quadrimestrale marxista della Svizzera italiana
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giugno 2014
Impressum
#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 4 giugno 2014 anno II
Editore Partito Comunista
Direttore Aris Della Fontana
Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio
Email aris.dellafontana@politicanuova.ch
CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona
Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30€ Esteri
Progettazione grafica Roby Gianocca
Indice
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Editoriale: Rimettere al centro la strategia, recuperare progettualità e credibilità
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La (Beltra)pianificazione ospedaliera? Togliere al pubblico per dare al privato
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Le lezioni dimenticate del Partito Socialista Autonomo
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Aumento delle diseguaglianze economiche, riduzione dello stato sociale e aumento del debito pubblico: le conseguenze della diminuzione della pressione fiscale
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Politica agricola: quale la situazione elvetica?
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Sul post-9 febbraio: scenari e alternative
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Raddoppio del San Gottardo: superfluo, contraddittorio e contro-producente
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Mario Cavargna: “La Torino-Lione è il prototipo di un’opera assolutamente inutile”
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Il capitalismo, la sua crisi e le Grandi Opere: quali le relazioni?
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Il golpe d’Ucraina: scacco alla Russia e disastro d’Europa
Editoriale
Cantonale
Dossier
Rimettere al centro la strategia, recuperare progettualità e credibilità Uno degli elementi più emblematici in rapporto alla deriva delle sinistre va individuato nell’accantonamento d’una prospettiva strategica di classe. Ciò ha significato l’elusione degli argomenti che rimandavano alla trasformazione sociale e ha comportato un’accettazione acritica – poiché sprovvista dei necessari “anticorpi analitici” - dello stato di cose presenti. L’impasse delle sinistre, è, anche e soprattutto, crisi e arrendevolezza nella capacità di delineare – concretamente, non astrattamente, non sulla scorta di operazioni divinatorie, fantastiche – il tragitto verso un’alternativa credibile (e allettante!) al modello di sviluppo capitalista. A tutto c’è una spiegazione, se crediamo nella possibilità di vestire la storia di nessi causali. Si possono, in tal senso, individuare due macro-processi. Da una parte, il complessivo moto neo-liberista (economico quanto ideologico-culturale) e, al suo interno, l’affermarsi di una mondializzazione modellata sulle esigenze degli attori economici occidentali - foriera di una nuova conformazione dei rapporti tra centro e periferia e di una nuova divisione internazionale del lavoro (“terza rivoluzione tecnologica” e terziarizzazione al centro, fordismo nelle periferie) - che disorientarono le tradizionali letture della realtà e, dall’altra, il progressivo venir meno del ruolo giocato dell’Unione Sovietica - che, pur con tutte le contraddizioni notificategli dai partiti comunisti europei, rappresentò per questi un riferimento di prim’ordine -, hanno azionato un forte arretramento delle forze rappresentanti il movimento operaio. Per quale motivo solo quest’ultimo si è trovato impreparato, sprovvisto degli strumenti atti a “governare” tale evoluzione, mentre i detentori delle maggiori quote di ricchezza e i loro rappresentanti politici vi si sono mossi con agilità? Semplice, essi l’hanno voluta, diretta e costruita, ne sono stati i padri spirituali e materiali, tanto quanto i lavoratori e i loro rappresentanti ne sono state le vittime che, come percosse fino al delirio, oggi non posseggono più una bussola. La sinistra ha perso. Ed è per il fatto che ciò si lega linearmente alla dismissione di un congruo approccio analitico alla realtà, che appare prioritario operare nella direzione della ricostruzione di un “pensiero forte” in grado di padroneggiarne le coordinate. Si tratta di una tappa ineludibile, poiché, per una formazione politica, lo sguardo di lungo periodo è possibile e sostenibile solamente sulla scorta di una conoscenza pressoché totalizzante della situazione in cui si trova ad agire. E, ancora, per una formazione politica, fare attivamente affidamento ad una strategia, costituisce un valore aggiunto, dato che ciò permette di imprimere una spinta decisiva, in conseguenza di due dinamiche.
Nazionale
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In primo luogo una “tabella di marcia” d’ampio respiro - nella quale le proposte vengano disposte su un asse temporale opportunamente definito, caratterizzato da un’impostazione gradualistica, che rigetti il “tutto e subito” quale prassi non aderente ai canoni di un approccio realista, quindi materialista – permette di determinare, con un maggior livello di performance, il corretto approccio in una data situazione, storica e geografica, e, quindi, di conferire serietà e possibilità di sviluppo ulteriore alla proposta politica: il partito, in questo modo, non “vive alla giornata”, ma incide progettualmente. In secondo luogo, possedere una strategia, è utile anche in termini egemonici: non poter “offrire” ai soggetti sociali – confrontati con contraddizioni oggettive, nelle quali si districano con difficoltà, e che perciò possono incorrere nell’eventualità di formulare risposte errate (si pensi a quelle di carattere xenofobo) – una prospettiva pensabile e credibile, impedisce che in essi possano affiorare – e ciò è un passaggio fondamentale - stimoli e motivazioni tali da condurre all’impegno politico. #Politicanuova, quale foglio di approfondimento, funge – certo sempre in dialogo con strutturati momenti di formazione politico-ideologica - da spazio in cui sviluppare le indicazioni strategiche, a proposito dei diversi settori della realtà. In questo numero, peraltro, vi sono due contributi emblematici in rapporti ai contenuti di questa riflessione. L’articolo firmato da Tobia Bernardi, concernente la storia del Partito Socialista Autonomo (PSA), aiuta a chiarificare la parabola – interessantissima – di una formazione politica che, dall’originaria, aspra critica alla prassi del Partito Socialista Ticinese (PST), giudicata tanto sprovvista di orizzonti e strumenti ideologici differenti da quelli delle forze politiche borghesi (ecco ritornare la necessità di un’analisi indipendente e di una proposta alternativa al capitalismo) quanto invischiata nella lottizzazione e nel sistema clientelare, è approdata, nei momenti terminali della propria esperienza (che non a caso coincisero con la rivalsa neoliberista!), ad un’integrazione pressoché piena con il sistema (politico ed economico) inizialmente avversato, giungendo a rapportarsi amministrativamente con le istanze governative e, di riflesso, senza più una prospettiva strategica di classe, volta alla trasformazione sociale. Francesco Vitali, nel suo articolo a proposito del raddoppio del San Gottardo, invece, dimostra concretamente l’inscindibile legame che sussiste fra le prese di posizione attorno ad una determinata questione e le visioni strategiche che ad esse sottostanno. In tal senso abbiamo cercato di capire qual’è l’orizzonte di lungo periodo che accomuna i sostenitori e quale quello che accomuna gli oppositori del progetto, in relazione alle politiche dei trasporti e a quelle ambientali.
Aris Della Fontana Direttore #PN
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La (Beltra)pianificazione ospedaliera? Togliere al pubblico per dare al privato Massimiliano Ay Il Dipartimento Sanità e Socialità (DSS) avverte, in merito al settore sanitario stazionario, che fin “dall’entrata in vigore della LAMal nel 1994 sappiamo che occorre ridimensionarlo. Il primo tentativo di pianificazione, nel 1997, è stato giudicato troppo timido dal Consiglio federale ed è stato rinviato al mittente. L’attuale pianificazione è più incisiva”. Infatti incide sui pazienti.
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Stando al Regolamento concernente i servizi di urgenza medica negli ospedali e nelle cliniche sono considerati servizi di Pronto Soccorso di categoria B quei servizi che a) garantiscono 24 ore su 24 o a tempo determinato una prima valutazione ed assistenza di urgenze mediche a pazienti con funzioni vitali non compromesse e senza rischio per un danno grave e permanente alla salute, e b) che dispongono di procedure codificate per assicurare il trasferimento di pazienti instabili.
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L’art. 39 della Legge federale sull’assicurazione malattia (LAMal) risalente al 1994 prevede che i Cantoni organizzino una pianificazione degli ospedali presenti sul proprio territorio; una pianificazione degli ospedali fuori cantone (a cui possono eventualmente accedere i propri cittadini) e una pianificazione degli istituti di cura (come le case per anziani). La pianificazione riguarda unicamente il settore stazionario (che prevede delle degenze) e non concerne invece l’ambito delle cure ambulatoriali. La politica sanitaria attualmente dominante parte dall’assunto secondo cui “più l’offerta sanitaria è ampia, più vengono consumate prestazioni sanitarie, non tutte necessarie”. Oggi in Ticino, stando alla Confederazione – competente del finanziamento del sistema sanitario – vi sarebbero troppi posti letto con circa il 30% di ospedalizzazione in più rispetto agli altri cantoni. Con un numero di posti letto inferiore, invece, diminuirebbero le ospedalizzazioni “non necessarie”; così almeno dichiarano le Autorità. Autorità, le quali – è bene ricordarlo – fissano i premi delle assicurazioni malattia sulla base delle richieste che giungono però dagli assicuratori stessi, cioè da aziende private che curano anzitutto i propri profitti. La legge prevede inoltre che gli istituti privati e quelli pubblici siano equiparati, ciò significa che il Cantone ha il dovere di finanziarli entrambi: stiamo parlando di una cifra di 200 milioni di franchi annui destinati alle strutture private e di 100 milioni a favore invece di quelle pubbliche. Ciò rappresenta il 55% dei costi: il restante è versato delle casse malati (e cioè dai premi delle stesse pagati, con un incremento regolare, dai cittadini). ●● Misure di “razionalizzazione” a scapito della prossimità col paziente Nel progetto di pianificazione ospedaliera presentata dal Consigliere di Stato PPD Paolo Beltraminelli si attua una trasformazione di alcuni ospedali in istituti di cura o di riabilitazione, evitando – così fanno credere i partiti borghesi – di chiuderli tout court. In realtà la situazione è ben diversa, come te-
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stimoniano anche le forti mobilitazioni dei cittadini delle aree coinvolte, e per gli ospedali di Faido e Acquarossa, si può parlare – senza troppo timore di esagerare – di uno smantellamento de facto. Questi ultimi, infatti, saranno appunto trasformati in istituti di cura, luoghi cioè in cui i pazienti affrontano la sola riabilitazione: non opereranno insomma più come ospedali veri e propri destinati a interventi acuti, ma subiranno un importante declassamento. Non saranno le sole due strutture a subire tale cambiamento, certo, ma è pure vero che la loro ubicazione li rende in qualche modo “unici”, poiché appunto servono delle regioni periferiche del Cantone con un’offerta sanitaria ben diversa che altrove. Saranno così chiusi i due reparti di medicina di base (una 40ina di letti), i due Pronti Soccorsi, così come la geriatria attualmente presente ad Acquarossa. Tutto ciò, evidentemente, si tradurrà anche nella perdita di posti di lavoro, forse addirittura si dovrà fare i conti con un pesante dimezzamento del personale. Nel caso specifico della Val di Blenio, per esempio, stiamo parlando di un ospedale che attualmente garantisce 125 posti di lavoro e di un Pronto Soccorso con tremila passaggi annui. Questi tagli comporteranno anche e ovviamente dei disagi ben immaginabili per una regione che già oggi si caratterizza per un’economia relativamente fragile e in cui – oltre il danno anche la beffa – i comuni coinvolti dovranno pure assumersi parte degli oneri finanziari della nuova realtà sanitaria, in quanto la LAMal non prevede alcuna copertura per i servizi post-cura. Le rassicurazioni del DSS circa la volontà di sopperire al tagli nell’ambito, perlomeno, del Pronto Soccorso con un servizio d’urgenza in sinergia con i medici di picchetto presenti in Valle (e che comunque non raggiungerà mai la classificazione “B”1 dell’attuale Pronto Soccorso) appaiono del tutto prive di fondamento, dal momento che è praticamente confermato come, dall’anno prossimo, le ambulanze in partenza da tali zone avranno sempre come unica destinazione Bellinzona. La concezione borghese della politica sanitaria, che evidentemente non riguarda solo il PPD ma quasi tutto l’arco parlamentare, è proprio il volersi ostinare a leggere ogni questione con lenti di stampo aziendalistico e cioè orientando il discorso unicamente sul piano della ricerca del profitto e dell’efficienza in senso economico, esattamente come se un ospedale o una scuola fossero da gestire come una qualunque azienda che sta sul mercato con l’obiettivo di arricchire i propri azionisti. Sarà solo uno slogan, ma a volte vale la pena ricordarlo: la nostra vita vale di più dei loro profitti. ●● Autolesionismo statale e latenti privatizzazioni Oggi nel Canton Ticino il 40% dei letti sono presenti in ospedali privati (il doppio che nel resto della Svizzera) e con questa (beltra)pianificazione la “forza” di
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Anche il parto può essere …politico!
tale realtà potrà solo crescere! Proprio l’apertura al settore privato, in effetti, sembra essere la logica che ha mosso il DSS. E non sarà un caso se ciò avviene proprio sotto la guida degli ambienti cattolici, che sono poi gli stessi ad avere (storicamente, ma non solo) una buona egemonia su numerose strutture private con un retroterra confessionale neanche troppo nascosto. Al di là della possibilità di un futuro centro comune a Sorengo nelle strutture della Genolier SA, nel cui Consiglio di Amministrazione siede l’onnipresente ex-consigliere nazionale liberale Fulvio Pelli (già noto per mille altre discusse situazioni da Asfaltopoli a BancaStato) ci stiamo riferendo qui in modo particolare alle cosiddette “collaborazioni” pubblico-privato, come fra l’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC) di Lugano e la clinica Sant’Anna appunto, oppure fra l’EOC di Locarno con la clinica Santa Chiara. La mossa tattica dei democristiani condivisa dalle altre forze borghesi è stata, in questo ambito, straordinaria: nella prima fase della pianificazione, infatti, a queste due strutture sanitarie pubbliche era stata tolta l’ostetricia. In tal modo il Cantone costringeva i propri ospedali a negoziare e a scendere a compromessi con i partner privati per poter continuare a offrire tale servizio. Con questa situazione le cliniche private possono trarre enormi vantaggi dalla qualità delle strutture, dalla specializzazione e della presa a carico dell’EOC. Il prossimo passo potrebbe inoltre essere la divisione dei compiti in base all’onere finanziario: l’ostetricia di base nella clinica privata, mentre quella più costosa come l’ostetricia complessa e la neonatologia alle cliniche pubbliche. In questo senso non è fuori luogo inserire la nuova Pianificazione ospedaliera nel contesto di una privatizzazione latente.
L’associazione “Nascere Bene Ticino”, citando fonti statistiche ufficiali, informa che “il tasso di cesarei del 28,5% nelle maternità EOC era inferiore alla media svizzera (33%) mentre nella clinica Santa Chiara era del 44,6% e nella clinica Sant’Anna era del 41,4%”. Stando però all’OMS “non c’è nessuna giustificazione, in nessuna regione geografica, per avere più del 10%-15% di parti cesarei”. Cifre che possono destare quindi un po’ di preoccupazione, poiché il parto cesareo comporta comunque dei rischi di effetti collaterali (come le conseguenze sul sistema immunitario del neonato). Tuttavia anche qui potrebbe trovare spazio una valutazione speculativa: secondo il direttore del dipartimento “Family Health and Research” dell’OMS, Dr. Monir Islam, infatti la differenza fra il tasso di parti cesarei fra gli ospedali pubblici e quelli privati si può spiegare in questo modo: «Queste operazioni sono programmabili, più brevi rispetto a un travaglio naturale e permettono di ridurre il lavoro di notte e durante il fine settimana. Sono quindi chiaramente più redditizi per gli ospedali privati». A questo si aggiunga che nelle cliniche private i livelli salariali e le condizioni di lavoro sono spesso ben peggiori rispetto a quelle vigenti in seno alle strutture pubbliche e ciò, purtroppo, le rende più competitive: questo significa che procedendo su questa strada si potrà prima o poi tornare a parlare di processi veri e propri di privatizzazioni della sanità.
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ER SSI DO Pompeo Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Dadò
Gli anni tra il 1969 e il 1988 costituiscono, nel Canton Ticino, un ventennio di aspre e stimolanti battaglie che hanno permesso al PSA di evolvere da partito di opposizione a partito di governo. Questo volume ne ricostruisce le vicende, ripercorrendo venti
Le lezioni dimenticate del Partito Socialista Autonomo
Tobia Bernardi
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In un panorama politico immobilista come quello Ticinese – in cui, ancora nel 1987, i tre partiti storici (PST, PRLT, PPD) raccoglievano 87% dei consensi – capiamo bene perché l’apparizione di un nuovo partito, il suo consolidamento e la sua entrata in governo (1987), rappresentarono un fenomeno di importanza considerevole per la vita politica del Novecento ticinese. Cfr. GHIRINGHELLI, Andrea, CESCHI Raffaello: Dall’Intesa di sinistra al governo quadripartito (1947-1995), in: CESCHI, Raffaello (a cura di): Storia del cantone Ticino, il Novecento, Bellinzona, 1998.
