su quali sono le possibilità per la Svizzera di mantenere la propria autonomia monetaria, nel caso in cui la fuga del dollaro dovesse realmente tramutarsi in pericoloso apprezzamento del franco? Il dollaro sta affrontando una continua svalutazione. Leggendo “L’arte della guerra” del filosofo cinese Sun Tzu (V-IV secolo a.C.) possiamo comprendere che i titoli di stato Usa – per la Cina, ancora debole militarmente e sotto il profilo dei rapporti internazionali rispetto agli Stati Uniti - sono come il premio di un’assicurazione sulla vita. Si tratta di una vera e propria arma che – a differenza della bomba atomica – può essere effettivamente messa in azione (in questo modo la Cina evita l’errore sovietico, che portò allo svenamento economico nel disperato tentativo di rincorrere gli Stati Uniti nella corsa al riarmo). La Cina, inoltre, evita la possibilità che il mercato statunitense chiuda il flusso in entrata del proprio export. Questi titoli di stato non vanno collegati alla ricerca di un rendimento economico: si tratta essenzialmente di ottenere un risultato politico, che si sta effettivamente presentando (già oggi gli Stati Uniti non possono più permettersi di “fare la voce grossa” con la Cina). D’altro canto, il fatto che il dollaro sia inserito in un percorso di svalutazione è inevitabile e, soprattutto, ne sono consci in primo luogo i cinesi: sul lungo termine tutti quei paesi che hanno un avanzo della loro bilancia commerciale dei pagamenti possono contare su di una moneta in crescita, in modo opposto, i paesi in deficit – di cui gli Stati Uniti fanno parte – vedono la loro moneta svalutarsi. Se, inoltre, gli Stati Uniti eseguissero una svalutazione rapida e importante – dato che questa altererebbe in modo importante gli equilibri a livello internazionale – si affermerebbero nuove contraddizioni nel gruppo economico-finanziario di potere (di certo diversi paesi europei avrebbero qualcosa da ridire). Di fatto esistono delle bande (ristrette e non dichiarate) di fluttuazione nelle quali i tassi di cambio possono variare liberamente e in modo concordato (ciò fa parte della gestione della crisi): un eventuale sconfinamento da questi limiti ci restituirebbe una situazione sostanzialmente fuori controllo.

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6. La parabola in cui è coinvolta l’economia statunitense e specificatamente il decadere del ruolo di valuta internazionale di riferimento del dollaro sta costringendo la Cina ad assumere una posizione sempre più importante nel panorama monetario internazionale. La costretta internazionalizzazione del renminbi - che potrebbe portare all’abbandono dell’inconvertibilità da parte di Pechino - è uno scenario plausibile?

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Effettivamente, nel momento in cui il dollaro non sarà più moneta di riferimento internazionale, si presenteranno le basi per lo scoppio di una guerra: a seguito di una tale evoluzione gli Stati Uniti diventerebbero un paese qualunque. La forza economica statunitense risiede proprio nel dollaro e, conseguentemente, nell’esercito, agente indispensabile al fine di sostenere la valuta in questione, che permette agli Stati Uniti di indebitarsi smodatamente e, quindi, di fare pagare al mondo il loro debito estero. Attualmente l’unica moneta in grado di sostituire il dollaro come moneta internazionale di riferimento è il renminbi cinese: gli Stati Uniti ne sono consci e quindi stanno cercando di contenere la Cina. D’altra parte non è affatto certo che la Cina farebbe un passo positivo qualora procedesse nell’internazionalizzazione e nella liberalizzazione del renminbi: infatti, nell’attuale contesto di liberalizzazione dei mercati, si rischierebbe di traghettare il paese verso la destabilizzazione. La Cina si muove quindi con i piedi di piombo. 7. L’accordo di libero scambio tra Svizzera e Cina in quanto quello stipulato da Berna è un accordo che apre alla possibilità di identificare la Svizzera quale testa di ponte per l’internazionalizzazione della valuta cinese in Occidente e in modo particolare in Europa - potrebbe configurare il franco come una forma di renminbi convertibile? La vicinanza che accomuna il franco svizzero al renminbi in conseguenza all’accordo di libero scambio con la Cina si scontra con la precedente fissazione del cambio minimo a 1.20 con l’Euro? Giudico positivamente l’accordo in questione. Il nostro paese avrebbe potuto essere una piattaforma concreta per l’internazionalizzazione del renminbi (il quale processo avrebbe tra le altre cose creato molto lavoro in Svizzera). Molto probabilmente non si è perseguita anche questa seconda opzione poiché il solo accordo stipulato – nei confronti degli Stati Uniti – si configura coma gesto di sfida e, quindi, un ulteriore approfondimento del rapporto tra Cina e Svizzera (la quale fa parte della sopracitata rete internazionale di potere a livello economico-finanziario in modo certamente più profondo rispetto, per esempio, alla Germania) avrebbe potuto essere politicamente eccessivo. Peraltro la prossimità tra il franco svizzero e il renminbi conseguente a tale accordo non entra in contraddizione con la fissazione del cambio minimo a 1.20 con l’Euro. Da parte cinese – a determinante condizioni, dipendenti dal ritmo con cui intendono aprirlo – ci sarebbe la disponibilità a rendere il franco svizzero come renminbi convertibile. 8. La Cina propone la creazione di un paniere di valute, evitando così che ci sia la concentrazione, in un’unica valuta, dei privilegi relativi alla detenzione della moneta internazionale di riferimento. Si andrebbe così verso la costruzione di un mondo multipolare.


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La Cina – che ha lanciato l’idea del paniere prima del vertice tenutosi il 5 aprile 2008 a Londra – di fatto riprende il Bancor [unità monetaria internazionale] che John Maynard Keynes propose (senza successo) durante la conferenza di Bretton Woods. Si tratta di una proposta intelligente che, riducendo il potere del dollaro, vuole disegnare un contesto internazionale caratterizzato dal multipolarismo e dalla sovranità degli stati nazionali. La Cina – in tal senso – non è disposta, in questo secolo, ad occupare il trono imperiale da cui gli Stati Uniti stanno progressivamente scivolando. La tradizione storico-politica cinese non è caratterizzata da un atteggiamento prevaricatore nei confronti delle altre realtà nazionali (a cui la Cina attualmente mostra di voler affiancarsi in una condizione di pari dignità). La Cina, storicamente, ha eseguito un’espansione nella quale la popolazione civile giungeva e si insediava prima rispetto alle forze militari (sotto il Fiume Azzurro, all’incirca 2 millenni fa, la popolazione cinese del nord scese e, solo in seguito, giunse l’impero). L’errore sta nel fatto di ipotizzare l’evoluzione futura di questo paese attraverso l’ottica europea, che si caratterizza strutturalmente per il movimento d’espansione coloniale. Peraltro, in questo momento, l’impegno rivolto alla crescita interna e alla volontà di evitare disgregazioni è molto più importante e prioritario rispetto alle mire espansionistiche (si legga ancora la filosofia di Sun Tzu). 9. È plausibile realizzare previsioni circa l’evoluzione di questa epocale crisi economica? Le classi dirigenti ne hanno individuato la cause scatenanti? Saranno in grado di invertirne la rotta? Fino a quando non avremo - all’interno di un quadro generale in cui saranno controllati i movimenti dei capitali (operazione fondamentale per smorzare il caos della finanza, che vedrebbe più della metà dei capitali fruibili ridotti, e che porterebbe allo spegnimento delle azioni speculative e di quelle che “giocano sulle frontiere”) - una redistribuzione dei redditi, non vi saranno le premesse per uscire dall’attuale crisi: probabilmente ci potranno essere delle false partenze (caratterizzate da qualche trimestre roseo), ma certo non una svolta. La crisi che viviamo rappresenta il fallimento di un intero modello di sviluppo e, di conseguenza, non si presentano solo le contraddizioni economiche, ma anche quelle culturali e politiche. Dunque, o si cambiano i presupposti di questo modello, oppure è solamente possibile applicare palliativi che facciano guadagnare tempo. Il fatto è che – dati gli attuali rapporti di forza a livello politico – non ci sono assolutamente le premesse per mutare il modo di gestire lo sviluppo economico. (Peraltro la crisi ha portato ad un aumento del potere di controllo sui Media: la censura – in un momento in cui è fondamentale diffondere ottimismo - entra in azione nel momento in cui si descrive la realtà per come si presenta). Va ulteriormente sottolineato come non sia sostenibile eseguire politiche redistributive mantenendo attiva la libera circola-

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zione dei capitali: si andrebbe a causare l’impoverimento dei vari paesi che applicano tali riforme, dato che – come all’interno di una logica di ricatto - il libero movimento dei fattori di produzione – con le imprese che si muovono all’interno di un contesto sovranazionale - aggira le politiche nazionali (seppur esse siano motivate e corrette) e provoca una corsa al ribasso, deflattiva. Inoltre, dopo la crisi, la dimensione ascrivibile al sistema bancario che non si presenta alla luce del sole (Shadow banking), costituito da private equity, hedge funds e altre strumentazioni similari, sta diventando addirittura più importante del sistema bancario formale. Quest’ultimo, infatti, è stato sottoposto a qualche forma – seppur inefficace e cosmetica - di regolamentazione. Le Banche centrali si configurano come strumento di potere subordinato funzionale al mondo della finanza. Stiamo parlando di vere e proprie “stampelle” che hanno sostanzialmente due compiti: quello di controllare l’inflazione e quello di garantire la stabilità del sistema finanziario. Insomma, le realtà finanziarie detengono ancora le redini del sistema, ma si caratterizzano per essere fragili e, soprattutto, non risanate. La rete dei potentati economici-finanziari detiene ancora un effettivo potere, ma, a differenza del passato, non possiede più una strategia: se da un lato vi è le capacità di controllare solo tatticamente la crisi (la quale, peraltro, ha aiutato la concentrazione della ricchezza), dall’altro appare arduo che si delinei una gestione di lungo periodo. Tutto ciò è sintomatico del fatto che questa élite non aveva previsto il presentarsi dell’odierna crisi: si credette – sotto un profilo ideologico – a quanto Greenspan sostenne circa la capacità di autoregolazione del mercato. Appare chiaro che tale gestione tattica sta creando lo sfaldamento del sistema politico su cui questa rete internazionale ha fondato la propria azione: le formazioni politiche di riferimento sono infatti confrontate con tendenze disgreganti. In una tale dinamica - nei confronti del reticolato dei potentati – hanno un valore decisamente più eversivo i movimenti di carattere nazionalista (Marine Le Pen in Francia), anche e soprattutto rispetto alla socialdemocrazia (François Hollande). Quest’ultima, nel processo d’integrazione europeo, ha visto – sulla scorta di un’ingenua aspirazione cosmopolita – una possibilità di incontro per i diversi popoli nazionali (la cosiddetta “Europa dei popoli”): la realtà dei fatti, tuttavia, ha evidenziato come si sia trattato di un disegno delineato dal e per il capitale. Affinché la popolazione possa riconquistare margini di azione politica è necessario riportare il potere verso il basso ritornando alla dimensione nazionale. In tal senso rinunciare all’Euro è una premessa fondamentale, quantomeno per aprire una speranza.

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ER SSI DO Diritti sociali e di proprietà nel “socialismo di mercato” cinese: alcuni spunti di riflessione Massimiliano Ay

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Mao, Zedong (1992): La situazione attuale e i nostri compiti (25 dicembre 1947), in: Opere Complete, Edizione Rapporti Sociali, Milano 1992, volume 10, pp. 117-118.

2

Regis, Giuseppe (1960): La Cina in cifre, Il Mercato Internazionale Editrice, Milano 1960, p. 47.

3

Lenin, Vladimir (1967): Tempi nuovi, errori vecchi in forma nuova, Opere, Editori Riuniti, Roma 1967, vol. 33, p. 16.

4

Graziosi, Marcello (2008): Cina: alla ricerca di nuovi diritti per il lavoro, in: Riccardo Carta et al., Capire la Cina, 2009.

5

Casati, Bruno (2007): La Cina è lontana. Il lupo e il dragone, il balzo in avanti e l’armonizzazione, note su un pianeta. In: “Gramsci Oggi”; n. 1 – 2007.

6

Storicamente il legame fra Cina e diritto romano è più antico: fu Stalin (contro la volontà di Lenin) a imporre il diritto romano in URSS e ciò influì i primi studenti che la Cina maoista inviava a Mosca.

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La straordinaria crescita della Cina, a seguito delle riforme economiche attuate sotto la direzione di Deng Xiaoping, rende necessaria un’analisi politica di tale processo storico che parta però dalla consapevolezza secondo cui la Cina ha dovuto (e deve) far fronte in contemporanea a due contraddizioni: quella proletariato/borghesia e quella periferia/centro imperialistico. Tralasciare la seconda, significa non risolvere la prima. Le trasformazioni determinatesi nel sistema economico e sociale cinese hanno prodotto, oltre che un innegabile miglioramento nell’economia, anche evidenti contraddizioni nella struttura sociale della Repubblica Popolare. Contraddizioni, queste, che sembrerebbero cozzare col marxismo-leninismo, a cui il governo di Xi Jinping continua tuttavia a riferirsi. Tale situazione permette, in vasti circoli occidentali (anche di estrazione progressista), il farsi strada di una visione ben poco scientifica del sistema cinese, quasi a Pechino fosse in atto, con foga, un sicuro processo di restaurazione capitalista. La realtà è invece più complessa e occorre analizzarla con metodo materialista-dialettico, che dimostri come attualmente – nel contesto di un variegato quadro economico – i rapporti sociali di produzione di tipo collettivistico in Cina sono, di fatto, egemoni.

La svolta di Deng Di fronte alla fragilità del Paese, e ancora prima della presa del potere, fu proprio il presidente Mao Zedong a riconoscere che “data l’arretratezza economica della Cina, anche dopo la vittoria della rivoluzione in tutto il paese sarà ancora necessario consentire per un lungo periodo l’esistenza di un settore capitalista dell’economia [...]. Conformemente alla divisione del lavoro nell’economia nazionale, sarà ancora necessario consentire un certo sviluppo di tutti gli elementi di questo settore capitalista utili all’economia nazionale. Questo settore capitalista sarà ancora un elemento indispensabile all’economia nazionale presa nel suo complesso”.1 E proprio in pieno periodo maoista, nel computo del Reddito Nazionale, le aziende capitalistiche private contribuivano per ben il 78,7%2 (dati del 1952). Sempre Mao, peraltro, distingue tra espropriazione economica ed espropriazione politica della borghesia: il potere politico va completamente espropriato e subito, mentre l’espropriazione economica può essere parziale nella misura in cui si possono sfruttare i tecnici capitalisti per sviluppare le forze produttive. La considerazione di ●●

Mao non deve stupire: ben prima di lui, infatti, fu Lenin a sostenere esplicitamente che “il progresso delle forze produttive [è il nostro] compito fondamentale ed improrogabile. [...] Cediamo gli stabilimenti che non ci sono strettamente indispensabili ad appaltatori privati, compresi i capitalisti privati e gli investitori stranieri”.3 Si tratta, sia in Lenin sia in Mao, della consapevolezza di quella che già Karl Marx vedeva come condizione per la trasformazione socialista: l’accumulazione primaria di capitale! Le grandi difficoltà del Paese e la necessità di sviluppare l’industria spingeranno successivamente i comunisti cinesi a cambiare linea emulando l’URSS staliniana. Si tratta, però, di uno “sviluppo estensivo e ipertrofico dell’industria pesante rispetto a quella leggera e ai servizi; utilizzo non sempre ottimale dei surplus provenienti dall’agricoltura; scarsa produttività e qualità dei prodotti; usura dei mezzi di produzione”,4 ecc. Una situazione di per sé contraddittoria, che sarà ulteriormente acuita dall’estremismo dell’ultimo Mao, e che nel 1978 renderà necessario procedere con una netta svolta ad opera di Deng, secondo il quale mercato e piano non sono in sé strumenti del capitalismo, rispettivamente del socialismo: è il loro utilizzo semmai a determinarne la funzione di classe. Nella Cina di oggi troviamo certamente il mercato, ma non un reale libero mercato di stampo capitalistico: basti vedere le limitazioni poste dal governo alle aziende estere con il modello delle joint-venture, il monopolio statale nei settori strategici e il controllo macroeconomico attraverso i piani quinquennali. E’ peraltro relativamente facile individuare nelle riforme di Deng vari parallelismi con la NEP leniniana e le tesi bukhariniane, in cui non solo era riconosciuto entro certi limiti il ruolo dei privati, ma anche la determinazione dei prezzi di vendita basati sul mercato. Il surplus prodotto “non va nei consumi voluttuari o nei giochi di borsa di caste ristrette [...] ma va in consumi, industrializzazione, ricerca e innovazione. [...] In questa coppia di coordinate – controllo pubblico e programmazione – si annidano, è vero, disuguaglianze, elementi di malcostume e corruzione da raschiare via. Ma noi dobbiamo vedere il tutto, non solo una parte”.5 ●● Le forme di proprietà e il mercato Nell’analisi di un sistema economico è rilevante comprendere il modo con cui la sovrastruttura riflette i rapporti sociali di produzione: ciò assume particolare importanza nella complessa realtà cinese. A seguito delle riforme, Pechino ha deciso di rinnovare le proprie leggi, osservando le fonti romanistiche6 nell’ambito anche della proprietà privata. La Cina in questo ambito, in piena sintonia con il diritto romano originario, vieta la privatizzazione della terra, principale mezzo produttivo. L’art. 544 del Code Napoléon, che ha influito su numerosi codici civili occidentali, stabilisce che la proprietà priva-


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La nuova legge del lavoro

Nel 2008 il governo cinese ha introdotto una nuova legge sul lavoro studiata per la prima volta in Ticino da A. Sartorio (al cui testo si riferiscono i virgolettati di questo paragrafo)12 : “una legge più progressista di qualsiasi legge sul lavoro in vigore nei paesi occidentali. La Cina “non è diventata ‘un paese capitalista arretrato’ nel quale poter investire fortemente sfruttando la popolazione locale in accordo con i poteri forti del paese stesso”, come peraltro ammette il Centro Ricerche Documentazione Economica e Finanziaria italiano, secondo il quale tale normativa avrà come conseguenza l’aumento dei salari, la perdita dell’autonomia da parte del management e la diminuzione della flessibilità del sistema produttivo. L’obiettivo della nuova legge consiste nel “costruire e sviluppare rapporti di lavoro armoniosi e duraturi” (art. 1), basandosi su “legalità, equità, eguaglianza, libera volontà, mutuo consenso e buona fede” (art. 2) e in cui vige il dovere di “istituire un meccanismo di contrattazione collettiva con il datore di lavoro al fine di tutelare i diritti dei lavoratori” (art. 6). “La bozza finale del contratto deve essere accettata dall’assemblea dei rappresentanti dei dipendenti, o da parte di tutti quanti i salariati”. In vari settori ancora poco tutelati (primo fra tutti quello dell’estrazione mineraria) i contratti sono ‘settoriali’ o ‘territoriali’ e, anche qui, “devono venire accettati da tutti i lavoratori, amplificando così il fattore democratico (art. 51-56). E ciò quando, ancora oggi, in Svizzera la contrattazione collettiva di lavoro non è né obbligatoria né tantomeno diffusa a tutti i settori dell’economia nazionale”. L’art. 14 interviene invece per tutelare i più anziani, obbligando i padroni a rinnovare loro almeno tre volte consecutivamente i contratti a tempo determinato. Inoltre “è vietato inserire clausole contrattuali che comportino una responsabilità per danni a carico del lavoratore” (art. 25). Nel caso di un licenziamento (procedura tutt’altro che semplice) occorre interpellare obbligatoriamente i sindacati e le competenti autorità politiche, inoltre i “lavoratori che siano la sola fonte di reddito della propria famiglia all’interno della quale ci siano anziani o minori (art. 41)” non possono perdere il lavoro. Le agenzie di lavoro temporaneo “non possono stipulare contratti della durata inferiore ai 2 anni”, esse devono versare al lavoratore in attesa di un lavoro “il salario minimo mensile applicato in quella regione”. In Cina, infatti, esiste – a differenza che da noi – il salario minimo obbligatorio!

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L’adozione del diritto romano da parte dei comunisti cinesi è frutto anche del contributo del compagno Oliviero Diliberto, già ministro di grazia e giustizia del governo italiano, già segretario nazionale del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI) e tuttora professore ordinario di istituzioni di diritto romano alla Sapienza di Roma.

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“Concezione del diritto e transizione al socialismo nella Repubblica Popolare Cinese. Intervista ad Oliviero Diliberto, segretario nazionale del PdCI di ritorno da Pechino”. A cura di Andrea Catone, in: “Aurora”, giornale per l’unità comunista, nr. 15, febbraio 2010.

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ta è assoluta, inviolabile: è, insomma, il perno del sistema! In alcuni codici europei, poi, essa viene addirittura riconosciuta quale diritto naturale e innato. Ciò non corrisponde però in alcun modo alla nozione di proprietà privata del diritto romano, e che i cinesi hanno deciso di fare propria.7 Anzitutto in Cina coesistono forme di proprietà differenti l’una dall’altra e quella privata non è quella centrale: “il concetto di assolutezza e quello dell’inviolabilità della proprietà privata letteralmente (e giustamente) non esistono. La proprietà privata medesima non è riconosciuta, ma semplicemente tutelata, al pari degli altri diritti. [...] D’altro canto, la proprietà privata in quanto tale – se accompagnata dalla presenza, appunto, di una proprietà statale forte e a forme di controllo, indirizzo, possibilità di esproprio da parte dello Stato, come previsto proprio dalle leggi cinesi appena promulgate – non è certo in contraddizione con un sistema socialista. [...] Si pensa comunemente che in Cina abbiano accettato l’idea occidentale della proprietà: ed è il contrario!” 8 R. Sidoli e M. Leoni identificano quattro elementi fondanti della matrice socio-produttiva della Repubblica popolare. Anzitutto le importanti aziende statali (SOE) attive nel settore industriale e bancario: nell’industria la quota di aziende di Stato raggiunge il 34%, e ciò non lascia presagire alcuna svendita del ruolo pubblico nell’economia. Nemmeno si tratta di aziende mantenute in vita tramite crediti agevolati da parte delle banche statali, poiché solo una minima parte di esse ha registrato perdite.9 Le SOE dominano in maniera incontrastata le cosiddette “capital intensive industries” e nonostante i manager di queste realtà godano di una certa autonomia, ciò non li rende dei capitalisti: il marxismo definisce infatti una classe unicamente in termini di relazioni di proprietà! La debolezza del settore statale cinese, semmai, “consiste nel suo minor tasso medio di profitto rispetto alla sfera privata”,10 benché la massa di guadagno delle SOE fra il 1995 e il 2007 sia balzata dai 90 ai 1’620 miliardi di yuan. Il secondo elemento riguarda le Organizzazioni Economiche Collettive (EOC) che controllano la proprietà della terra come fondamentale mezzo di produzione soprattutto nelle aree rurali. Il terzo aspetto sono le cooperative (definito spesso dal PCC come “settore non-pubblico”): ce ne sono circa 100mila con diverse centinaia di milioni di membri. La quarta questione riguarda il tesoro dello Stato: se nel 1978 le riserve di valuta consistevano in 3 miliardi di dollari, alla fine del 2008 lo Stato cinese disponeva di 1’810 miliardi di dollari; al Prodotto Nazionale Lordo cinese “controllato dalle imprese statali va aggiunta un’altra massa enorme di denaro e risorse di proprietà pubblica convertibile in ogni momento con facilità [...] e a disposizione dei bisogni dello Stato e del popolo cinese”.11