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Pompeo Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Armando Dadò, Locarno, 1997
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LIPSET, Seymour: «The Changing Class Structure and Contemporary European Politics», Daedalus, 1964, n.1, p. 296.
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L’abbandono del “programma massimo” coincise non a caso con l’entrata in governo di molti partiti socialdemocratici. Il caso della Svizzera è particolarmente evidente: con il Programma di Winthertur del 1959, il PSS eliminava gli ultimi riferimenti al “rovesciamento del capitalismo”, ed entrava successivamente in governo come un partito di opposizione moderata.
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Corrente rappresentata dal PSIUP italiano, dal PSU francese, etc.
Più di vent’anni sono ormai trascorsi dal Congresso di Mendrisio del 1987, durante il quale gli iscritti, riuniti in assemblea, misero fine alla ventennale esperienza politica del Partito Socialista Autonomo (PSA). Vent’anni che hanno visto l’emergere di un nuovo blocco storico, segnato da cambiamenti epocali non solo a livello geopolitico (fine della Guerra Fredda e del bipolarismo, egemonia americana e insorgenza della potenza cinese) o economico (svolta neoliberista e finanziarizzazione strutturale dell’economia), ma anche a livello culturale e sociale (rivoluzione tecnologica e informatica, globalizzazione accelerata). Per l’intera sinistra europea l’inizio di questa nuova fase storica ha comportato l’abbandono di vecchi paradigmi concettuali, considerati ormai sorpassati, la “fine delle ideologie”, il tramonto definitivo dell“Ottobre” (inteso come riferimento simbolico e ideologico), e un’integrazione sempre più marcata in logiche del tutto estranee alla tradizione del movimento operaio; insomma, un generale senso di smarrimento e rassegnazione. Lo slogan del terzo congresso del PSA (1977), “Rafforziamo l’unità e l’azione della sinistra di classe”, sembra appartenere ad un’epoca ormai chiusa, ad un passato che noi giovani non abbiamo nemmeno avuto il tempo di conoscere. Il concetto stesso di sinistra di classe appare per certi versi desueto e arcaico, tanto la sinistra europea ha avuto fretta di strapparsi i vecchi abiti “ideologici” di dosso, nel corso di questi ultimi vent’anni. Ci si può dunque chiedere che senso ha riflettere oggi, in una nuova fase storica, ma soprattutto in un contesto politico completamente diverso, sulla ventennale esperienza politica del PSA. Può la vicenda di questo partito insegnare ancora qualcosa alla sinistra attuale, ticinese e confederata? A mio avviso, sì. E questo non solamente sotto il profilo storico-culturale (il PSA in quanto parte importante del patrimonio storico-politico del nostro Cantone1), ma anche da un punto di vista politico. Alla luce dei comportamenti e della prassi politica di una buona parte della sinistra nostrana d’oggigiorno, alcune tra le lezioni di Carobbio e compagni rimangono infatti tremendamente attuali. Riflettiamo dunque – con l’aiuto dell’opera di Pompeo Macaluso, Storia del PSA 2 – su questa particolare esperienza politica, che combinò elementi comuni all’insieme della sinistra europea a tradizioni e motivazioni specificatamente svizzere e cantonticinesi. ●● La contestazione al “socialismo conservatore” Nato nel 1969 in seguito ad una scissione dal Partito Socialista Ticinese (PST), il PSA rappresentò in qualche modo l’espressione ticinese di una crisi co-
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Teoria
anni di storia intessuti di straordinaria energia politica e di una non comune capacità di elaborazione culturale. Venti anni fatti anche di illusioni ed errori, che alimentarono il sospetto in una parte cospicua di cittadini e non permisero di accrescere il consenso in maniera significativa.
mune all’insieme della sinistra europea, la crisi di quello che Seymour Lipset definisce il “socialismo conservatore” 3, in riferimento ad un tipo di socialismo e di partito – quello socialdemocratico occidentale degli anni ‘50-’60 – perfettamente integrato nelle logiche e nei sistemi politici borghesi, che aveva spesso formalmente rinunciato al “programma massimo”, alla trasformazione radicale (anche non violenta) dei rapporti di produzione in senso socialista, e che si accontentava del “programma minimo”, ovvero di una serie di riforme che, se miglioravano parzialmente la condizione dei lavoratori, restavano tuttavia all’interno di rapporti di produzione capitalistici. Un socialismo, dunque, spesso integrato nelle logiche di potere4, sempre meno forza di contestazione e di lotta sociale, avviato un passo dopo l’altro verso l’abbandono del marxismo. Prese corpo così, anticipando anche se di poco quella che sarà la grande esplosione della contestazione giovanile del ‘68, una corrente di militanti ed intellettuali socialisti che, non volendo rinunciare ai principi cardine del marxismo e della lotta di classe, intendeva porsi ancora come obiettivo l’edificazione di una società radicalmente diversa.5 Il Ticino si prestava particolarmente bene al “socialismo conservatore”, ed in effetti si potrebbe elevare il Partito Socialista Ticinese ad esempio paradigmatico di questo fenomeno politico. Inserito in un sistema consociativo come quello Ticinese e nelle conseguenti logiche clientelari, scarsamente marxista, nato piuttosto sulle vecchie linee di frattura (chiesa vs laicità, centro vs periferia) che su quelle dell’epoca prettamente industriale (lavoro vs capitale), sprovvisto di un forte proletariato indigeno a causa dell’industrializzazione particolare del cantone e dell’abbondante afflusso di proletariato straniero; il partito basava la sua politica negli anni ‘50-’60 sull’alleanza con il PRLT – la cosiddetta “Intesa di sinistra” – che si reggeva ancora sul collante, vecchio di 30 anni, dell’anticlericalismo comune. L’analisi che Pompeo Macaluso svolge, attraverso lo “schema degli incentivi” del politologo Lange, dimostra efficacemente che tipo di partito fosse il PST: essenzialmente basato su incentivi di “conseguimento dei fini” (il mantenimento dell’alleanza con i Radicali e del seggio in CdS), o su incentivi di carattere associativo (pranzi, convegni del Ceneri, feste di partito, etc), esso non distribuiva praticamente nessun incentivo di identità a carattere ideologico. Era infatti una formazione che aveva da tempo rinunciato a qualunque idea di vero cambiamento sociale, che si accontentava spesso di spartirsi cariche pubbliche e che faceva pochissima opposizione alle politiche borghesi di liberali e conservatori. Contro questo modo di fare politica si sviluppò anche in Ticino una corrente di dissenso interna al Partito, che cominciò a far sentire la sua voce verso la fine degli anni ‘50, guidata dalle abilità politiche di due giovani socialisti, Pietro Martinelli e Werner Carobbio. Se del primo vanno ricordati l’impegno
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Mendrisio del 1969, quello che sarebbe diventato il Partito Socialista Autonomo. ●● Contraddizioni e pregi di un partito che ha ridato speranza al socialismo Tracciare nei dettagli la ventennale esperienza politica del PSA risulta sfortunatamente impossibile. Ma anche la redazione di un bilancio è altrettanto problematica. Pur cercando di dare continuità al progetto iniziale, il Partito dovette più di una volta riorientarsi ideologicamente, ridare nuove forme a ideali e obiettivi iniziali che sussistevano – certo - come scopo ultimo verso cui tendere, ma che apparivano difficilmente realizzabili sul corto periodo, di fronte alle acerbe conformazioni della realtà politica ticinese. Da qui la ricerca di nuove vie, da qui anche la partecipazione e l’integrazione crescente nel sistema che si voleva combattere, percepita sempre di più come l’unico modo per poter “contare qualcosa”, e anche solo per poter esistere come partito all’interno della realtà ticinese. Non è in ogni caso eludibile il gran servigio che il PSA rese non solo alla sinistra ticinese ma a tutta la realtà politica nostrana. Attirando l’attenzione sulle pratiche clientelari e sulle disfunzioni della cultura politica ticinese, il PSA spinse infatti tutti gli altri partiti, compreso il PST, a dover rivalutare ed adattare la loro prassi politica. Praticando un’opposizione sistematica in Gran Consiglio e utilizzando Politica Nuova come una tribuna di denuncia e approfondimento insieme, il PSA favorì senz’alcun dubbio, sopratutto durante i suoi primi anni di vita, una certa ripoliticizzazione della sinistra e della società ticinese. Le pagine di Politica Nuova e i documenti della direzione rappresentano in tal senso delle validissime fonti di informazione sulla realtà politica, economica e sociale del Canton Ticino di quel tempo; e l’energia politica di alcuni militanti permise di diffondere tali contributi alla popolazione ticinese. Spezzando il clima di accettazione acritica che contraddistingueva la prassi politica del PST, sostenendo lotte nelle fabbriche e nelle scuole, riportando l’attenzione delle masse lavoratrici sul tema della rottura della “pace del lavoro”, il PSA contribuì a far uscire l’intera sinistra ticinese (anche sindacale) da una fase di completo immobilismo. Ma il PSA non poté assolvere tutti i suoi compiti: sorto con il desiderio di ripoliticizzare la società e di rimettere le masse lavoratrici al centro del processo decisionale, si scontrò con la debole mobilitazione di queste ultime e si avviò anch’esso sulla strada dell’oligarchia e della delega. Rinunciò progressivamente ad una presenza suoi luoghi di lavoro, alle lotte extra-parlamentari, e si dovette accontentare dell’azione istituzionale, perdendo gradualmente ogni carattere rivoluzionario. Con l’ingresso di Pietro Martinelli in Consiglio di Stato, l’integrazione fu completa, e il PSA si ritrovò a partecipare allo stesso sistema consociativo che tanto aveva combattuto in origine.
Teoria
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Leggendo i verbali delle sedute dell’Ufficio Politico o di quelle del Comitato Cantonale, o nel conteggio delle presenze al CC (data 1981, 32 presenze su 32 sedute), l’impegno, la costanza e l’assiduità di Carobbio non possono che sbalordire. Ciò è parimenti visibile nelle comunicazioni di Partito (tutte firmate e redatte dallo stesso Carobbio), nella mole impressionante di documenti prodotti, nei comizi tenuti, eccetera. Senza dubbio il modo di funzionamento del partito (che, nonostante gli sforzi teorici in senso contrario, rimaneva nella pratica abbastanza verticista) e la scarsa militanza della base aiutarono la centralizzazione delle competenze nelle mani di Carobbio e di pochi altri, ma è doveroso sottolineare come il Segretario si fece sempre trovare pronto, e disposto a consacrare tempo ed energie per risolvere i mille problemi del Partito.
ER SSI DO
inesauribile in Gran Consiglio e il grande carisma politico, a Werner Carobbio dev’essere reso un vero e proprio omaggio: instancabile lavoratore6, politico d’eccezionale caratura, fu essenzialmente grazie alle sue abilità ed energie che il PSA poté rimanere relativamente coeso e unito nonostante alcune evidenti difficoltà organizzative ed ideologiche. La corrente prese largamente spunto dalle idee, profonde e curate, di un altro giovane intellettuale socialista, Guido Pedroli, che purtroppo, dopo aver dato il suo contributo teorico e pratico allo svilupparsi di un dissenso interno al PST, morì nel 1962 e non poté dunque partecipare alla fondazione del PSA. Se si rileggono i primi numeri di Politica Nuova7, ispirati alle idee del giovane filosofo ticinese, si capisce molto bene quali fossero le critiche mosse da questi giovani alla direzione del PST, e quali invece le idee chiavi dalle quali bisognava ripartire. Prima di tutto, riluttanza all’abbandono della lotta di classe e del marxismo (accompagnata però da una critica al regime sovietico, realtà immobilista e burocratizzata); di conseguenza, lotta feroce al clientelismo8 e al sistema politico consociativo che, sebbene avesse il vantaggio di permettere ai socialisti di esercitare una minima influenza in governo, faceva oggettivamente gli interessi dei partiti borghesi, mantenendo la “società così com’era”, attraverso una prassi politica essenzialmente gestionaria e mai progettuale (in tal senso vanno letti i ripetuti accenni sul passaggio da una “politica delle cose” ad una “politica delle idee”). La partecipazione del PST a questo sistema di governo ne aveva praticamente “corrotto l’anima”, rendendolo incapace di uscire dalle stesse logiche consociative e borghesi che avrebbe dovuto combattere. A questo tipo di politica – che aveva trasformato il PST in un partito di oligarchi (quello dei “compagni che contano”, in parlamento o vicini alla dirigenza), contribuendo così alla spoliticizzazione della classe operaia e dell’intera società ticinese – questi giovani contrapponevano una vera opposizione di classe, una ripoliticizzazione della società e soprattutto un nuovo modo di fare politica, inteso come una ricerca costante, teorica e pratica, di nuove vie e di nuove strade per il socialismo, applicabili nella realtà cantonale e non utopiche o precostituite, che non avessero però rinunciato ad una riflessione su una società più giusta e ad una trasformazione radicale del tessuto socio-economico. Raggruppata attorno al periodico Politica Nuova, sospinta dall’avvento del ‘68 – che comportò anche in Ticino nuove forme di mobilitazione e di partecipazione, stimolando, attraverso la contestazione giovanile, la ripoliticizzazione della società ticinese – e approfittando anche di altre divisioni interne al PST (pur di diversa matrice, come la quasi secessione della sezione del Mendrisiotto), la corrente di dissenso, che fino ad allora aveva cercato di adottare una linea “entrista”, si dimise dalla direzione, fu espulsa dal Partito e, di risposta, fondò, con la Costituente di
Nazionale
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Periodico del PSA. Dal 2013 il Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC) ha iniziato il progetto editoriale di #Politicanuova, che si vuole quadrimestrale di approfondimento marxista.
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Con le parole del Pedroli, «per poter combattere il clientelismo nel paese, dobbiamo innanzitutto combatterlo nel partito. La nomina di un socialista in un’amministrazione pubblica non è necessariamente una vittoria politica. Il partito non è un’agenzia di collocamento!» Cfr. PEDROLI, Guido: Per una politica di sinistra del PST, testo dattilografato.
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DO SSI ER
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Ma la vicenda del PSA non è solo vicenda politica, è anche vicenda umana, vicenda generazionale. Appartiene al vissuto di una generazione particolare, quella dei grandi sogni e del grande idealismo sessantottino, che si manifestò anche in Ticino attraverso un nuovo tipo di mentalità giovanile, più aperta al mondo, alle nuove sfide e ai cambiamenti, desiderosa di cambiare quella mentalità insulare che contraddistingue tutt’oggi il cantone. Vicenda umana di una particolare generazione e vicenda politica di un particolare partito si amalgamano dunque in quella che fu la parabola esistenziale del PSA: una curva che partì verso l’alto, verso l’altissimo, ma che dovette progressivamente inclinarsi, sotto il peso crescente della realpolitik e dell’immobilismo cantonticinese, fino all’appiattimento totale e all’accettazione, più o meno rassegnata, della realtà. Infine, vicenda geografica, territoriale. Perché indipendentemente da tutti gli accenti internazionalisti e dagli sforzi fatti per allacciare rapporti politici oltre Gottardo e oltre frontiera, il PSA rimase essenzialmente un’esperienza politica ticinese, confrontata con un particolare sistema politico, un particolare territorio ed una particolare mentalità. Come non citare in questo senso l’esperienza biografica di Plinio Martini, militante senza dubbio d’eccezione, che dovette agire all’interno di una realtà specifica e difficile (per qualsiasi socialista) come quella valmaggese? Tuttavia, indipendentemente da un bilancio critico globale, ritengo che lo studio della vicenda politica del PSA possa se non altro fornire qualche spunto di riflessione, qualche “lezione”, alla sinistra contemporanea. Si ha quasi l’impressione che i motivi e le idee che spinsero questi giovani politici verso un’opposizione di diverso tipo siano stati dimenticati troppo in fretta, forse anche dagli stessi protagonisti, e che la sinistra nostrana non sia stata capace di farne tesoro.