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Il ruolo del sindacato Premesso che in un paese socialista (prima fase della società comunista) continuano ad esistere le classi e il conflitto fra le stesse, il ruolo della Federazione dei sindacati cinesi (ACFTU) è spesso dibattuto. I sindacati cinesi sono generalmente criticati da due punti ●●

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Clyne, J. (2008): The Chinese Economic Miracle – A Triumph for Capitalism or the Planned Economy?. Reperibile su: http://www.karlmarx. net/topics/china-1/ echineseeconomicmiracle

10 Sidoli, R.; M. Leoni (2011): Il ruggito del dragone – Cina: la lunga marcia verso la prosperità, Miano, Aurora Editrice. 11

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Ibidem

Sartorio, Amedeo (2009): Solidarietà con il processo di sviluppo della democrazia socialista e di miglioramento dei diritti del lavoro nella Repubblica Popolare Cinese. Reperibile su: http:// giulemanidallacina. files.wordpress. com/2010/10/ dirittilavoro_cina_sisa_ corr.pdf


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Lupano, E. (2010): Sindacati: in Cina scocca l’ora della riforma. In: “Il Sole 24 Ore”, 22. Juni 2010

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Sen, S. (2011): International working class movement, Kolkata, NBA.

1

La scheda informativa sugli accordi di libero scambio (ALS) SvizzeraCina è reperibile al sito: http://www.news.admin. ch/NSBSubscriber/ message/ attachments/31347.pdf

2

Come si può leggere in: http://www.news.admin. ch/

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Nile Bowie, 29 ottobre 2013, Renminbi rising: China’s ‘de-Americanized world’ taking shape? In Russia Today: http://rt. com/op-edge/chinaleadership-alternativedollar-916/

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È in tal senso divenuta d’attualità la possibile inversione di rotta da parte della Federal Reserve, la quale potrebbe interrompere la politica del quantitative easing (che si concreta nell’acquisto di beni azioni o titoli di stato - con denaro creato “ex-novo” e al fine di incentivare la crescita economica) già nel 2014. Per maggiori informazioni: http:// www.theguardian.com/ commentisfree/2013/ oct/09/janet-yellennomination-federalreserve-qe

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Short statement by Philipp Hildebrand on 6 September 2011 with regard to the introduction of a minimum Swiss franc exchange rate against the euro: http://www.snb.ch/ en/mmr/speeches/id/ ref_20110906_pmh/ source/ref_20110906_ pmh.en.pdf

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di vista: da un lato l’estrema sinistra occidentale li considera responsabili di castrare le lotte operaie poiché subalterni al governo; dall’altro i “dissidenti” che rivendicano sindacati “indipendenti” dai comunisti, così da poter condurre un dialogo più “fair” con i capitalisti e impedire le rivolte.13 La situazione è dialettica: di recente un leader operaio che promosse uno sciopero selvaggio, non è stato sanzionato (come vorrebbe la vulgata mediatica), anzi è stato eletto dirigente locale del PCC. E se prendiamo come esempio la multinazionale Wal-Mart, che vieta la presenza di sindacalisti sul posto di lavoro e rifiuta di firmare dei contratti collettivi ovunque nel mondo, dobbiamo convenire che oggi essa ha dovuto cedere alle ire di Pechino: WalMart è stata infatti obbligata ad autorizzare la presenza dell’ACFTU in ogni filiale cinese e nel 2009 ha pure dovuto negoziare un contratto collettivo con aumenti salariali dell’8%, vacanze pagate, istituzione di salari minimi, ecc. Ciò è ora considerato un precedente anche per i dipendenti della multinazionale negli USA e in Europa. L’ACFTU ha infatti un ruolo attivo anche all’estero: organizzando l’ “International Forum on Economic Globalization and Trade Unions” unitamente alla Federazione Sindacale Mondiale (FSM) e altre sigle di Asia, Africa e America latina14 esso crea una propria alternativa nell’ambito dei diritti sociali e della cultura sindacale rispetto ai valori borghesi occidentali che influenzano l’Organizzazione Internazioanle del Lavoro (ILO) e la Confederazione Sindacale Internazionale (CSI).

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promozione degli investimenti, la concorrenza, la trasparenza negli appalti pubblici, la questione ambientale e quella del lavoro aventi ricadute sul commercio, la collaborazione in ambito economico e tecnico e infine disposizioni di carattere istituzionale.1 Stando alle posizioni di Berna, l’accordo siglato dal Consigliere federale Johann Schneider Ammann e il Ministro cinese del Commercio Gao Hucheng permetterà da un lato di migliorare l’accesso di beni e servizi svizzeri a un mercato in forte crescita come quello cinese e di facilitare gli scambi reciproci, e dall’altro di rafforzare la certezza del diritto per gli scambi economici e la collaborazione bilaterale dei due Paesi.2 La Cina, pur con un export in continua crescita, ha difficoltà a radicarsi nei mercati europei a causa delle normative che spesso non è in grado di rispettare. Sono inoltre crescenti le pressioni che vorrebbero un’area di libero scambio USA-UE e le stesse impensieriscono non poco il gigante asiatico, timoroso di veder sfumare una grossa fetta di un potenziale mercato, senza dimenticare quella che per la Cina è l’annunciata necessità di de-americanizzare il mondo.3 Il recente accordo costituisce dunque una mossa strategica da parte cinese, ribaltando gli equilibri economici e geopolitici vigenti, inserendosi nelle contraddizioni del campo imperialista, il quale vede una posizione sempre più fragile degli Stati Uniti a causa di una crisi economica che, prima di tutto, sta mettendo in discussione il ruolo del dollaro quale valuta internazionale di riferimento. La Confederazione si è assicurata una partnership con la principale potenza emergente, un passo che va potenzialmente nella direzione di uno smarcamento rispetto al declinante ruolo dell’Occidente nell’economia internazionale.

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Il ruolo della Svizzera nell’internazionalizzazione del renminbi

L’accordo di libero scambio siglato tra Svizzera e Cina - tanto criticato per il mancato inserimento di clausole sulla difesa dei diritti umani - potrebbe essere un primo importante passo sia verso l’internazionalizzazione del renminbi sia verso un diverso posizionamento della Svizzera e dell’Europa sullo scacchiere geopolitico internazionale. Mattia Tagliaferri Introduzione Il 6 luglio 2013 Svizzera e Cina hanno firmato a Pechino un accordo bilaterale di libero scambio che dovrebbe entrare in vigore nel 2014. L’accordo siglato verrà applicato a vari settori: prodotti industriali, alcuni prodotti agricoli, regole d’origine, procedure doganali, agevolazioni commerciali, barriere non tariffarie al commercio, provvedimenti a protezione della politica commerciale e servizi. Sarà inglobata anche la protezione della proprietà intellettuale, la ●●

●● La borghesia svizzera divisa La classe dirigente elvetica non è però compatta e ha dato vita a uno scontro, si perdoni la semplificazione analitica, tra filo-europeisti e anti-europeisti, che si sta attualmente palesando sotto la maschera della salvaguardia dei diritti umani. Questo scontro affonda le sue radici nella fuga del dollaro, in corso da almeno 10 anni, e in modo particolare dal 2008, momento in cui la fallita risposta alla crisi da parte di Washington4 ha velocizzato lo svilimento della valuta statunitense, rafforzando il valore del franco e del suo status di valuta rifugio. L’apprezzamento del franco ha evidentemente posto dei seri interrogativi sulla buona continuità delle esportazioni svizzere, ma alcune forze politiche hanno voluto ingigantire il problema, fingendo di dimenticare che l’export elvetico è particolarmente concentrato sull’alto valore aggiunto, derivante da un tipo di lavoro non così facilmente rimpiazzabile sul mercato internazionale. La risposta della Banca Nazionale Svizzera (BNS) è stata la fissazione della soglia minima a 1,20 nel rapporto di cambio tra franco ed euro, varata nel 2011.5 Tale storica mano-


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vra della BNS non è però tanto frutto di una volontà di salvaguardare l’esportazione, quanto una resa di fronte alle pressioni degli USA, che proprio in quelle settimane avevano iniziato una battaglia contro il segreto bancario svizzero. Fissare una soglia minima per il cambio tra una valuta nazionale e l’euro, non è per nulla distante dalla sottoscrizione dei parametri del trattato di Maastricht del 1992, che ha gettato le basi fondanti per la moneta unica europea. L’euro è infatti una valuta fondata sulla scelta politica di un cambio fisso con le varie valute che ne hanno lasciato il posto nella circolazione corrente. La BNS ha de iure portato il franco nella zona euro, rinunciando all’autonomia della politica monetaria, oggi appaltata alla Banca Centrale Europea (BCE), annichilendo di conseguenza il ruolo di valuta rifugio del franco e facendo il gioco degli Stati Uniti, i quali sono riusciti nell’intento di disarmare parzialmente una piazza meta dei molti dollari in fuga dalla madrepatria, ormai non più garanzia di stabilità.6 La sottoscrizione di una così forte limitazione dell’autonomia della BNS è costata la testa di Philipp Hildebrand, allora presidente dell’Istituto, rimasto coinvolto in uno scandalo di insider trading7 che - sia per le tempistiche con le quali è emerso, sia per le irrisorie cifre di cui avrebbe beneficiato - potrebbe far pensare a un teatrino orchestrato dai colossi della finanza svizzera. Non è infatti da escludere che UBS e Credit Suisse si siano preoccupati delle possibili voragini che l’ingente acquisto di euro, dettato dalla particolare condizione di soglia minima del cambio, avrebbe potuto determinare alle casse della BNS.8 Una simile instabilità della banca nazionale - poi vanificata in buona parte dall’intervento cinese nel mercato finanziario dell’eurozona - potrebbe mettere in discussione un eventuale nuovo salvataggio del sistema bancario, a cui certo bisognerebbe ricorrere nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di giocarsi l’ultima carta possibile nella guerra economica in corso: il ritorno a un tallone aureo9 del sistema finanziario, come auspicato dal Tea Party 10 e, durante la campagna elettorale delle elezioni presidenziali del 2012, pure dal candidato repubblicano Mitt Romney.11

●● Il carattere geopolitico dell’accordo di libero scambio L’accordo di libero scambio firmato con la Cina si inserisce in questo scontro interno alla borghesia svizzera e cerca di portare il Paese a una strategia diametralmente opposta a quella che ha portato avanti la BNS e vorrebbe la Svizzera in un ruolo di ponte tra la Cina e l’Occidente. Niente a che vedere con aperture al superamento del capitalismo, ma certo favorirebbe la costruzione di un mondo multipolare e darebbe un ruolo di rilievo alla Confederazione nei nuovi assetti economici e geopolitici internazionali. La Cina ha infatti accennato al fatto che la Svizzera potrebbe diventare un centro finanziario per il com-

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mercio di renminbi, in quanto Pechino sta iniziando a riformare il proprio sistema finanziario, adeguandolo ai compiti che la crisi del ruolo del dollaro lo sta costringendo ad avere.12 La centralità che tale accordo assume nel panorama economico e geopolitico internazionale per l’appoggio che esso dà alla possibilità (la quale non è però automaticamente una certezza) di internazionalizzare il renminbi senza fargli perdere il suo carattere d’inconvertibilità - oltre all’opportunità di trovare nuovi sbocchi commerciali per le imprese svizzere e la possibilità di fornire know how a determinati settori dell’industria ad alto valore aggiunto cinese, in un rapporto cosiddetto win-win tra i due paesi e quindi senza la subordinazione di uno nei confronti dell’altro - non può che portare i comunisti a sostenere la politica intrapresa dal Consiglio Federale . ●● La politica valutaria di un paese socialista e quanto avviene in Cina I dirigenti del Partito Comunista Cinese (PCC) hanno più volte lasciato intendere che la priorità cinese deve essere quella di risolvere le proprie contraddizioni interne e pertanto non c’è una volontà di ereditare il trono imperiale statunitense, in quanto questo arrischierebbe di compromettere lo sviluppo della Repubblica Popolare.13 La volontà del PCC è piuttosto quella di contribuire a costruire un mondo multipolare, libero dallo strapotere imperialista occidentale, avente al centro del sistema monetario internazionale, un paniere di valute simile al Bancor14 che John Maynard Keynes propose a Bretton Woods nel 1944.15 Un simile sistema permetterebbe da un lato di evitare l’accentramento del potere dato dal possedimento della valuta internazionale di riferimento - oggi incarnato nella tendenzialmente illimitata possibilità di stampare ricchezza da parte degli Stati Uniti - e dall’altro di avere una maggiore stabilità economica, in quanto la valuta paniere non sarebbe soggetta alle possibili oscillazioni di un singolo paese. Il renminbi, anche se inserito un’ipotetica concretizzazione del Bancor del Ventunesimo secolo, dovrà comunque accrescere il suo ruolo internazionale, ma le sue attuali caratteristiche non possono permetterglielo. Il renminbi ha infatti le principali caratteristiche delle valute dei paesi socialisti: inconvertibilità e conseguente controllo del mercato estero. Tali peculiarità permettono un controllo politico sul valore della moneta, sulla determinazione dei prezzi e soprattutto garantiscono uno scudo protettivo rispetto alla speculazione finanziaria. L’inconvertibilità monetaria è però allo stesso tempo incompatibile con le regole capitalistiche dei mercati valutari internazionali, nelle quali il renminbi potrebbe doversi inserire come una delle più importanti valute del paniere che si vorrebbe sostituire al dollaro. In passato l’unica valuta di un paese socialista inserita alla testa di un mercato internazionale

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Mattia Tagliaferri (2012): “La Svizzera entra nell’Euro senza dirlo a nessuno!”, in: http://www.sinistra. ch/?p=1461

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La compravendita di strumenti finanziari da parte un insider, cioè di una persona che, in virtù della posizione che ricopre, è a conoscenza di informazioni privilegiate che vengono appunto utilizzate per ottenere un profitto

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Mattia Tagliaferri (2012): “Hildebrand eliminato per salvare UBS?”, in: Corriere del Ticino, 31 gennaio 2012.

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Cioè ad un sistema in cui la base monetaria si trova in relazione ad una quantità fissata d’oro.

10 Tea Party-Backed Senators Bet Economic Recovery on Gold, 7 luglio 2011: http://www. teaparty.org/3-tea-partybacked-senators-beteconomic-recovery-ongold-1952/ 11

Mattia Tagliaferri (2012): “Dal Gold Standard al nuovo salvataggio di UBS e Credit Suisse”, in: Corriere del Ticino, 2-3 novembre 2012

12 Weiyi Lim, 20 novembre 2013, China stocks rise to One-Month High on Financial Reforms, In: http:// www.bloomberg.com/ news/2013-11-20/ china-stock-indexfutures-rise-on-outlookfor-financial-reform.html 13

Chen Yulu, 23.06.2012, Internationalization of renminbi, In: http://usa. chinadaily.com.cn/ opinion/2012-03/26/ content_14909528.htm

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Una moneta sovranazionale da utilizzare come unità di conto a saldo dei debiti esteri dai Paesi aderenti a un’unione monetaria internazionale.

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Pedro Nicolaci da Costa, 25.03.2009, Geithner says “quite open” to China’s SDR proposal, In: http://www.reuters.com/ article/2009/03/25/ us-financial-geithner-sdr-sbUSTRE52O43O20090325


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“La Svizzera potrebbe diventare la prima piazza offshore per il renminbi”, In: Corriere del Ticino del 5 luglio 2013

17 Cioè quel capitale risultante da un processo non produttivo di ricchezza. 18 Ora che il sistema non sembra più reagire agli “stimoli”, ora che scompare il trasferimento di liquidità dalla finanza all’economia reale e la circolazione monetaria ristagna dentro istituzioni finanziarie già troppo piene di circolante immobile, continuare a “stampare moneta” serve solo a mantenere una parvenza di circolazione “normale”. Gli Stati Uniti fanno così dal 1971: fino a quando questo stampare moneta sarà in qualche misura efficace? Questa bolla “deve” esplodere, è nella sua natura.

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fu il rublo sovietico, il quale era sì inconvertibile, ma operante nel Comecon, espressione diretta di un agglomerato di paesi socialisti e quindi avente delle regole ben diverse rispetto a quelle con cui si deve confrontare oggi la Cina. ●● Che cosa la Svizzera può imparare dalla Cina Una delle possibilità per superare le limitazioni dell’inconvertibilità monetaria senza tuttavia rinunciare ad essa, è la costruzione di un sistema fondato su una doppia moneta: una convertibile e una inconvertibile. In uno scenario di questo tipo il renminbi attuale si occuperebbe di svolgere i compiti attuali, mentre la valuta convertibile sarebbe utilizzabile teoricamente sui mercati internazionali ma non nella normale circolazione interna alla Cina. Non è pertanto impensabile pensare a un sistema che veda una valuta convertibile che sia legata all’attuale renminbi solamente di fatto: in parole povere i cinesi potrebbero appaltare il compito della loro internazionalizzazione a una valuta straniera. In quest’ottica l’accordo di libero scambio pone quindi la Svizzera i una posizione privilegiata. Il professor Zhiyi He, docente all’Università di Pechino e direttore della New Huadu Business School, in un’intervista al Corriere del Ticino del 5 luglio 201316 ha precisato che la piazza finanziaria elvetica ha tutti i requisiti per vincere la gara con Londra e Franco­ forte “per diventare il principale centro di transazioni internazionali in valuta cinese”. Stando alle parole di Zhiyi He, la Cina ha privilegiato l’accordo con la Svizzera per la presenza di parecchie aziende leader nel campo dell’industria ad alto valore aggiunto, rimarcando implicitamente l’asservimento del settore finanziario cinese a quello realmente produttivo, contrariamente a quanto accade in Occidente, dove l’estensione del campo d’azione del capitale fittizio17 si è dilatato sino a portare all’attuale bolla del dollaro18. La forte componente del capitale effettivo in Svizzera è forse il vantaggio sulla Gran Bretagna, che dal canto suo ha però l’esperienza storica nella formazione e nella gestione di un sistema monetario internazionale, oltre che un canale privilegiato con Hong Kong. Non va inoltre dimenticato che la Cina sta affrontando una transizione da una struttura economica volta prettamente all’esportazione a una società di consumo. La produzione a basso valore aggiunto viene pertanto portata all’estero, mentre nel Paese si stanno facendo progressi nella produzione ad alto valore aggiunto, per la quale la Svizzera possiede il know how necessario a un suo sviluppo. La Cina sta pertanto costruendo le vie che potranno permetterle una nuova collocazione commerciale ed economica a livello internazionale e soprattutto di essere meno dipendente dagli Stati Uniti. Inizialmente l’accordo di libero scambio dovrebbe prevalentemente sfruttare le cosiddette zone speciali, per cui il monopolio statale sul commercio estero non è realmente in di-

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scussione, ma se il renminbi dovesse internazionalizzarsi, l’inconvertibilità della moneta andrà riorganizzata e la Svizzera potrebbe assumere un ruolo di garante del ruolo del renminbi. Da tale ruolo di collegamento fra la Cina e l’Occidente potrà certo beneficiare la piazza finanziaria elvetica, sulla quale il Partito Comunista ha non a caso presentato un analisi che mette in luce gli attuali problemi19, a partire dagli accordi di Basilea II, proponendo un modello maggiormente orientato alla realizzazione del capitale effettivo, proprio sul modello della finanza cinese, incentrato sulla compagnia d’investimento statale Huijin. Una holding pubblica svizzera che acquisti almeno il 41% dei pacchetti azionari delle banche distribuite sul territorio, permetterebbe da un lato un maggior controllo volto alla subordinazione delle attività finanziarie ai settori realmente produttivi - in particolar modo le piccole e micro imprese - e dall’altro di sfruttare le potenzialità dell’accordo di libero scambio con la Cina, avendo un sistema centralizzato e pianificato una maggiore possibilità di rendersi compatibile con il processo di internazionalizzazione del renminbi.

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19 Vedi Dossier “Crisi della piazza finanziaria” presente sul sito www. partitocomunista.ch

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L’aviazione militare svizzera di fronte al dilemma dei Gripen Sono diversi i miliardi di franchi che la Confederazione intende spendere per l’acquisto dei nuovi aerei Gripen, destinati a potenziare un settore militare già oggi sovradimensionato. È necessario rivendicare priorità d’investimento diverse, impostate su una prospettiva lungimirante e sostenibile. Marin Mikelin Introduzione Un anno dopo il rifiuto delle Camere l’esercito ci riprova, e durante la seduta del 30 novembre 2011 il Consiglio Federale approva l’acquisto di 22 aerei da combattimento Gripen (16 Jas 39E monoposto e 6 Jas 39F biposto), della svedese Saab, in sostituzione dei 54 Tiger F-5, che dovranno andare in pensione fra pochi anni. I nuovi jet affiancheranno i già esistenti 32 F/A-18 formando così una flotta di 54 velivoli necessari, secondo il Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS), a proteggere i cieli elvetici. Il prezzo per i Gripen, i missili e il simulatore è di 3,126 miliardi di franchi svizzeri. L’esercito vuole finanziare questo acquisto attraverso l’istituzione del Fondo Gripen, nel quale verranno versati circa 300 milioni di franchi ogni anno per dieci anni, attingendo dal budget dell’esercito. Il 40% del costo dovrà essere pagato in anticipo, mentre si prevede che gli apparecchi verranno consegnati tra il 2018 e il 2021. Uno schieramento allargato di movimenti e partiti politici, tra i quali il Partito Comunista (PC), si è opposto alla legge che permette la creazione del fondo di finanziamento. Il 14 gennaio 2014 sono state consegnate alla Cancelleria federale più di 100’000 firme – 50mila più delle necessarie – da parte dei promotori della consultazione e così l’ultima parola sarà quella del popolo svizzero, il quale verrà chiamato, con tutta probabilità, ad esprimersi sul tema il prossimo 18 maggio. ●●

●● Un impegno finanziario ingente, inutile e contraddittorio La spesa che l’esercito vuole fare è enorme, soprattutto in questo periodo dove la crisi economica dilaga in Europa logorando le piccole economie e, anche se a rilento, avanza e si fa sentire pure in Svizzera. In molti cantoni e comuni sono previsti per i prossimi anni pacchetti anti-crisi e fra le misure previste vi sono tagli alla sanità, all’istruzione e alla garanzia di prestazioni pubbliche. Se, da un lato, al popolo svizzero, sull’onda delle politiche d’austerità imposte in tutta Europa, si chiedono periodicamente maggiori sacrifici – che vanno dai continui tagli alle spese