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Risoluzione di Giorgio Canonica in vista del 4° congresso ordinario, 1982. (Archivio FPC, Fondo Werner Carobbio)
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●● Riecheggia ancora il monito del PSA In primo luogo, la critica al consociativismo. In quest’ambito il PSA volle praticare, sopratutto durante i suoi primi anni di vita, una politica di opposizione strutturale al sistema politico e partitico cantonticinese. Questo non significava l’abbandono delle istituzioni, né una prassi politica extra-parlamentare, ma semplicemente il rifiuto di un sistema di governo (quello proporzionale) che, nonostante avesse il vantaggio politico di garantire equilibrio e governabilità, per la sua stessa composizione e per il suo stesso funzionamento non poteva essere veramente progettuale e non poteva prospettare nessun cambiamento radicale della società in senso socialista. Con le parole di Giorgio Canonica, «l’elezione proporzionale del governo costituisce un blocco all’evoluzione dei rapporti di forza politica, occulta i conflitti di classe a livello politico, mistifica l’opinione popolare, integra le forze opposizionali nell’ideologia del consenso».9
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La critica al consociativismo operata dal PSA negli anni ‘60-’70 risulta tremendamente attuale. Se ancora ritiene di rappresentare un’alternativa credibile alla società borghese e capitalista, l’intera sinistra ticinese, svizzera e anche europea, dovrebbe riflettere sul grado di integrazione raggiunto all’interno dei rispettivi sistemi politici liberal-democratici. E questo come necessaria conseguenza di un postulato politico fondamentale: non si può proporre un sistema politico ed economico alternativo qualora ci si amalgama organicamente e allegramente a quello esistente. Pur essendo tristemente comune all’intero Occidente, il problema della completa integrazione e dell’accettazione, da parte della sinistra, dei dogmi fondamentali della democrazia liberale (convalida del capitalismo, rifiuto della lotta di classe, compromesso con le differenti forze sociali, etc) si manifesta con particolare evidenza in Svizzera ed in Ticino a causa – logicamente - del particolare sistema politico consociativo. Per quante volte ancora dovremo vedere ministri “socialisti” proporre misure antiumane come quelle propugnate da Simonetta Sommaruga nel quadro dell’ennesima riforma delle politiche d’asilo? Quante volte ancora un ministro socialista - chi vuole intendere, intenda - proporrà tagli nell’istruzione pubblica, andando esattamente in direzione opposta a quelli che dovrebbero essere gli obbiettivi politici auspicabili? Qualche mese fa, nel quadro del dibattito sull’elezione diretta del Consiglio Federale, Micheline Calmy-Rey – apportando inaspettatamente il suo sostegno all’iniziativa – attirava l’attenzione dei militanti socialdemocratici sui mille compromessi inevitabili che ogni candidato socialista doveva fare coi partiti borghesi per poter assicurare la sua elezione. Benché una candidatura e una partecipazione alle elezioni governative possano essere utili da un punto di vista strategico, fornendo ai cittadini delle alternative anti-sistema e fungendo da cassa di risonanza (è stata infatti questa la scelta del Partito Comunista durante le elezioni cantonali del 2011), la totale integrazione della socialdemocrazia elvetica nelle logiche consociative e collegiali dovrebbe far riflettere. Se questi sono il modo e la strategia che la sinistra ha scelto per opporsi alle logiche di potere dominanti, permetteteci di dissentire. Non solo risulta impossibile, attraverso questa prassi politica, propugnare un vero cambiamento; ma è evidente che una tale strategia rende la vita più facile alla destra borghese e reazionaria che, attraverso un abile procedimento mediatico e culturale, fa passare l’idea che “tanto sinistra e destra è uguale”, avvantaggiando così il qualunquismo, l’appiattimento sul pensiero unico neo-liberale, la spoliticizzazione. Serve ancora una sinistra che, pur di rinunciare alla governabilità, ai seggi in CdS e in CF, pensi all’estendersi della sua base elettorale e militante tra i giovani, gli scontenti, i disoccupati, e tutte le forze potenzialmente rivoluzionarie della società. Serve
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ancora una sinistra che attiri l’attenzione delle masse sull’incompatibilità esistente tra gli interessi dei lavoratori (e della stra-grande maggioranza della popolazione) e quelli del capitale e dell’infima minoranza che lo gestisce; altrimenti detto, che rimetta la lotta di classe al centro del suo agire e del suo pensare politico. Attraverso le colonne di Politica Nuova, il PSA si chinò anche su altri aspetti, quali, per esempio, l’internazionalismo e l’anti-imperialismo, più che mai attuali nel Ticino e nella Svizzera dei giorni nostri, che vivono una delle fasi più tristi della loro storia, con una destra nazionalista e xenofoba largamente trionfante. Se i danni dell’economia mondializzata e neo-liberista sono ormai sotto gli occhi di tutti, non saranno certo le politiche xenofobe volute da una parte del padronato (UDC e Lega) a risolvere i problemi della libera circolazione; le votazioni completamente insensate su minareti, burqa ed espulsione dei criminali stranieri lo dimostrano ampiamente. Tuttavia, sono proprio state le politiche strutturalmente filo-europeiste propugnate dalla socialdemocrazia nostrana ed europea, ad aver favorito e provocato lo smantellamento dei diritti sociali e sindacali dei lavoratori indigeni, favorendo così il loro spostamento a destra. Se l’internazionalismo deve dunque essere rimesso al centro del dibattito politico, per contrastare la “paura del diverso” che serpeggia tristemente in Occidente, esso dev’essere obbligatoriamente inserito in una visione di classe delle relazioni internazionali. Se manca quest’ultima, l’internazionalismo non può che trasformarsi in un transnazionalismo che, più che essere benefico per i lavoratori e gli sfruttati del mondo intero, serve essenzialmente gli interessi del capitale. Va ulteriormente sottolineato il ruolo del PSA nell’opera di ripoliticizzazione della società ticinese, una battaglia impari già all’epoca. Contrastare il pensiero unico dominante e vincere l’apatia della popolazione attraverso le colonne di un giornale, con poche risorse finanziarie disponibili, fu una sfida immensa, che, logicamente, si poté svolgere solo in parte. Attualmente, un tale intento politico appare ancor più arduo, con l’emergere della telecrazia e con l’avvento della comunicazione audiovisuale. L’egemonia culturale neo-liberista, in tal senso, poggia su basi solide, che potranno essere erose solo con un intenso lavoro di lungo periodo. Ma ciò non esclude – anzi - l’impellente necessità di agire fin da subito e non giustifica, in nessun caso, la scelta intrapresa dall’intera socialdemocrazia europea durante gli ultimi vent’anni, ovvero di un appiattimento e di un accettazione acritica del pensiero unico dominante. Politica Nuova forniva infatti, settimanalmente, analisi approfondite, sia a livello teorico-ideologico che politico, e ciò proprio perché i redattori erano consci che una qualsivoglia forma di ripoliticizzazione delle masse non avrebbe avuto luogo qualora queste non avessero potuto fruire di strumenti d’analisi
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adatti. Al giorno d’oggi contro-informazione, analisi critica e denuncia sembrano viceversa essere dei termini scomparsi dal vocabolario della sinistra ticinese e confederata. La ripoliticizzazione della società ticinese, intesa come riappropriazione di un senso critico perduto, non può però che passare da qui, da una contro-informazione costante e puntuale, da un’analisi critica e sufficientemente approfondita della società in cui viviamo. #Politicanuova, edito dal Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC), nasce proprio allo scopo di risvegliare i cittadini ticinesi dal torpore letargico nel quale sono entrati da ormai troppo tempo; permetter loro di accedere a notizie e ad analisi altrimenti ignorate dai massmedia dominanti; unica soluzione possibile per instaurare nel nostro paese una vera e propria democrazia, che sia degna di questo nome, in cui il cittadino sia veramente informato e agisca con cognizione di causa.
●● Conclusione... per il momento Le “lezioni” che il PSA, durante la sua breve esistenza, ha impartito sono innumerevoli, e tali da dover essere sviluppate in uno spazio ben più ampio. Non dimentichiamoci però l’ultima e più importante lezione che i Socialisti Autonomi ci hanno trasmesso: nel cambiamento, perché esso possa essere davvero realizzabile, bisogna crederci. Ed è forse proprio questo che manca alla sinistra odierna: affiatamento, fiducia e progettualità. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana è una formazione composta in gran parte da giovani, i quali, forse, posseggono fin troppe speranze e progetti. Riteniamo però che siano essi che ci spingono, giorno dopo giorno, ad impegnarci costantemente nella realtà che ci circonda; ma sopratutto pensiamo che, senza un progetto alternativo, la sinistra (quella vera) non ha più nessuna ragione di esistere. Un altro mondo è possibile, e forse la sinistra europea dovrebbe solo crederci un po’ di più
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Questo capitale è prevalentemente fittizio, cioè capitale non derivante da un processo produttivo di ricchezza. Esso è generato soprattutto per mezzo del debito pubblico e in legame alla creazione di moneta a esso corrisposto.
2 Per maggiori informazioni sulle caratteristiche del capitalismo finanziario di stato e sul ruolo dell’abbassamento della curva di progressività del prelievo fiscale vedi: Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek, Roma 2013. 3 Quattro pacchetti di diminuzione dell’onere fiscale (sia per le persone fisiche che per quelle giuridiche) per un ammontare complessivo di circa 240 milioni di franchi all’anno (Amministrazione federale delle contribuzioni, Fiskaleinnahmen des Bundes 1998-2002). 4
La tassazione sul dispendio è basata su una serie di parametri concernenti il tenore di vita delle persone soggette.
5 A questo proposito bisogna ricordare l’iniziativa parlamentare presentata dal Granconsigliere eletto sulla lista del MpS-Partito Comunista Matteo Pronzini nel settembre 2011, che ne chiedeva l’abolizione. 6 Iniziativa parlamentare: “Abolizione dell’imposizione secondo il dispendio per stranieri facoltosi” di M. Pronzini, Settembre 2011. 7 Nelle Linee direttive e Piano finanziario 2008-2011 si ammette che le difficoltà finanziarie dello Stato in quel periodo erano dovute alla politica di continua defiscalizzazione in atto. 8 Basti pensare allo sciopero del settore pubblico e para-pubblico contro i tagli previsti dal Preventivo 2013 del Cantone, in parte ridotti dopo la mobilitazione.
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Aumento delle diseguaglianze economiche, riduzione dello stato sociale e aumento del debito pubblico: le conseguenze della diminuzione della pressione fiscale
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gisce privilegi, è il metodo sempre più diffuso dell’imposizione globale, per cui un crescente numero di persone – i cosiddetti globalisti – che non svolgono un’attività lucrativa in Ticino, sono tassate in base al dispendio.4 Essi sono perlopiù stranieri facoltosi che scelgono questo tipo d’imposizione perché meno oneroso del metodo di imposizione classico.5 Negli ultimi anni il numero di persone che hanno beneficiato della tassazione globale in Ticino è aumentato considerevolmente, passando da un totale di 440 nel 1999 a 523 nel 2006 e 877 nel 2012.6
Alessandro Lucchini Non si possono separare le dinamiche che hanno caratterizzato l’evolversi della situazione economicofinanziaria del Canton Ticino dalle logiche che hanno contraddistinto il formarsi e l’evolversi del capitalismo finanziario di stato. Oggigiorno lo Stato - come elemento sovrastrutturale e di classe - guida la fase di produzione di capitale1 e presiede il trasferimento di reddito dalle classi lavoratrici alla borghesia. Lo Stato utilizza svariati modi per mantenere e rafforzare i privilegi della classe dominante. Elemento proprio del capitalismo finanziario di stato è la riduzione della progressività del prelievo fiscale sui redditi, sul patrimonio, sull’utile e sul capitale aziendale. Fino alla prima metà del secolo scorso, la borghesia contribuiva “adeguatamente” al mantenimento del “proprio” Stato. Basti pensare, a titolo d’esempio, che durante la legislatura del Repubblicano Hoover, nel periodo tra il 1929 e il 1933, negli Stati Uniti le imposte sul reddito raggiungevano il 72%, mentre durante il New Deal del democratico Roosevelt queste potevano arrivare fino al 92%.2 Il risultato più evidente dei governi che hanno praticato la riduzione della progressività fiscale è stato un forte indebitamento pubblico. Le classi abbienti, oltre ad avere beneficiato di varie forme di privilegi fiscali (tuttora in vigore), si sono arricchite grazie agli interessi percepiti in seguito all’acquisto - con i soldi risparmiati dalle concessioni fiscali (e non solo) - dei debiti pubblici, alimentati essi stessi proprio da questo mancato introito. In Ticino l’offensiva alla riduzione delle imposte ha avuto il suo culmine nel 1998 con le politiche3 proposte e difese dall’ex ministra delle finanze Marina Masoni, la quale ha portato l’indice di pressione fiscale aziendale sotto la media nazionale. Poco più tardi anche la pressione fiscale sulle persone fisiche è stata alleggerita: dal 2000 al 2003 l’indice generale calcolato su reddito e patrimonio, il quale già sin dall’inizio degli anni ’90 era inferiore alla media svizzera, è diminuito di più del 30% rispetto alla media nazionale. Un altro segnale di come il sistema fiscale sia uno strumento con cui la borghesia si elar-
In Ticino l’evidente abbassamento del prelievo fiscale è uno degli elementi centrali per comprendere i deficit di bilancio del Cantone che si sono susseguiti dal 2003 al 2013, elevando il debito cantonale accumulato da 1 miliardo a 1.7 miliardi di franchi.7 Questo sistema, che favorisce l’accumulo di capitale della borghesia e che crea voragini nei conti pubblici, serve poi alla classe dominante per giustificare misure di austerità che mirano alla distruzione dello stato sociale. In Ticino, negli ultimi anni, abbiamo assistito a una costante offensiva da parte di Governo e Parlamento alle condizioni di lavoro e di salario del personale,8 e a tentativi di tagli alle prestazioni sociali.9 Il debito pubblico non deve essere motivo di preoccupazione, a maggior ragione fino a quando – come è tendenza ormai consolidata - si riscontrano interessi negativi legati al debito inferiori agli interessi positivi provenienti dal patrimonio cantonale.10 Inoltre la schizofrenia attuale dei partiti di governo ai danni del debito pubblico è ingiustificata anche confrontando i dati storici: nei primi anni ‘80 il debito pubblico del cantone si è costantemente tenuto al di sopra del miliardo di franchi, con cifre simili a quelle che viviamo in questi anni. Un debito pubblico sicuramente più “pesante” di quello di oggi, dato che è corretto rapportarlo al Prodotto Interno Lordo di quel periodo. La classe politica cantonale rigetta l’utilizzo di una politica anticiclica11 per promuovere invece misure recessive che seguono i fallimentari strumenti – come il Fiscal Compact - dell’Unione Europea. Il freno al disavanzo recentemente accettato in votazione popolare introduce nella costituzione il principio dell’equilibrio finanziario e mette delle rigide limitazioni al ruolo anticiclico della politica
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economica statale: il bilancio cantonale annuale non potrà presentare un disavanzo d’esercizio superiore al 4%12 delle entrate correnti. In caso di sforamento del tetto prestabilito sarà sempre più difficile poter fare affidamento sull’aumento delle entrate tramite l’innalzamento del gettito fiscale poiché sarà necessaria la maggioranza di due terzi di un parlamento in cui con ogni probabilità anche in futuro vigeranno dei rapporti di forza che impediranno d’intaccare i privilegi fiscali finora elargiti. Sarà dato via libera alla riduzione della spesa pubblica con una direttiva ancorata nella costituzione.
Se da una parte vediamo uno Stato che elargisce privilegi alla borghesia tramite un alleggerimento della pressione fiscale, dall’altra vediamo come l’aumento delle tasse indirette - cioè quelle imposizioni applicate indipendentemente dalle condizioni finanziare del soggetto contribuente, come l’imposta sul valore aggiunto (IVA) aumentata nel 201113, la tassa sul sacco, ecc. – vadano a gravare sempre più sulle classi meno abbienti. Queste politiche hanno accresciuto le ricchezze possedute da una ricca minoranza della popolazione. In Ticino, come si può vedere dal grafico sottostante, nel 2003 il 2% più ricco della popolazione possedeva il 38% della ricchezza totale, mentre nel 2010 il 3% ne possedeva il 53%. Nello stesso periodo si è riscontrato un aumento della percentuale che ha dichiarato di possedere nessun patrimonio: dal 25% al 32% in sette anni, cioè da 53‘000 a 77‘000 ticinesi. Dal 2003 al 2010 i contribuenti che possedevano più di 10 milioni di patrimonio sono più che raddoppiati: passando da 136 a 323 unità. Il Ticino per il suo basso prelievo fiscale e i vari privilegi è tutt’ora considerato una meta per i milionari e miliardari.