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pubbliche (smantellamento della Legge sull’assicurazione contro la disoccupazione) fino al drenaggio di maggiori quote di ricchezza attraverso strumenti anti-sociali (aumento dell’IVA), dal basso tasso d’impegno finanziario nelle istituzioni scolastiche al mancato investimento strategico nel settore delle energie rinnovabili – dall’altro, nonostante il proclama del contenimento delle spese, per le istituzioni militari, i foraggi finanziari giungono puntualmente e in quantità abnorme (300 milioni di franchi all’anno). Ci troviamo in una situazione veramente paradossale, e la scelta di acquistare i Gripen accresce certo questa sensazione. Già in 2/3 dei cantoni sono in atto misure di risparmio e, per i prossimi anni, ve ne sono in vista altre per i rimanenti. Sommando tutti gli sforzi dello Stato si raggiunge complessivamente una cifra di risparmio che supera il miliardo di franchi, ma in tale calcolo non si è tenuto conto che la Banca Nazionale Svizzera (BNS) ha subito una grande perdita di capitali e quindi i cantoni ed i comuni non potranno beneficiare della distribuzione dell’utile stimato per il 2014. Per i cantoni si tratta di una perdita stimata attorno ai 667 milioni di franchi, ma bisogna però considerare che la carenza di denaro da parte degli utili della BNS non si limiterà all’anno in corso, ma si protrarrà anche in quelli a venire. A partire dal 2015 si prevede, per il bilancio federale, un disavanzo di 300 milioni di franchi. In tal senso appare decisamente fuori luogo “investire” una cifra ben superiore al fine di acquistare superflui aerei da combattimento, anche e soprattutto pensando alle conseguenze che una tale scelta potrebbe ingenerare nel prossimo futuro, delineando venti d’austerità ancor più drammatici. I 3,126 miliardi di franchi non sono però l’unica spesa che le casse pubbliche dovranno addossarsi nell’ambito di questo folle “shopping” militare. Oltre al costo d’acquisto bisogna aggiungere i lavori di adattamento alle strutture militari, i costi di manutenzione, quelli di esercizio annuali, la formazione dei piloti, la modernizzazione dei velivoli sull’arco dei loro 35 anni di attività e l’acquisto di ulteriore materiale bellico di ricambio (munizioni, missili e bombe). La spesa complessiva raggiunge l’esorbitante cifra di 10 miliardi di franchi, cioè il triplo del costo iniziale. In media ogni famiglia svizzera sborserà quasi 2’600 franchi di tasse per finanziare questi aerei, denaro che potrebbe venir investito in modo decisamente più utile. ●● I fumosi termini dell’acquisto e il non proprio illibato “curriculum” dell’azienda produttrice Il Gripen è un aereo solo sulla carta, decine di componenti vanno ancora sviluppate e nessuno garantisce che questo avvenga nei tempi prestabiliti. La Svizzera dovrà anticipare 1,2504 miliardi di franchi al gruppo Saab, ma cosa succederebbe se i tempi d’attesa dovessero allungarsi? E se vi dovessero essere

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costi aggiuntivi durante i lavori? Non dimentichiamo poi che il gruppo Saab è il più piccolo produttore di velivoli militari al mondo e che i modelli precedentemente realizzati sono stati vittime di vari incidenti durante i testi di volo e dopo la consegna ai pochi stati che hanno in dotazione questi aerei. La casa automobilistica Saab ha fatto bancarotta nel 2011 e ora il gruppo svedese è obbligato a vendere centinaia di pezzi per non rischiare ulteriori danni economici. Danni economici e d’immagine rischiano di venire dal Sudafrica, che ha un dotazione dei Gripen modello C e D. Vi sono infatti i sospetti che nell’accordo pattuito con il Sudafrica vi siano stati dei casi di corruzione. Se la commissione incaricata di far luce sull’accaduto dovesse confermare che l’acquisto dei Gripen è avvenuto grazie a delle tangenti, il gruppo Saab sarà tenuto a rimborsare al governo sudafricano tutto il denaro investito e verrà tagliato qualsiasi canale di futura collaborazione. È quindi affidabile questo produttore? Pare proprio di no. Ma di tutti questi aspetti i vertici dell’esercito svizzero non vogliono tener conto.

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Di regola la polizia aerea interviene a causa di piloti novizi o sbadati che infrangono le regole di traffico aereo oppure si dimenticano di tenere accesa la radio sulle no-fly-zone nei pressi degli aeroporti. Più volte a settimana si verificano casi di velivoli non identificati sullo spazio aereo svizzero, ma mai si sono presentate situazioni rischiose per la popolazione. In quest’ottica è interessante sottolineare come uno Stato apparentemente neutrale come il nostro abbia permesso, in passato, il sorvolo di aerei militari armati diretti in Kosovo ed Iraq. Il Consiglio Federale aveva inoltre consentito il sorvolo di mezzi statunitensi un mese dopo l’inizio del conflitto in iracheno.

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●● L’attuale dotazione aerea ha già subito ammodernamenti, peraltro costosi Emerge, da una valutazione del DDPS, che i Gripen sono inferiori in fatto di prestazioni e più costosi degli F/A-18 attualmente in dotazione, quindi perché si è scelto di puntare su questo modello? Non bisogna dimenticare i costi non irrilevanti che stanno attorno ai 32 F/A-18. Recentemente questa flotta ha subito dei lavori di mantenimento della capacità dei velivoli costati 404 milioni di franchi, ai quali vanno aggiunti i 69 milioni utilizzati per l’acquisto di un nuovo simulatore di volo, spesa inserita nella fase di sviluppo dell’esercito 2008/2011 (FS 98/11), la quale è venuta a costare in totale 1,5 miliardi di franchi! Il governo svedese, spalleggiato dall’Unione Europea (UE), minaccia il governo elvetico di doversi addossare i costi dello sviluppo dei velivoli nel caso in cui questi non venissero acquistati. Tale atteggiamento ha tutta l’aria di un diktat promosso dall’UE la quale – occorre ricordarlo - a seguito dei suoi controversi accordi commerciali obbligava la Grecia, in piena crisi economica, ad acquistare materiale bellico dalla Germania e dalla Francia, sottraendo così denaro importante per la sopravvivenza del Paese. Il problema principale, secondo il nostro esercito, pare essere quello del ritiro dei 54 vecchi Tiger F-5. Le forze aeree sarebbero però comunque ben attrezzate, secondo gli standard internazionali, nonostante l’assenza di questi velivoli. Con l’attuale flotta di F/A-18 l’esercito sarà infatti perfettamente in grado di garantire il compito di polizia aerea per decenni. Questo tipo di intervento viene effettuato in media una volta al mese e per situazioni dove non sussiste un reale pericolo per la popolazione.1

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●● Quali sono le reali necessità della polizia aerea?

Qualcuno penserà che gli aerei da combattimento siano essenziali per scongiurare il rischio di un attacco terroristico su suolo elvetico. Non è però così. Come si è potuto vedere con l’attacco del 11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, neppure la più grande potenza militare del mondo è stata in grado di evitare la catastrofe sui cieli di Manhattan. Se quindi nel nostro spazio aereo un A380 della Swiss dovesse venir dirottato a 5’000 metri di quota esso impiegherebbe un minuto per schiantarsi al suolo e nessuna delle nostre forze aeree sarebbe in grado d’intervenire in tempo e in modo efficace. Per evitare questa tipologia di attacco è quindi necessario agire attraverso una difesa preventiva a terra: se, tuttavia, un dirottatore si dovesse trovare in volo – de facto - non vi è nulla che si possa fare. Volgendo lo sguardo alle realtà statuali confinanti, emerge come la Svizzera reputi in modo sostanzialmente sproporzionato la necessità quantitativa di mezzi per il controllo dello spazio aereo. La Germania per questo tipo di mansioni impiega solo 4 aerei. L’Austria possiede una flotta aerea che conta 15 velivoli. In Svizzera abbiamo già 32 F/A-18 e raggiungeremmo i 54 aerei da combattimento con i Gripen. Non occorre un marcato livello d’approfondimento per notare la totale assenza di proporzionalità. Secondo uno studio basato sul numero di interventi aerei, la Svizzera necessiterebbe, tenendo conto della conformazione geografica e della manutenzione dei mezzi, di 12 velivoli. Diventa quindi lampante l’inutilità di possedere una forza aerea che supera di 4 volte quella realmente necessaria. ●● L’acquisto dei Gripen e le prospettive geopolitiche: una relazione ineludibile Se, da un lato, il fatto di rivolgersi ad un centro di produzione europeo, segnatamente scandinavo (e non quindi propendere per l’acquisto di un aereo di produzione statunitense, quale per esempio il Boeing F/A-18 E/F Super Hornet), potrebbe essere inserito – in grandi linee, senza ipotizzare una volontà precisa e strategica da parte del governo elvetico – all’interno di una dinamica di tendenziale sottrazione all’atlantismo stelle e strisce nell’ottica della promozione di una visione più marcatamente continentalista, dall’altro emergono rilevanti dubbi e contraddizioni anche a proposito di una tale opzione. Ciò è dato dal fatto che gli Stati Uniti, pur non essendo i veri e propri protagonisti della transazione commerciale, sarebbero in una posizione tale – dati i rapporti di forza detenuti sia sotto il profilo geo-politico che sotto quello tecnico-militare - da mistificare la sovranità elvetica. In primo luogo gli USA – a seguito di una potenziale divergenza di interessi con il nostro Paese - potrebbero imporre un embargo circa il trasferimento della componentistica di produzione statuni-


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tense di cui il Gripen è composto in maniera quantomeno sufficiente a determinare l’impossibilità di reperire adatti elementi sostitutivi, compromettendo il corretto funzionamento degli aerei e bloccando conseguentemente l’operatività di questi ultimi. In tal senso v’è da segnalare come gli Usa abbiano l’abitudine di vietare la vendita di parti di ricambio statunitensi ai paesi classificati dal Dipartimento di Stato come «ostili agli Stati Uniti», o come «non cooperativi», all’interno della nebulosa e indefinita guerra contro il narcotraffico e il terrorismo internazionale.2 E, dato che la geometria variabile quanto strumentale con cui gli USA esercitano la prassi delle relazioni internazionali è ormai una peculiarità affermatasi alla luce del sole, risulta necessario valutare con cura un eventuale rischio – che seppur remoto, data l’attuale congiuntura geopolitica, deve essere preso in considerazione - di ritrovarsi con una flotta di aerei militari potenzialmente neutralizzabili. ●● Il Brasile: caso concreto in rapporto alle dinamiche internazionali sottese all’acquisto dei Gripen La sopracitata potenziale conseguenza negativa si può considerare anche per quanto riguarda il Brasile. Infatti, dopo una pluriennale discussione interna – che ha visto confrontarsi i fautori dell’acquisto di uno o dell’altro modello di aereo militare (il Boeing F/A-18 E/F Super Hornet statunitense, il Dassault Rafale francese e il Gripen svedese) - anche il paese latino-americano ha optato per l’acquisto di quest’ultimo modello. Non si è trattato affatto di una scelta scontata, presa a cuor leggero; certo è il fatto che le decisione di puntare sul prodotto scandinavo vada letta anche e soprattutto come chiara risposta al peggioramento delle relazioni diplomatiche tra Brasile e Stati Uniti, segnatamente in conseguenza al fatto che Washington (che possiede 77 basi nella regione brasiliana) ha effettuato attività di spionaggio nei confronti del governo brasiliano, nonché ai danni dell’azienda brasiliana Petrobras. Ed è proprio a questo punto che torna utile la riflessione realizzata precedentemente: la scelta dei Gripen – nel caso concreto brasiliano – rappresenta effettivamente una manovra di sostanziale “smarcamento” dall’orbita e dal controllo statunitense? Ed è, sempre per quanto riguarda il Brasile, soprattutto in base agli elementi di divergenza che si potrebbero originare in un prossimo futuro – per esempio nella lotta per una delle tante ricchezze (acqua, minerali strategici, biodiversità, ecc) custodite in Amazzonia, come anche, su un piano differente, a seguito di un potenziale rifiuto brasiliano ad assecondare una determinata missione bellica statunitense (in un periodo in cui il controllo stelle e strisce sul mondo fa acqua da tutte le parti) e, ancora, a proposito dell’impostazione strategica delle scelte economico-commerciali - che la tematica in questione assume una centralità di assoluta rilevanza. Si profila, insomma, per il Brasile – at-

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traverso la scelta dei Gripen - uno “smarcamento” dagli USA che è solo apparentemente reale, e che nei fatti pone le basi per una forma di sostanziale subalternità. Dagli accordi in atto fra Saab e il governo brasiliano emerge inoltre un dato curioso: il costo al pezzo sarà di 20 milioni inferiore rispetto a quello che spetta alla Svizzera. Questo significa che, rispetto ai 145 milioni per aereo che le casse federali dovrebbero versare, il Brasile pagherebbe l’11% in meno. Com’è possibile? Da quando alla Saab è giunta la notizia che l’alto commando della Forza Aerea Brasiliana (FAB) era seriamente interessato ai Gripen di nuova generazione, i contatti con la Svizzera sono passati in secondo piano. Si è pure parlato del dislocamento di parte della produzione nello Stato del Sud America; se questo avvenisse come influenzerebbe l’ipotetico acquisto da parte del nostro Paese? ●● La Svezia nello scacchiere internazionale: una posizione neutrale? Il fatto che, all’interno del Gripen, vi siano delle parti di produzione statunitense che svolgono una funzione quantomeno rilevante per quanto riguarda l’”economia” del velivolo – si pensi, in tal senso, al fatto che il motore propulsore è uno sviluppo di una turbina fabbricata dalla General Electric, e si potrebbe continuare – permetterebbe agli Stati Uniti – nel caso in cui essi lo ritenessero adatto nell’ottica di una determinata finalità “punitiva” - d’imporre un embargo del quale il governo svedese – a meno che non sia pronto ad affrontare un impegnativo “divorzio” con Washington - non potrebbe fare altro che assecondare le direttive. In tal senso la Svezia – come la Svizzera, peraltro – non appare proprio una grande paladina dell’antimperialismo. Un rapporto ufficiale del Parlamento Europeo ha stabilito che in seguito agli attentati dell’11 settembre – tra il 2001 e il 2005 – la CIA ha operato 1245 voli illegali nello spazio aereo europeo, trasportando dei «detenuti fantasma» («ghost detainees») fino all’interno dei centri di detenzione e di tortura situati in Europa (in particolare in Romania e in Polonia) e in Medio Oriente. La Svezia, in tal senso, è stata accusata di aver permesso che i «voli della morte» statunitensi potessero riapprovvigionarsi e ricevere un appoggio logistico dentro i suoi aeroporti.2 Insomma, non proprio un “curriculum” illibato! In termini strettamente teorici – che dunque astraggano da una realtà effettuale elvetica in cui non c’è alcuna necessità di dotarsi di nuove forze aeree – la scelta maggiormente consona nell’ottica di ridurre al minimo i potenziali svantaggi sul piano geo-politico sarebbe quella di optare per l’acquisto di un prodotto russo (Sukhoi) oppure cinese (Chengdu J-10). Oltre ad aver conseguito livelli tecnici d’avanguardia, questi velivoli, in virtù del fatto che vengono fabbricati da statualità che sotto diversi profili (dalla dimensione geo-politica a quella economicocommerciale) non possono essere in nessun modo

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Brésil: une incroyable (et énorme) erreur géopolitique: http:// www.mondialisation.ca/ bresil-une-incroyable-etenorme-erreurgeopolitique/5362810dUS TRE52O43O20090325


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considerate quali obbedienti esecutori degli ordini statunitensi, appaiono slegati dai potenziali pericoli sopra-elencati. Più fatti, un’unica e grande perplessità Come evidenziato, il quadro che ruota attorno all’acquisto dei Gripen non è assolutamente dei più rosei e convincenti. Fra i differenti elementi di perplessità cha caratterizzano tale caso concreto, l’inutilità dell’abnorme spesa d’acquisto è il dato maggiormente contraddittorio, in stretto legame con un più complessivo sovra-finanziamento del settore militare. E, in tal senso, tutto ciò rappresenta il sintomo più limpido di una politica finanziaria nazionale che – non riuscendo ad intravvedere le reali priorità strategiche in cui investire – sta sostanzialmente fallendo. Mentre uno svizzero su quattro fatica ad arrivare a fine mese e la crisi economica – che già colpisce i più deboli – metterà in seria difficoltà l’economia elvetica negli anni a venire, obbligandoci ad ulteriori privazioni di prestazioni pubbliche, si vogliono investire miliardi in una spesa tanto folle quanto inutile, che affievolirà ancor più i margini di manovra a livello finanziario. In tutto il mondo sono stati spesi, nel 2006, 1’200 miliardi di dollari americani per scopi militari, questo denota un aumento del 40% ripeto ai 10 anni precedenti. Di questi 1’200 miliardi ne basterebbe il 5% per dimezzare la povertà mondiale entro il 2015. La Svizzera, attraverso l’acquisto dei Gripen, confermerebbe la sua partecipazione a questo carosello di sperpero del denaro pubblico. Invece di unirsi all’armamento mondiale, il nostro Paese, che si definisce neutrale, dovrebbe concentrarsi sulle reali problematiche globali: la pace, la povertà e il surriscaldamento del pianeta. Le priorità all’ordine del giorno andrebbero attestate su un piano radicalmente antitetico e, in tal senso, occorrerebbe mirare allo sviluppo di un mondo del lavoro florido, sicuro, sostenibile, puntare alla riduzione dei costi della salute (attraverso la creazione di una cassa malati unica, pubblica e con i premi in base al reddito), potenziare gli investimenti nel settore dell’istruzione (al fine di creare le basi per una maggiore accessibilità, in modo che il processo di selezione sociale venga stroncato dalle fondamenta; risolvere dove necessario le problematiche delle strutture scolastiche; e al contempo portare verso l’alto l’asticella della qualità), sviluppare il settore delle energie rinnovabili e quello del trasporto pubblico, ecc: la sicurezza interna ai confini nazionali – a differenza della retorica che ci vuole spiegare come essa si ottenga attraverso il possedimento di mezzi di combattimento militare - si ottiene in questo modo, cioè sviluppando in termini preventivi il benessere sociale e la coesione societaria. Purtroppo, proprio questi settori di centrale importanza – nell’ottica di un piano di risparmio contro la crisi economica – verranno a subire, da parte di Stato e cantoni, una serie di tagli lineari. Tutto questo mentre il settore militare, annualmente, assorbe una quantità di ricchezza gigantesca. ●●

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La Fondazione Stella Chiara è fondata il 27 marzo 2012 da Martin Hellstern, presidente, da Anita Stettler-Hellstern, vice-presidente, da Niccolò Lucchini, membro, e dalla società di revisione Revistudio SA. Non persegue scopi di lucro, opera mediante elargizioni finanziarie in particolare a favore di enti, fondazioni ed altre istituzioni, anche statali o parastatali, senza scopo di lucro ed al beneficio dell’esenzione fiscale attivi in particolare nei seguenti campi: cultura ed il suo sostegno, formazione, ricerca, assistenza ai disabili, agricoltura ecologica, protezione dell’ambiente, della natura e degli animali.

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I sostenitori dei Gripen affermano che l’acquisto di questi aerei creerà posti di lavoro. Una tale dichiarazione appare tuttavia in contrasto – in termini logici - con il continuo smantellamento di caserme, arsenali ed aeroporti militari. Attorno a questi aerei vi sono dei giochi di potere non molto chiari. Un fatto è in ogni caso certo: che vive e conosce la quotidiana realtà svizzera non investirebbe in alcun modo tutti questi miliardi e queste energie in un progetto inutile, che rischia solo di ledere ulteriormente una situazione economica complessiva che, per certi versi, appare già molto precaria.

Gli insegnamenti della Casa del Cinema La lotta contro il progetto della Casa del Cinema di Locarno ha visto il Partito Comunista impegnato in prima fila, riuscendo a dettare l’agenda politica, così come non accadeva da almeno vent’anni a questa parte. Nonostante il referendum a Locarno sia fallito e l’affaire non abbia ancora svelato i suoi ultimi capitoli, si rende necessario un allargamento del discorso, per permettere di tratteggiare la prassi attraverso cui il Partito Comunista svolge la propria politica comunale. Mattia Tagliaferri ●●

Progetto e antefatti

Il Municipio di Locarno ha allestito un progetto da 32 milioni di franchi, volto alla costruzione della Casa del Cinema, con la quale si vorrebbe offrire una nuova sede per il Festival Internazionale del Film di Locarno, l’allestimento di un centro per la filiale dell’audiovisivo e la formazione ad essa correlata, e la costruzione di tre nuove sale cinematografiche. Le spese dovrebbero essere ripartite tra la Città (6 milioni di franchi), i comuni limitrofi (5 milioni di franchi), il Cantone (6 milioni di franchi), gli enti turistici (5 milioni di franchi) e la Fondazione Stella Chiara1 (10 milioni di franchi). Il Partito Comunista si è opposto al progetto non approvandolo in Consiglio Comunale e lanciando un referendum, congiuntamente alla Lega, che non è poi andato in porto. Il fallimento della raccolta firme non può però annullare il valore del lavoro svolto, in quanto meriti e colpe non possono pesare unicamente sulle spalle dei comunisti, e soprattutto va considerato il fatto che il referendum ha permesso di creare un ampio dibattito. Lo stesso ha largamente coinvolto la popolazione e tutte le autorità extra-cittadine, facendo sì che i difetti originari del progetto della Casa del Cinema abbiano portato il Cantone a congelare il proprio credito, seguito dai comuni di Muralto, Maggia e Avegno-Gordevio. Nel comune di Gambarogno è stato inoltre lanciato un secondo referendum, pro-


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mosso dalla Lega e sostenuto attivamente dal PC, il quale è andato a buon fine e permetterà quindi alla popolazione di esprimersi. Un’azione quale una raccolta firme - in modo particolare a livello comunale, dove spesso le tematiche con le quali ci si confronta sono vicine alla quotidianità della popolazione - è da considerarsi pertanto una delle attività più incisive per i comunisti, nell’ottica di radicarsi sul territorio e quindi proseguire con il processo di normalizzazione sancito dal XXI e dal XXII Congresso. ●● Pubblico e privato Uno dei nodi fondamentali che ha portato il PC a muoversi contro la Casa del Cinema è la partecipazione privata. Con tale considerazione non si vuole chiudere ogni porta a tale modalità di partecipazione nei progetti culturali, bensì rendere attenti al fatto che la stessa è spesso mossa da interessi che potrebbero cozzare con quelli della collettività, arrischiando quindi di far prevalere il mero business sulla cultura. Diventa pertanto fondamentale l’analisi dei singoli casi con cui si è confrontati. Nel caso specifico gli interessi della Fondazione Stella Chiara non solo rischiano di sovrastare gli aspetti culturali che la Casa del Cinema potrebbe effettivamente mettere in gioco, ma addirittura è stata la donazione dei contestati 10 milioni di franchi a mettere in moto il progetto. Al centro della Casa del Cinema non vi è quindi la filiale dell’audiovisivo oppure il Festival, elementi inseriti in maniera raffazzonata, ma le sale cinematografiche che la Città appalterà alla gestione privata. A dimostrazione di ciò vi sono le condizioni2 imposte dalla Fondazione alla Città per l’erogazione di un finanziamento tutt’altro che disinteressato. Il rischio è pertanto che dietro la Casa del Cinema vi siano degli scambi di favori più che la costruzione di un progetto culturale di interesse popolare. Il rifiuto di Locarno alla partecipazione al progetto da parte del Gosfilmfond3 non può che essere letto in quest’ottica.