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Per fermare questa crescente disuguaglianza di ricchezza servono misure incisive sul sistema fiscale. Un primo piccolo passo dovrà essere l’abolizione dell’imposizione globale. Con ciò, nessuno più deciderebbe di essere tassato secondo i parametri che fanno a lui più comodo e, inoltre, si aumenterebbero in modo importante le entrate fiscali cantonali, con lo scopo di distribuirle come “paracaduti” sociali alle fasce meno abbienti.14 Per livellare le crescenti differenze patrimoniali si rende necessaria una tassa patrimoniale15 che vada a prelevare risorse da quel 2% della popolazione (vedi grafico) che possiede più della metà della ricchezza cantonale. Un contributo dell’1% a partire da un patrimonio di 1 milione di franchi (esclusa la prima casa) permetterebbe di incassare circa 340 milioni di franchi: quasi il doppio del deficit d’esercizio a consuntivo 2013. Non da ultimo, in un contesto di effettivi e preannunciati tagli alla spesa sociale - i quali il più della volta appaiono come lineari, cioè indipendenti dallo stato sociale dei cittadini - l’inserimento di uno strumento16 efficace di misurazione reale della ricchezza delle famiglie, permetterebbe di concedere tutta una serie di servizi e prestazioni rapportandoli in modo adeguato tramite un calcolo che considera il reddito e il patrimonio famigliare.
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Basti pensare al tentativo di taglio ai sussidi di cassa malati recentemente respinto dal popolo dopo il successo del Referendum sostenuto da PS, PC, MpS, Verdi e UDC.
10 Si veda a Consuntivo cantonale le voci riguardanti il saldo degli interessi a carico del Cantone e quello degli interessi positivi provenienti dal patrimonio. 11
In un momento di recessione, lo Stato dovrebbe poter aumentare il proprio debito pubblico per elargire le necessarie prestazioni sociali ai soggetti colpiti dalla crisi.
12 Il limite sale al 5% in caso di grave crisi economica. 13
L’Iva è aumentata a gennaio 2011 e rimarrà maggiorata di 0,4 punti – da 7,6% a 8% per l’aliquota normale per la durata di sette anni (aumento di 0,1 punti per l’aliquota ridotta e 0,2 punti per l’aliquota speciale delle prestazioni nel settore alberghiero).
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L’abolizione permetterebbe anche di aumentare le entrate rispetto a quelle prospettate con l’aumento della soglia del reddito minimo imponibile per i contribuenti soggetti alla tassa dai 200’000 ai 400’000 franchi decisa dal Governo a Ottobre 2013.
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Il Partito Comunista propone la tassa dei milionari, maggiori informazioni: http:// tassadeimilionari. wordpress.com
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In questo senso il Partito Comunista propone un indice simile e contestualizzato alla realtà ticinese dell’indice ISEE, nato in Italia negli anni ottanta/novanta.
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Politica agricola: quale la situazione elvetica? Marco Brignoli Se esiste in Svizzera un ambito in cui il controllo dello Stato è ancora predominante questo è senza dubbio il settore primario, che però ha un’importanza assai relativa nell’economia nazionale, rappresentando l’1.3% del PIL, e in costante decrescita come valore prodotto rispetto al resto dell’economia nazionale(Grafico 1).
➊ In attuazione dell’art. 104 della Costituzione, che chiede un settore primario ecologico che riesca a garantire il sostentamento della popolazione, circa il 37% del territorio Svizzero è utilizzato per scopi agricoli (piantagione ed allevamenti), e la superficie coltivata in permanenza rappresenta il 10,6% della superficie totale (Grafico 2), ovvero un po’ meno del 13,4% della media europea ed il 11,3% di quella mondiale.
➋ Tanto quanto il valore prodotto anche il numero degli occupati nel settore agricolo è diminuito in modo drastico, passando - all’incirca - dai 300’000 addetti del 1980 agli attuali 150’000, di cui ben il 56% percento lavora a tempo parziale rispetto ad una media nazionale del 34%. È però significativo che ben il 94% delle aziende agricole svizzere sono famigliari: questo fatto spiega il dato precedente relativo al lavoro parziale, che indica sovente la necessità d’integrare altri redditi a quello agricolo per poter sbarcare il lunario. Sono pure diminuite in modo sostanzioso le aziende agricole, che rispetto agli anni 90 sono ben il 47% in meno, ed il trend negativo non accenna ad arrestarsi. Va però notato che il numero delle aziende bio mostra un trend positivo, anche se negli ultimi anni vi sono state delle difficoltà dovute ad una crescita del mercato inferiore a quanto prono12 - 13
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sticato ed alle difficoltà intrinseche di questo tipo d’agricoltura, che richiede agricoltori particolarmente formati, motivati e sostenuti dallo Stato. Restando comunque negli anni la superficie dedicata all’agricoltura abbastanza costante, nonostante la speculazione edilizia, la Superficie Aziendale Utile (SAU) media è aumentata in modo costante, attestandosi a 18.3 ettari nel 2011 (Grafico 3), rispetto ad una media europea del 2010 di 14, dato che è in evidente contrasto con la comune opinione che le aziende agricole svizzere siano sempre ben più piccole di quelle degli stati che ci circondano (Grafico 4).
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➍ Nel 2011, il reddito da lavoro per manodopera familiare ammontava mediamente a 43’500 franchi, il reddito agricolo per azienda a 59’500 franchi. Quasi un terzo del reddito complessivo di un’economia domestica agricola proviene da attività diverse dall’agricoltura, e se prendiamo come referenza un reddito medio mensile di 6’750 franchi per la Svizzera nel 2011, i 3’625 franchi degli agricoltori non erano che il 53% del salario medio nazionale, ovvero una situazione vicina alla povertà relativa per molti, soprattutto nelle regioni di montagna. Reddito che oltretutto è mediamente garantito almeno al 65% dai contributi agricoli forniti dall’ente statale: se si toglie il 33% medio di reddito dovuto ad attività extragricole, si giunge alla conclusione – incredibile - che la vendita dei prodotti agricoli non rappresenta che pochi punti percentuali dei redditi delle aziende attive nel primario in Svizzera. La realtà è in effetti un po’ più complessa, essendovi invero molte aziende di montagna per cui i contributi statali rappresentano un 90% del reddito, come pure – però - grandi aziende di pianura di grandi dimensioni che sono addirittura escluse dai contributi agricoli. In ogni caso la situazione è quantomeno paradossale: se da una parte il grado di sfruttamento del budget pubblico è molto importante (14 miliardi previsti in vista della Politica agricola 2014-2017: Ufficio Federale dell’A-
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Quali sbocchi politici concreti? Il sindacato dei contadini Uniterre ha annunciato che prossimamente lancerà l’Iniziativa “Per la sovranità alimentare”, che tratteggia le auspicate linee direttive dell’agricoltura in Svizzera: ● Garanzia dell’agro-diversità (mantenimento di piccole, medie e grandi aziende, su base famigliare, cooperativa o collettiva) e dell’accesso alle semenze, e preservazione delle terre coltivabili ● Prezzi equi per i prodotti agricoli, gestione delle quantità da parte dei produttori e trasparenza del mercato
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gricoltura), dall’altra si dispone una dinamica di sfruttamento dei produttori primari1, un gruppo socialmente sfavorito. A trarne vantaggio sono esclusivamente le catene commerciali, che conseguono sostanziosi utili, acquistando a basso prezzo i prodotti agricoli: di conseguenza, in tale dinamica, gli stanziamenti federali sono funzionali agli interessi di questi attori economici. Per correggere una situazione evidentemente sfavorevole per i contadini, e meglio soddisfare i dettami costituzionali (vi sono diversi obiettivi tuttora non raggiunti dalla politica agricola), la Confederazione nel 2010 ha lanciato un’iniziativa chiamata “Agricoltura e filiera alimentare 2025”, che prevede, per esempio, una sicurezza dell’approvvigionamento ottimale, la salvaguardia della basi vitali e del paesaggio rurale. (Nel Grafico 5 vengono riassunti schematicamente i temi trattati in questa iniziativa).
● Condizioni di lavoro corrette per i lavoratori agricoli ● Approvvigionamento prevalentemente di derrate alimentari e foraggiere sostenibili e locali ● Protezione alla frontiera contro il dumping sociale e ambientale, rinunciando, in contropartita, alle sovvenzioni rivolte all’esportazione; norme sociali e ambientali negli accordi commerciali ● Sviluppo di filiere locali di trasformazione per avvicinare produttori e consumatori, garanzia della tracciabilità e dell’informazione ai consumatori sulle derrate (indigene e importate) e fissazione di proprie norme di qualità Oltre a ciò va ricordata altresì l’Iniziativa della JUSO “Stop alla Speculazione”, che mira ad inserire nella Costituzione federale delle prescrizioni atte a combattere l’affermarsi di vorticose dinamiche finanziarie sui prodotti alimentari. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC), dal canto suo, sottolinea in modo particolare il valore strategico di una produzione di qualità e ad alto valore aggiunto, che preveda l’implementazione di tecnologia (socialmente e ambientalmente compatibile) in ogni punto della filiera e l’affermarsi di sinergie organizzative tra gli attori di quest’ultima. In un contesto di mercato globalizzato, infatti, la tutela della produzione agricola elvetica si dovrebbe legare ai vantaggi di posizione dati dal suo carattere d’avanguardia, e non in misura principale dal protezionismo.
➎ È però preoccupante, visti i dati salariali precedenti, che la Confederazione non ritenga necessari miglioramenti a livello sociale per gli agricoltori, affermando addirittura che i redditi agricoli sono migliorati e comparabili con il resto dell’economia svizzera, fatto smentito crassamente dai dati e dai fatti. La situazione peggiorerebbe in modo ancora più marcato nel caso la Svizzera stipulasse un accordo di libero scambio con l’UE2 che includesse anche i prodotti agricoli, visti i differenti livelli di costi di produzione tra la Svizzera ed il resto dei paesi che ci circondano.3 Una simile evoluzione porterebbe – nel caso in cui si perseguisse meccanicamente l’attuale prassi delle sovvenzioni a completamento del reddito, stabilite ogni quadriennio in base alle previste necessità alla situazione, improbabile nel quadro dell’attuale sistema economico, fondato sulla concorrenza tra i produttori, di avere contadini con un 100% del reddito garantito dallo stato e costretti a regalare alle grandi catene i loro prodotti per poterli smerciare. Dato che realisticamente non si andrà verso un tal scenario, ciò che potrà avere luogo qualora si aprisse il mercato agricolo con l’Unione Europea, è un processo di arretramento dei piccoli produttori a vantaggio dei grandi produttori, gli unici in grado di affrontare la concorrenza dei prodotti europei.
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Essi svolgono un ruolo importante poiché, con la loro attività, garantiscono il protagonismo delle aree periferiche, stimolandone il dinamismo e creandovi redditi rientranti in parte importante nel circuito economico regionale.
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Va segnalato che già attualmente è in vigore, tra Svizzera e Unione Europea (UE), un accordo di libero scambio concernente le derrate casearie.
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Le varie associazioni di categoria, per quanto riguarda il prezzo del latte, da tempo rivendicano la soglia minima di 1 Franco al litro. Tuttavia, con un ipotetico accordo di libero scambio con l’Unione Europea (UE), i produttori svizzeri sarebbero confrontati con un livello dei prezzi di molto inferiore, dato che attualmente nel mercato europeo il prezzo di un litro di latte si aggira attorno ai 40 centesimi di Euro. Per maggiori informazioni: http:// www.uniterre.ch
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1 I primi accordi bilaterali (1999) contengono sette accordi - libera circolazione delle persone, ostacoli tecnici al commercio, appalti pubblici, agricoltura, ricerca, trasporto aereo e trasporti terrestri - i quali perseguono l’obiettivo di una vicendevole apertura e di una liberalizzazione dei mercati. I secondi accordi bilaterali (2004) riguardano nove accordi - Schenghen/Dublino, fiscalità del risparmio, prodotti agricoli trasformati, media, ambiente, statistica, lotta contro la frode e pensioni - e puntano a rafforzare la cooperazione economica nei settori già sviluppati nel primo accordo, estendendola ad altri campi. 2
Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
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Si veda anche l’articolo “Il ruolo della Svizzera nell’internazionalizzazione del renminbi”, presente sul numero 3 di #politicanuova. http:// issuu.com/politicanuova/ docs/politicanuova03
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Tra questi emergono probabilmente i vari settori della medicina specialistica.
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Pur essendo una risorsa importante per il panorama elvetico della ricerca, si legano ad un percorso di mercificazione, che dovrà essere superato. Per un approfondimento sulla mercificazione dell’insegnamento: Mattia Tagliaferri, Una politica scolastica che si allontana dal bisogno dei giovani e da una società democratica - secondo quaderno di formazione del Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA) - 2008.
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Si tenga ad esempio in considerazione da un lato che la Gran Bretagna, forte del suo passato di detentore della valuta internazionale di riferimento, gestisce una delle piazze finanziarie (Londra) tra le più importanti al mondo e tra le più quotate per la gestione.
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Sul post-9 febbraio: scenari e alternative Mattia Tagliaferri Lo scorso 9 febbraio 2014 la popolazione svizzera ha approvato l’iniziativa popolare lanciata dall’Unione Democratica di Centro (UDC) intitolata “Contro l’immigrazione di massa”, la quale – attraverso un contingentamento della popolazione straniera – mette in discussione i rapporti con l’Unione Europea (UE) e l’esistenza degli accordi bilaterali.1 Gli scenari possibili sembrano due: o una sciovinistica cavalcata verso l’autarchia, o una più probabile edulcorazione dei contenuti dell’iniziativa in questione. Non vanno però dimenticati i rapporti con i BRICS 2 , soprattutto considerando l’Accordo di Libero Scambio recentemente siglato dalla Svizzera con la Cina.3 ●● Contestualizzazione Il risultato della consultazione popolare dello scorso 9 febbraio ha visto l’imporsi dell’iniziativa popolare UDC “Contro l’immigrazione di massa”, la quale da un lato mette in discussione gli attuali rapporti della Svizzera con l’UE e dall’altro segna una svolta nella strategia dell’UDC, che si pone oltre la classica impostazione razzista e xenofoba, mettendo al centro dell’agenda politica – per quanto implicitamente – la categoria dello sciovinismo. L’immediato post-9 febbraio ha esplicitato il carattere irrazionale del voto in questione, cosa che certo non deve stupire, visto la modalità di campagna e marketing politico incentrate sulla ricerca dello slogan urlato e d’impatto e non sulla necessità di informare e approfondire: in molti sembrerebbero infatti aver compreso solamente dopo il voto quale fosse la concreta posta in gioco. Le reazioni dell’UE sono state immediate e categoriche: l’introduzione di contingenti all’immigrazione mette in discussione la libera circolazione delle persone, uno dei pilastri dell’Europa odierna, aprendo ad un’incompatibilità rispetto agli accordi bilaterali attualmente in vigore. I comunisti sono certo consci dei problemi causati dall’introduzione degli accordi bilaterali, in modo particolare per quanto riguarda la problematica del dumping salariale. È chiaro che i contenuti dei bilaterali non possono essere assolutizzati in negativo: questi infatti garantiscono agli studenti elvetici la possibilità di eseguire una formazione all’estero (il cui titolo è riconosciuto in Svizzera); pongono le basi affinché stranieri altamente qualificati possano occupare posti di lavoro per i quali la Svizzera fatica a formare gli effettivi necessari4 ; si legano ai programmi europei di ricerca, nei quali la Svizzera è inserita, e che costituiscono un importante fattore5 per la costruzione di un’economia ad alto valore aggiunto. Ciò che, nell’ambito di uno sguardo complessivo, occorre sottolineare è che la libera circolazione delle persone non è un proble-
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ma in sé, ma si pone come tale perché essa è subordinata alla libera circolazione dei capitali. Una risposta alle problematiche poste dalla cosiddetta globalizzazione dovrebbe quindi affrontare il controllo della circolazione dei capitali, manovra che non richiederebbe peraltro misure rivoluzionarie: introduzione di salari minimi e rapporto degli stessi con l’aumento del costo della vita; proibizione di licenziare per motivi economici, ponendo così un freno alle delocalizzazioni; proibizione di incentivare, attraverso regali fiscali, l’insediamento di aziende straniere sul territorio locale. Possibili sviluppi dei rapporti tra Svizzera ed UE Per quanto si debba tenere presente il rapporto di forza tra Svizzera ed UE, certamente favorevole a quest’ultima, sia considerando il ruolo internazionale e storico delle sue principali economie sia guardando al numero di abitanti6, è legittimo pensare che l’UE non intenda sbarazzarsi a cuor leggero dei rapporti economici, politici e culturali con la Svizzera. Si può pertanto presumere che le accese reazioni delle classi dirigenti dell’UE siano parzialmente dettate da contingenze interne alla stessa Unione: in questo senso è centrale la comprensione del ruolo giocato dalle elezioni tenutesi lo scorso 25 maggio. La reazione dell’UE al voto svizzero che più di tutte è balzata agli onori della cronaca è certamente stata l’esclusione dai programmi Erasmus, contromisura che – assieme alle molte esternazioni di condanna7 – è probabilmente servita alla classe dirigente europea a tentare di avviare un contenimento al crescente anti-europeismo, il quale – già nel mese di febbraio – sembrava in procinto di incamerare molti consensi elettorali alle Europee di maggio. Il risultato degli anti-europeisti dei singoli paesi del Vecchio Continente ha in effetti registrato una generale crescita8, ma allo stesso tempo si sono presentate situazioni difficilmente prevedibili, come la sconfitta del Movimento 5 Stelle in Italia, a vantaggio di un rinato Partito Democratico. Quanto lo spauracchio agitato dai governanti europei, i quali hanno usato la Svizzera come cavia per mostrare i possibili effetti nefasti di un allontanamento dall’UE, sia stato efficace o meno non è possibile dirlo con precisione – soprattutto considerando i risultati almeno parzialmente discordanti tra i singoli paesi – ma è molto probabile che l’intenzione dei leader dei cosiddetti paesi forti dell’Europa e dell’establishment dell’UE sia proprio stata quella di creare un freno alla disaffezione nei confronti del progetto dell’Europa unita. Considerando questa ipotesi è pertanto possibile pensare che – ora che le Elezioni europee sono passate – si tenterà di mettere in atto una cucitura dei rapporti tra Svizzera ed UE, partendo da un’edulcorazione dei contenuti dell’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa”, concretamente attuabile con l’introduzione di contingenti tanto larghi da rendere vana una reale applicazione di quanto richiesto ●●
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dall’UDC. Nessun elemento può far pensare che il Consiglio federale non sia intenzionato a muoversi in questo senso, soprattutto considerando che, per la Svizzera, l’UE rappresenta il primo partner commerciale (Fonte: Amministrazione federale delle dogane), così come la Svizzera è fra i maggiori partner dell’UE (Fonte: Eurostat). L’alternativa allo scenario rappresentato sarebbe quello di percorrere una via sciovinistica dello sviluppo economico, con tutte le conseguenze nefaste del caso, soprattutto considerando che la Svizzera non ha nel suo territorio alcuna materia prima (ad eccezione dell’acqua) e soprattutto che la bilancia commerciale9 elvetica è estremamente positiva per via proprio dell’importazione di materie prime e della parallela esportazione di prodotti finiti ad alto valore aggiunto (Fonte: Dipartimento Federale delle Finanze). Si può presumere che neppure tutta l’UDC veda di buon grado un’opzione tanto drastica, in quanto difficilmente si può immaginare che un personaggio come Christoph Blocher, uno dei principali imprenditori svizzeri – tanto nel settore industriale quanto nella finanza – sia interessato a veder ridimensionati i suoi affari. Non è da escludere che l’UDC sia stato mosso anche dalla volontà di mandare in porto un’iniziativa che molto difficilmente potrà essere concretamente attuata, potendo così puntare su un attacco frontale al Governo, facilmente attaccabile di subordinazione ai dettami di Bruxelles. L’UDC e la politica dello sciovinismo L’iniziativa popolare UDC “Contro l’immigrazione di massa” è l’ultima di una lunga serie di campagne politiche che i democentristi hanno portato a compimento negli ultimi anni, e molte di esse erano intrise di razzismo e xenofobia: dall’iniziativa contro l’edificazione dei minareti alla campagna sulle cosiddette “pecore nere”. La novità portata da quanto si è votato lo scorso 9 febbraio è il carattere sciovinistico della medesima, che va analizzato contestualmente alla crisi economica in corso. L’attuale crisi di sovrapproduzione richiederebbe infatti - capitalisticamente parlando - una distruzione del capitale in eccesso oppure un allargamento della sfera di influenza dello stesso. All’interno di un mondo fortemente globalizzato come quello contemporaneo, l’allargamento della sfera di influenza del capitale può passare unicamente come fase successiva alla distruzione di un capitale concorrente10, ovvero per mezzo della deindustrializzazione pacifica di un’economia concorrente,11 oppure attraverso una guerra12. Alternativa possibile è però anche quella di far pagare i costi della crisi alla popolazione, concretamente – almeno nel caso Svizzero – riducendo l’ingente fetta di aristocrazia operaia13, per la quale va creato un capro espiatorio (lo straniero di condizioni meno agiate) capace di convogliare su di sé le frustrazioni dettate dalla progressiva perdita di uno status privilegiato14. All’interno dell’UDC potrebbe quindi essere corret●●
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to indicare - con un esercizio di semplificazione dello stato di cose presenti - due distinte tipologie di borghesia, entrambe di carattere anti-progressista: la prima avente l’obiettivo primario di far crescere la compagine governativa democentrista, anche a costo di portare avanti battaglie politiche - come quella dell’iniziativa richiedente il contingentamento dei lavoratori immigranti - che potrebbero arrecare un danno tangibile all’economia del Paese, ma senza realmente credere che ciò possa seriamente concretizzarsi; la seconda è invece una compagine che vede in una tendenziale autarchia la possibilità di superare la crisi economica. ●● Il voto ticinese e l’economia ad alto valore aggiunto Il voto ticinese (favorevoli al 68,17%) è stato particolarmente influenzato dallo status di cantone di frontiera del Ticino e pertanto dalla questione del numero dei lavoratori frontalieri e dei cosiddetti padroncini. Almeno per quanto riguarda il frontalierato, va ricordato che il numero crescente registrato e sbandierato dai media e da alcune realtà politiche - tra cui pure I Verdi, che escono così esplicitamente dal campo della generica sinistra per tentare di intercettare il voto leghista ormai privato di una realtà politica in grado lanciare chiare indicazioni - andrebbe quantomeno ridimensionato; non si può dimenticare infatti che – con l’introduzione degli accordi bilaterali – i datori di lavoro non sono più tenuti ad annunciare i frontalieri in uscita, facendo sì che il numero degli stessi possa crescere nelle statistiche, anche quando non vi è un corrispettivo aumento degli stessi nell’economia reale15. Quanto è però certo è che sul medio periodo il fenomeno del frontalierato potrebbe instaurare un tangibile effetto di sostituzione dei lavoratori ticinesi impiegati nei settori a più bassa formazione, creando una situazione di grave precariato. Per il Canton Ticino la costruzione di un’economia ad alto valore aggiunto - ovvero un’economia fondata su delle eccellenze tanto nella classica produzione quanto nel lavoro intellettuale (in Ticino già esistono realtà di questo tipo: si pensi ad esempio all’AGIE di Losone e al futuro polo tecnologico industriale correlato alle Officine FFS di Bellinzona per il primo caso, oppure all’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana e all’Istituto di Ricerche in Biomedicina di Bellinzona per la seconda categoria indicata) - diventa quindi ancor più importante che per il resto della Svizzera, o almeno per buona parte di essa, soprattutto considerando che solo la Svizzera italiana ha delle forti interrelazioni, in termini di affluenza di lavoratori, con una realtà statuale fortemente in crisi come l’Italia. Bisognerebbe innanzitutto ragionare su una riforma complessiva del sistema scolastico, partendo dall’innalzamento dell’età per la quale si è soggetti all’obbligatorietà d’istruzione, e quindi stravolgendo l’attuale rapporto esistente tra le Scuole Medie e le Scuole Medie Supe-
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Il ministro dell’industria francese Arnaud Montebourg ha definito il voto svizzero un “suicidio di massa”.
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Va registrato il risultato del Front National in Francia, che con il 24,85% dei voti è diventato il primo partito.
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È la grandezza data dalle registrazioni dei quantitativi di importazioni ed esportazioni delle merci da e verso un paese. Prende il nome di saldo della bilancia commerciale la differenza, positiva o negativa, delle due voci, relativamente alle attività di import ed export di una nazione.
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Risulta particolarmente difficile trovare oggi delle terre economicamente vergini e allo stesso tempo sufficientemente grandi da garantire un assorbimento del capitale in eccesso prodotto. Soltanto gli USA, sfruttando il loro ruolo di possessore della valuta internazionale di riferimento, si permettono di inviare il proprio presidente in Europa a chiedere l’aumento delle spese militari, naturalmente a vantaggio delle industrie statunitensi.
11 Si consideri quanto un paese come la Germania per mezzo della cosiddetta Trojka (UE-Banca Centrale Europea-Fondo Monetario Internazionale) - sta facendo nei paesi dell’Europa mediterranea con le politiche d’austerità. 12
È il caso della politica estera statunitense: si pensi al recente golpe ucraino, e alla Libia (senza dimenticare le guerre in corso da più tempo).
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Un ceto sociale sì appartenente alla classe operaia, ma nel concreto sopraelevato da essa per via delle sue condizioni materiali e della sua coscienza politica non tradizionalmente di classe. L’aristocrazia operaia viene corrotta economicamente attraverso i lauti profitti determinati dallo sfruttamento imperialistico dei paesi della periferia capitalistica. Lenin individuò tale categoria nella classe operaia inglese: essa è oggi riconoscibile - in seguito allo sviluppo economico dei Trenta Gloriosi e all’avvento della cosiddetta società di massa - in buona parte della classe operaia occidentale.
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Aristocrazia operaia in decadenza potrebbe essere un termine adeguato per indicare tale categoria.
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Le statistiche del sindacato UNIA parlano di 50’000 lavoratori frontialieri (impieghi reali) in Ticino, un numero relativamente stabile negli anni (Ticinonews.ch). La cattiva interpretazione delle statistiche è stata pure denunciata dal Consigliere nazionale Marco Romano: questa “battaglia delle cifre” viene strumentalmente portata avanti da quella fetta di classe dirigente che vede in un montante sentimento sciovinistico la chiave per dividere i lavoratori, permettendo un maggiore sfruttamento degli stessi, per arginare gli effetti della crisi.
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L’economia della cultura e della conoscenza inizia a formarsi nei primi anni Novanta, quando - a seguito della deindustrializzazione delle grandi metropoli - si affermano i fattori che porteranno alla rinascita delle città come luoghi dell’economia cognitiva e dell’industria culturale, con una produzione destandardizzata, multidisciplinare ed innovativa. Allen J. Scott, Città e regioni nel nuovo capitalismo, Il Mulino
17 La cooperazione trilaterale - nella quale si presenta un’interazione di tutte le aree del mondo, con l’Occidente fornitore di know how, i BRICS di liquidità e macchinari e gli altri paesi in via di sviluppo di materie prime (oltre che nel ruolo di principali riceventi) potrebbe essere il modello più adeguato. 18 È «un’agglomerazione geografica di imprese interconnesse, fornitori specializzati, imprese di servizi, imprese in settori collegati e organizzazioni associate che operano tutti in un particolare campo, e caratterizzata dalla contemporanea presenza di competizione e cooperazione tra imprese». M. Porter, Il vantaggio competitivo delle nazioni, Mondadori, 1991. 19 Ulteriori informazioni: Giulio Sapelli, Elogio della piccola impresa, Il Mulino, Bologna 2013.
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riori, oltre che imponendo una ricollocazione del ruolo dell’apprendistato. L’obiettivo dovrebbe essere quello di inserirsi virtuosamente all’interno del capitalismo della cultura e della conoscenza16, costruendo dei cluster d’industrie ad alto valore aggiunto, sfruttando la già ampia rete di Piccole e Medie Imprese sparse nel tessuto economico. Un ruolo importante dovrebbe essere inoltre dato alla valorizzazione del territorio, all’interno di un’industria turistica che oggi è lasciata anarchicamente a se stessa e la quale potrebbe essere invece uno dei tasselli vincenti proprio del capitalismo della cultura e della conoscenza. ●● La posizione dei comunisti Considerando quanto espresso sino ad ora - e soprattutto prendendo in considerazione il fatto che con il post-9 febbraio ci sono le premesse per un cambio di fase storica, almeno parziale - il Partito Comunista non può sottrarsi dalla necessità di costruire una strategia adeguata con la quale delineare un’auspicata prospettiva di lungo periodo. La proposta politica e il connesso apparato programmatico debbono realisticamente e scientificamente inserirsi nel solco dello stato di cose presenti, senza proiezioni artificiose e libresche. La conoscenza organica della situazione concreta deve intrecciarsi a un lavoro di elaborazione dell’alternativa, che oggi come non mai deve essere disposta gradualmente. Considerando che, in Svizzera e nel resto dell’Europa occidentale, una prospettiva di rivolgimento radicale della società non si presenta (anzi), è necessario individuare le frazioni di società di carattere non regressivo con cui è possibile instaurare un dialogo e costruire sinergie, con lo sguardo rivolto a un superamento (per quanto parziale), in senso genericamente progressista, dell’attuale fase di crisi, la quale deve essere gestita con metodo e ponderazione, anche e soprattutto pensando alle conseguenze di un suo potenziale inasprimento. Teoricamente la socialdemocrazia dovrebbe rappresentare il soggetto centrale di una tale dinamica: attualmente, tuttavia, ciò appare alquanto arduo, in virtù sia d’un’analisi che si caratterizza per la mancata individuazione delle contraddizioni fondamentali della fase storica (declino dell’Occidente capitalista in connessione alla crisi economica di sovrapproduzione di capitali e merci iniziata negli anni Settanta, della quale la crisi finanziaria del 20072008 non è stata altro che un’evoluzione, e parallelo affacciarsi di economie regionali emergenti, quali i cosiddetti BRICS) e, inoltre, per l’assenza della volontà esplicita di costruire un fronte comune con la sinistra di classe. In ogni caso, i comunisti, nel panorama politico e sociale elvetico, devono operare affinché si sviluppino le coordinate aventi carattere progressivo, e cioè: livelli salariali e reddituali adeguati, necessari per sostenere il potere d’acquisto di coloro i quali sono impegnati nei processi produttivi; investimenti
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massicci di carattere tecnologico, tali da disporre una promozione della produzione ad alto valore aggiunto, unica soluzione affinché, nel contesto di un’economia altamente globalizzata, i prodotti nazionali possano trovare spazio; sviluppo di una cooperazione internazionale non più fondata sui dettami dello sfruttamento neo-colonialistico, ma su un modello di tipo win-win17 che tenga conto della nuova tendenza alla costruzione di un mondo multipolare, anche e soprattutto in considerazione del rischio di una chiusura da e verso l’UE. Per concretizzare quest’ultima indicazione diventa più che mai necessaria un’apertura ai BRICS, i quali si stanno imponendo come ponte fra il vecchio centro imperialistico e la periferia capitalista. Nell’ottica di procedere verso l’ipotesi considerata, si rendono necessari: - uno studio della composizione dell’attuale borghesia svizzera e ticinese, inquadrando di conseguenza il ruolo presente dei suoi partiti e delle singole aree degli stessi, onde capire chi potrebbe essere pronto a un discorso di cooperazione che superi la centralità atlantista che ha contraddistinto il mondo negli ultimi secoli. - uno studio delle realtà capitalistiche che hanno saputo trovare delle forme di controllo economico in grado di garantire - pur tenendo in considerazione la diversa contestualizzazione storica, la quale non permette la mera assunzione assolutizzante di modelli preconfezionati. - uno sviluppo anche per le classi meno abbienti. Andrebbero considerate in particolare le esperienze del New Deal statunitense e l’Italia dell’IRI. - uno studio sul ruolo delle PMI, sulla loro adattabilità al capitalismo della cultura e della conoscenza, sulla possibilità di strutturarle all’interno di cluster18 produttivi in grado di produrre complementariamente e in modo deroutinizzato anche all’infuori della mobilitazione sociale che le ha viste nascere, sulla loro ipotetica indipendenza rispetto ai classici principi dell’accumulazione capitalistica di marxiana memoria19.