Contenuto, contenitore, opere e speculazione Uno degli elementi chiave per la valutazione della bontà di un progetto, culturale o d’altro genere, è la comprensione del rapporto tra contenuto e contenitore. Dal momento in cui viene messa in moto la costruzione di un’opera perché si ritiene che il contenuto della stessa possa essere d’interesse per la popolazione, essa è da considerarsi potenzialmente un buon progetto. Naturalmente non si può dimenticare un’analisi dei contenuti stessi, ma non è questo il punto su cui focalizzarsi con il presente ragionamento. Non è però raro imbattersi in casi in cui il rapporto causa-effetto, contenuto-contenitore, sia rovesciato, facendo presagire la presenza di interessi commerciali, di tipo speculativo e di favori tra una parte di classe politica e altri attori. La Casa del Cinema è figlia di tale situazione ed è questo uno dei motivi per cui il PC ha creato un’opposizione alla sua realizzazione. ●●

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●● Amministratori e politici Uno dei più grossi difetti della politica ticinese, soprattutto quella comunale, è di essere condotta da una classe dirigente composta non tanto da politici, quanto da amministratori. Quel che caratterizza un politico è la coscienza piena del proprio ruolo (il senso politico non è un senso meramente civico), la consapevolezza della propria storia - l’aspetto ideologico non può quindi essere considerato solo un brutto retaggio dei secoli passati - e conseguentemente una lungimiranza figlia del percorso che si è deciso di intraprendere. Un amministratore vive invece alla giornata, facendosi muovere dagli eventi e, nella peggiore delle ipotesi, dai propri interessi personali. La Casa del Cinema è frutto della politica d’amministrazione, necessaria prima alla coltivazione del proprio orticello e solamente poi agli interessi della cittadinanza. I già citati problemi della partecipazione privata invasiva, del rapporto fra contenuto e contenitore e della speculazione, sono derivanti da un’ottica meramente amministrativa. Essa ha portato prima a pensare alle sale cinematografiche, ad accontentare le richieste dei partner privati e solo in secondo tempo ha permesso di pensare a che cosa la Casa del Cinema potesse contenere. Il cosiddetto “rapporto Müller diviene pertanto un elemento artificiale, i cui contenuti sono almeno in parte in contraddizione con gli altri interessi presenti sul tavolo. ●● Alleanze Uno degli aspetti più criticati nella prassi adottata dai comunisti nel combattere la costruzione della Casa del Cinema, in modo particolare dal Partito Socialista, è stata l’alleanza con la Lega per il referendum. L’alleanza, contingente e non ricercata, che si è venuta a creare su un tema specifico, non ha nulla di organico, ma è dettata dal fatto che i comunisti fondano la loro prassi politica su obiettivi concreti, per raggiungere i quali possono lavorare anche con chi normalmente si colloca altrove sull’asse politico. Questo naturalmente nel rispetto delle reciproche differenze e in piena indipendenza, cosa che nel caso concreto si è dimostrata con due argomentari diversi fra i due partiti. Essa non solo è l’unica via per una seria gestione delle alleanze che sia compatibile con la prassi marxista delle contraddizioni primarie e secondarie nella costruzione del fronte unito. Impostazioni differenti rischiano di favorire il settarismo oppure di spingere nella situazione, paradossale per la sinistra, di non essere presenti da un lato all’interno di lotte importanti, e in certi casi addirittura di affossarle, come purtroppo il PS ha preferito fare in alcuni casi negli ultimi anni: dalla Casa del Cinema a livello comunale, ai mezzi di trasporto pubblici gratuiti per i giovani in formazione in ambito cantonale; dalla lotta contro l’ecomostro di Giubiasco a quella a favore della complementare AVS, che la Lega ha “fregato” alla sinistra.

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La Fondazione Stella Chiara ha vincolato la donazione dei suoi 10 milioni di franchi all’inserimento nel progetto di tre sale cinematografiche (inizialmente ne era prevista una soltanto), all’ubicazione precisa delle stesse e a un limite temporale per l’inizio dei lavori di riattamento delle ex scuole comunali.

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Il Gosfilmfond (Archivio cinematografico nazionale di Stato) è la cineteca nazionale russa, nata nel 1948, nonché l’archivio cinematografico più grande del mondo. L’ex ente sovietico si è interessato alla Casa del Cinema, e ha proposto di partecipare allo stesso con 5 milioni di franchi, in cambio di uno spazio per creare un’antenna svizzera del Gosfilmfond. Non è chiaro se il veto sia stato posto dal Municipio o dal Festival, ma è certo che è stata bruciata una partnership che avrebbe portato cultura, favorendo invece il business della fondazione dei fratelli Hellstern.


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Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek

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Con la fine del cosiddetto “secolo breve”, la sinistra occidentale ha spesso e volentieri dimenticato la teoria e la prassi marxista, ripiegando sul keynesismo. In un contesto storico e politico nel quale persino il riformismo socialdemocratico è considerato estremismo, diviene necessaria una critica dura al pensiero di Keynes, intrinsecamente imperialista e contrapposto a qualsiasi pratica economico-politica non solo rivoluzionaria, ma pure riformatrice. Francesco Vitali e Mattia Tagliaferri Karl Marx/Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Bari-Roma 2013

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Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Bari-Roma 2013

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Per una democrazia economica d’orientamento sociale ed ecologica, programma del Partito Socialista Svizzero.

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Il riferimento è rivolto al carattere imperialistico di fondo, necessario al keynesismo per costruire la leniniana aristocrazia operaia. Su questo aspetto ci si concentra nei due capitoli centrali dell’articolo.

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John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino 2013

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Karl Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 2008

Da vent’anni a questa parte nell’area progressista, quando si parla di economia o di politiche economiche, ci si rifà sovente alle teorie keynesiane, dimenticando il vecchio Marx, una volta tanto caro all’analisi economica di sinistra. Il motivo dell’abbandono di Marx è forse dovuto alle sue conclusioni, ritenute troppo radicali dalla classe dominante, ossia della necessità della trasformazione dei rapporti sociali di produzione di tipo capitalista.1 La socialdemocrazia occidentale ha via via sempre più annacquato le proprie posizioni, a partire dal momento in cui i vantaggi dell’imperialismo hanno permesso ai paesi del centro imperialistico di accrescere la torta da spartire e, in particolar modo dopo la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, non riuscendo più ad essere incisiva nel combattere le politiche neoliberiste, che proprio a seguito del biennio 1989-1991 si sono intensificate, propagandosi in tutto il globo.2 L’affermarsi del keynesismo è quindi il risultato dell’indebolimento delle posizioni forti della sinistra occidentale, la quale non riesce più nei fatti a porsi come obiettivo il superamento dell’attuale società, nonostante tale concezione rimanga talvolta scritta nei programmi o nei manifesti dei partiti socialdemocratici.3 Tuttavia, nonostante la teoria economica keynesiana permetta di promuovere e giustificare l’esistenza dello stato sociale - che indubbiamente rimane ancora importante per combattere il precariato, pur essendo consci delle contraddizioni dalle quali il welfare state derivi4 - questa teoria deve essere necessariamente combattuta dalla sinistra di classe, intenzionata ad incidere nella realtà sociopolitica, proponendo una reale soluzione alla forte crisi economica che caratterizza i giorni nostri. Le lacune analitiche del keynesismo Secondo le teorie di Keynes si può superare una fase di recessione attraverso una politica monetaria ●●

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Gianfranco Bellini se n’è andato all’improvviso nel novembre 2012, al termine di una vita a tutta velocità, com’è stato tipico di una generazione troppo avida di vita e sapere per fermarsi a contemplare le proprie opere. Leader della Banda del Casoretto, il mitico servizio d’ordine antifascista del ‘68 milanese; poi dirigente del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI) e grande amico dei comunisti ticinesi, Bellini ci ha lasciato un testo che induce a riconsiderare il capitale finanziario - o, come si dovrebbe dire, il capitale fittizio - alla luce di una domanda tanto semplice quanto decisiva: per quanto tempo ancora il dollaro - come mezzo di pagamento globale e moneta di riserva - può tenere il centro della scena? Ora che il sistema non sembra più reagire agli “stimoli” che le banche centrali inven-

I problemi del keynesismo nel riuscire a incidere nella struttura della società capitalista

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espansiva, con bassi tassi di interesse, combinata con una politica di spesa pubblica volta a stimolare la domanda di beni attraverso i salari indiretti (le assicurazioni sociali) e/o la creazione di imprese o lavori pubblici in settori dove le imprese private sono assenti. I bassi tassi di interesse e la summenzionata politica di spesa pubblica sono destinate a stimolare la propensione ad investire, dato che il nodo di una crisi capitalista è l’assenza di investimenti conseguente alla crisi di sovrapproduzione dettata dalla caduta del saggio di profitto. Si faccia attenzione a non considerare solamente la caduta della domanda aggregata, la quale è uno degli effetti e non una causa, come invece ritengono i sottoconsumisti. Ciò causa la perdita di posti di lavoro, con tutte le conseguenza sociali che ne conseguono, tra cui la diminuzione del potere d’acquisto. Ne consegue che i profitti calano, alimentando un circolo vizioso. Quindi secondo Keynes, utilizzando una politica monetaria basata su bassi tassi di interesse, si facilita l’accesso alla liquidità volta all’impiego in attività produttive (credito). Allo stesso modo i salari indiretti e i salari ‘’effettivi’’ derivanti dall’impiego pubblico aumentano il potere d’acquisto della popolazione, portando a un aumento della domanda aggregata che stimola i capitalisti a produrre una maggior quantità di merci e quindi ad aumentare gli investimenti.5 Tuttavia tale approccio analitico è problematico, dal momento che non viene concepita la naturale tendenza del sistema capitalista alla contrazione del saggio di profitto, generata dall’aumento della composizione organica del capitale. Tale impostazione si deve alla teoria del valore di Marx, la quale parte dal presupposto che unicamente la forza-lavoro umana (capitale variabile) produce più valore (plusvalore) di quello che viene a costare (salario), al contrario delle macchine (capitale costante), che, essendo dei semplici trasmettitori di valore, ritornano esattamente il valore con cui sono state acquistate. Il profitto capitalista deriva quindi da quanta forza-lavoro o capitale variabile si riesce a impiegare nel capitale complessivo e da quanto plusvalore si riesce ad estrarre dal singolo lavoratore. Il saggio di profitto invece si definisce attraverso il rapporto tra plusvalore estratto e il capitale totale investito. Essendo però che nel processo produttivo capitalista si tende ad un progressivo avanzamento tecnologico, causando una diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante, ne consegue che il saggio medio di profitto cala, poiché diminuirà il plusvalore estratto in rapporto al capitale totale investito. Questo è infatti il reale motivo per cui gli investimenti cominciano a calare e si entra in una fase recessiva.6 In conclusione è perciò impossibile trovare una corretta politica economica per uscire dalla crisi senza prendere in considerazione la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto di Marx, che è appunto la causa principe della crisi ca-