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Raddoppio del San Gottardo: superfluo, contraddittorio e contro-producente Francesco Vitali Nel mese di marzo il Consiglio degli Stati ha accettato il progetto del Consiglio Federale relativo alla costruzione di un secondo tubo nella galleria del San Gottardo, motivato con la necessità di risanare, fra il 2020 e il 2025, l’attuale tunnel stradale. La questione è passata al vaglio del Consiglio Nazionale, che ne discuterà nella sessione estiva. I dettami della Costituzione Federale Consideriamo l’articolo 84 (Transito alpino) della Costituzione Federale e compariamolo al Raddoppio del San Gottardo. In esso si afferma che (1) «La Confederazione protegge la regione alpina dalle ripercussioni negative del traffico di transito. Limita il carico inquinante del traffico di transito a una misura inoffensiva per l’uomo, la fauna, la flora e i loro spazi vitali», che (2) «il traffico transalpino per il trasporto di merci attraverso la Svizzera avviene tramite ferrovia. Il Consiglio federale prende le misure necessarie. Eccezioni sono ammissibili soltanto se indispensabili. Esse devono essere precisate dalla legge», e che (3) «la capacità delle strade di transito nella regione alpina non può essere aumentata (...)». Lo stridio, evidente, è confermato da esimi giuristi. Costruendo una seconda canna, la capacità reale teorica raddoppierebbe e si porrebbero le premesse (tecniche e costruttive) per l’incremento del traffico e dell’inquinamento a ciò connesso: un’evoluzione che inoltre cozzerebbe contro il progressivo trasferimento delle merci su rotaia (e cioè con quanto sancito costituzionalmente). Ciò può essere così previsto considerando le dinamiche del passato (dal 1994 si è disposto – fino ad ora vanamente - un periodico tentativo di stralciare l’articolo costituzionale postulante il divieto di incrementare la capacità delle strade di transito nella regione alpina) e i rapporti di forza attualmente in campo. Il Raddoppio aumenterebbe in modo importante l’appetibilità della strada. E certo il panorama europeo degli auto-trasportatori (che all’economia elvetica apporta ben poco), mostratosi chiaramente a favore del Raddoppio e parallelamente a ciò non disposto ad utilizzare la rotaia1, è nelle condizioni – in tandem con i rispetti governi nazionali - di mettere in campo un’energica pressione lobbistica2, che si espleterà nel momento in cui si porrà l’allettante possibilità di aprire alla circolazione tutte e quattro le corsie che sarebbero disponibili a seguito del Raddoppio (trasformando la valle Leventina nel corridoio dei TIR d’Europa), a cui conseguirebbe la paralisi dei già sovraccarichi percorsi viari ticinesi (Mendrisiotto in primis) e svizzeri (Lucerna, Härkingen e Basilea) e la maggiore emissione di ●●
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polveri fini. Si tratta di evitare ulteriori stimoli al trasporto transalpino delle merci su asfalto, che gli svizzeri hanno optato per de-strutturare. Indicativo è uno studio condotto in Tirolo, secondo cui i circa 600’000 veicoli pesanti che transitano attraverso il Brennero, dovrebbero essere trasferiti sull’asse del Gottardo: «un secondo tubo spalancherebbe le porte a questa e ad altre proposte simili avanzate da tutte le regioni che saggiamente cercano di limitare il passaggio dei mezzi pesanti nella regione»3. ●● L’isolamento è uno scenario realistico? I fautori creano allarmismo: il Ticino rimarrebbe isolato. Ciò è poco pertinente, data la possibilità di azionare soluzioni alternative durante il periodo dei lavori: un’équipe di esperti ha saggiato l’opportunità del trasbordo delle auto e dei camion su navette ferroviarie (un’opzione che, inoltre, rispetto al progetto del Raddoppio, costerebbe da 2 a 3 miliardi in meno, che potrebbero essere invece investiti in importanti progetti nelle altre regioni elvetiche)4. I lavori di risanamento si potrebbero concentrare nei mesi invernali, quando il traffico sull’asse stradale del Gottardo è molto minore rispetto al resto dell’anno. Il San Gottardo, peraltro, reca un numero assai considerevole di trafori, realizzati nel corso degli anni; dal 2016 saranno disponibili tre gallerie e, rispettivamente, quattro tubi: il tunnel ferroviario e quello autostradale Airolo-Göschenen e la galleria ferroviaria Alptransit, con due tubi tra Biasca ed Erstfeld; a partire dal 2019 verrà messo in funzione il tunnel di base del Ceneri, che migliorerà la situazione anche per il Sottoceneri, e la nuova linea Mendrisio‐ Stabio‐Varese contribuirà ad allacciare il Ticino con la Svizzera occidentale e Berna (via Sempione e Lötschberg). Nel complesso, «questi tunnel sono in grado di coprire ampiamente le necessità del traffico regionale, nazionale e internazionale»5. È inoltre un’eccezionale occasione per il turismo, che potrebbe intravvedere nella chiusura temporanea un’opportunità al fine di riformare l’offerta, su basi lungimiranti e sostenibili. Peraltro «le ripetute chiusure della galleria stradale del San Gottardo non hanno avuto le tanto sbandierate drammatiche ripercussioni sul turismo ticinese»6, poiché il turismo in Ticino non dipende esclusivamente dalla disponibilità dell’autostrada A2. Vi sarebbero anche le premesse per «rinnovare e modernizzare in senso eco-compatibile e socialmente favorevole l’economia del Cantone, puntando a diminuire in modo sostanzioso e permanente la necessità di movimento di generi alimentari e merci che potrebbero e dovrebbero essere prodotte in loco». In tal senso sarà importante «sovvenzionare la creazione di strutture ad altissimo valore aggiunto nel campo della ricerca: dalla medicina ai poli tecnologico-industriali (ad esempio quello legato alle Officine FFS di Bellinzona)»7.
E la qualità della vita? Alquanto gravi appaiono le conseguenze negative sulla vivibilità in Ticino che un eventuale Raddoppio del San Gottardo comporterebbe: la qualità ●●
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http://www.sud-nord. ch/typo3/fileadmin/ user_upload/nordsuddata/b_documents/ articolo_La_ Regione_130410.pdf
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«Nel 1999, durante la discussione degli accordi bilaterali, la Svizzera ha dovuto cedere sul peso massimo dei camion dell’UE che transitano sulle nostre strade, aumentando il peso da 28 a 40 tonnellate». www. sud-nord.ch
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Secondo uno studio di Markus Kern (Istituto per il diritto europeo dell’Università di Friborgo), basandosi sull’accordo sui trasporti terrestri, l’UE può chiedere l’apertura al traffico di tutte e quattro le corsie non appena saranno disponibili.
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«Simili stazioni di carico sono utilizzate con successo da più di 50 anni al Lötschberg e nel tunnel sotto la Manica tra Francia e Inghilterra. Alle stazioni di carico del Cantone Ticino e Uri si creerebbero centinaia di nuovi posti di lavoro. I tempi di percorrenza rimarrebbero praticamente gli stessi». Cfr. La proposta dell’Iniziativa delle Alpi: “Concetto di Autostrada viaggiante (RoLa) per i camion nella galleria di base del Gottardo” www. alpeninitiative.ch
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www.sud-nord.ch
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«Le due lunghe interruzioni degli ultimi dieci anni sull’asse stradale del Gottardo hanno avuto ben poche ripercussioni negative sul turismo ticinese. Durante la chiusura del 2006 si è potuto constatare che i turisti hanno preso il treno e le Ferrovie federali hanno dovuto potenziare l’offerta di circa 4’000 posti supplementari. Con l’apertura di Alptransit la ferrovia proporrà tempi di viaggio molto attrattivi verso il sud: anche “il fine settimana senz’auto in Ticino” sarà allettante». www.sud-nord.ch
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Risoluzione “Lotta attiva contro la borghesia capitalista che lottizza le grandi opere” approvata dal XXII Congresso del Partito Comunista della Svizzera italiana (18.11.2013). www. partitocomunista.ch
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«Il quantitativo massimo delle polveri fini, livello stabilito dall’ordinanza federale e considerato pericoloso per la nostra salute, superabile al massimo per un giorno all’anno, viene superato annualmente per circa 270 giorni in Ticino». www. sud-nord.ch
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Questo orizzonte costituirebbe un «tassello importante nella prevenzione alle malattie croniche (asma, soprattutto nei bambini) e mortali (tumori polmonari, infarti cardiaci) che in Ticino sono più alte che nel resto della Svizzera. Il traffico delle merci comprende i tre quarti di tutte le emissioni nel tratto alpino su strada». www.sud-nord.ch
10 Ricerca dello studio di pianificazione metron. 11
«L’incidentalità nella galleria autostradale del San Gottardo è molto esigua rispetto all’incidentalità a livello nazionale (<0,1% di tutte le vittime)»; «dai circa 50 incidenti all’anno degli anni novanta, si è passati a una media di 9 incidenti a partire dal 2002». www. sud-nord.ch
12 Studio UPI “Galleria autostradale del San Gottardo. Costruzione di una seconda canna: ripercussioni sulla sicurezza stradale (valutazione d’impatto della sicurezza stradale)”. www.upi.ch 13
www.sud-nord.ch
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L’Iniziativa propone di trascrivere nella Costituzione Federale: «Attraverso opportuni ampliamenti la Confederazione assicura che l’efficienza della rete delle strade nazionali sia adeguata all’aumento del volume del traffico»; «La galleria stradale del Gottardo conta almeno quattro corsie».
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«L’Unione dei trasporti pubblici (UTP), le FFS Cargo e la BLS Cargo hanno informato la stampa che le ferrovie sono pronte a gestire il trasferimento del traffico pesante». www. sud-nord.ch
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dell’aria – già claudicante8 – verrebbe a peggiorare ancor più, dato che il traffico merci comprende i tre quarti di tutte le emissione nel tratto alpino su strada. E, peraltro, il leitmotiv è quello già considerato precedentemente: oltre ad essere nocivo, un tale progetto si pone in contraddizione logica con il percorso di riduzione delle emissioni nocive che si connette organicamente all’orizzonte del progressivo trasferimento delle merci su rotaia9. Anche sul versante della riduzione dell’inquinamento fonico, il percorso da intraprendere qualora si volessero ottenere risultati concreti, è quello dell’abbandono dell’asfalto, dato che «a pari velocità, il livello sonoro prodotto da un autocarro corrisponde approssimativamente al livello sonoro generato da dieci automobili». Simile è il paragone fisico tra automobili e camion, il cui trasferimento su rotaia accorcerebbe anche le colonne ai portali10. È altresì evidente che, oltre alla salute delle popolazioni interessate, una seconda canna del Gottardo, arrecherebbe danni importanti al delicato ecosistema alpino, la cui salvaguardia è fondamentale nell’ottica di costruire un futuro caratterizzata dalla sostenibilità ambientale. Sicurezza: aumento o diminuzione? Il livello di sicurezza della galleria del San Gottardo, che dalle attuali statistiche risulta accettabile (soprattutto dopo l’aumento delle misure di sicurezza a seguito dell’incidente del 2001: potenziamento del sistema di ventilazione, miglioramento delle informazioni ai conducenti, sistema di dosaggio dei mezzi pesanti, ecc.)11, potrebbe essere messo in discussione qualora il traffico aumentasse anche solo del 3 % (e aumentassero in modo importante i camion, già al centro degli incidenti passati), valore che annullerebbe il guadagno in materia di sicurezza ottenuto grazie al Raddoppio della galleria autostradale. Ancora una volta, l’opzione del trasferimento su rotaia si rivela più sicura, più concreta (compimento di Alptransit) e più congrua al volere dei cittadini elvetici. Peraltro, la costruzione di un secondo tubo «non aumenta la sicurezza, come dimostrato da innumerevoli studi»12. Attualmente «le merci pericolose (esplosivi e altre sostanze che possono danneggiare gravemente le persone e l’ambiente) possono essere trasportate attraverso la galleria del Gottardo solo in quantità minime»13 : questo divieto non potrà essere mantenuto qualora si procedesse ad un Raddoppio. ●●
●● Popolazione e lobbies: due diversi “mondi” La classe dirigente non pare intenzionata a rispettare l’indicazione popolare, a più riprese ribadita, concernente l’obiettivo di trasferire progressivamente le merci su rotaia (e anche contraria alla costruzione d’un secondo tubo). Si staglia un’antitesi fra interessi, da una parte quelli sostenuti dall’incessante lavorio operato, all’interno delle istanze decisionali, dalle lobbies legate a determinati attori economici (autotrasportatori, settore del cemento, ecc.), e dall’altra
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quelli delle popolazioni delle aree potenzialmente colpite dalle conseguenze negative del Raddoppio. Nel 1980, al momento dell’apertura della galleria stradale del Gottardo, il Consigliere federale Hans Hürlimann (PPD) affermò: «Questa galleria non è un corridoio per il traffico pesante». Una rassicurante dichiarazione smentita dal transito di almeno un milione di camion all’anno. Occorre vagliare criticamente la situazione per come si presenta effettivamente nel momento attuale, senza abbandonarsi ai “buoni propositi” di una classe dirigente che è inaffidabile non a seguito di un’incompetenza, ma bensì per il fatto che persegue finalità sostanzialmente diverse da quelle che interessano le popolazioni potenzialmente colpite. In un tale solco s’inserisce la strumentalità della promessa che rassicura circa l’impossibilità che la doppia canna porti alla messa in funzione delle quattro corsie. Da monito fungono le parole che sfuggono dal complesso della strategia propagandistico-comunicativa, come quelle di Doris Leuthard che, secondo un verbale commissionale, ha affermato: «è improbabile che costruiamo due gallerie e lasciamo vuota una corsia in ciascuna. Ritengo che sarebbe ipocrita». Non stupisce che, con la Consigliera federale, si schieri anche un’iniziativa, denominata “Basta con gli intasamenti. Sì al traffico fluido”, che chiede lo stralcio dell’articolo costituzionale concernente la protezione della Alpi14. ●● E Alptransit? In termini strategici il raddoppio del San Gottardo è superfluo, nonché controproducente e contraddittorio. La discutibilità dell’opera in questione è rafforzata dal suo peso finanziario (che si aggira attorno ai 4 miliardi di Franchi), mentre la contraddizione logica è insita nella concretezza di una costruzione già in atto, ossia Alptransit: la galleria più lunga del mondo, che collegherà, a partire dal 2016, per esempio, Zurigo e Lugano nello spazio di un’ora e mezza portando ad un importante rivolgimento del panorama dei trasporti e dell’organizzazione del territorio e dell’economia. Questo progetto si dovrebbe infatti inserire in un percorso strategico, che, nel ripensare fondamentalmente lo sviluppo della mobilità delle persone e delle merci, e in tandem con l’auspicabile introduzione della borsa dei transiti alpini (o di un sistema analogo di gestione del traffico) e con l’impegno nell’innovazione ferroviaria (in particolare per il trasporto merci, con la possibile creazione di nuovi posti di lavoro), sarà diretto verso il privilegio della rotaia a vantaggio dell’asfalto. Infatti, oltre al trasporto passeggeri, Alptransit ha le premesse per accogliere anche quello delle merci, a livello regionale, nazionale e internazionale15. De facto, i 18 miliardi investiti per Alptransit, verrebbero ad essere svalutati qualora si procedesse al Raddoppio della Galleria del San Gottardo.