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tano a pié sospinto, proprio ora continuare a “stampare moneta” serve solo a mantenere una parvenza di circolazione “normale”. Gli Stati Uniti fanno così dal 1971, scaricando per questa via gran parte dei propri problemi sul resto del mondo, pagando merci reali con “carta” e agitando le armi per restare “credibili”. La domanda a cui Bellini cerca risposta è quindi: fino a quando questo stampare moneta sarà in qualche misura “efficace”? Questa bolla “deve” esplodere, è nella sua natura. Si tratta di capire se la conseguente, e già visibile, “crisi di egemonia” degli Stati Uniti si produrrà nelle forme di un “passaggio di testimone” tra l’impero dominante e un possibile successore; oppure in una fuoriuscita dal modo di produzione attuale (o perlomeno dalla sua fase “imperialista”). Oppure ancora in una conflagrazione generale.

pitalista. Considerando ciò, la politica anticiclica di Keynes può essere funzionante solo in un contesto in cui l’accrescimento artificialmente sostenuto della domanda aggregata venga accompagnato dall’allargamento della sfera d’influenza del capitale, permettendo l’elusione temporanea della caduta tendenziale del saggio di profitto, e quindi da una politica imperialista che permetta di scaricare il costo della crisi di sovrapproduzione sui paesi della periferia capitalistica. Nel caso in cui ciò non fosse sufficiente a permettere di scaricare la sovrapproduzione, solamente una distruzione di capitale – quindi una guerra o la costrizione verso terzi alla deindustrializzazione – può permettere al keynesismo di mostrare il suo carattere virtuoso. ●● Nell’attuale contesto economico le politiche keynesiane sarebbero inefficaci Una politica monetaria basata su bassi tassi di interesse, volta a stimolare gli investimenti, si sta mostrando oggi inefficace, visto che la situazione è di saturazione dell’economia reale (sovrapproduzione di capitale) e il saggio di profitto è molto basso. Il facile accesso alla liquidità è pertanto sfruttato a fini di speculazione finanziaria, dato che il capitale fittizio è più redditizio di quello effettivo, in quanto – considerando il ciclo marxiano di produzione e realizzazione del valore, M-D-M’-D’ – esula dalla fase di produzione del valore e si presenta unicamente come sua realizzazione, seguendo la formula D-D’.7 Negli Stati Uniti, ad esempio, nonostante un fortissimo trasferimento di liquidità da parte della Federal Reserve alle principali banche americane, non vi è stato un aumento dei prestiti alle PMI, non intaccando così la disoccupazione, che è rimasta alta, contrariamente agli investimenti in borsa che hanno continuato ad aumentare. Anche in Europa nonostante siano stati fissati dei bassi tassi di interesse da parte della Banca Centrale Europea, non vi sono particolari segnali di ripresa in questo senso. D’altra parte l’espansione della spesa pubblica ha l’inevitabile svantaggio di necessitare finanziamenti atti a sostenerla, e gli unici modi che ha lo stato per farlo è attraverso la fiscalità e l’emissione di titoli. L’innalzamento della tassazione diretta e indiretta delle classi meno abbienti – i ricchi godono ancora di sgravi fiscali e amnistie, attraverso le quali lo stato regala loro della liquidità da investire nel debito pubblico dello stato medesimo, godendo così dei tassi di interessi legati ai titoli di stato e permettendo pertanto un doppio regalo,8 conseguente e necessario proprio al basso saggio di profitto di cui si è accennato precedentemente – va ad intaccare ulteriormente la domanda di beni di consumo, non permettendo di riavviare gli investimenti nell’economia reale. Nell’attuale contesto di globalizzazione diventa inoltre molto facile per i grandi capitali evitare la tassazione trasferendosi in paesi a regime fiscale più vantaggioso. Ecco perché la politica keynesiana potrebbe

funzionare solamente in un fase di crescita economica – ovvero di allargamento della sfera di influenza di capitale, come spiegato precedentemente - dato che, essendo alto il tasso medio di profitto, la tassazione atta a finanziare la spesa pubblica inciderebbe lievemente sullo stesso, ma in maniera importante sul consumo. Allo stesso tempo una politica di bassi tassi di interesse verrebbe sfruttata per aumentare gli investimenti nell’economia reale. Il keynesismo potrebbe altrimenti funzionare in un paese imperialista che ha in previsione di entrare in guerra. In questo caso l’aumento della spesa pubblica consisterebbe nella corsa agli armamenti, quindi nell’espansione dell’apparato militare, almeno fino a che la condizione economica glielo permette. A questo si somma il fatto che, anche con la presenza di un saggio di profitto basso, i capitalisti sarebbero disposti ad essere tassati, sapendo che potranno godere in seguito di un nuovo mercato e della distruzione di capitale concorrente una volta conclusa la guerra. Conclusioni Quale soluzione andrebbe dunque proposta oggi quale sinistra di classe che abbraccia un’analisi economica di tipo marxista? Le politiche di aumento della spesa pubblica a favore delle assicurazioni sociali e delle imprese pubbliche vanno indubbiamente sostenute, così che si possa permettere una maggiore ridistribuzione della ricchezza e un uso socialmente utile della stessa. Assieme ad un aumento della tassazione dei grandi capitali e a un controllo degli stessi, vanno tuttavia statalizzate o create aziende pubbliche, di modo che il molto probabile calo dell’occupazione nel settore privato, causato dal calo d’investimenti nello stesso settore, sia compensato. I proventi derivanti da tali aziende statali serviranno a finanziare la spesa pubblica, evitando quindi in parte una troppo forte tassazione rivolta alle classi più deboli. Probabilmente, nonostante si possa limitare in parte l’aumento della tassazione, le imprese capitaliste tenderebbero a questo punto ad emigrare in altri paesi per paura delle nazionalizzazione o della concorrenza pubblica, che potrebbe applicare dei prezzi volti piuttosto a cercare di soddisfare i bisogni della popolazione che a conseguire un profitto. In sostanza, iniziato tale processo, lo stato dovrà continuare a sostituire sempre più imprese private con quelle statali, escludendo sempre più settori dell’economia dalla logica del profitto, volgendoli verso lo scopo di soddisfare i bisogni complessivi della società in conformità al mantenimento dell’equilibrio ambientale. Considerando la necessità di costruire una fase di transizione che possa portare a un completo superamento in senso leninista del sistema capitalistico, non si può però prescindere dal considerare le particolarità storiche e contingenti della nostra realtà. Essa vede il prevalere delle micro e piccola imprese, in gran parte nate dalla mobilita●●

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Appunti estrapolati dalle bozze de “Che cos’è il capitale fittizio?”, Aris Della Fontana, Nicolas Fransioli, Alessandro Lucchini e Mattia Tagliaferri.

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Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek, Roma 2013


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Pompeo Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Dadò, Locarno 1997

10 Giulio Sapelli, Elogio della piccola impresa, Il Mulino, Bologna 2013

zione sociale degli anni Cinquanta e Sessanta.9 Essa vede il prevalere delle micro e piccola imprese, in gran parte nate dalla mobilitazione sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Tale mobilitazione si è da tempo scontrata con una rigidità conseguente proprio alla crescita che ha permesso l’affermazione della piccola borghesia Le piccole e medie imprese si diffondono infatti negli anni Cinquanta e Sessanta quando la mobilitazione sociale verticale ha permesso a parti di classi subalterne di divenire piccola borghesia. Particolarmente lampante da questo punto di vista è l’esperienza italiana: si pensi ai mezzadri toscani che diventano proprietari della terra sulle quali nascono le piccole imprese agricole; ai lavoratori veneti licenziati dalle grandi imprese che usano il loro know how per far partire piccole imprese industriali; i migranti che tornano a casa e smettono di essere lavoratori salariati. L’input di queste imprese ha quindi un carattere di scalata sociale, che termina con la trasformazione di alcune di queste micro e piccole imprese in medie imprese, in quanto il processo di accumulazione - nonostante esso non sia il motore primo delle micro e piccole imprese (è da considerarsi prevalentemente il mantenimento di un legame con il territorio, in quanto in molti casi le micro e piccole imprese rinunciano coscientemente alla riproduzione allarga-

ta del capitale tradizionalmente intesa10) - ha portato a processi di monopolizzazione tendenziale del sistema e quindi alla fine della scalata sociale. Tale condizione si scontra con gli effetti della crisi, in modo particolare con il dumping salariale e sociale conseguente a una libera circolazione delle persone dettata dagli interessi del capitale, e a breve potrebbe scontrarsi con lo scoppio di una bolla immobiliare (non si dimentichi che buona parte delle piccole e micro imprese svizzere sono attive nel settore edile) che sta covando sotto i bassi tassi d’interesse. All’interno di un contesto caratterizzato dalle macrodinamiche sopra-descritte, un’auspicabile strategia politica ed economica dovrebbe orientarsi verso la definizione di una società dei saperi nella quale assumano un’importante centralità dei poli d’eccellenza situati nei settori ritenuti strategici. Tali poli permetterebbero delle convergenze di carattere dialettico con le già citate micro e piccole imprese di cui oggi ancor abbondiamo, permettendo di dare vita a un percorso virtuoso di know how nei più disparati settori, attraverso la crescita di distretti industriali che dovrebbero segnare un ritorno alla preminenza del capitale effettivo. Ciò permetterebbe di inserirsi all’interno di una divisione internazionale del lavoro rispettosa del multipolarismo che sta emergendo, attorno al quale è necessario modellare l’uscita dalla crisi.

I N O I S N E C E R

Vladimiro Giacché, Perché chiamiamo «democrazia» un paese dove il governo è stato eletto dal 20% degli elettori? Perché La Fabbrica del falso, dopo ogni «riforma» stiamo peggio di prima? Come può un muro di cemento alto otto metri e lungo centinaia di chilometri diventare un «recinto difensivo»? Le torture di Abu Ghraib e Guantanamo sono «abuDeriveApprodi

si», «pressioni fisiche moderate» o «tecniche di interrogatorio rafforzate»? Cosa trasforma un mercenario in «manager della sicurezza»? Perché nei telegiornali i Territori occupati diventano «Territori»? Rispondere a queste domande significa occuparsi del grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo: la menzogna. Se un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal silenzio e dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta e vinta sul terreno della parola e delle immagini. Questo libro ci spiega come funziona e a cosa serve l’odierna fabbrica del falso. Vladimiro Giacché mette in luce una serie di dinamiche centrali per comprendere alcuni importanti meccanismi di funzionamento della società occidentale. All'interno di quest'ultima, per esempio, un passato storico stravolto e semplificato, cioè ridotto al dualismo fra bene e male, fra est e ovest, è funzionale per rintracciare “nella storia la conferma dell'immagine che la società attuale intende dare di se stessa e della propria presunta superiorità". Parallelamente si osserva un processo di controllo nei confronti della cronaca, la quale – come una vera e propria industria della notizia – ha saputo dotarsi di numerose e performanti tecniche (si va dalla de-contestualizzazione di un evento fino al capovolgimento del suo stesso significato), finalizzate a modellare un prodotto comunicativo che risponda agli interessi contingenti e strategici della classe dominante. L'autore prende anche in considerazione quello che potremmo definire il potere d'imposizione “semantico” che attualmente caratterizza le strategie comunicative del potere politico ed economico: la parola “democrazia” – ormai priva di contenuto perché è venuta meno la sovranità popolare) – è, per esempio, un vero e proprio “grimaldello ideologico”, basti pensare al suo ruolo nel giustificare le più recenti guerre di aggressione neo-coloniale. Nei fatti si delinea una società dello spettacolo e della faziosità, che prende in considerazione degli elementi il cui contenuto oggettivo viene sostanzialmente bypassato a favore di un linguaggio pubblicitario il cui scopo "non è convincere ma intrattenere, non è confutare, ma distrarre, non è fornire saldi punti di riferimento ma favorire l'annullamento di ogni certezza". Insomma, la menzogna è la grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo.


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