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Mario Cavargna: “La Torino-Lione è il prototipo di un’opera assolutamente inutile” #Politicanuova intervista Mario Cavargna – presidente di Pro Natura Piemonte e Master in Valutazione di Impatto Ambientale al Politecnico di Torino e Losanna - a proposito del TAV Torino-Lione. Tale progetto, nel corso del tempo, anche e soprattutto in rapporto all’imponente e instancabile opposizione levatasi contro, è assurto a questione emblematica di respiro nazionale e internazionale e, in legame a ciò, ha permesso di aprire spazi di dibattito attorno alle svariate tematiche (ambiente, azione invasiva degli apparati lobbistici, politica dei trasporti, ecc.) ad esso collegate. A cura di Aris Della Fontana 1. Il TAV rappresenta un’opera necessaria? Le strutture esistenti svolgono a pieno titolo il loro dovere oppure la domanda di passeggeri e merci richiederebbe un ampliamento dell’offerta? Il Piemonte è veramente una regione isolata? E, in tal senso, i costi sono proporzionali ai benefici? Si può parlare di opera strategica in grado di affrontare la questione dei trasporti dal versante corretto? La Torino-Lione è il prototipo di un’opera assolutamente inutile, perché il traffico merci e passeggeri sul suo asse è crollato e il sistema tecnico su cui era impostato il progetto, cioè i carri merci Modalhor, si è rivelato un fallimento. Le strutture esistenti sono ampiamente sufficienti oltre l’orizzonte delle previsioni possibili: la linea ferroviaria, che è sempre stata continuamente ammodernata (e il cui binario in salita è stato terminato solo nel 1984), portava, nel 1997, 10 milioni di tonnellate all’anno di merci ed ha la possibilità di portare almeno 20 milioni di tonnellate l’anno. Da quattro anni il passaggio medio annuo di merci è di circa 3 milioni e mezzo di tonnellate.1 Il Piemonte è, quasi certamente, la regione alpina che ha i migliori collegamenti, perché ha tre tunnel autostradali sotto le Alpi, 3 autostrade verso i porti della Liguria, 3 ferrovie e 2 autostrade verso la Lombardia. La parola “strategica”, che viene spesso usata, è un inganno perché induce a credere che ci siano altre ragioni dietro l’apparente assenza di ragioni. In questi casi bisogna restare su termini concreti: il traffico non c’è e il sistema di trasporto modale proposto è inefficace. Il futuro dei trasporti consiste nello sbarcare i container dalle navi e metterli sui treni sino ai punti più vicini alla destinazione; quindi non si dovranno caricare i container sui TIR e poi caricare i TIR (con i container) sui treni!
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2. La Lyon Turin Ferroviaire (LTF), sigla che si occupa della realizzazione della sezione transfrontaliera tra Italia e Francia, rappresenta un soggetto affidabile? E, in tal senso, vi sono esperienze del passato che indicherebbero il contrario? Per dimostrare che LTF è inaffidabile è sufficiente ricordare che al 31 dicembre 2013 è riuscita a realizzare lavori pari solo al 16% della spesa prevista nel programma di finanziamento europeo 2007-2013, accumulando mediamente 30 mesi di ritardo per ognuna delle 14 azioni previste dal programma della Commissione Europea. 3. In che modo si caratterizza il ruolo di Italia e Francia nell’ambito del progetto in questione? È possibile parlare di unità d’intenti e di equilibrio per quanto riguarda l’impegno logistico e finanziario? E, specificatamente, quali sono le impressioni e le indicazioni, ufficiali e non, che sono fin qui giunte dal versante francese? Francia e Italia sono praticamente al servizio delle lobbies di Lione e Torino che, politicamente, hanno un ruolo importante nei rispettivi paesi e sperano di aumentare la loro importanza sostenendo un enorme investimento, anche se inutile. Per il resto Italia e Francia vanno ognuna per proprio conto, sia per quanto riguarda i progetti, sia per le opere. Persino i criteri di esercizio delle linee ferroviarie sono differenti fra Italia e Francia. Nell’insieme i due progetti non coincidono, perché ci sono scelte delle Ferrovie francesi che le Ferrovie italiane non accettano, e viceversa. 4. I promotori del progetto hanno opportunamente preso contatto con la popolazione e con le amministrazioni locali? Si tratta di un’opera presentata in modo corretto e oggettivo? Le previsioni portate a sostegno della sua bontà sono attendibili? Ci sarebbero effettivamente vantaggi per l’occupazione? Non esiste in Italia la volontà di “prendere contatto” con la popolazione. Tutto è fatto in modo che la popolazione non possa accorgersi della realtà dei progetti che vengono proposti da una lobby e poi avviati alla fase di progettazione. La popolazione viene a conoscenza dei progetti quando si avvia la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, cioè nel momento in cui un grande Movimento, costituito dai Comitati No TAV insieme a Pro Natura Piemonte, mobilita esperti e centinaia di ore di lavoro per farne conoscere i contenuti. Per la Torino-Lione non si può parlare di previsioni da parte dei promotori, perché la previsione, per sua natura, impone la verifica periodica di quanto si è ipotizzato. In Italia, nell’anno 2000, il traffico merci della linea ferroviaria attuale fra Torino e Lione era
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Rapporto Alpinfo 2012, redatto dall’Ufficio federale dei Trasporti elvetico (UFT)
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di 9 milioni di tonnellate annue e si prevedeva un aumento a 20 milioni di tonnellate nel 2020 e, addirittura, a 40 milioni di tonnellate nel 2030. Invece nel 2013 il traffico merci annuo fra Torino e Lione è di circa 3 milioni e mezzo di tonnellate, ma le previsioni fatte non sono mai state riviste (e pensiamo non lo saranno nemmeno in futuro) nonostante le nostre durissime proteste. Sul fronte del lavoro le grandi opere portano vantaggi occupazionali irrisori, perché i cantieri delle grandi imprese sono mondi chiusi e la pochissima occupazione locale non compensa la perdita di occupazione e di progetti in altre attività causate dai cantieri. 5. È possibile intravvedere particolari interessi che si annidano dietro al progetto? In caso di effettiva realizzazione, quali saranno i principali beneficiari? Gli interessi che motivano l’opera sono quelli delle grandi Banche, che gestiranno l’enorme flusso di denaro distribuito nel tempo. Sono le Banche l’anima dell’azione di lobby, perché sia i grandi quotidiani, sia i partiti politici hanno sempre bisogno dei loro prestiti a condizioni vantaggiose e pertanto assecondano i loro interessi. Inoltre molti partiti, attraverso imprese amiche che operano nella progettazione e nei lavori, traggono finanziamenti vitali per le loro attività. 6. Di che tipo e di quale entità sarebbero i danni arrecati al territorio? Si tratta di un’opera sostenibile a livello ambientale? Per quanto concerne le risorse naturali, segnatamente quelle di tipo idrico, vi sarebbero le possibilità di registrarne una perdita? Sono prospettabili rischi di carattere geologico? I volumi estratti potranno essere collocati opportunamente e agilmente? E, sul versante della salute, quali le conseguenze?
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Il rapporto COWI è stato redatto nel 2006 su commissione della Divisione Generale Trasporti e Energia della Unione Europea, a seguito di specifico ordine del Parlamento Europeo dopo il sopralluogo della Commissione petizioni. La parte ambientale del rapporto contiene note critiche ma, essendo stato commissionato e pagato dal principale referente dell’opera (la scomparsa commissaria europea De Palacio), nella valutazione finale e politica, chi ha realizzato questa parte dice che l’opera comunque si può e si deve fare.
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La Torino-Lione riguarda essenzialmente una Valle alpina (la Valle di Susa). E le valli alpine occidentali hanno un fondovalle poco ampio. L’opera (se realizzata) interesserà 2 milioni e mezzo di metri quadrati di terreno per occupazioni permanenti e 2 milioni di metri quadrati di occupazioni che solo nominalmente saranno temporanee, a cui si devono aggiungere le ampie fasce ai lati della linea che saranno degradate dagli eccessi del livello di rumore dei supertreni merci lunghi 1500 metri e dei TGV. Ma soprattutto i cantieri trasformerebbero la Valle di Susa e la periferia ovest di Torino in una zona perennemente degradata nella sua condizione di vita: infatti la durata di tali cantieri non è definibile, in quanto non esiste un piano finanziario né in Italia né in Francia. E tutto questo per un’opera inutile. Per quanto riguarda la perdita di risorse idriche il rapporto COWI (redatto per l’Unione Europea) 2 stimava che il tunnel di base di 54 chilometri (ora sono previsti 57) comporti una perdita variabile fra i 60 e i 125 milioni di metri cubi di acqua all’anno, pari al consumo di una città di un milione di abitanti. Ma
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bisogna considerare che, solo per la parte italiana, sono previsti altri 35 chilometri di tunnel sotto montagne o colline. I rischi geologici sono legati alle acque calde e ricche di solfati che usciranno dal tunnel di base e non potranno essere immesse nei corsi d’acqua naturali. Esiste inoltre la presenza di rocce amiantifere dall’imbocco del tunnel a Susa e di rocce contenenti uranio, di cui il massiccio italiano è ricco. Per quanto riguarda la salute i problemi riguardano le polveri sottili (PM10 e PM2,5), l’amianto e l’uranio. Inoltre esiste il problema del rumore e degli altri inquinanti che vengono immessi nell’aria e nell’acqua dei grandi cantieri. Dal lato italiano la linea Torino-Lione comporta l’estrazione e la lavorazione di 20 milioni di metri cubi di roccia, pari a 8 piramidi di Cheope. Nel totale, compreso il versante francese, dovranno essere estratti 42 milioni di metri cubi di roccia. Inoltre per le gallerie dovrà essere utilizzata una quantità di cemento pari a circa il 30% dei volumi estratti. 7. È possibile definire, strategicamente, una prospettiva sostenibile mediante la quale pensare uno diverso sviluppo della Val di Susa? E, in tal senso, la sostanziosa somma di denaro che verrebbe ad impegnarsi per il TAV, in che modo alternativo potrebbe essere impiegata? La politica sostenibile si fa costruendo opere sostenibili e incentivando piccole iniziative. La Valle di Susa resta una Valle legata ai trasporti, ma il loro livello deve essere ragionevolmente contingentato e non fatto crescere in modo esponenziale. Il fatto di essere la Valle alpina più vicina di ogni altra ad una grande metropoli - perché Torino fu fondata in quel sito proprio per controllare le strade di valico della Valle di Susa - le pone dei problemi particolari. Ma per avere buoni risultati di sostenibilità non è il caso di muovere urbanisti e filosofi: basta avere la forza politica di fermare le attività con un grande impatto ambientale. Per esempio è inammissibile che l’unica acciaieria ancora esistente in Provincia di Torino sia in Valle di Susa e che la politica torinese per decenni abbia operato per mantenerla, nonostante gli enormi problemi di inquinamento che originava. Non è semplice parlare di uso alternativo dei 20 miliardi di euro preventivati per realizzare l’opera (secondo precedenti esperienze in Italia è prevedibile che a consuntivo la spesa aumenterà di 3 volte, quindi raggiungerà i 60 miliardi di euro) perché lo Stato italiano non dispone di una simile cifra: li prende a prestito e paga gli interessi. Questi interessi e l’eccesso di debito sono un costo che lo Stato riuscirà a pagare solo sottraendo risorse alla sanità, all’istruzione, alla ricerca e ai servizi sociali. Qualunque scelta si faccia bisogna che prioritariamente siano sostenuti in modo adeguato questi quattro settori. E’ vero che esistono anche i problemi di riassetto idrogeologico, ma una parte di queste spese dovrebbero essere a carico delle assicurazioni private perché non è giusto che lo Stato debba pagare per chi ha speculato costruendo in zone a rischio.
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Luciano Vasapollo, La crisi sistemica - Metodi di analisi economica dei problemi dello sviluppo, Jaka Book La crisi economica, che sta manifestando la sua profondità in questi ultimi anni, ma che origina dai primi anni Settanta come crisi generale di accumulazione, è stata identificata come crisi prima strutturale e poi sistemica, e pertanto diversa dalle «normali» crisi in cui si dispiega il modo di produzione capitalistico proprio a partire dalla sua condizione intrinseca di disequilibrio. Indipendentemente dal fatto
Il capitalismo, la sua crisi e le Grandi Opere: quali le relazioni?
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Il fine di tale lavoro è tratteggiare i lineamenti generali delle cosiddette Grandi Opere, nella fase della crisi capitalistica: ciò nella cognizione delle importanti differenze tra i diversi progetti concreti. Il capitalismo occidentale è (ancora) in crisi. La stagnazione degli anni Settanta – data da insoddisfacenti livelli di profittabilità degli investimenti di capitale – è stata affrontata attraverso un pacchetto di controtendenze. Con la finanziarizzazione strutturale i capitali stagnanti nel settore manifatturiero sono migrati progressivamente nell’“economia di carta”: ivi, al riparo dalle stringenti limitazioni dell’economia reale, hanno perseguito sostanziosi percorsi di valorizzazione (anche i consumi hanno giovato della nuova realtà, sostenuti col credito al consumo e, più in generale, con l’affermarsi d’una fittizia creazione di ricchezza). A ciò s’è accompagnato un aumento della produttività del lavoro – con l’immissione di strumentazioni tecnologiche e con miglioramenti organizzativi (come il toyotismo) – a cui non è seguita una proporzionale attribuzione di maggiorate quote di ricchezza ai salari: questi, anzi – assieme ai redditi (ridotti dall’indebolimento delle finanze statali, impoveritesi a seguito d’una fiscalità sempre meno progressiva) – hanno subito un attacco frontale (precarizzazione, flessibilizzazione, de-sindacalizzazione, ecc.). Ciò nel contesto della globalizzazione neo-liberista, funzionale al deprezzamento dei fattori di produzione (l’espansione politico-economica occidentale ha permesso di sfruttare forza lavoro e materie prime a prezzi vantaggiosi). Così si è posposta la crisi, ripresentatasi con caratteri più virulenti, dato che le contro-tendenze hanno assommato ulteriori contraddizioni: la finanza, se per alcuni decenni ha astratto dall’economia reale - dando luogo ad un’effimera belle époque - nel suo esplodere, ha inferto gravi ferite a quest’ultima; l’abbassamento del costo del lavoro in congiunzione con l’aumento della sua produttività hanno generato fenomeni di sotto-consumo e sovrapproduzione1 (di capitale e merce). La crisi di accumulazione è quindi ancor vigente. Entrano così in gioco le Grandi Opere, un modello paradigmatico dei processi produttivi caratterizzanti il capitalismo post-fordista. In seguito alla mondializzazione neo-liberista si è affacciata una forma di impresa che si muove fluidamente oltre i confini nazionali, sfrutta i vantaggi derivanti dal dumping fiscale, salariale e sindacale, e si connette ad un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista. Una «grande impresa virtuale che scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la com-
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che la sua profondità si sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi sistemi bancari non si è trattato della classica crisi finanziaria. Il gioco di Borsa dagli anni Ottanta ad oggi è divenuto una corsa al massacro sociale: da una parte si «ingrassano» i fondi di investimento leader e i grandi speculatori, dall’altra si dispone un feroce attacco al mondo del lavoro, nella periferia come nel centro imperialista. Si trasferisce così la possibilità di investimento nell’economia reale nel facile e apparentemente più redditizio collocamento speculativo finanziario, distruggendo volutamente il capitale in eccesso a fini produttivi.
petizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una concorrenza fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico»: le maestranze retrocedono, i profitti sono sospinti. Tale impresa è altresì fondata sulla preminenza della dimensione finanziaria, orientandosi in modo preponderante al «controllo dei fattori finanziari e di mercato e sempre meno ai fattori della produzione»2. Si affaccia inoltre la dismissione del protagonismo dello Stato, vittima dell’eversione privatista: istituti contrattuali d’appalto caratterizzati da una filiera sempre più articolata rendono complesse le operazioni di vigilanza, aprendo la strada a degenerazioni quali il clientelismo sostenuto, la corruzione e la mancata tutela di lavoro e ambiente. La speculazione - qualora si disponga di denaro a costo zero oppure nel caso si abbia la necessità di riciclare capitali di provenienza illecita - ha terreno fertile. Nel solco della subordinazione del pubblico agli interessi economici, guardando al caso della TAV Torino-Lione, si nota un fenomeno significativo: «una sorta di privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa3), ma con capitale tutto pubblico». Diabolicamente geniale. Le casse statali, per alimentare le clientele, si svuotano e assumono la maggior parte dei rischi connessi al recupero dell’abnorme investimento, che si ripercuoteranno sulla contabilità solo sul lungo periodo: «con i nuovi istituti contrattuali il valore finanziario [e quindi il rischio dello stato appaltatore] si dilata enormemente fino a diventare il fattore determinante»4. Le Grandi Opere, tendenzialmente, causano conseguenze negative a livello ambientale. Oltre a non essere meditate a partire dagli interessi reali della popolazione, non sono inserite in una prospettiva di lungo periodo risultante d’una prassi di programmazione e pianificazione economica. A predominare sono interessi e bisogni economici particolari5 che, complessivamente, delineano un disegno scomposto (il singolo capitalista opera razionalmente al fine di valorizzare il proprio capitale: l’irrazionalità sorge qualora si osservino tali comportamenti nell’aggregato), non confacente ad una gestione eco-compatibile del territorio. La messa in discussione delle Grandi Opere – in una fase storica nella quale si pone la questione del degrado dell’eco-sistema e della scarsità/esaurimento delle risorse naturali - si lega a filo doppio con un’impostazione che intravvede nella decrescita – che «per essere credibile richiede la pianificazione statale»6, in connessione con la razionalizzazione delle produzioni «in funzione di una oggettivazione dei bisogni e di una valutazione serie delle risorse (ancora) disponibili»7 una «delle poche prospettive anticapitaliste concrete nel mondo occidentale in declino, perché essa consente di colpire elementi vitali in rapporto all’accumulo di plusvalore»8.
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«La crisi di sovrapproduzione è ineliminabile perché immanente al modo di produzione capitalista, ove il capitale, assetato di (auto) valorizzazione, spinge sempre oltre il limite (temporaneo) ultimo, a superarsi, ad incrementarsi. Ciò significa più merci, più capitale da valorizzare e l’impossibilità di chiudere in positivo il ciclo di (ri) produzione del capitale». (Luciano Vasapollo, La crisi sistemica (Metodi di analisi economica dei problemi dello sviluppo), Jaca Book, Milano 2012)
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I. Cicconi, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in Il granello di sabbia (Attac Italia) n. 11 aprile 2014 (24.05.2014).
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La società per azioni (S.p.A.) è una società di capitali che in Svizzera ha un equivalente nelle società anonima (SA)
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I. Cicconi, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in Il granello di sabbia (Attac Italia) n. 11 aprile 2014 (24.05.2014).
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«Il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come un punto di partenza e un punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, sez. III, cap. 15, p. 1083, Newton Compton, Roma 2013).
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Intervista di Gianni Colucci, Brancaccio: “La decrescita felice? Senza pianificazione statale è una sciocchezza”, Il Mattino, 2 marzo 2013
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Pierre Eyben, Per un comunismo verde, http:// www.partitocomunista. ch/index. php?option=com_
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«Il capitalismo è un rapporto sociale nel quale l’allargamento continuo della produzione appare elemento costitutivo e fondamentale (...). E’ chiaro che un sistema economico votato all’espansione senza limiti non è compatibile con la finitezza dell’ambiente naturale». (M. Badiale, M. Bontempelli, Marx e la decrescita, Abiblio, Trieste 2010). Va sottolineato come, nei paesi periferici all’imperialismo, le Grandi Opere possono essere funzionali ad un percorso di emancipazione nazionale dal gioco neo-coloniale e quindi avere una funzione progressiva.
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Giulietto Chiesa, Prima della tempesta, Nottetempo In cinque saggi, che sono cinque tappe esplosive, Giulietto Chiesa analizza la nuova politica americana e l’esportazione forzata della democrazia alla luce della politica spaziale americana e della militarizzazione dello spazio; scopre le facce sospettabili e insospettabili di quel “giorno zero”, l’11 settembre,
Il golpe d’Ucraina: scacco alla Russia e disastro d’Europa Giulio Micheli 1
Giornalista, a lungo inviato a Mosca per l’Unità.
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Giulietto Chiesa, Ucraina: come si fa un golpe moderno, in http://megachip. globalist.it/Secure/ Detail_News_Display? ID=99185&typeb=0.
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Vedasi anche: Davide Rossi, Parola di Julija Tymošenko: massacrare gli ucraini di origini russe!, in http://www. sinistra.ch/?p=3388.
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Vedasi anche : Sinistra. ch, Redazione, In Ucraina i comunisti balzano al 13% e sostengono il governo anti-europeista!, in http://www.sinistra. ch/?p=2204.
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Vedasi anche : AA. VV., Quale democrazia in Ucraina?, in http://www. marx21.it/ internazionale/area-exurss/24027-qualedemocrazia-in-ucraina. html.
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Si legga la posizione del Partito Comunista sul tema : www.pdl.ch , 15 aprile 2014.
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Media e manipolazione
Gli scontri di Piazza Maidan ci hanno mostrato una realtà inversa. Una realtà rigirata a piacimento dalla propaganda mediatica occidentale e contraria alle immagini di repressione dei dimostranti perpetrate nel continente europeo dai governi “democratici”, che a suon di pestaggi e processi puniscono i NoTAV, che sparano acqua chimica e pallottole vere sui manifestanti turchi, che arrestano i partecipanti a manifestazioni di rivendicazione sindacale negli USA. Per Kiev ci veniva narrata la protesta coraggiosa e democratica dei giovani di Piazza Maidan che sfidavano i poliziotti in tenuta antisommossa. Non ci passarono le immagini in cui i poliziotti venivano incendiati coi lanciafiamme, in cui si sparava loro addosso, polizia bastonata e lapidata dai pacifisti del Maidan. La versione occidentale è quella della generica lotta per la libertà, per cui le oltre 40 visite di politici di alto calibro di USA e UE sulla piazza delle proteste ad aizzare la folla passano come normale amministrazione, mentre l’ingenua tolleranza del presidente eletto Viktor Yanukovic è descritta come violenza e corruzione del potere. Ingerenze, mistificazioni, censure. Eppure la cappa fumosa messaci davanti non è ancora evaporata. Dice Giulietto Chiesa1 che «questi metodi funzionano perché il grande pubblico non può neppure immaginare tanta astuzia e crudeltà.»2 E difatti, per chi nulla ha capito di Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, come è possibile immaginare che in piazza a Kiev ci fossero delle bande armate di nazisti e non il popolo ucraino?! Misure golpiste “Vogliono la UE, contro il giogo del padrone russo” ci hanno detto. Infatti, primo provvedimento del governo golpista fu quello di disconoscere al russo (parlato dalla maggioranza della popolazione ucraina) lo status di lingua nazionale.3 Un parlamento ucraino che ormai «ha cessato di essere un luogo di discussione», come riconosce la parlamentare comunista Oksana Kaletnyk in una dichiarazione rilasciata immediatamente dopo la rissa scatenata dai fascisti di Svoboda contro il segretario del PCU Simonenko. Già, perché dall’inizio del mese di maggio è stato ormai ufficializzato il disegno di legge volto a mettere al bando il Partito Comunista Ucraino e il suo gruppo parlamentare, indicatore evidente di come esso sia l’unica opposizione alla giunta che abbia concretezza non solo in un parlamento ormai snaturato, ma anche in quanto organizzazione politica capace di abbracciare il paese intero. Non è evidentemente tollerato che un partito che supera il 13% dei ●●
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rivelandocelo come l’evento più oscuro del nostro tempo, il “buco nero” della nostra storia; ci mostra come e perché si crea un clima di guerra e ci spiega perché il pacifismo è l’unica via d’uscita dalla politica di coloro che vogliono appropriarsi delle risorse del mondo per rifornire il loro paradiso in terra, fatto di frigoriferi e cellulari, di benessere e abbondanza.
consensi nel paese, possa criticare l’operato del governo golpista, né che possa proporre soluzioni pacificatrici come la, da più parti, auspicata federalizzazione.4 ●● Macro contraddizioni: c’è il nazismo in Ucraina Opinioni anche solo divergenti sono messe a tacere senza vergogna non solo dalla giunta golpista di Kiev, ma anche da tutta la stampa europea, e dalla sfacciataggine di governi asserviti ai diktat d’oltre oceano, che poco ormai possono invidiare ai fascisti ucraini in quanto a repressione del dissenso. Nonostante ormai l’Occidente ci abbia abituati ad un sostegno incondizionato ad Al Qaeda nel mondo arabo, non era facile aspettarsi una giustificazione del nazismo di pura rievocazione hitleriana nel cuore di un’Europa che tanto si dimostra attenta sulla questione della Shoah. Non scordiamoci infatti che ben tre partiti con ruoli determinanti nelle nuove istituzioni di Kiev sono di ispirazione marcatamente fascista e razzista e – Pravyi Sektor in particolare – si richiamano direttamente alla figura del collaborazionista Stepan Bandera.5
Aggressioni e resistenze La realtà è rovesciata ovviamente quando si tratta di parlare di chi al fascismo e all’imperialismo tenta di resistere, come le popolazioni più toccate dalla politica criminale del nuovo regime ucraino, ossia quelle russe o russofone del sud-est del paese. Tanto si è gridato all’ingerenza russa e al non rispetto del diritto internazionale sull’annessione della Crimea, ma anche qui la Russia è rimasta poco più che spettatrice di fronte all’unica scelta che quelle popolazioni hanno avuto davanti. Rimangono – quelle dei referendum di annessione e di indipendenza – scelte coraggiose e forti di chi non accetta l’imperialismo, la repressione sociale e politica.6 Il plebiscito conseguente è un segno indicativo di questa determinazione; lezione storica ad istituzioni europee spente d’ogni legittimità rappresentativa. Ma nelle regioni nelle quali non v’è la base navale di Sebastopoli a garantire la sicurezza, ecco l’esercito – o meglio la neonata Guardia Nazionale, composta in larga parte dai subumani vittoriosi di piazza Maidan – che coi carri armati e con l’artiglieria pesante (o con singoli e mortali assalti provocatori) sparge il verbo della nuova Ucraina, imbevuto dal sangue di comuni cittadini o di coraggiosi reparti di autodifesa a supplire l’assenza di protezione russa. Questi sì che sono massacri di civili che manifestano inermi, che con determinazione ferrea impediscono il passaggio ai carri armati del regime. Ma ben altra è la realtà vista da occhi occidentali, per cui degli eroi schiacciati dai cingolati di Kiev non si avrà memoria e non si vedranno le immagini strazianti; quando le bombe cadranno sui civili di Slaviansk non si invocherà nessun intervento umanitario. Per questo basta il silenzio. E se oggi la politica internazionale degli USA si condisce col caos, la menzogna e il grido silenzioso dei morti di stragi inascoltate, la Russia può far poco ●●
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zato un no organiz n potere -semiti han u ti iù p an e te i is st zi es ti, neo-na paese non ori! el u at q rp In su Nazionalis a. u in Ucrain aese sono to p ta el S u i q d o o colp uidan oloro che g legittimo. C
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altro che smarcarsi e accrescere la sua credibilità internazionale a suon di iniziative diplomatiche lungimiranti, ma spesso inascoltate dall’orecchio europeo rivolto solo ad ovest. Il prezzo che pagherebbe la Russia per salvare queste vite in balia di paramilitari accecati da odio razzista (coadiuvati anche da un nutrito numero di mercenari stranieri) sarebbe un probabile intervento NATO in Ucraina. ●● Inagibilità della via diplomatica Anche per quanto riguarda l’ONU, non possiam far altro che decretarne il definitivo inabissamento sotto il fango della vergogna, dell’omertà e della parzialità più grottesca; la dimostrazione è lo scandaloso rapporto che colpevolmente tace sull’indicibile massacro genocida di Odessa e sugli eccidi etnici e politici perpetrati in tutto l’Est da esercito e bande armate di Pravyi Sektor. Il terreno della mediazione è dunque costellato dal rifiuto sdegnoso anche solo della verità. ●● Il nuovo secolo americano Tutto lascia pensare che dietro questa accelerazione degli eventi ucraini da parte americana7 ci sia la necessità impellente di alzare l’asticella della provocazione e dell’insostenibilità internazionale con lo scopo di avvicinare un conflitto che sembra sempre più delinearsi come una guerra mondiale a risoluzione delle pesanti crisi economiche occidentali. Le risorse fossili non saranno a breve più sufficienti per tutti e l’Impero non accetta per sua stessa natura la divisione del potere. L’indizio macroscopico che ci dà l’esempio ucraino è lampante. Mai si era arrivati a tanto da parte americana, con un’operazione che punta a far entrare l’Ucraina – o parte di essa – nella NATO. La strategia che mira ormai da anni ad accerchiare Russia e Cina ha in questi mesi il suo climax e si compone ovviamente della più classica propaganda demonizzante che ha fatto nascere ed ha accresciuto in Europa un vasto sentimento russofobo, prerogativa indispensabile per le ovazioni all’alba dei genocidi. Siamo ingenui pure se pensiamo che gli Stati Uniti improvvisino le loro mosse8 : il nuovo secolo – che ha come perno l’auto-attentato dell’11 settembre 20019 – si contraddistingue da una serie infinita di guerre, colpi di stato e destabilizzazioni regionali. Si prepara la scacchiera sulla quale giocarsi il futuro – soprattutto quello dell’approvvigionamento delle risorse energetiche – e quando si mette sotto scacco direttamente il re o la regina (alias la Russia alle porte di casa), bisogna dedurne che si è pronti a giocarsi la partita fino all’ultimo pezzo. Come nota giustamente il ministro degli esteri cubano Bruno Rodriguez: «La volontà di estendere la NATO sino alle frontiere della Federazione Russa costituisce una grave minaccia per la pace, la sicurezza e la stabilità internazionale»
L’Europa nel mezzo Cercare di spezzare l’asse politico-energetico eurasiatico sembra essere il fine principale dell’operazio●●
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ne ucraina. Rendere dipendente l’Europa dal nuovo shale gas americano significa non solo obbligare il continente ad un sempre maggiore servilismo nei confronti dell’Impero, ma spezzare definitivamente l’unico asse che possa scongiurare l’obiettivo bellico genocida che si prefiggono gli USA per la loro sopravvivenza: la Cina. Tutto questo è necessario si faccia prima che il dollaro crolli definitivamente come moneta di scambio internazionale. Ma mentre gli Stati Uniti cingono ancor di più l’Europa in un abbraccio che ha l’odore del disastro, dall’altra parte si stipula un accordo storico, trentennale, da centinaia di miliardi di dollari tra Russia e Cina: principalmente sulle forniture di gas, ma anche petrolifere ed estendendo la cooperazione in ambito militare e tecnologico. Il tutto – guarda un po’ – senza più il dollaro come moneta di riferimento, ma con le transazioni dirette tra rublo e yuan. Insomma le vicende ucraine fanno emergere con chiarezza la principale contraddizione della nostra epoca storica: quella tra il modello occidentale retto dagli USA e cementato dalla NATO e l’esempio dei BRICS, a rappresentare un vero contenimento alla follia imperiale e la possibilità reale per molti popoli di emanciparsi. ●● I segnali dell’est A corollario delle trame internazionali dobbiamo però renderci conto di come la devastazione seminata dall’Occidente in Ucraina abbia come risposta energica quella di grandi masse popolari che nell’est del paese scendono in piazza a migliaia ogni giorno con le bandiere rosse e si appuntano il nastro di San Giorgio al petto a difesa delle conquiste arrivate con la liberazione sovietica dal nazismo tedesco. Nella neonata Repubblica di Donetsk si nazionalizzano le fabbriche, si ragiona di tornare alla costituzione sovietica e sono le assemblee popolari a venir riesumate come parte fondante della stato. Come osserva Zjuganov 10, la speranza è viva più che mai: «gli estremisti del Majdan stanno incontrando la resistenza del popolo». E noi siamo – orgogliosamente – da questa parte della Storia.
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L’Ucraina di Yanukovic era già in effetti in mano occidentale; egli era pronto a firmare il documento di Vilnius (che doveva servire a rilanciare la presenza dell’Unione nell’estremità orientale dell’Europa). Gli USA, al limite, avrebbero anche potuto attendere le ormai prossime consultazioni elettorali ucraine per riuscire a piazzare un presidente ancor più sulla loro linea.
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«Abbiamo investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita» Victoria Jane Nuland, assistente segretario di stato per gli affari europei e euroasiatici del Dipartimento di Stato Usa.
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Per chi volesse approfondire, consiglio la visione di questo eccezionale film-inchiesta di Massimo Mazzucco, 11 Settembre - La nuova Pearl Harbor, disponibile su YouTube: https:// www.youtube.com/ watch?v=fTI2IUBNuM8.
10 Gennady Zyuganov: primo segretario del Partito Comunista della Federazione Russa.
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La vera posta in gioco, nell'escalation della crisi ucraina da novembre ad oggi, non è l'adesione dell'Ucraina all'Unione Europea, ma l'annessione dell'Ucraina alla Nato. L'Ucraina è una pedina fondamentale nel piano Usa di espansione a Est, cominciato con l'inglobamento nella Nato di paesi dell'ex Patto di Varsavia, dell'ex Urss e dell'ex Jugoslavia e corredato più di recente dall'installazione di basi e forze militari a ridosso della Russia.
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